Dettati ortografici CITTA’ PAESE VILLAGGIO

Dettati ortografici CITTA’ PAESE VILLAGGIO

Dettati ortografici CITTA’ PAESE VILLAGGIO – una raccolta di dettati ortografici, di autori vari, per bambini della scuola primaria. Difficoltà ortografiche miste.

Dettati ortografici CITTA’ PAESE VILLAGGIO
Paese

Non c’è paese più piccolo del mio. Basta l’ala di una colomba per fargli ombra. Di notte basta una stella per fargli luce.
Quando Caterina munge la mucca, tutto il paese sa  di latte.
Quando Lena canta per far dormire il suo bambino, di quel canto si addormentano tutti i bambini del paese. Se una ha un dolore, tutti ne soffrono.
I vicini si prestano volentieri l’olio e il sale. Tutti prendono l’acqua allo stesso pozzo, cuociono il pane nello stesso forno. E tra loro, uomini, donne, bambini, si chiamano fratelli e sorelle e si vogliono bene. (R. Pezzani)

Dettati ortografici CITTA’ PAESE VILLAGGIO
Cittadina di provincia

Ci sono qui delle piazzette fuori mano dove i camion non passano: e ai lati sorgono certe anziane case piene di  dignità con festoni di rampicanti. Pende, a fianco della porta, il tirante del campanello, il quale si ode risuonare di là dalla porta destando lunghi echi negli androni. (D. Buzzati)

Villaggio alpino

Poche, rustiche casette: le basi di pietra, le pareti di legno, i tetti di ardesia; brevi le finestre, fiorite di rossi gerani… Una chiesetta, un campanile. Null’altro. Sulle vie deserte qualche vecchia dalla gonna rossa e nera che fila e ricama; due o tre caprette e nidiate di bimbi rosei e biondi, che guardano curiosi, ma poi con i piedini nudi fuggono, pieni di vergogna. Chioccolio di fontane, qualche ragazza che lava. E un silenzio, una pace tale sotto quel sole diffuso, in quella pura aria frizzante, che tutto lo spirito ne gioisce. (R. Bacchelli)

Città

Vi sono foreste d’alberi e foreste di case: le città. La loro storia è antica come l’uomo, perchè l’uomo le ha costruite, nei giorni e nei secoli, con le pietre e col cuore: le ha difese col sangue, le ha amate come si amano le cose vive.
E nessun paese al mondo ne ha di splendide come l’Italia.
Tutta la storia è passata dalle loro strade; tutti gli eroi hanno bevuto alle loro fontane; tutte le civiltà sono venute a prendervi luce di verità e di bellezza.
La più umile nostra contrada ha una chiesa, un monumento, che basterebbe da sè a inorgoglire una metropoli d’oltremare. (R. Pezzani)

La mia città

E’ una città grande, bella, con ampie strade, con piazze vaste, piene di gente e di veicoli, con palazzi superbi, belle chiese e fontane e monumenti. Io vivo volentieri nella mia città perchè vi sono nato, perchè vi abitano i miei genitori, i miei amici. Se un giorno andrò lontano, non dimenticherò la mia bella città. (M. Menicucci)

Il tram

E’ un mezzo di trasporto urbano abbastanza comodo, ma rumoroso ed obbligato a seguire i binari senza potersi spostare quando occorra. Per questo è stato gradualmente sostituito dal filobus e dall’autobus.

Il filobus

In città, essendo notevoli le distanze tra un posto e l’altro, c’è un servizio pubblico per il trasporto delle persone. Ogni filobus ha un percorso stabilito illustrato su tabelle apposite, ed un numero. Chi viaggia deve conoscere il numero del filobus che passa per la via che lo interessa. Salendo paga il biglietto, che poi conserva per un eventuale controllo. Può scender a qualsiasi fermata. Le fermate sono segnate con dei cartelli: solo lì le persone possono scendere o salire. Si sale dalla parte posteriore, durante il tragitto ci si sposta in avanti per lasciare il posto agli ultimi e si scende dalla parte anteriore. (E. Refatti)

La metropolitana

Il tram, l’autobus e il filobus, ingombranti come sono, creano un grosso intralcio per la circolazione, specialmente nelle vie centrali della città. Per questo, nelle più grandi città si usano, come mezzi di trasporto pubblici, treni elettrici che corrono in gallerie sotterranee: la metropolitana. Questi veicoli hanno tutti i vantaggi sugli altri: non intralciano il traffico, non sono costretti a procedere lentamente nelle affollatissime vie centrali, non producono rumore all’esterno e trasportano un numero di passeggeri molto maggiore degli altri veicoli pubblici. Oltre a ciò, sono molto veloci.

L’autobus

E’ il mezzo di trasporto ideale, perchè è veloce ed autonomo, cioè non deve seguire nè binari nè fili elettrici. Però è più rumoroso del filobus, emette gas di scarico e consuma carburante che è più costoso della corrente elettrica.

La corriera

Una corriera fa spesso servizio fra il comune ed il capoluogo di provincia. Molti sono gli operai che si recano al lavoro nei grandi stabilimenti della città. Un tempo si recavano in bicicletta, oggi si servono della corriera. Essa si trova puntuale, ogni mattina sulla piazza del paese e parte affollatissima. La sera riappare nella piazza, riportando coloro che in città hanno trascorso una intensa giornata di lavoro.

Il Comune

I cittadini, con le libere elezioni amministrative, eleggono il Consiglio Comunale, il quale è formato da un numero di membri proporzionato alla popolazione del Comune.
I Consiglieri Comunali, a loro volta, fra i propri membri eleggono il Sindaco ed alcuni Assessori. Assessori e Sindaco costutuiscono la Giunta Comunale. Sindaco, Assessori e Consiglieri Comunali durano in carica quattro anni.
Compito degli Amministratori del Comune è quello di provvedere a tutti i servizi pubblici: l’illuminazione delle strade, la manutenzione degli edifici pubblici, il funzionamento delle scuole, la tutela della salute pubblica, ecc…

Il paese

Nel paese ci si conosce tutti, si dividono le gioie e le afflizioni, ci si aiuta.
Le donne si incontrano sulle soglie di casa intente agli stessi lavori, o nei negozi, o alla fontana; gli uomini nella piazzetta, durante le soste del lavoro; i ragazzi, attratti dagli stessi giochi, nei cortili, per le strade, nella scuola, nell’oratorio.
Tutti gli abitanti del paese si trovano poi riuniti nella stessa Chiesa e allora sono proprio fratelli e pregano con le stesse parole, per gli stessi bisogni.
Fratelli ancora,  solleciti e generosi, nel dare aiuto in casi di necessità.

La nostra città

Quasi tutte le nostre città hanno una loro storia particolare, che risale al tempo degli antichi Romani.
La nostra città, come la vediamo noi, ci è venuta in eredità dai nostri antichi padri, ed è testimone di un lavoro secolare.
Noi giovani abitatori della città dovremmo essere grati a coloro che ce la tramandarono così nobile e grandiosa, e dovremmo fare del nostro meglio per ingrandirla ed abbellirla sempre più al fine di consegnarla, fra mezzo secolo, ai nostri figli, più bella e più gloriosa.
I fondatori delle nostre città si ispirarono tutti ad un criterio pratico:  o le fondarono in riva ai fiumi, come ad esempio Torino sul Po, Firenze sull’Arno, Roma sul Tevere; o le fondarono in riva ad un lago, come ad esempio Como e Lecco; o in riva al mare, come ad esempio Genova, Palermo, Napoli, Venezia. Questo criterio, comune a tutti i fondatori di città, sta ad indicare che i nostri antenati consideravano le vie d’acqua come la più facile via per le comunicazioni e per i trasporti.

Un paese

Un paese è caratterizzato da vari aspetti. Primo, l’aspetto naturale e geografico. Infatti, un paese di montagna avrà caratteristiche diverse da un paese di pianura. Un paese ammantato di boschi sarà ben diverso da quello che si adagia nel verde della campagna. Ma quello che lo caratterizza più profondamente è l’opera dell’uomo. Vogliamo dire la costruzione delle case, le strade, i ponti, le coltivazioni e infine le industrie e i commerci. Non c’è un paese uguale all’altro, perchè in ognuno di essi c’è, evidente e differente, l’opera della natura e l’opera dell’uomo. (Mimì Menicucci)

Amo il mio paese

Io amo il mio paese perchè vi sono nato, perchè vi abitano i miei genitori, i miei parenti. E’ un paese piccolo, senza grandi palazzi, senza grandi strade, senza superbi monumenti, ma lo amo ugualmente per il silenzio, per il verde che lo circonda, per il suo cielo azzurro, per l’aria buona che vi si respira. Anche se un giorno andrò lontano, non dimenticherò mai il paese dove ho trascorso la mia infanzia. (Mimì Menicucci)

I servizi pubblici

Una casa sempre sporca, buia, disordinata non merita questo nome, e in una casa simile ci si vivrebbe proprio male. Ma perchè la nostra casa sia accogliente, la mamma ed il papà ci lavorano lunghe ore e guadagnano il danaro necessario a comperare tutto quello che occorre per renderla sempre più comoda.
Anche la nostra città ha bisogno del lavoro di molti per dare a tutti tante cose utili, che si chiamano servizi pubblici.
Prima di tutto si devono costruire le strade che uniscono una casa all’altra e la nostra città ai centri vicini. E non basta costruirle; bisogna tenerle in buono stato e pulite, illuminarle, renderle belle con piante e aiuole e, se il traffico è intenso, provvedere a regolarlo con vigili e semafori. Poi bisogna provvedere alla distribuzione dell’acqua e controllare che sia potabile; costruire i canali sotterranei delle fognature e, nei centri più grandi, distribuire il gas o il metano. Ancora, bisogna provvedere alla costruzione e alla manutenzione degli edifici scolastici, perchè tutti i ragazzi fino a sedici anni hanno l’obbligo di frequentare la scuola. Bisogna anche pensare all’assistenza dei poveri, dei bambini e dei vecchi abbandonati, nonchè degli ammalati che vengono curati dal medico di famiglia. In ogni città e paese bisogna provvedere anche al servizio postale. I servizi pubblici sono di competenza del Comune.

Persone che lavorano per te

Hai mai pensato a tutte le persone che lavorano per te? Ecco, squilla il telefono. E’ un tuo compagno che ti chiama: vuole chiederti notizie sul compito per domani. Una telefonata: una cosa da nulla, come vedi: eppure hai potuto farla perchè al centralino telefonico c’è un operaio che vigila perchè tutto funzioni a dovere.
Accendi la luce, la mamma apre il rubinetto del gas per far da mangiare… e intanto sulla montagna alcuni elettricisti montano la guardia agli enormi macchinari della centrale; altri operai al gassometro, vigilano agli apparecchi.
Domani il portalettere ti recherà la posta, il netturbino pulirà la strada che percorri per andare a scuola, lo stradino colmerà le buche con ghiaia e catrame…
Potrei continuare, ricordandoti l’operato del vigile, del tranviere, e dei vari commercianti. Tutta gente che lavora per te, per tutti.

Viabilità

Le strade che attraversano la nostra città sono state tracciate, costruite, riparate ad opera del Comune. Il Comune ha provvisto a disporre le segnalazioni stradali e ha incaricato persone particolari, i vigili urbani, di sorvegliare e di dirigere il movimento delle automobili e dei pedoni. Altre persone, gli spazzini, provvedono alla pulizia di vie e piazze; altre ancora, i giardinieri, curano le aiuole dei giardini pubblici e gli alberi dei viali. Nelle ore buie, ogni strada è illuminata; un gruppo di elettricisti provvede ai nuovi impianti ed alle riparazioni.

Trasporti

Nelle grandi città, gli abitanti devono percorrere chilometri e chilometri per recarsi al lavoro o alla scuola. Il Comune organizza servizi di trasporto con tram, filobus ed autobus.

Impianti sportivi

Molti Comuni curano anche la costruzione e l’attrezzatura di impianti sportivi nei quali si possono esercitare gli atleti e dove si svolgono gare; sono gli stadi, le palestre, le piscine.

Servizio sanitario

Il Comune si preoccupa della salute dei cittadini ed interviene per evitare o combattere malattie infettive. Le vaccinazioni sono praticate a tutti  i ragazzi, gratuitamente a cura del Comune.

Il Comune e l’Amministrazione Comunale

Parlando dei servizi pubblici abbiamo imparato che ad essi provvede il Comune. Ma che cos’è il Comune? Esso è l’insieme di tante famiglie che vivono in uno stesso luogo, delle loro abitazioni e del territorio sul quale sono state costruite. Più semplicemente il Comune è come una grande famiglia, di cui fate parte anche voi, a capo della quale c’è il Sindaco.
Come il babbo provvede ai bisogni di tutti i membri della sua famiglia, così il Sindaco provvede, con i servizi pubblici, a rendere più agevole ed ordinata la vita collettiva di tutti i membri del suo Comune.
Ma il Sindaco, da solo, non può pensare a tutto ed è giusto che sia aiutato da alcuni amministratori.
L’Amministrazione comunale è elettiva. Tutti i cittadini del Comune, uomini e donne, al compimento del diciottesimo anno d’età, hanno diritto al voto per eleggere i Consiglieri comunali che durano in carica cinque anni.
I Consiglieri comunali eleggono, tra i propri membri, oltre al Sindaco, alcuni Assessori, i quali, con il Sindaco, formano la Giunta Comunale. Alla Giunta spetta di provvedere alla diretta amministrazione del Comune ed ai servizi pubblici. Per far fronte alle spese necessarie, il Comune impone ai cittadini delle imposte.
I Comuni in Italia sono circa ottomila. Ogni Comune ha i suoi uffici nella sede del municipio. Il capo ufficio è il Segretario comunale.

L’asino del Comune (racconto)

Il Comune di un paesetto di montagna per facilitare gli abitanti di tre frazioni, mise a loro disposizione un asino.
Un giorno, un contadino della prima frazione prese l’asino del Comune, lo caricò di grano e andò al mulino. Quando il grano fu macinato, ricaricò l’asino e tornò a casa.
S’era fatta sera, e l’asino avrebbe voluto mangiare. Ma il contadino disse: “Ci sono gli abitanti delle altre due frazioni: gli daranno loro da mangiare!”, e lasciò l’asino a digiuno.
Il giorno seguente, un contadino della seconda frazione prese l’asino del Comune, ci montò in groppa e si fece condurre in paese per sbrigare delle faccende.
Alla sera, riportò l’asino pensando: “Ci sono gli abitanti delle altre due frazioni, gli daranno loro da mangiare”.
Il terzo giorno, l’asino fu preso da un contadino della terza frazione, che lo adoperò tutta la giornata e a sera fece il discorso che avevano fatto gli altri. E  l’asino digiunò anche quel giorno.
La mattina seguente, tornò il contadino della prima frazione e caricò l’asino. Ma la bestia era molto debole e camminava a stento. L’uomo, afferrato un bastone, cominciò a batterlo gridando: “Che vergogna! E questo è l’asino che il Comune ci offre per i servizi! Bel Sindaco che abbiamo! Non pensa che a sè, e a noi poveretti dà questa bestiaccia, che non si tiene in piedi!”
Il quinto giorno l’asino morì; e gli abitanti delle tre frazioni si recarono nella sede del Comune a protestare. (A. Manzi)

L’anagrafe e lo Stato Civile

Il Comune iscrive tutti i suoi abitanti in registri che vengono ordinati negli uffici dell’Anagrafe e dello Stato Civile.
L’Anagrafe iscrive il cognome e il nome di ogni cittadino, la composizione della sua famiglia, il suo indirizzo, la sua professione.
Lo Stato Civile registra le nascite, le morti, i matrimoni che vengono celebrati nel Comune.
Ogni cittadino ha il dovere di dichiararsi a questi uffici ed ha il diritto di ricevere da essi i documenti che gli sono necessari: atti di nascita, stati di famiglia, certificati di residenza, ecc…

Le tasse

Il Comune offre gratuitamente molti servizi; essendo servizi costosi, il Comune deve trovare il denaro necessario per pagarli. Sono i cittadini stessi che, secondo le loro possibilità, contribuiscono al loro mantenimento versando, ogni anno, una certa somma all’Ufficio Comunale delle Tasse.
Il denaro pagato per le tasse, dunque, va a vantaggio di tutti i cittadini.

Stemmi e gonfaloni

Ogni Comune grande o piccolo possiede il suo stemma; un tempo il gonfalone rappresentò il simbolo dell’autonomia comunale. Gli stemmi comunali risalgono all’epoca medioevale, quando ogni Comune combatteva per conquistare e per difendere la propria libertà.

Un piccolo villaggio di tanto tempo fa

Una strada carrozzabile congiunge il villaggio alla vicina borgata, nella valle. Le strade sono acciottolate e non hanno marciapiede, perchè non c’è traffico di veicoli; quelle in pendio, durante le piogge, si trasformano in veri ruscelli.
Attorno al villaggio non esiste una periferia; le case sono tutte costruite con pietre del luogo: è il materiale più economico. Quando nei pressi si trova una cava di ardesia, i tetti vengono coperti con questo materiale.
In un unico edificio si trovano gli uffici comunali e la scuola elementare. I primi comprendono solo un paio di locali di cui uno serve per le adunanze dei consiglieri, l’altro per ricevere il pubblico. La scuola è formata da un’aula sola; gli alunni non sono che qualche decina; tutte le classi sono affidate a un solo insegnante.
Accanto alla scuola c’è l’asilo, tenuto da suore che sono anche delle buone infermiere.
Ecco la chiesetta parrocchiale e la casa del parroco, il paziente pastore di questo piccolo gregge di anime. Ecco la sede della cooperativa casearia dove gli agricoltori portano ogni giorno il latte prodotto dalle loro mucche; qui vi sono le attrezzature di comune proprietà per la produzione di burro e formaggi. A fine d’anno, gli utili ricavati dalla vendita di questi prodotti vengono ripartiti in proporzione al latte portato da ognuno.
In un luogo di facile accesso si trovano il lavatoio pubblico e l’abbeveratoio per il bestiame.
Alle fontane pubbliche gli abitanti si recano a prendere l’acqua con i secchi; le sorgenti sono numerose e l’acqua non manca.
L’unico negozio del villaggio detto “posteria” vende tutti i generi necessari agli abitanti. Per gli acquisti più importanti essi si recano alla borgata vicina, specialmente nei giorni di mercato.
Una piccola locanda offre alloggio ai rari viaggiatori: sono per lo più commercianti, che vengono per acquistare prodotti agricoli (latticini, castagne, legname) o bestiame. La sala della locanda è anche l’unico luogo di ritrova per gli uomini del villaggio; qui, in mancanza di cinema, si può assistere agli spettacoli televisivi.
Fra le case, nei piccoli cortili, c’è spazio per qualche minuscolo orto. Quasi tutte le case hanno accanto il pollaio e la stalla. Durante la buona stagione, però, mucche e pecore vengono condotte ai pascoli alti.

L’insediamento

Esaminiamo le cause che possono avere spinto i nostri progenitori a scegliere proprio quella determinata località (che oggi ha un nome) come sede delle proprie dimore e ad adottare determinati criteri nella costruzione del paese o della città.
Le cause che possono determinare l’insediamento umano, sparso o agglomerato, sono di varia natura. Possono cioè essere cause di ordine naturale, come la presenza dell’acqua, la morfologia del terreno, le risorse naturali del suolo o del sottosuolo; possono essere cause di ordine economico, come la necessità di controllare un passaggio obbligato o un importante nodo stradale, come determinati regimi di proprietà terriera; possono essere cause di ordine storico, come esigenze di difesa e di sicurezza, come rispetto di tradizioni precedenti, ecc…
Quali fra queste cause possono aver determinato l’insediamento nel vostro ambiente? Per facilitarvi il compito, proverò ad illustrarvi i vari tipi.

L’insediamento sparso prevale nelle regioni agricole dove sussiste  la piccola proprietà. In questi casi le abitazioni sono al centro del podere: sul versante esposto al sole nelle regioni collinari (colline piemontesi, toscane, laziali, ecc…), vicino al pozzo nelle regioni pianeggianti.
Possiamo riscontrare altri tipi di insediamento sparso là dove ci sono conventi, case cantoniere o doganali, rifugi alpini, torri di vedetta, fari, ecc… In questo caso, è evidente, prevale la finalità specifica sulle cause di ordine economico o naturale o storico.
Gli insediamenti sparsi si chiamano casali.

L’insediamento accentrato rurale è il villaggio, il paese e la borgata. Si tratta di raggruppamenti di case attorno alla chiesa, alla farmacia, alle botteghe. In genere tale tipo di insediamento può essere determinato dalla necessità di collaborazione contro le forze fisiche dell’ambiente (ad esempio in alta montagna il bisogno di aiuto reciproco nel tracciare strade, nello sgombero della neve, nel soccorso, e così via) oppure può essere determinato dalla natura e dall’estensione del territorio coltivato (tipico è l’esempio dell’allineamento di villaggi lungo l’orlo superiore della fascia che intercorre fra l’arida pianura friulana alta e la bassa paludosa).
In ogni caso, comunque, si ricercano le zone solatie e si rifuggono i fondi valle umidi ed ombrosi o i canaloni percorsi dalle valanche o le strette in cui si incanalano i venti.
Infine, l’insediamento accentrato rurale può essere determinato da ragioni storiche (ad esempio rivalità con i villaggi vicini, necessità di stringersi attorno al castello feudale, simbolo di sicurezza, e quindi allineamento sul crinale del colle) o ancora da ragioni di igiene (per sfuggire ad esempio a zone infestate dalla malaria).
La forma topografica di un paese risente naturalmente della morfologia del terreno e si adatta a questa. Si hanno così, in alta montagna i villaggi di pendio o di costa, con le case tutte rivolte verso il versante soleggiato, le strade parallele, disposte a gradinata, ed invece a fondo valle i paesini a cavallo del torrente che dà forza motrice a tutta la zona.
Nelle zone collinari (Toscana, Emilia, Piemonte) si hanno i paesi di cresta, che seguono l’andamento della linea di vetta, per evitare i dirupi dei versanti argillosi ed instabili che sono soggetti a frane.
Nelle pianure si trovano i borghi di tipica fattura medioevale, con case agglomerate nelle strette vie che vanno a sfociare sulla piazza centrale ed una cinta di mura, ora diroccata e fuori uso, che ricorda le origini del borgo fortificato; oppure si vedono i centri con piano a graticolato, che denunciano con altrettanta evidenza la loro origine. Si tratta, in questi casi, delle terre suddivise dai romani in appezzamenti regolari per essere donate ai veterani, dopo le guerre di conquista. Sono centri ordinati e regolari costruiti secondo la pianta dell’accampamento romano, con le due strade principali perpendicolari fra di loro e le strade secondarie parallele a queste.

I centri urbani, cioè le città, sono l’espressione più alta e più complessa dell’insediamento umano. La città è tale non solo perchè ha raggiunto un determinato numero di abitanti, ma perchè è il fulcro, il cuore pulsante di una località di cui assomma le caratteristiche più spiccate e si fa interprete.
La città è l’espressione più completa dei rapporti umani nei suoi vari aspetti: culturale, politico ed economico.
Storicamente le origini delle città possono essere individuate in quattro periodi principali: il periodo della colonizzazione greca, il periodo della colonizzazione romana, il periodo medioevale e il periodo moderno.
Fra i fattori determinanti della localizzazione di una città possiamo elencare: i punti di convergenza delle vie naturali di traffico, la forte posizione difensiva o di dominio, ed i normali fattori di ordine naturale che ne hanno promosse le origini. Abbiamo così:
– le città di rilievo, sorte su dossi sopraelevati (Arezzo)
– le città di valle, sorte al punto di convergenza di valli montane (Aosta)
– le città di fiume, sorte lungo il corso dei fiumi a scopo di controllo del traffico fluviale o in funzione militare di difesa (Torino)
– le città di ponte, sorte all’incrocio obbligato di vie di transito (Roma)
– le città di delta, sorte sulla foce di un fiume (Pisa)
– le città di laguna, sorte sulla laguna come centri pescherecci (Venezia)
– le città di stretto, sorte a guardia di uno stretto (Messina).
Una città consta generalmente di tre parti: la città antica (nucleo primitivo), la città vecchia (aggregazione di sobborghi) e la città nuova (espansione recente a pianta regolare).
In riferimento alle origini possiamo distinguere:
– la città greca, raggruppata attorno all’acropoli;
– la città romana, città a scacchiera, con pianta regolare come l’accampamento romano, con vie diritte e parallele;
– la città medioevale, città cinta da mura, con pianta concentrica o bicentrica attorno al castello o alla cattedrale, con groviglio di strade strette e lunghe;
– la città moderna, costruita con criteri diversi rispetto al passato: al centro il quartiere degli affari ed il quartiere amministrativo, in periferia gli ospedali e le ferrovie, separati e distinti i quartieri residenziali.

Rispetta il tuo paese

 Un uomo percorreva la strada di un paese a passo svelto.
“Perchè non si ferma un po’?” gli chiese un paesano. “Vede che bel panorama, che bel cielo? Sente che aria fine e profumata?”
“Sono gli abitanti di questo paese che non mi piacciono” disse l’uomo senza fermarsi.
“Ma se non ne conosce nemmeno uno…” si stupì l’altro.
“Invece li conosco tutti” rispose l’uomo.
“E dove li ha conosciuti?”
“Per la strada; e so che sono sciocchi, ignoranti e sudici”. Nel dire così, l’uomo mostrò col dito i fregacci e le scritte che insudiciavano i muri; indicò le carte e i rifiuti gettati sulla via.
“Questi fregacci e questi rifiuti parlano chiaramente. Gli abitanti del paese hanno scritto sulla strada il grado della loro cattiva educazione. Non vedo l’ora di allontanarmi da qui”.
E l’uomo allungò il passo, mentre l’altro rimaneva tutto mortificato. Chi insudicia i muri imbratta il volto del proprio paese.
(P. Bargellini)

Le tasse

Il signor Venanzio sale le scale del Municipio col viso rannuvolato.
“Ciao Venanzio! Dove vai?” gli chiede un amico.
“Vado… vado… Mi sentiranno!”
“Ma dove?”
“All’ufficio delle tasse per protestare!”
“Va là! Tutti avremmo da protestare…”
“Sì, ma nessuno come me. Troppo, te lo giuro, mi hanno assegnato come quota da pagare. Troppo, troppo!”
“Fai presto, allora, che io ti aspetto qui. Torneremo a casa insieme.”
“Sì, ma se accetti un consiglio, non mi aspettare sotto la torre”
“Perchè?”
“Perchè se si rifiutano di diminuirmi le tasse, griderò così forte che la torre, per lo spostamento d’aria, cadrà di schianto”
“Bum!” fa l’amico, e scuote il capo.
Dopo un quarto d’ora, ecco uscire dal Muncipio il signor Venanzio.
“Allora Venanzio, com’è andata?” gli chiede l’amico “Bene, eh? Vedo che la torre è rimasta in piedi e tu ti sei rasserenato”
“Sì… ma…”
“Su, su, dì la verità! Di quanto ti hanno diminuito la quota delle tasse da pagare?”
“Ecco… per dir la verità… ti dirò… Ebbene: di zero! Sì, proprio di nulla!”
“Come? Spiegati…”
“Vedi, in fondo, in Municipio non hanno tutti i torti. Sapessi! Gli impiegati dell’ufficio sanno tutto. Sanno, per esempio, che in casa mia lavoriamo e guadagniamo in tre, sanno che sono proprietario di una casa… E il Comune, mamma mia, quante spese ha! Spese per la luce delle strade, la nettezza urbana, le aiuole, i vigili, l’ospedale, le condutture dell’acqua, la fognatura… E sembra che il Comune sia povero, molto povero. Insomma, è andata a finire che mi sono quasi commosso. Io ho il cuore tenero. Non sei fatto per protestare, povero cuore mio!” (R. Botticelli)

La strada in città

La strada passa dritta dritta fra le case altissime. Nel mezzo corrono i tram scampanellando. Nel mezzo corrono i tram, vi passano le automobili, le moto, le biciclette.
Ai lati, sui marciapiedi, vanno e vengono le persone frettolose; entrano, escono dalle porte delle case e delle botteghe.
Vi è un rumore confuso di passi, di ruote, di voci, di clacson.
La notte, i grandi globi della luce elettrica brillano in alto. Molta gente cammina ancora. La città di notte non dorme mai.

Ora  di punta

Le strade della città sono affollatissime: sui marciapiedi una moltitudine di persone si urtano e si spingono: nel centro della via una colonna ininterrotta di macchine cercano di sorpassarsi a vicenda.
I tram rigurgitano di viaggiatori pigiati come le sardine in un barile.
Un ronzio continuo e fastidioso riempie le vie, assorda, stordisce, domina ogni altro rumore.
E’ l’ora di punta: dalle fabbriche e dagli uffici escono operai e impiegati a frotte; i fanciulli si precipitano fuori dalle scuole; le donne si affrettano verso casa con la borsa colma delle ultime spese; è l’ora più pericolosa della giornata: tutti hanno fretta; tutti hanno fame; tutti sono stanchi dopo il lavoro; è l’ora in cui per guadagnare un paio di secondi o un metro,  molti compiono gravi imprudenze o diventano maleducati ed  intolleranti.
In tanto trambusto, i pochi agenti di servizio sugli incroci fanno miracoli di prontezza nel regolare il traffico, ma è necessario che tutti gli utenti si comportino spontaneamente secondo le norme della circolazione e siano più educati.

La bicicletta

La chiamano il cavallo d’acciaio, e come il cavallo divora i chilometri.
E’ l’amica fedele delle nostre passeggiate; silenziosa e leggera ci porta lontano dal tumulto della città, nelle campagne assolate, fino all’ombra ristoratrice dei grandi alberi stormenti.
Ci dà la gioia della sana fatica, ci fa scoprire i più suggestivi paesaggi di questa nostra terra, ci è utile nel nostro lavoro: l’usa l’operaio per recarsi alla fabbrica, la massaia per le sue spese, il fanciullo per andare a scuola, la giovane mamma per portare a spasso il figlioletto.
Ma nel vorticoso traffico di oggi, anche per andare in bicicletta occorre prudenza e occorre conoscere le regole della circolazione.
Siamo prudenti, dunque, e disciplinati; facciamo che lo svago non si tramuti in dolore; che uno strumento dato all’uomo per alleviare le sue fatiche e ricrearlo non divenga occasione di pianto.

Strade
Vie ammattonate, rapidissime, su cui si cammina dolcemente come sull’erba. Tale saporosa comodità, ricercata in un suolo così arduo, ci rammenta che siamo dopo tutto in un paese di contadini. Queste vie sono ammattonate per rendere agevole il passaggio dei buoi, il cui piede fesso e molle, non sopporterebbe in siffatti dislivelli una pavimentazione più dura. Hanno inoltre il pregio, naturale o artificiale che sia, di vincere l’eccessiva pendenza inarcandosi smisuratamente come il dorso di una balena a fior d’acqua. (V. Cardarelli)

Strade
La parte superiore di Fontamara è dominata dalla chiesa col campanile e da una piazzetta a terrazzo, alla quale si arriva per una via ripida che attraversa l’intero abitato e che è l’unica via dove possano transitare i carri. Ai fianchi di quest sono stretti vicoli laterali, per lo più a scale, scoscesi, brevi, con i tetti delle case che quasi si toccano e lasciano appena scorgere il cielo. (I. Silone)

Strade
Uscii dalla folla e presi una stradetta in salita. La stradetta si stacca dal viale litoraneo e si alza subito assai ripida sull’antico bastione ove sorge il rudere del castello: sul muro a scarpa, sotto una delle torricelle di scolta, un cartiglio porta la scritta: Sacrario dei Caduti. La stradina gira sotto il torrione e si biforca: a destra si interna fra casupole di pescatori e rasenta il muro di cinta di una storica villa e del suo parco stupendo, a sinistra riesce subito allo scoperto, rivede il mare e il porto, raggiunge il sagrato di una chiesetta: la chiesetta dei cappuccini. (S. Gotta)

Strade
Ed eccoci ingaggiati su per una strada, che è quasi una mulattiera, tra due muretti stretti e tortuosi che la macchina sfiora rischiosamente ogni metro, ora con il fianco destro ora con il sinistro, rombante, lanciata in prima per superare la ripidissima salita e per vincere il fondo, grossi ciottoli viscidi, tutti sparsi d’erba, su cui l’acqua corre come un grosso ruscello. (M. Soldati)

Strade
Serrata tra le precipiti gradazioni dei cento contrafforti appenninici e lo scosceso lido del mare, la grande strada della Cornice procede tutta a zig zag in continui serpeggiamenti, in irte rampe e in chine precipitose. Talvolta si apre il passo a livello del mare fra spalliere di tamarischi, di oleandri e di agavi; tal altra si inerpica sul dirupato fianco del monte in mezzo a cupe foreste di felci e di pini; poi una fantastica discesa a spirale fra aridi massi calcarei mal coperti di pallide ginestre, vi porta in seno d’una florida pianura tutta vigneti, ortaglie e giardini di cedri, di aranci e di limoni. Qua nascosta dentro a vaste gallerie scavate nella pietra arsa; là coperta in una immensa estensione di orizzonte, col monte a picco a destra, col mare a picco a sinistra. (G. Cappi)

Strada di montagna
Sono le sei del mattino e l’autobus ha imboccato una grande strada di montagna.
Attraversiamo il primo grosso paese. All’uscita della piazza dobbiamo arrestarci, il semaforo è rosso.. Ecco, giallo… verde. Si riparte e comincia a piovere. La strada è liscia, compatta, ma l’autista preferisce andare piano.  A cinque metri prima della curva uno strano segnale ci ha ammonito: strada sdrucciolevole con pioggia e gelo.
La strada sale, le curve si fanno più frequenti e più strette, diventano tornanti. Gli autisti fanno più che mai attenzione a viaggiare rigorosamente alla destra.  Non c’è pericolo di scivolare: il fondo dei tornanti è ruvido e le gomme delle macchine fanno buona presa.

Una strada moderna
Il modo di vivere di una strada è quanto mai aspro e travagliato. A servirsi della strada c’è infatti, oltre al pedone, anche il ciclista e il motociclista, l’automobile, l’autocarro e l’autotreno; la strada deve soddisfare tutti. Ma poi, sulla strada ora piove e ora dardeggia il sole, ora infieriscono la nebbia, la neve, il gelo ed ora spirano i venti e insistono le siccità; ed anche a tutti questi fattori di volubile aspetto la moderna strada deve ugualmente resistere, onde mantenersi sempre la stessa, senza fango nè polvere e sempre percorribile con comodità e sicurezza, qualunque sia la velocità. La strada quindi vive una vita insonne, agitata, multiforme. Se non fosse più robusta, rapidamente si dissolverebbe, trasformandosi in nubi di polvere. (B. Bolis)

La poesia della strada
La strada ha la sua poesia. L’ha la strada grande e la piccola, la modernissima autostrada e il secolare viottolo alpestre dove passano a stento il mulo e il boscaiolo; l’ha la vasta via nazionale che si perde diritta e interminabile nella pianura polverosa, che valica fiumi e colline, e attraversa campagne e congiunge città e paesi e si dirama e si intreccia in ogni direzione a formare come le maglie di una fittissima rete; e l’ha, più intima e più dolce, la strada che risale le vallate, che si inerpica sulle montagne e scavalca i grandi passi e ridiscende tortuosa e capricciosa come un nastro enorme verso altre vallate, altri moti, altre contrade. La poesia della strada è anche nella sua stessa missione di avvicinare gli uomini agli uomini e di rendere meno estranee fra loro le regioni e le nazioni. (G. Silvestri)

Dettati ortografici CITTA’ PAESE VILLAGGIO – Tutte le opere  contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.

Dettati ortografici CITTA’ PAESE VILLAGGIO

Il ciclo dell’acqua – dettati ortografici e letture

Il ciclo dell’acqua – dettati ortografici  e letture sul ciclo dell’acqua e i fenomeni atmosferici, di autori vari, per bambini della scuola primaria e d’infanzia

Pioggia, neve e grandine

Oggi il cielo è nuvoloso e a tratti cade una pioggia fitta e sottile che bagna ogni cosa. Essa può risultarci fastidiosa, ma è benefica alle coltivazioni dei campi ed è indispensabile alla vita di tutti gli esseri viventi.
Mentre osserviamo la pioggia, chiediamoci un po’ da dove arriva. Già lo sappiamo: viene dalle nubi che stanno in cielo e che il vento porta qua e là a suo piacere. Bene! Ma le nubi come si sono formate?
Le acque dei fiumi, dei laghi, dei fossati e specialmente le estese acque del mare, sotto il benefico effetto dei caldi raggi del Sole, si sentono, in  superficie, diventare più leggere, ed evaporano, trasformandosi in nuvolette invisibili di vapore acqueo.
Il vapore si alza leggero nell’aria e lassù in cielo si raggruppa formando le nubi. Quando le nubi incontrano correnti di aria fredda, le goccioline che le formano si condensano, si uniscono cioè tra loro, e formano gocce più grosse e più pesanti che cadono: è la benefica pioggia.
D’inverno, quando l’aria è freddissima, le goccioline delle nubi possono trasformarsi il leggeri cristalli di ghiaccio che scendono dal cielo come bianchi e soffici fiocchi: è la neve che ammanta di bianco ogni cosa.
D’estate, durante certi violenti temporali, le goccioline delle nubi sono investite da improvvise correnti di aria fredda. Il rapido abbassamento della temperatura le trasforma in chicchi di ghiaccio: è la grandine, che danneggia interi raccolti.

Il cammino dell’acqua sulla terra

Piove, grandine, nevica: l’acqua ristagna sulla terra nel luogo in cui è caduta. In breve tempo l’aria e il sole la fanno nuovamente evaporare.
Altre volte l’acqua penetra sottoterra, scioglie il terriccio necessario alla vita delle piante e delle erbe e, in parte, compie un lungo percorso nel sottosuolo, per poi zampillare da una roccia e formare una sorgente.
Ma non tutta l’acqua che cade sulla terra ristagna o viene assorbita dal terreno. Una buona parte si raccoglie in rigagnoli, in brevi ruscelli, in impetuosi torrenti, forma i grandi corsi d’acqua: i fiumi.
I fiumi si versano nei laghi e, più spesso, nel mare che tanta acqua ha già raccolto direttamente, con le piogge.

Come si formano le nuvole

E’ il sole che forma le nuvole, ed è il vento che le raduna, le sparpaglia, le sposta. Il sole riscalda le acque dei mari, dei laghi, dei fiumi, degli stagni. Una parte dell’acqua riscaldata si trasforma in una fumata leggera e trasparente di vapore.
Il vapore acqueo si solleva a grandi altezze e si raccoglie, si condensa nelle nuvole. Quando una nuvola è così carica di vapore da apparire scura, a contatto con l’aria fresca di lassù, si trasforma in acqua e piove.

Le nuvole

Scherzano, passeggiano nel cielo azzurro. Nuvole color di rosa, nuvole pensose color di perla, nuvole vanesie in trina rossa e gialla, nuvole serie in velluto scuro coi bordi d’oro. Vengono dal profondo, danzano intorno al sole in veli tenui, si sciolgono nel profondo. Passano greggi mansuete al pascolo, cavalieri in cerca di ventura, belle addormentate dai capelli sciolti alla brezza. Sorgono e si disfanno torri e castelli, cupole di chiese e case di villaggi. Tumulti di battaglie diradano, diradano, s’illuminano, vaporano in file d’angeli d’argento. (G. Manacorda).

L’eterno ciclo dell’acqua

Le nubi mandano sulla terra molta acqua sotto forma di pioggia, di neve o di grandine. Quest’acqua va poi ad alimentare ruscelli e fiumi che la trasportano nuovamente al mare. Poi dal mare e dai corsi d’acqua che attraversano la superficie terrestre l’acqua ritorna in cielo a formare le nubi. Così il giro dell’acqua non si interrompe mai.

Utilità della neve

La neve, cadendo al suolo, ricopre tutto con il suo strato candido e crea meravigliosi spettacoli invernali nelle campagne, nei parchi, nei giardini.
Ma, naturalmente, i suoi effetti non sono semplicemente decorativi. Innanzitutto, l’accumularsi delle nevi sui monti costituisce delle grandiose riserve d’acqua.
La neve protegge la terra dal gelo e favorisce quindi la vegetazione erbacea, soprattutto quella del grano: sotto la neve pane, diceva il proverbio. La neve è pessima conduttrice di calore perchè racchiude molta aria, perciò mentre la temperatura dello strato superiore del manto nevoso può scendere a parecchi gradi sotto zero, quella dello strato inferiore, a immediato contatto col suolo, di solito si mantiene intorno agli zero gradi.
Al esempio, in uno strato nevoso di 40 centimetri di spessore, se la temperatura in superficie è di 8° sotto zero, lo strato più basso è a circa 0°.
Questo spiega bene quale ottima difesa contro il gelo invernale abbiano nella neve le tenere pianticelle di grano, i tuberi, le radici.

Fulmini e tuoni

D’estate, dopo ore di grande calura, qualche volta, nel cielo si addensano nuvoloni scuri. Il temporale sfoga con una pioggia battente. Tra le nuvole guizzano a tratti lingue di fiamma vivida che rischiarano il paesaggio. Qualche attimo dopo la fiammata, si sente un rumore secco, come uno sparo.
La fiamma che serpeggia da una nuvola all’altra è un fulmine; il rumore che segue è quello del tuono. Talvolta il fulmine scocca da una nuvola alla terra e colpisce persone, cime di alberi, edifici.
I fulmini sono enormi scintille elettriche prodotte tra le nuvole. Nell’aria del temporale sono sospese gocciole a milioni. Forti colpi di vento le afferrano, le fanno ruotare a grande velocità. Questo turbine di pioggia produce elettricità, come la dinamo di una centrale.
Il tuono non è altro che il rumore dell’aria colpita dalla scarica, come da una frustata. Fulmine e tuono avvengono nello stesso tempo: noi vediamo prima il bagliore e udiamo dopo il tuono, perchè la luce corre nell’aria assai più veloce del suono.
Per sapere a quale distanza da noi è scoppiato un fulmine bisogna calcolare i secondi che intercorrono tra il bagliore e il tuono e poi moltiplicare il numero dei secondi per 340: il prodotto dirà a quanti metri da noi è scoppiato il fulmine.

L’acquazzone

Da oriente vennero galoppando grandi nuvole bianche che poi si fecero bigie e pesanti. L’azzurro sparì, ingoiato da quella nuvolaglia spessa. Scoccò un lampo abbagliante, seguito, da lontano, da un tuono profondo. Qualche goccia cominciò a cadere, rada.
Poi la pioggia s’infittì, precipitò, scrosciò violenta. Le strade subito ruscellarono, le foglie degli alberi stormirono sotto la sferza, la terra giacque ristorata sotto l’acqua dirotta. (F. Herczeg)

Si avvicina il temporale

La nebbia si era da poco addensata e accavallata in nuvoloni che, rabbuiandosi sempre più, davano l’idea di un annottare tempestoso; se non che, verso il mezzo di quel cielo cupo e abbassato, traspariva, come da un fitto velo, la sfera del sole, pallida, che spargeva intorno a sè un barlume fioco e sfumato, e pioveva un colore smorto e pesante. (A. Manzoni)

La rugiada

Quando, d’estate, nelle prime ore del mattino si attraversa un prato o si cammina su un tappeto di foglie cadute, le scarpe si bagnano di rugiada. La rugiada è formata da goccioline brillanti sulle erbe e sulle fronde. Come si è formata?
Durante il giorno il sole ha riscaldato il terreno. Nella notte esso ha ceduto il suo calore all’aria intorno ed è diventato freddo. Il contatto tra l’aria tiepida ed il terreno freddo ha provocato la trasformazione del vapore acqueo nelle goccioline di rugiada.

La brina

La brina è la sorella della rugiada, poichè nasce dallo stesso fenomeno; ma per realizzarsi le occorre una temperatura minori di 0°. Allora le minutissime goccioline di vapore condensato, congelandosi, si trasformano in minuscoli aghi di ghiaccio, che si dispongono bizzarramente a piume e a mazzetti sulle foglie, sull’erba, sulle siepi, sugli alberi, su ogni cosa. E la natura appare allora delicatamente incipriata, avviluppata da un velo argenteo e iridescente che crea mille piccoli arcobaleni, mille colori e mille sprazzi di luce ai raggi del nascente sole.

La nebbia

Se un raggio di sole filtra attraverso le imposte socchiuse, noi vediamo in esso muoversi una quantità infinita di grani di polvere: è il pulviscolo, sempre sospeso nell’aria e specialmente in quella di città, dove fumano ciminiere e camini e corrono automobili a migliaia.
Nei mesi d’autunno e d’inverno, soprattutto nelle pianure attraversate da numerosi corsi d’acqua, l’aria è sovente umida, carica di minuscole goccioline che a causa del freddo non riescono a sollevarsi.
Si forma così un velo, più o meno denso, che si distende pigramente su ogni cosa: è la nebbia. Questo velo si fa più grigio e impenetrabile nelle città, dove appunto è abbondante il pulviscolo che si impasta con le innumerevoli gocciole sospese nell’aria.

Perchè nasce il vento

La Terra è avvolta da una fascia spessa di aria che la segue nella sua rotazione. A tratti, grandi masse di aria, i venti, si spostano sfiorando la sua superficie. Il vento è leggero o forte secondo la velocità di queste masse in spostamento.
La causa prima del vento è il calore del sole. Quando una zona terrestre è stata molto riscaldata, riscalda a sua volta l’aria che le sta sopra. L’aria calda diventa più leggera e sale. Lo spazio lasciato libero dell’aria calda è subito occupato da correnti di aria più fresca e quindi più pesante. Il movimento di queste masse provoca il vento.
L’uomo utilizza la forza del vento per la navigazione a vela e per il movimento di mulini e di elevatori d’acqua. Molte piante affidano al vento il trasporto del polline e dei semi.

Il sole e le nuvole

Le nuvole invidiose dello splendore del sole decisero di ricoprirlo. Si radunarono nel cielo, diventarono nere e continuarono a salire. Ma lassù faceva un gran freddo; le nuvole si strinsero fra loro e qualcuna cominciò a piangere con grossi goccioloni. In breve tutto fu un pianto e le nuvole si sciolsero in pioggia. Dall’alto il sole tornò a sfolgorare. (G. Fanciulli)

La nuvola rosa

La nuvola correva con la gonna lieve e rosata gonfia di vento; era lieta come una bimba in vacanza nei prati azzurri del cielo.
Alzatasi al primo raggio dell’alba, ora era tutta rosa nel sole: uno splendore di quel mattino d’aprile.
Pochi però la guardavano a quell’ora; gli uomini o dormivano o lavoravano; gli alberi erano intenti a prepararsi il vestito nuovo. Ma sulla collina c’era un piccolo pesco diverso dagli altri: era giovane, trovava tutto bello e nuovo ed era tanto felice di essere al mondo!
Fu il solo ad accorgersi della nuvoletta rosa. La vide salire all’orizzonte, lieve, luminosa: uno splendore.
Si incantò a guardarla, mormorando fra sè: “Com’è bella…!” (G. Aimone)

Le nubi

Vagavano il lenta processione, bianche come spuma lattea, gonfie, bislunghe, ricciute, ondulate e dalle forme più strane. Alcune, più basse, annaspavano i loro fiocchi attorno alle guglie rocciose; alte, superbe, bianche come la neve; navigavano sull’azzurro inseguite da un corteo di nembi e di cirri; altre ancora, più sottili e trasparenti, parevano lembi di garza leggera o fiocchi di bambagia cardata dal vento. (G. Deledda)

Tutte le opere contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.

Storia di Roma GUERRE CONTRO SANNITI E TARANTO – dettati ortografici e letture

Storia di Roma GUERRE CONTRO SANNITI E TARANTO – dettati ortografici e letture. Una raccolta di letture e dettati ortografici  di autori vari, per la classe quinta della scuola primaria.

Storia di Roma GUERRE CONTRO SANNITI E TARANTO – Guerre contro i Sanniti

I Sanniti abitavano le montagne boscose di quella regione che ora si chiama Abruzzo. La via dura tra rocce e foreste li aveva resi forti e coraggiosi. Roma, che continuava ad estendere il suo dominio, giunse ai loro confini e incontrò una resistenza tenacissima. Per venti anni vi furono battaglie. I Sanniti riportarono una vittoria a Caudio, tra Capua  e Benevento, e costrinsero i prigionieri romani a passare chinati sotto un giogo (forche caudine). La guerra continuò incerta per altri trent’anni, finchè i Sanniti furono sottomessi ed altre terre si aggiunsero al dominio di Roma.

Storia di Roma GUERRE CONTRO SANNITI E TARANTO – Taranto

Una città tutta distesa lungo il mare tentò di opporsi alla potenza di Roma: Taranto, un’antica colonia greca. Quando una piccola flotta mercantile romana apparve in vista della città, i Tarantini, per intimorire gli avversari, affondarono tre navi. Subito Roma si mosse per vendicare l’affronto. Taranto, temendo la minaccia delle legioni ormai vicine, invocò l’aiuto di Pirro, un sovrano greco avventuroso.
Egli aveva un esercito disciplinato e ben armato e lo metteva al servizio di chi lo compensava riccamente. Possedeva inoltre un’arma nuova e potente: un buon numero di elefanti, addestrati a lanciarsi nella mischia con una torre sulla groppa, dalla quale gli arcieri fulminavano con le frecce i nemici. Due volte Pirro riuscì a sconfiggere i Romani, ma pagò il successo a caro prezzo.
Superato lo sgomento, i Romani impararono a combattere contro gli elefanti: li atterrivano lanciando contro di essi dardi infuocati: così i pachidermi volgevano in fuga disordinata scompigliando le schiere di Pirro. I nemici furono travolti a Malavento (poi chiamata Benevento) nell’anno 275 prima della nascita di Cristo. L’ultimo ostacolo nella penisola era superato. Roma, padrona di mezza Italia, guardava oltre il mare: all’orizzonte appariva, come un invito, l’azzurro profilo della Sicilia.

Storia di Roma GUERRE CONTRO SANNITI E TARANTO – Le forche caudine

Per raggiungere l’Africa, la strada più breve passava fra i monti per una stretta gola, vicino a Caudio. I Romani si inoltrarono disavvedutamente per questo passaggio, senza l’aiuto di guide o di esploratori. Giunti alla gola Caudina trovarono il passaggio ostruito da massi e da alberi. Improvvisamente sbucarono da ogni roccia, da ogni nascondiglio, i Sanniti, fieri abitanti della regione.
Invano i Romani, combattendo con valore disperato, tentarono di spezzare il cerchio d’uomini e di ferro che li stringeva. Dopo inutili tentativi, stremati di forze, scoraggiati, ogni giorno più mancanti di viveri, essi deliberarono e iniziarono trattative con il nemico, che li costrinse a sottomettersi all’umiliazione più atroce.
Tutta l’armata preceduta dal console, al quale furono tolte le insegne ed il rosso mantello, passò sotto il giogo e subì la derisione dei Sanniti, i quali non esitarono a percuotere con le loro armi i legionari nell’atto in cui si chinavano, curvando la testa, per passare sotto le lance incrociate e conficcate a terra.
Infine, il generalissimo sannita, Caio Ponzio Telesino, rimandò tutti, soldati e ufficiali, in patria, salvo poche centinaia di nobili cavalieri, che furono trattenuti in ostaggio.

Storia di Roma GUERRE CONTRO SANNITI E TARANTO – Le forche caudine

Tanto i Romani che i Sanniti non avevano abbandonato il proposito di conquistare la Campania. I primi ad agire sono  i Romani: nel 327 aC, essi occupano la città di Partenope (l’odierna Napoli). La reazione dei Sanniti è però immediata: affidato il comando dell’esercito a un grande condottiero, Caio Ponzio, lo inviano in Campania contro le truppe romane.
I primi cinque anni di guerra sono favorevoli per i Romani: essi riescono persino ad occupare buona parte del Sannio.
Vista l’impossibilità di sconfiggere i Romani in battaglia, Caio Ponzio tenta allora di vincerli con l’astuzia. Fatte ritirare le sue truppe sui monti, presso Caudio, egli fa spargere la notizia che si è portato ad assediare Lucera (nell’Apulia), una città alleata di Roma. Non sospettando l’inganno, i Romani accorrono immediatamente in aiuto della città minacciata e, per giungere più presto, decidono di prendere la strada più breve che passa per Caudio.
Errore gravissimo! Presso Caudio, questa strada entra in una valle stretta e profonda, i cui monti formano all’entrata e all’uscita di essa due gole strettissime, dette Forche Caudine.
Tra quei monti e all’uscita della valle, Caio Ponzio aveva nascosto i suoi soldati. Ed ecco infatti il disastro. Attraversata la prima gola e percorsa la valle, i soldati romani trovano l’uscita bloccata da macigni.
S’accorgono allora dell’agguato, retrocedono,  tentano di ripassare da dove sono entrati; inutilmente; i Sanniti hanno occupato nel frattempo anche quella gola. Circondati da ogni parte, i soldati romani tentano con disperato valore di aprirsi un varco, ma invano. Dopo aver perduto parecchi soldati, essi sono costretti alla resa. Ben quarantamila Romani cadono prigionieri nelle mani dei Sanniti! (anno 321 aC)
Dopo la grande vittoria sui Romani, Caio Ponzio scrisse al padre ( uomo allora molto celebre tra i Sanniti per la sua grande saggezza) per chiedergli come avrebbe dovuto trattare i nemici caduti in suo potere.
Il vecchio saggio rispose: “O ucciderli tutti o rimandarli tutti salvi a Roma. Nel primo caso, prima che i nemicii abbiano ricostituito un esercito ci vorrà tempo, e ci lasceranno perciò in pace; nel secondo caso avremo per sempre la loro gratitudine”.
Ponzio decise allora di rimandarli tutti salvi a Roma, ma volle prima che si sottoponessero a una grande umiliazione. Li costrinse a passare curvi e disarmati sotto il giogo, ossia sotto una lancia legata trasversalmente ad altre due piantate nel terreno.
Il Senato Romano volle riparare immediatamente ad una sconfitta così indegna e inviò subito un nuovo esercito contro i Sanniti. La lotta fu ripresa con grande accanimento e solo nel 304 i Romani riuscirono ad ottenere presso la città di Boviano una grande vittoria sul nemico. Nella pace che ne seguì, i Sanniti dovettero riconoscere ai Romani il possesso della Campania.
Ma anche i Sanniti non sono un popolo da arrendersi facilmente. Eccoli infatti prepararsi immediatamente alla riscossa.
Quando nel 298 aC Etruschi, Umbri e Galli, desiderosi di abbattere la potenza romana, si riuniscono in una lega per combattere contro Roma, i Sanniti si affrettano ad allearsi con loro. Con l’aiuto di questi popoli, i Sanniti sperano di poter piegare per sempre i loro grandi rivali.
I  Romani non si perdono d’animo: a così grande pericolo, rispondono con fulminea rapidità. Formati tre eserciti, ne mandano uno in Etruria (l’attuale Toscana) contro gli Etruschi; il più numeroso in Umbria, dove si è concentrato il maggior numero di nemici; e lasciano il terzo a difesa di  Roma.
Tale strategia si mostra subito indovinatissima: gli Etruschi abbandonano gli alleati e accorrono a difendere la loro terra. Lo scontro decisivo, che vede impegnati trentacinquemila Romani contro cinquantamila alleati, ha luogo a Sentino (nell’Umbria). La battaglia infuria per tre giorni consecutivi: alla fine, i Sanniti vengono pienamente sconfitti.
Impressionati dalla schiacciante vittoria romana, gli Etruschi, gli Umbri ed i Galli depongono le armi e trattano la pace con Roma; ma i Sanniti non si arrendono ancora: affidano un nuovo esercito a Caio Ponzio, tentano nel 292 una nuova riscossa. In meno di due anni devono però mettere da parte ogni speranza di rivincita: il loro esercito viene annientato e lo stesso Ponzio viene fatto prigioniero.
Questa volta è veramente la fine: dopo mezzo secolo di durissime lotte, il valoroso popolo Sannita è costretto a sottomettersi alla potenza di Roma. Anche i popoli dell’Italia centrale, che si sono schierati dalla parte dei Sanniti, devono seguire la medesima sorte.
Così, al termine delle lunghe guerre sannitiche (anno 290 aC), il dominio di Roma comprende parte dell’Etruria, l’Umbria, la Sabina, il Sannio e la Campania.

Storia di Roma GUERRE CONTRO SANNITI E TARANTO – Roma e Taranto

I Romani dopo aver sconfitto i Sanniti, possedevano ormai, oltre il Lazio, gran parte della Toscana e dell’Umbria, le Marche e la Campania.
Sulle coste dell’Italia meridionale sorgevano le città della Magna Grecia; esse controllavano la zona del Mediterraneo, dove le loro navi svolgevano il traffico commerciale. Queste città cominciarono a sentirsi minacciate dalla rapida avanzata di Roma.
Tra loro, Taranto era la più ricca e potente. Quando il pericolo romano si fece più vicino, i Tarantini non si sentirono però abbastanza forti per sostenere l’attacco e chiesero aiuto a Pirro, re dell’Epiro, l’odierna Albania.

Storia di Roma GUERRE CONTRO SANNITI E TARANTO – Fango e sangue sulle toghe degli ambasciatori romani

I Tarantini avevano affondato alcune navi dei Romani. Roma mandò a Taranto alcuni ambasciatori che, invece di ricevere scuse, furono gravemente offesi. Ecco come si svolse l’episodio.
Gli animi dei Tarantini sono colmi d’ira: i Romani hanno osato attraversare con le loro triremi quel mare che avevano promesso di non solcare mai, ed ora mandano gli ambasciatori a protestare perchè quattro navi sono state affondate?
Passano gli ambasciatori per le strade bagnate dalla pioggia, e guardano con occhi alteri i volti dei Tarantini, che si assiepano lungo il passaggio.
Ora si fermano davanti ai capi della città e il più anziano di essi comincia a parlare.
Parla della gloria di Roma, della forza di Roma, della potenza di Roma…
Ed ecco uno della folla chinarsi, prendere una manciata di fango e gettarla sulla toga immacolata dell’ambasciatore che continua a parlare di Roma!
L’ambasciatore ammutolisce. Tra i Tarantini serpeggia il riso.
Qualcun altro, seguendo l’esempio del primo, prende di mira la toga con nuove manciate di fango.
Allora l’ambasciatore dice con voce ben chiara: “Leverete col vostro sangue questa toga, che avete macchiato col vostro fango!”
Troppo tardi nel cuore dei Tarantini trema lo sgomento: ci sarà la guerra!

Storia di Roma GUERRE CONTRO SANNITI E TARANTO – Le vittorie di Pirro

Pirro, re dell’Epiro, faceva paura, anche perchè nel suo esercito marciavano animali stranissimi, fortissimi e non mai visti dai Romani.
Questi spaventosi animali erano gli elefanti.
I Romani se li videro davanti, per la prima volta, in Lucania. Perciò li chiamarono buoi lucani.
Tutti fuggivano alla vista di quei colossi, con le gambe che sembravano colonne e con le proboscidi che lanciavano gli uomini lontano.
Ma i Romani, dopo il primo momento di paura, si cacciarono sotto la pancia degli elefanti, squarciarono loro il ventre con la corta spada.
Nel vedere molti dei suoi elefanti riversi a terra e immobili come montagne, Pirro ebbe a dire: “Un’altra vittoria come questa e sono rovinato!” (P. Bargellini)

Storia di Roma GUERRE CONTRO SANNITI E TARANTO – La spedizione di Pirro

L’Italia Meridionale era abitata in parte da popolazioni italiche, in parte da Italioti, Greci stabiliti nelle città della costa del golfo di Napoli, fino allo Ionio e all’Adriatico:
Le città greche più importanti erano Taranto e Turio. Turio, assalita dai Lucani, chiese aiuto a Roma, e per soccorrere questa città, i Romani si trovarono in guerra aperta con la potente Taranto.
I Tarantini si accorsero ben presto di aver commesso un grave errore stuzzicando i Romani, e non volendo restarne schiacciati, ricorsero ad un sovrano balcanico, Pirro. Pirro, re dell’Epiro, apparteneva come razza al gruppo illirico della famiglia indoeuropea, lo stesso che attualmente è rappresentato dagli Albanesi; era giovane, ardito e ambizioso. In tutta la sua vita aveva cercato le avventure, e l’avventura a cui lo invitavano i Tarantini gli pareva la più bella e la più promettente. Non poteva egli, introdotto in Italia dai Tarantini, diventare, vincendo i Roman, il signore dell’Italia, un paese che la voce dei mercanti gli dipingeva più bello del suo selvaggio e sterile Epiro? Pirro accettò la proposta dei Tarantini, e sbarcò a Taranto con ventitremila uomini e venti animali da cui forse il suolo d’Italia non era stato mai calcato. I Romani certo non li conoscevano e, prima di apprendere dai Greci che quegli animali si chiamavano elefanti, li chiamarono ingenuamente, dalla terra d’Italia in cui la prima volta li avevano incontrati, “bovi di Lucania”.
Il primo scontro tra Pirro e i Romani si ebbe presso una città sul golfo di Taranto chiamata Eraclea, nel 280 aC. I “bovi di Lucania”, lanciati abilmente in mezzo alle file dei combattenti, spaventarono talmente i fanti romani che, pur avendo causato tra le file degli Epiroti perdite gravissime, essi dovettero volgere in fuga alla fine della battaglia.
“Un’altra di queste vittorie, e dovrò tornare in Epiro senza un soldato”, disse allora tristemente il valoroso re balcanico, e da quel momento si chiamò “vittoria di Pirro” ogni vittoria ottenuta a troppo caro prezzo.
Il Re, invece di sfruttare il suo successo, cerca di trattare la pace con Roma, e solo quando il Senato gli impone per questa condizioni troppo gravose, si risolve a riprendere la guerra.
Caio Fabrizio e Manlio Curio Dentato sono i comandanti degli eserciti che Roma manda contro il pericoloso intruso. Pur combattendo valorosamente e vittoriosamente ad Ascoli di Puglia e a Benevento, i due forse non insegnano nel campo militare nulla di nuovo al bellicoso sovrano, ma, a stare a quanto raccontano gli storici, essi fecero sì che il Re ripassasse l’Adriatico col ricordo incancellabile della grande onestà dei magistrati romani che non solo, poveri, non si lasciarono corrompere dalle offerte di denaro, ma sapevano essere leali col nemico contro i loro interessi.

Storia di Roma GUERRE CONTRO SANNITI E TARANTO – Onestà di Fabrizio

Dopo la battaglia di Eraclea, in cui i Romani furono gravemente sconfitti, giunsero ambasciatori a Pirro per trattare la restituzione dei prigionieri di guerra. Fra gli ambasciatori romani era Caio Fabrizio, noto per il suo valore e per la sua onestà. Pirro, sapendo che Fabrizio era anche molto povero, cercò di corromperlo, offrendogli una considerevole somma, come segno di amicizia. Fabrizio rispose sorridendo a Pirro che la sua povertà gli era cara quanto la libertà personale e rifiutò il  dono.
Il giorno seguente Pirro cercò di spaventare l’onesto ambasciatore facendo entrare nella tenda in cui si trattava la resa dei prigionieri un elefante (animale che Fabrizio non aveva mai veduto). Ancora una volta Fabrizio sorridendo disse che l’elefante non lo aveva spaventato più di quanto lo avesse persuaso l’offerta dell’oro.
Pirro cominciò a stimare fortemente Fabrizio e la stima accrebbe in altra occasione. Il medico personale del re aveva inviato una lettera a Fabrizio, promettendogli che se avesse avvelenato Pirro sarebbe stato ampiamente ricompensato. Per tutta risposta Fabrizio rivelò a Pirro ogni cosa, avvisandolo del tradimento e del pericolo che incombeva su di lui.

Storia di Roma GUERRE CONTRO SANNITI E TARANTO – Le ambizioni di Pirro e la saggezza del suo ministro

Pirro, il famoso re dell’Epiro, s’apparecchiava con grande entusiasmo alla sua spedizione in Italia, chiamato dai Tarantini contro i Romani. Non mai il suo amico e consigliere Cinea l’aveva visto così allegro.
“Vedi?” gli diceva enfaticamente il re, mettendolo a parte dei suoi progetti, delle sue ambizioni e delle sue speranze, “Adesso noi conquisteremo l’Italia.”
“E poi?”, gli rispondeva Cinea, conservando tutta la propria calma.
“Dopo l’Italia”, proseguiva Pirro, “abbatteremo Cartagine e conquisteremo l’Africa”
“E poi?”
“Poi conquisteremo la Macedonia, la Grecia e gli altri Paesi del mondo”.
“E quando avremo conquistato tutto il mondo?”
“Oh! Allora” esclamò Pirro “noi ritorneremo nel nostro regno e godremo una continua pace….”
“E perchè” l’interruppe Cinea “non cominciamo subito da questo? Perchè lasciare in ultimo quel che si può avere in principio?”
Se Pirro avesse dato ascolto al suo ministro, non gli sarebbero toccate le batoste che ebbe dai Romani a Benevento.

Nonostante le sue smodata ambizioni, il re Pirro fu uomo generoso, oltre che gran capitano. Una volta, gli fu riferito che alcuni giovani, in un banchetto, si erano scagliati a dir corna di lui. Egli li fece subito imprigionare, e condotti alla sua presenza, domandò loro se fosse vero.
“Altro che vero!” rispose uno, “E se non fosse stato che sul più bello ci mancò il vino, a parole, ti avremmo anche ammazzato!”
Rise il re Pirro, e cavallerescamente li rimandò a casa, raccomandando loro di non bere più tanto vino un’altra volta.

Storia di Roma GUERRE CONTRO SANNITI E TARANTO – dettati ortografici e letture. Tutte le opere  contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.

Storia di Roma IMPERIALE – dettati ortografici e letture

Storia di Roma IMPERIALE – dettati ortografici e letture. Una raccolta di letture e dettati ortografici  di autori vari, per la classe quinta della scuola primaria.

Storia di Roma IMPERIALE – Augusto

Alla morte di Cesare, tutta Roma insorse contro gli uccisori: Cesare era stato il grande conquistatore della Gallia. Egli era stato amico del popolo e il popolo voleva vendetta. I congiurati fuggirono e, a Roma, pretese il potere Marco Antonio, luogotenente di Cesare durante le guerre vittoriose. Molti temevano la prepotenza di Antonio, e i Senatori gli erano avversari accaniti.
A Marco Antonio si affiancò, intanto, un giovane di vent’anni, Cesare Ottaviano, parente ed erede di Cesare. Dapprima i due furono d’accordo e si divisero il potere dello Stato: Antonio ebbe le terre d’Oriente, Ottaviano quelle d’Occidente. Ottaviano, però, era ambizioso e sicuro di sè ed aveva l’appoggio e l’amicizia del Senato. Appena Antonio, con i suoi errori, gliene diede l’occasione, mosse guerra contro di lui e lo sconfisse nella battaglia di Azio (Grecia). Antonio si uccise. Ottaviano rimase solo al potere.
Egli ottenne, allora, ogni autorità; fu, nello stesso tempo, console, dittatore, pontefice; ebbe i titoli di Augusto, che vuol dire “grande”, “divino”, e di Imperatore, che vuol dire “comandante supremo” delle legioni.
Con Cesare Ottaviano Augusto , nell’anno 27 aC finiva la Repubblica e cominciava l’Impero.
Augusto governò saggiamente lo stato e, dopo tante lotte, garantì ai Romani un lungo periodo di tranquillità. In Roma sorse un tempio dedicato alla Pace dove l’Imperatore stesso compiva le cerimonie dei sacrifici.
Trascorsero 27 anni e, in una lontana provincia dell’Impero, la Palestina, nacque Gesù.

Storia di Roma IMPERIALE – Ottaviano, Antonio e Cleopatra

Gli uccisori di Cesare fuggirono in tutta fretta per non essere massacrati dal popolo. La repubblica fu ancora sconvolta da sanguinose guerre civili che si conclusero con la vittoria di Caio Giulio Cesare Ottaviano, nipote del morto dittatore.
L’ultimo suo rivale fu Marco Antonio, un eccellente uomo di guerra che aveva avuto dal Senato il governo delle province d’Oriente.
Laggiù aveva sposato Cleopatra, regina d’Egitto, e s’era messo, lui, governatore romano, a regalare alla moglie regina, territori che appartenevano a Roma.
Ottaviano non poteva permetterlo e perciò gli mosse guerra. La guerra fra i due rivali fu decisa da una battaglia navale, ad Azio, nel mar Ionio, 15 anni prima che nascesse Gesù.
Antonio e Cleopatra avevano una flotta di grosse navi; le navi di Ottaviano erano invece piccole, ma agilissime, ed ebbero la meglio.
Ottaviano inseguì i vinti fino in Egitto. Là, i due si uccisero: Antonio con la propria spada; Cleopatra facendosi mordere da un aspide… e anche l’Egitto cadde in potere di Roma.

Storia di Roma IMPERIALE – La battaglia di Azio

La battaglia di Azio  fu combattuta il 2 settembre del 31 aC, tra le 250 navi leggere di Ottaviano e le 500 navi pesanti di Antonio: tra queste ultimi figurano 60 vascelli egizi, uno dei quali, riconoscibile dalla vela rossa, portava Cleopatra, regina d’Egitto. Lo scontro avvenne al largo del promontorio di Azio, sulla costa occidentale della Grecia. Su quella punta sorgeva un tempio dedicato ad Apollo, e i soliti bene informati, a Roma, andavano dicendo che Ottaviano  era figlio del dio… quindi un presagio era chiaro!
Non si capisce come mai Antonio, uno dei più bravi comandanti di cavalleria di Roma, abbia preferito dar battaglia per mare. Senza dubbio fu per accontentare Cleopatra, la quale invece aveva fiducia solo nella flotta. Imbarcò dunque 2.000 legionari e 3.000 arcieri. I marinai, in queste battaglie navali, avevano solo il compito di manovrare e di accostare le navi a fianco a fianco di quelle nemiche. La battaglia era allora affidata ai fanti, i quali combattevano sui ponti delle navi come a terra. I veterani di Antonio avevano protestato: ma Antonio aveva deciso che avrebbe giocato sul mare la sua sorte.
Un debole vento spinse la sua squadra verso quella di Ottaviano, il quale attendeva al largo e per un po’, allo scopo di allontanarsi bene da terra e trovarsi in acque libere rifiutò battaglia. Poi Agrippa diede l’ordine d’attacco. Arrivate in vicinanza delle pesanti navi nemiche, i suoi soldati cercarono di raggiungerle con giavellotti incendiari. La linea di Antonio si ritirò al centro e Agrippa si infiltrò subito nella breccia aperta. Nulla certo era ancora perduto ma Cleopatra, trovandosi al centro della terribile mischia, perse la testa. In pieno combattimento ruppe il contatto col resto della sua flotta e la sua vela purpurea, immediatamente seguita da tutte le vele egizie, s’allontanò verso l’Egitto. A questo punto anche Antonio perse il controllo: abbandonando la sua squadra, che cadeva sotto i colpi nemici, raggiunse la nave regale e si accasciò affranto sul castello della nave con la testa tra le mani.
Meno di un anno dopo la regina e il comandante fuggiasco si diedero la morte: Antonio, trafiggendosi con la propria spada, Cleopatra facendosi mordere da un serpente velenoso. Tutto, anche il suicidio, gli era sembrato preferibile alla vergogna di comparire come prigioniero nel trionfo di Ottaviano.
A Roma la notizia della vittoria di Azio fece tirare al popolo un sospiro di sollievo. Tutti avevano tremato prima che la sorte delle armi avesse deciso la contesa. Roma, come ben si sapeva, aveva vinto l’Oriente solo grazie alla sua disciplina e ai suoi metodi di guerra. Se ora generali romani, come Antonio, avessero tentato di organizzare quelle masse, che cosa sarebbe accaduto?
Cessò dunque la paura, si tirarono fuori dalle cantine le anfore di vino invecchiato nell’attesa del gran giorno: finalmente cominciava un’epoca di pace! E un piccolo uomo grassoccio, fino a poco prima ufficiale assai poco valoroso tra le file di Bruto, il buon poeta Orazio, versando nella sua coppa il vino migliore, esclamava: “Nunc est bibendum!” (si beva, orsù!).
Il sole di Azio rischiarava un mondo nuovo. Difatti, seguirà un lungo periodo di pace interna, operosa, che farà dimenticare un triste passato di sangue.

Storia di Roma IMPERIALE – Ritratto di Augusto

Bello di aspetto, il volto sempre calmo e sereno, anche nei momenti più difficili, Augusto sapeva infondere rispetto e quasi venerazione in chiunque. Un capo dei Galli, che aveva deciso di ucciderlo durante un colloquio, confessò poi di essere stato trattenuto, proprio per la serena maestà del suo volto.
Aveva abitudini e gusti semplici, non amava mostrarsi in pubblico per ricevere onori; spesso anzi entrava ed usciva dalla città solo di notte perchè nessuno lo vedesse e gli rendesse gli onori. Cortese con tutti, amato dal popolo, si meritò giustamente il titoli di Padre della Patria.
Quando Ottaviano ritornò a Roma vincitore, il Senato gli conferì tutte le cariche e tutti gli onori: nessuno, prima di lui, era stato tanto esaltato! Ma egli non si insuperbì.
Il senatore Valerio Messala a nome di tutti così lo salutò: “Salute a te e alla tua casa, Cesare Augusto; noi pregando gli dei per te, preghiamo felicità perpetua e lieti destini alla Repubblica; il Senato, d’accordo col popolo romano, ti acclama Padre della Patria.”
Augusto, con le lacrime agli occhi, rispose: “Ed io pregherò gli dei perchè mi concedano di godere del favore del Senato e del popolo romano fino all’estremo giorno della mia vita”.

Storia di Roma IMPERIALE – Carattere di Augusto

Nei giorni di udienza ammetteva perfino i plebei, alla rinfusa, e con tanta benignità accoglieva i desideri di chi andava da lui, che un giorno, vedendo l’esitazione di uno che non sapeva come porgergli la sua supplica, gli disse scherzando se aveva paura di lui come di un elefante dalla minacciosa proboscide.
Nei giorni in cui teneva seduta in Senato, entrava, e quando tutti erano seduti, salutava cordialmente per nome i singoli senatori, senza che alcuno gliene ricordasse il nome.
Usava modi cortesi con tutti e non mancava mai alle solennità dei suoi amici. Egli rispettò la libertà di tutti. Era senza dubbio molto amato.
I cavalieri tutti gli ani celebravano per due giorni di seguito il suo giorno natale; gli altri ordini gettavano ogni anno nel Foro una moneta rituale per la sua salute, e per capodanno gli offrivano la strenna in Campidoglio. Quando riedificò la sua casa sul Palatino dopo l’incendio che l’aveva distrutta, i veterani e tutte le classi cittadine gli offrirono grosse somme di denaro; ed egli non levò da quelle somme che un solo denaro per ciascuna.

Storia di Roma IMPERIALE – La pace romana

Dopo tanti anni di guerre, i popoli dell’Impero accettarono ben volentieri il governo di Augusto, che assicurava a tutti di poter vivere in pace sotto il segno di un’unica legge: quella romana.
Durante il suo lungo e pacifico regno, Roma divenne bella e bene organizzata città. Furono restaurati templi ed edifici, vennero demolite numerose vecchie case, si provvide a rafforzare gli argini del Tevere, si costruirono nuovi ponti ed acquedotti.
La città si arricchì di bellissimi palazzi e ville, di giardini , fontane di marmo, statue, portici per le passeggiate, di teatri, di fastosi templi, di meravigliosi monumenti, come l’Ara Pacis, e di una grandiosa piazza, chiamata Foro di Augusto.
Molte opere furono eseguite o abbellite col denaro dello stesso Imperatore; per questo il Senato conferì ad Augusto il titolo di Restauratore degli edifici sacri e delle opere pubbliche.
L’aspetto di Roma mutò tanto che Augusto ebbe a dire: “Ho trovato una città di mattoni e la lascio di marmo”.
Anche gli scrittori ed i poeti del tempo, nominando Roma, la chiamarono grande, bellissima, aurea, eterna.

Storia di Roma IMPERIALE – Il governo di Augusto

Nella sua bella casa privata sul Palatino, Augusto diresse l’amministrazione del vasto stato. Con alcune guerre di carattere difensivo allargò i confini a nord e ad est delle Alpi, portandoli al Danubio. L’impero si estendeva ora dalle coste dell’Atlantico all’Eufrate e al Mar Rosso, dalla Manica, dal Reno, dal Danubio e dal Mar Nero alle sabbie del deserto africano, per una superficie doppia di quella dell’impero di Alessandro Magno.
Ottaviano si propose di renderlo omogeneo con leggi ed ordinamenti uguali, di migliorarne l’amministrazione, di difenderne la sicurezza, di rinnovarlo moralmente. Per poter compiere questa grande opera, fu amante della pace; tornato a Roma dall’Egitto, chiuse le porte del tempio di Giano a significare che si inaugurava per tutto l’impero la Pax Romana.
Augusto riformò anche l’amministrazione delle province antiche e nuove; anzitutto divise l’impero in 25 province distinte in senatorie ed imperiali.
Erano senatorie, cioè governate da proconsoli eletti dal Senato, quelle (12 in tutto) di più antica conquista e quindi di pacifico dominio; imperiali quelle di recente conquista e poste nelle zone di confine, facili perciò a pericoli interni ed esterni: erano governate dall’imperatore per mezzo dei suoi luogotenenti o prefetti.
A tutti i funzionari delle province assegnò un regolare stipendio. Così si cominciò a formare una classe di impiegati statali, quella che noi chiamiamo burocrazia.
Riordinò anche l’esercito. Siccome il reclutamento obbligatorio non era più gradito ai Romani, organizzò un esercito permanente, formato di volontari stipendiati che prestavano servizio per vent’anni, e poi venivano congedati, ricevendo un premio in denaro o un pezzo di terra da coltivare.
Augusto curò anche la flotta e pose basi navali, una a Ravenna e l’altra a Miseno, una terza nel Mediterraneo occidentale per sorvegliare le coste galliche e spagnole, una quarta nel Ponto Eusino per il confine orientale.
Per la protezione della sua persona, istituì nuove coorti di soldati speciali detti pretoriani, dal nome del palazzo imperiale Praetorium.
Compì grandi lavori pubblici di abbellimento e di utilità: templi, archi, acquedotti, vie.
Augusto cercò anche di ravvivare il sentimento religioso, la moralità nei costumi, l’amore all’agricoltura, il patriottismo dei cittadini, che si erano rilassati per lo smodato desiderio delle ricchezze, del lusso, dei piaceri materiali; ma queste riforme ebbero scarso risultato.
Insieme con i suoi consiglieri, Mecenate ed Agrippa, incoraggiò la letteratura e l’arte che raggiunsero allora il massimo splendore.

Storia di Roma IMPERIALE – Augusto e il centurione

Un giorno l’imperatore Cesare Ottaviano Augusto se ne stava tra i suoi amici, quando seppe che un centurione chiedeva con insistenza d essere ricevuto. Ordinò che fosse fatto passare.
Appena vide il centurione, Augusto sorrise: riconosceva in lui uno dei suoi più fedeli soldati. Gli chiese che cosa volesse.
“Il tuo aiuto, Cesare. Un nemico invidioso delle terre che mi hai regalato, come a tutti i tuoi soldati, ha presentato in tribunale una grave accusa contro di me. Io so di avere il giusto diritto dalla mia parte; egli ha una grande autorità presso  i giudici che dovranno dare la sentenza; perciò sono venuto a chiederti di difendere la mia causa”.
I presenti si guardarono tra loro sbalorditi. Come osava, un modesto centurione, parlare così al signore di Roma?
Ma Augusto ben conosceva quel soldato; sapeva che veramente era stato fedele e valoroso. Gli additò allora una persona che gli sedeva accanto, e che era un famoso avvocato.
“Ecco, questo mio amico ti difenderà davanti ai giudici perchè il tuo buon diritto trionfi. Va’ pure tranquillo”.
Ma il centurione non si mosse. Poi alzò fieramente il capo e, aprendo la veste sul petto, mostrò le ferite che lo solcavano.
“Cesare, quando nella battaglia di Azio la tua fortuna e la tua vita erano in pericolo, io non incaricai nessuno di difenderti, ma lo feci io stesso”.
Augusto tacque, colpito; poi, guardando il soldato: “Hai ragione!” disse, “Va’ senza paura: verrò io stesso in tribunale a difendere la tua causa”. (C. Lorenzoni)

Storia di Roma IMPERIALE – Ave, o Cesare

L’imperatore Cesare Augusto tornava a Roma dopo aver vinto una grande battaglia. Un popolano gli andò arditamente incontro e gli presentò un corvo, al quale egli aveva insegnato a dire: “Ave, o Cesare, vittorioso imperatore!”.
Augusto, sorpreso e lusingato, volle l’uccello e diede in cambio una forte somma di denaro.
Un povero ciabattino, che aveva assistito alla scena, con i pochi suoi risparmi comperò subito un bel pappagallo e cominciò ad ammaestrarlo,  perchè salutasse l’imperatore con le stesse parole del corvo. Ma il pappagallo stentava ad imparare e il povero ciabattino, sfiduciato, dopo ogni prova ripeteva: “Oh povero me, ho sciupato tempo e denaro!”.
Finalmente il pappagallo riuscì a ripetere le parole del saluto ed il ciabattino, contento e pieno di speranza, si presentò ad Augusto. L’uccello, sollecitato, disse con bella voce e molta sicurezza: “Ave, o Cesare, vittorioso imperatore!”.
Ma Augusto, udito il saluto, rispose disgustato: “Via! Via! Ho pieni gli orecchi di questi saluti!”.
Il povero ciabattino stava per andarsene mortificato, quando all’improvviso il pappagallo, con sfacciata petulanza, si mise ad urlare: “Oh povero me, ho sciupato tempo e denaro!”.
Augusto rise a quelle parole, richiamò il ciabattino e comprò il pappagallo a caro prezzo.

Storia di Roma IMPERIALE – L’Altare della Pace

In onore dell’Imperatore un mese dell’anno prese il nome di Agosto, che vuol dire mese di Augusto. Gli avrebbero voluto innalzare anche un tempio, ma egli non volle. Preferì che, nel cuore di Roma, sorgesse un nuovo monumento, chiamato l’ “Altare della Pace”.
Aveva forma quasi quadrata ed era costruito tutto in marmo, con due fronti e una porta per ogni fronte; internamente vi era l’altare o ara. Il monumento, privo di colonne, era percorso da magnifici bassorilievi, dove erano sculture rappresentanti una solenne processione: la processione di uomini, donne e bambini, che portavano i loro voti all’altare della pace, promettendo di essere sempre pacifici e concordi.
Nel periodo della pace di Augusto progredirono gli studi e la cultura. Visse allora il poeta Virgilio, il più grande poeta latino e uno dei più grandi dell’umanità.
Inoltre vanno ricordati Orazio, Tibullo, Ovidio, anch’essi poeti, e il grande Tito Livio.

Augusto

Augusto fu l’ultimo console e il primo imperatore romano. Il destino gli aveva preparato un grande avvenire. Non per nulla, mentre, ancora fanciullo, aveva chiesto ad un indovino che cosa li prediceva per il futuro, l’indovino stesso gli si era inginocchiato davanti. Tuttavia egli era di animo mite e giusto e benevolo.
Ad un soldato che gli diceva di difenderlo davanti ai giudici rispondeva dapprima: “Ti manderò in difes il mio migliore avvocato”.
Ma siccome il soldato insisteva dicendo: “Quando mi chiamasti per la guerra io stesso venni e non mandai altri!”, Augusto aggiunse pronto: “Hai ragione! Verrò io stesso!”.

Storia di Roma IMPERIALE – Virgilio

A Roma si diceva “Virgilio consuma più olio che vino”. Ciò voleva dire che Virgilio studiava, anche di notte, al lume della lucerna e che era sobrio, cioè mangiava poco e beveva meno.
Egli diceva di sè “Sono nato in un solco di campo, presso Mantova”. Infatti era nato da famiglia contadina, a Pietole. Si narrava che, appena nato, trovandosi in una culla, n mezzo al campo, uno sciame di api si erano posate sui rosi labbruzzi. Da grande divenne poeta dolcissimo. Le sue parole sembravano davvero di miele.
A Roma fu molto stimato dall’Imperatore Augusto e protetto da un ricco patrizio di nome Mecenate.
Egli scrisse, tra l’altro, un grande poema, nel quale narrò la storia di Enea e la fondazione di Roma. Perciò quel poema fu intitolato Eneide.
I versi dei poeti, allora, venivano cantati, con l’accompagnamento della lira, strumento musicale con cinque corde di metallo.
Nei suoi versi, Virgilio annunciava tempi nuovi, di pace e di bontà, nei quali non avrebbe più contato la forza, ma la dolcezza e la mansuetudine.
Il grande poeta morì a Brindisi nel 19 aC  e fu sepolto a Napoli, in faccia al mare da cui era venuto l’eroe del suo poema.

Virgilio

Virgilio fu un grande poeta vissuto durante l’impero di Augusto. Egli amava la natura, gli animali e le piante; preferiva la vita campestre e si affliggeva che l’agricoltura fosse, ai suoi tempi, in abbandono. La sua opera più importante fu l’Eneide, dove volle celebrare la sua patria dalle origini fino ai tempi di Augusto. Secondo le ultime volontà di Virgilio, questo poema doveva essere distrutto, ma dobbiamo ad Augusto se ancora possiamo leggere i versi armoniosi dell’Eneide.

Storia di Roma IMPERIALE – Quanti erano i cittadini romani

“Nel mio sesto consolato feci il censimento del popolo… Risultarono allora censiti 4.063.000 cittadini romani. E poi di nuovo ripetei la stessa cerimonia da solo col potere consolare, durante il consolato di Caio Censorino e Gaio Asinio. E furono in questo lustro censiti 4.233.000 cittadini romani. Per la terza volta, rivestito del potere consolare, feci il censimento avendo collega il mio figliolo Tiberio Cesare, quand’erano consoli Sesto Pompeo e Sesto Apulio; e risultarono allora cittadini romani 4.037.000” (da Res gestae divi Augusti)

Storia di Roma IMPERIALE – Roma grande emporio della terra

Il mar Mediterraneo come una cintura cinge il centro del mondo e il centro del vostro dominio; e intorno al mare si stendono i continenti colmi di ricchezze sempre a vostra disposizione. Qui affluisce, da ogni parte della terra e del mare, quello che producono le varie stagioni, le singole regioni, industrie di Greci e di barbari: per vedere tutte queste diverse cose, bisognerebbe viaggiare per tutta la terra, ma basta venire nell’Urbe. Tutto quello che si produce e si fabbrica nei singoli paesi, qui si trova. E così numerose approdano qui le navi mercantili in tutte le stagioni ad ogni mutare di costellazione, cariche di ogni sorta di mercanzie, che l’Urbe si può paragonare al grande emporio generale della terra.
E così forti carichi di vedono arrivare dall’India e perfino dall’Arabia felice da far venire il dubbio che in quei paesi siano rimasti spogli gli alberi, e gli abitanti debbano venir qui a domandare i loro prodotti quando ne hanno bisogno; e le stoffe di Babilonia e gli altri generi di lusso di quelle lontane terre barbare si vedono arrivare con molta maggiore frequenza e facilità delle mercanzie inviate da Cidno ad Atene in altri tempi.
Sono vostri granai l’Egitto, la Sicilia e la Libia nella parte abitata. (Elio Aristide)

Storia di Roma IMPERIALE – L’impero di Augusto

L’Impero Romano si stendeva ormai, con Augusto, dal Reno al Danubio, a nord, fino al deserto dell’Africa ed alle montagne dell’Atlante, a sud; dall’Atlantico, ad ovest, fino al Mar Nero, al Ponto, alla Siria, al Mar Rosso, ad est.
“Allargai i confini di tutte le province del popolo romano, alle quali erano confinanti popolazioni che non obbedivano al nostro dominio. Sottomisi le province delle Gallie e delle Spagne, e similmente la Germania, seguendo il confine dell’Oceano, da Cadice alla foce dell’Elba. Assoggettai le Alpi, dalla regione prossima al mare Adriatico fino al Tirreno, a nessuna gente recando guerra ingiustamente” (da Res gestae divi Augusti)

Storia di Roma IMPERIALE – Giustizia e generosità di Augusto

Un giorno un suo parente gli propose di mandare gli eserciti di Roma contro un piccolo popolo africano che nulla aveva fatto per meritarsi un sì tremendo castigo. Il cattivo consigliere diceva all’Imperatore: “In pochi giorni i nostri soldati conquisteranno un regno; quel popolo non si aspetta la nostra aggressione e certamente cederà senza combattere”.
Ebbene, sai come rispose Augusto? Augusto rispose così: “I Romani non si macchieranno mai di un tale delitto; la nostra forza sta nella giustizia e non nelle armi”.
Un’altra volta l’imperatore Augusto si trovò  a dover giudicare un povero colto nell’atto di rubare un pezzo di pane. Il reo si scusò in questo modo: “Rubai perchè avevo fame. Sono disoccupato”.
Pronto l’imperatore rispose: “Il furto è furto e ti condanno. Tuttavia eccoti una moneta d’oro. Espiata la condanna potrai andare avanti finchè non avrai trovato lavoro”

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Storia di Roma IMPERIALE – Altri imperatori della famiglia Giulio – Claudia

Storia di Roma IMPERIALE – Tiberio (14 – 37 dC)

Negli ultimi anni della sua vita Augusto aveva adottato e designato come erede il figliastro Tiberio, nato da Livia, sua terza moglie, appartenente all’antica e orgogliosa gens Claudia. Tiberio fu accettato tanto dal Senato che dall’esercito e con lui l’impero si trasmise per 54 anni alla famiglia Giulio – Claudia.
Nel primo anno governò saggiamente e riportò anche successi militari contro i Germani del Reno, che avevano distrutto un esercito romano. Ma negli ultimi anni Tiberio, divenuto sospettoso e crudele, si macchiò di numerosi delitti.
Ritiratosi a cercare sicurezza e pace nell’incantevole isola di Capri, lasciò il governo di Roma in mano del suo ministro Elio Seiano, che commise ogni sorta di prepotenze, finchè fu fatto uccidere dallo stesso imperatore.
Tiberio morì nel 37 dC, lasciando cattiva memoria di sè.
Negli ultimi anni del suo regno, a Gerusalemme, era stato crocefisso Gesù e i suoi discepoli si erano sparsi nelle regioni mediterranee  a diffondervi la sua dottrina: nascela così il cristianesimo.

Storia di Roma IMPERIALE – Tiberio

Ad Augusto, morto nel 14 dC, successe il figliastro Tiberio. Costui, in principio, governò saggiamente e vinse i Germani, che avevano distrutto un esercito romano. In seguito, però, divenne crudele e commise numerosi delitti. Resse l’impero non più da Roma, ma da Capri. Durane il suo regno fu crocefisso Gesù.  A Tiberio successero parenti deboli, o pazzi e crudeli.

Storia di Roma IMPERIALE – Caligola (37 – 41 dC)

Verso la fine del suo principato, Tiberio aveva dimostrato benevolenza verso un nipote, Caio, soprannominato Caligola perchè fin da bambino soleva portare le calzature militari dette caliga. Il Senato lo accolse come successore. Aveva 24 anni.
Al principio del suo regno si mostrò mite e deferente verso il Senato, ma presto, o per disposizione naturale o per una malattia che ne alterò profondamente la ragione, cominciò a commette atti folli e crudeli, sperperando ricchezze, condannando a morte i cittadini più ricchi, per confiscare i loro beni.
Fu ucciso da una congiura di pretoriani in un corridoio del palazzo.

Storia di Roma IMPERIALE – Claudio (41 – 54 dC)

Dopo questa terribile esperienza, il Senato avrebbe voluto un ritorno della repubblica. Ma i pretoriani acclamarono imperatore uno zio di Caligola, Claudio. Aveva 50 anni: uomo più di studio che d’azione, era d’animo mite e debole, inesperto di politica.
Restaurò con saggia amministrazione le finanze, rovinate dalle spese pazze di Caligola, tanto che potè costruire opere pubbliche di grande utilità: un nuovo acquedotto, che si considera uno delle più grandiose opere dell’ingegneria romana; un canale emissario del lago Fucino; l’allargamento del porto di Ostia, perchè potessero approdare le grandi navi da carico.
Con una fortunata spedizione militare fu conquistata la parte meridionale della Britannia.
Ma, vittima della sua debolezza, si lasciò raggirare dagli scaltri liberti, che divennero potenti alla sua corte, e dalla moglie ambiziosa e corrotta, Messalina.
Non migliore fu la seconda moglie di Claudio, Agrippina, già vedova, con un figlio dodicenne, Lucio Domizio Nerone. Questa donna ambiziosa, volendo assicurare l’impero al proprio figlio, circuì così abilmente il debole marito, da fargli diseredare Britannico, figlio di Claudio e di Messalina.
Poco dopo Claudio morì improvvisamente. Corse voce che Agrippina lo avesse avvelenato. I pretoriani, addomesticati e corrotti, acclamarono Nerone, e il Senato, sempre arrendevole, ne confermò l’elezione.

Storia di Roma IMPERIALE – Nerone

L’ultimo imperatore della famiglia di Tiberio fu Nerone. Egli ben presto iniziò una lunga serie di delitti. Il popolo lo accusò anche dell’incendio di Roma, che nell’anno 64 distrusse i quartieri più popolari della città. Temendo l’ira del popolo, Nerone gettò la colpa sui cristiani. Cominciò così la prima grande persecuzione, nella quale molti martiri morirono tra i più atroci tormenti.
Il malcontento contro Nerone dilagò ugualmente: la Giudea, la Gallia e la Spagna si ribellarono.
Nerone fuggì da Roma e, per non cadere vivo in mano nemica, si fece uccidere da uno schiavo. Alla sua morte scoppiarono feroci lotte per la conquista del potere.

Storia di Roma IMPERIALE – Nerone (54 – 68 dC)

Nerone saliva al trono a 17 anni. I primi cinque anni del suo governo, nei quali si lasciò guidare dai due precettori, il generale Burro e il filosofo Seneca, furono felici.
Poi i cattivi istinti ereditati dalla famiglia Claudia degeneraa, esplosero in lui sotto forma di viltà e ferocia e, cominciò l’orrenda serie dei suoi delitti.
Temendo che gli fosse contrapposto il fratellastro Britannico, lo fece avvelenare; al fratricidio seguì presto l’uccisione della madre.
Essendosi scoperta una congiura contro di lui, fu preso dal terrore e mandò a morte un grandissimo numero di persone, anche innocenti. Tra le vittime più famose furono il poeta Lucano, il suo maestro Seneca e lo scrittore Petronio, che era stato fino al giorno prima suo amico.
Ma il più grande delitto che la voce pubblica attribuì a Nerone fu l’incendio di Roma, che nel 64 distrusse vari quartieri della città. Forse l’incidente era casuale, ma il popolo esasperato minacciava vendetta: si diceva che l’imperatore volesse distruggere la città per ricostruirla più bella sulle sue rovine, oppure che volesse esaltarsi alla vista di un colossale incendio per trarre ispirazione a un poema sulla caduta di Troia.
Per discolparsi, Nerone accusò a sua volta i cristiani. L’accusa di Nerone trovò facilmente credito negli animi esasperati che esigevano la punizione dei colpevoli. Parecchi cristiani, arrestati, sotto le torture cedettero e si confessarono rei. Cominciò allora la prima grande persecuzione: molti cristiani furono condannati al rogo o dati in pasto alle belve. In questa persecuzione fu crocefisso l’apostolo Pietro e poi decapitato Paolo.
Ma il malcontento dilagava da per tutto, fra gli stessi pretoriani; la Giudea insorse e Nerone fu costretto a mandarvi contro il generale Vespasiano. Insorsero la Gallia e la Spagna, e le legioni colà stanziate proclamarono decaduto Nerone ed elessero il generale Galba, il quale marciò su Roma. Nerone, spaventato, fuggì nella sua villa, sulla via Nomentana, e per non cadere vivo nelle mani degli inseguitori, si fece uccidere da uno schiavo.
Con lui si spense la funesta dinastia dei Claudi. Le legioni più forti decidono ora la scelta dell’imperatore.
Dopo due anni di anarchia militare, durante i quali si succedettero tre imperatori (Galba, Ottone e Vitellio), che si combatterono tra di loro e morirono tutti violentemente, la pace e l’ordine furono restaurati per opera di Tito Flavio Vespasiano, fondatore della dinastia dei Flavi.

Storia di Roma IMPERIALE – Le torce viventi

La notte non era ancora discesa, e già la folla si riversava nei giardini cesarei, per assistere allo spettacolo. Roma conosceva già lo spettacolo dei roghi, non mai però s’era veduto un così gran numero di condannati. Nerone e Tigellino avevano deciso di farla finita con i cristiani, ed avevano perciò ordinato che si sbarazzassero tutti i sotterranei, non lasciandovi che un piccolo numero di vittime da servire agli spettacoli di chiusura.
La folla, entrando nei giardini, si faceva muta di meraviglia. In tutti i viali si ergevano pali spalmati di ragia, ai quali erano legati i cristiani. Dai punti più alti, dove gli alberi non impedivano la vista, si scorgevano interminabili file di pali e di condannati, cinti di fiori, d’edera e di mirto. Il numero delle vittime era più grande di ogni immaginazione.
Intorno a ciascun palo sostavano persone a gruppi, e un dubbio si manifestava in molti con la domanda: “Possibile che vi siano tanti colpevoli?”. Oppure: “Come possono aver incendiato Roma questi bambini, che ancora non si reggono da sè?”. Al dubbio e allo stupore succedeva il turbamento.
Scese la notte, e nel cielo brillarono le prime stelle. Ad ogni condannato si avvicinò uno schiavo, provvisto di fiaccola: e, quando lo squillo delle trombe risuonò da più punti del giardino ad annunciare che lo spettacolo cominciava, ciascuno depose la torcia ai piedi di un rogo.
La folla tacque; un alto gemito si levò nei giardini, e poi non si udirono che grida strazianti. Alcune vittime, però, fissando gli occhi al cielo scintillante di stelle, intonarono inni di gloria a dio. Lo spettacolo era appena cominciato, quando Nerone apparve in una magnifica quadriga circense, tirata da cavalli bianchi. Tratto tratto si arrestava per meglio godersi lo spettacolo di qualche vittima, poi proseguiva, seguito dal suo corteo. Giunto infine alla gran fontana, scese dalla quadriga e si confuse tra il popolo. Evviva e battimani lo accolsero; senatori, sacerdoti e soldati lo circondarono, ed egli, con ai lati Tigellino e Chilone, fece il giro della fontana, intorno alla quale ardevano più di dieci vittime.
I pali erano già quasi tutti arsi ovunque, e cadevano attraverso i viali, diffondendo intorno scintille, fumo, odore di legno e carne bruciata. Poi i fuochi man mano si spensero e sul giardino dominarono le tenebre della notte. La folla faceva ressa alle uscite. Cominciavano a udirsi voci di compassione per i cristiani: “Se non è vero che hanno incendiato Roma, perchè tanto sangue? Perchè tante torture e tante ingiustizie? E i numi non vendicheranno quegli innocenti? Come placare il loro sdegno?”.
Si udivano sempre più frequenti le parole “vittime innocenti”. Le donne piangevano la morte dei bambini gettati alle belve, crocefissi e bruciati vivi in quei maledetti giardini. Il sentimento di pietà traeva dai cuori maledizioni a Nerone e Tigellino.
Molti chiedevano a se stessi e agli altri: “Ma che dio è il loro che dà tanta forza di sopportare il martirio?”. E rientravano pensosi nelle loro case. (E. Sienkiewicz, da Quo vadis?)

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Storia di Roma IMPERIALE – La dinastia dei Flavi (69 – 96)

Storia di Roma IMPERIALE – Vespasiano

Nell’Impero tornò la pace con Tito Flavio Vespasiano. Egli governò ottimamente. Aprì le scuole con maestri pagati dallo stato, fece costruire grandi edifici pubblici, fra i quali l’anfiteatro Flavio, detto Colosseo.

Storia di Roma IMPERIALE – Tito Flavio Vespasiano

Fu acclamato imperatore, alla fine del 69, dalle sue legioni stanziate in Oriente per la guerra giudaica. Lasciata al figlio Tito la direzione della guerra, egli venne a Roma, dove fu accolto come un pacificatore e fu riconosciuto dal Senato.
In 10 anni di ottimo governo, riparò a tutte le sciagure che dai tempi di Nerone avevano afflitto l’impero.
Creò delle scuole con maestri stipendiati dallo stato e compì grandi opere pubbiche, fra le quali l’anfiteatro Flavio, chiamato poi Colosseo, capace di contenere 50.000 spettatori.

Storia di Roma IMPERIALE – Tito

A Vespasiano successe il figlio Tito, detto delizia del genere umano per la sua bontà. Se non compiva qualche buona azione in una giornata diceva: “Ecco un giorno perduto!”. Governò solamente tre anni. Ebbe il dolore di vedere la città di Pompei, Stabia ed Ercolano distrutte e sepolte da una tremenda eruzione del Vesuvio (79 dC).

Storia di Roma IMPERIALE – Tito

A Vespasiano successe il figlio Tito, che aveva condotto a termine felicemente la guerra giudaica, espugnando Gerusalemme. In suo onore fu costruito l’Arco Trionfale.
Per la mitezza e la generosità che lo distinguevano, meritò di essere chiamato “delizia del genere umano”.
Durante il suo breve e pacifico regno una violenta eruzione del Vesuvio, nell’anno 79, seppellì le città di Pompei, Ercolano e Stabia.

Storia di Roma IMPERIALE – La distruzione di Pompei

Da parecchi giorni la terra era scossa da un lieve terremoto; a un tratto le scosse divennero più violente. Una grossa nuvola nera di cenere, interrotta da lingue di fuoco, usciva dal cratere del Vesuvio e si ingrandiva sempre più: discese dal monte, coprì i campi e giunse fino al mare.
La terra sprofondò. Donne, uomini, bambini, fuggirono terrorizzati dalle loro case, urlando, piangendo, invocando gli dei. Non si vedeva nulla: i fanciulli chiamavano la mamma,  le mamme i figli, i mariti le spose. Sembrava giunta la fine del mondo.
Anche a Pompei si udì un terribile boato e sulla città sembrò scendere la notte. Moltissimi si trovavano nell’anfiteatro ad assistere ad uno spettacolo di gladiatori. I cittadini, impazziti di terrore, si riversarono sulla strada che conduceva al mare. Alcuni riuscirono a salvarsi, altri si attardarono nelle loro case per prendere i gioielli e i denaro. Di questi ultimi nessuno si salvò: morirono asfissiati dalle ceneri e dai vapori ardenti. Pompei fu sepolta e così Ercolano e Stabia.

Storia di Roma IMPERIALE – La famosa eruzione del Vesuvio del 79

Lo scrittore romano Plinio il Giovane ci ha lasciato in una sua lettera questa viva e impressionante descrizione dell’eruzione del Vesuvio che nel 79 seppellì le città di Pompei, Ercolano e Stabia. Lo zio dello scrittore, Plinio il Vecchio, considerato il più grande naturalista romano e autore di una Storia Naturale, spinto dall’amore della scienza, accorse, incurante del pericolo, per osservare da vicino il fenomeno, ma trovò la morte.
“La nube, che da lontano era difficile capire da qual monte sorgesse (solo più tardi si seppe che proveniva dal Vesuvio), somigliava per la sua forma ad un albero, più precisamente ad un pino, poichè, dopo essersi levata assai in alto, come un tronco altissimo, si ramificava intorno e appariva ora bianca, ora nerastra, secondo che era più carica di terra o di cenere.
Come era naturale, dato il suo amore alla scienza, mio zio credette che quel grandioso fenomeno fosse degno di essere esaminato più da vicino.
Ordinò dunque che gli si apparecchiasse la sua lancia (egli si trovava a Miseno, al comando della flotta romana) e stava già per uscire di casa, quando ricevette un biglietto di Rectina, moglie di Casco, atterrita dall’imminente pericolo, poichè la sua villa stava ai piedi del Vesuvio, nè altro scampo vi era se non per mare, e pregava affinchè egli volesse salvarsi da sì grande catastrofe.
Allora mio zio mutò consiglio e si accinse ad affrontare col più grande coraggio ciò che prima pensava di osservare con interesse di studioso.
Fece venire delle quadriremi, vi montò sopra egli stesso e partì per portare soccorso, non solo a Rectina, ma a molti altri, poichè la spiaggia bellissima assai era popolata.
A mano a mano che le navi si avvicinavano, una cenere più spessa e più calda pioveva su di esse; già cadevano tutt’intorno lapilli e scorie ardenti, già si era formata una improvvisa laguna, profotta dal sollevamento del fondo del mare, e il lido era reso inaccessibile peri cumuli di lapilli.
Allora, dopo essersi fermato, alquanto incerto se tornare indietro o procedere oltre, mio zio disse al pilota, che gli consigliava appunto di guadagnare l’alto mare: “La fortuna aiuta i forti: drizza la prua verso la villa di Pomponiano”.
Pomponiano si trovava a Stabia… Mio zio, portato là dal vento assai favorevole alla sua navigazione, abbraccia il suo amico tutto tremante, lo rincuora, lo esorta a farsi coraggio…
Frattanto dal Vesuvio, in più punti, si vedevano rilucere vasti incendi, il cui fulgore era accresciuto e fatto più palese dalle tenebre della notte…
Si consultarono fra loro se chiudersi dentro o se fuggire per l’aperta campagna; poichè, da un lato, le case ondeggiavano per i frequenti terremoti e sembrava che, schiantate dalle fondamenta, fossero gettate ora su un fianco ora su un altro e poi rimesse a posto; dall’altro lato, all’aperto, la pioggia delle pomici, sebbene leggere e porose, non incuteva minor paura. Tuttavia il confronto fra i due pericoli fece scegliere quest’ultimo partito: si scelse dunque l’aperta campagna…
Essi escono e si proteggono il capo, coprendosi con dei guanciali, che legano mediante lenzuoli, precauzione necessaria contro la tremenda pioggia che veniva dall’alto.
Altrove era giorno, ma là dove essi erano perdurava la notte, la più nera ed orribile fra tutte le notti, squarciata solo da un gran numero di fiaccole e da lumi d’altro genere.
Si credette bene accostarsi alla riva e vedere da vicino quello che il mare permettesse di tentare. Ma le onde erano sempre grosse e agitate da un vento contrario.
Qui, sdraiato sopra un lenzuolo che aveva fatto distendere per terra, mio zio chiede e bevve due volte dell’acqua fresca. Poi le fiamme e l’odor di zolfo, che le preannunciava, fecero fuggire tutti gli altri e costrinsero mio zio a levarsi in piedi. Si rizzò, appoggiandosi  a due schiavi, ma cadde immediatamente, come fulminato.” (Plinio il Giovane)

Storia di Roma IMPERIALE – Gli scavi di Pompei

Dopo diciassette secoli, furono iniziati gli scavi per riportare alla luce Pompei. Chi si reca oggi a visitarla, vede com’era una città al tempo di Roma antica: lunghe vie lastricate, il Foro, le terme, i templi, le case adorne di statue e affreschi, i colonnati, i giardini.
La vita a Pompei si è fermata, ma le rovine della città ci parlano ancora di quel tempo antico.

Storia di Roma IMPERIALE – La morte di Plinio

Plinio il Vecchio era un illustre scienziato. Durante l’eruzione del Vesuvio volle studiare da vicino il fenomeno e nello stesso tempo portare aiuto all’amico Pompeiano che si trovava a Stabia. Fece allestire alcune navi e partì.
Nonostante la pioggia di pietre e di ceneri ardenti, egli riuscì a giungere a Stabia.
L’indomani Plinio, Pompeiano e altri tentarono di avviarsi a piedi verso la spiaggia, ma lungo la strada l’aria, mista a vapori di zolfo, si faceva sempre più irrespirabile e Plinio morì soffocato, vittima della sua generosità.

Storia di Roma IMPERIALE – Domiziano (81 – 96)

Successe al  fratello Tito. Domiziano era avido di ricchezze  e feroce. Volendo trasformare l’impero in una monarchia assoluta, lottò contro il Senato, che fu decimato.
Si circondò di delatori e, abusando della legge di lesa maestà, processò ed uccise i cittadini più ricchi, per impadronirsi dei loro beni. Finì pugnalato.
Il Senato ne condannò la memoria e cancellò il suo nome dai monumenti pubblici.

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Storia di Roma IMPERIALE – Gli imperatori d’adozione

Storia di Roma IMPERIALE – Nerva (96 – 98)

Dopo l’assassinio di Domiziano, il Senato per impedire che l’esercito o i pretoriani acclamassero il nuovo imperatore, scelse prontamente uno dei suoi membri: il vecchio e stimato Cocceio Nerva. Con Nerva comincia un nuovo sistema di successione, cioè l’adozione.
Il nuovo eletto si associò come collega un giovane e valoroso generale, Ulpio Traiano, e lo designò come successore alla propria morte.
Gli imperatori d’adozione furono Nerva, Traiano, Adriano, Antonino Pio e Marco Aurelio.
Furono tutti uomini saggi ed illuminati, oltre che uomini d’azione e di pensiero. La loro età fu la più felice dell’impero.

Storia di Roma IMPERIALE – Traiano

Dopo qualche anno di pessimo governo, l’Impero Romano fu retto da alcuni saggi imperatori. Fra essi grande e valoroso fu Traiano. Intrepido soldato ampliò l’impero, conquistando la provincia della Dacia (l’attuale Romania) e la provincia dell’Arabia. Diminuì le tasse, ebbe a cuore i poveri e gli orfani.

Storia di Roma IMPERIALE – Traiano (98 – 117)

Nativo della Spagna, fu il primo imperatore non italiano. Valoroso soldato, moralmente onesto e giusto, egli ampliò al massimo i confini dell’impero, diminuì le imposte, amministrò la giustizia con mitezza, creò istituti di beneficenza a favore dei poveri e degli orfani.
Combattè i Daci, che si erano stabiliti a nord del Danubio inferiore, dov’è l’attuale Romania, e li sottomise, creando la nuova provincia della Dacia. Ivi pose un forte presidio e numerose colonie; edificò città, ponti e monumenti dov’era prima il deserto.
La moderna Romania conserva nel nome, come pure nella lingua, il ricordo della dominazione romana.
Per celebrare questa vittoria, fu elevata in mezzo al Foro Traiano la magnifica Colonna, alta 43 m, rivestita esternamente da una fascia di bassorilievi, che rappresentano episodi della guerra dacica. In alto vi era la statua di Traiano in bronzo.
Traiano combattè anche contro i Parti, spingendosi fino al Golfo Persico, e creò la nuova provincia dell’Arabia (Arabia del nord – ovest e penisola del Sinai).
Dal Reno al Danubio costruì una serie di fortificazioni a catena: il limes germanicus. Morì nel 117, mentre tornava dall’Oriente, e fu sepolto ai piedi della Colonna Traiana.

Storia di Roma IMPERIALE – L’imperatore Traiano e la vecchietta

Traiano fu un uomo alla buona con tutti. Un giorno, mentre partiva per una spedizione militare, gli si fece incontro una vecchietta.
“Che vuoi?” le chiese Traiano.
“Voglio giustizia, perchè hanno ammazzato il mio figliolo”.
“Ma non lo vedi che parto per la guerra? Ne parleremo al mio ritorno”.
“E se tu non tornassi?”
“Ti renderà giustizia il mio successore”
“Ma allora il merito non sarà tuo!”
“Hai ragione” disse l’imperatore.
E prima di partire per la guerra fece punire gli assassini, rendendo giustizia alla vecchia.

Storia di Roma IMPERIALE – Adriano

A Traiano successe il pacifico Adriano. Egli si dedicò ad opere di pace e visitò ogni regione facendovi costruire strade, ponti, acquedotti, templi. Fondò numerose città ed emanò sagge leggi per promuovere il benessere comune.
Inoltre Adriano si preoccupò di consolidare i confini dell’Impero, che ormai aveva raggiunto la massima espansione; fece costruire sui confini solide opere di fortificazione per tenere lontani i barbari ed assicurare così a tutti i cittadini la pace e la tranquillità.

Storia di Roma IMPERIALE – Adriano (117 – 138)

Spagnolo anche lui, ma dedito più alle opere di pace che alle conquiste, passò gran parte della sua vita viaggiando attraverso ogni regione dell’Impero e da per tutto fondando città, facendo costruire acquedotti, templi, strade, ponti.
Assicurò i confini contro le invasioni barbariche: in Bretannia, ad esempio, innalzò il famoso Vallo di Adriano, per difendere il paese dagli Scoti, una muraglia lunga 117 km, guarnita ad intervalli da 300 torri.
Ritiratosi a vivere in una magnifica villa che si era fatto costruire a Tivoli, Adriano vi morì nel 138, dopo aver adottato Antonino Pio. Fu sepolto nel grandioso mausoleo che si era fatto innalzare a Roma, sulla riva destra del Tevere: la Mole Adriana, oggi chiamata Castel Sant’Angelo.

Storia di Roma IMPERIALE – L’imperatore Adriano e il signore scortese

Adriano, prima di diventare imperatore, durante un viaggio in Asia aveva chiesto ospitalità ad un signore di Smirne.
“Non alloggio stranieri!” s’era sentito rispondere seccamente.
Adriano avrebbe anche potuto entrare con la forza, ma preferì andarsene all’albergo.
Qualche tempo dopo quel signore ebbe occasione di venire a Roma per chiedere non so quale grazia all’imperatore, che per l’appunto era Adriano.
Immaginate come rimase, quando si vide davanti l’uomo che non aveva voluto in casa sua.
Ma l’imperatore lo tolse subito dall’impaccio. “Venite,” disse sorridendo, “state tranquillo: io alloggio anche i forestieri”.
E non solo lo esaudì in tutte le sue richieste, ma finchè quel signore si trattenne a Roma, l’imperatore lo volle avere ospite, come un vecchio amico, nel palazzo imperiale.

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Storia di Roma IMPERIALE – Gli Antonini

Storia di Roma IMPERIALE – Antonino Pio (138 – 161)

Fu uno degli imperatori più saggi. Mite e buono, proibì per primo le persecuzioni dei cristiani ed i maltrattamenti degli schiavi, soccorrendo con elargizioni quanti soffrivano. Per queste virtù ebbe il soprannome di Pio.

Storia di Roma IMPERIALE – Marco Aurelio (161 – 180)

Era un austero filosofo e ci lasciò raccolti i suoi alti pensieri in un libro: Ricordi. Apparteneva anch’egli alla casa degli Antonini. Il suo regno fu turbato da uno sconfinamento dei popoli germanici, abitanti a nord del Danubio, che giunsero fino alle Alpi. Egli li sconfisse, ma poi nel trattato di pace concedette loro di stabilirsi entro il territorio dell’impero, purchè prestassero servizio militare a Roma.
Era un pericoloso espediente col quale l’imperatore sperava di evitare altre invasioni, ma avrebbe avuto gravi conseguenze: il progressivo imbarbarimento dell’esercito e le prime infiltrazioni fra i Romani dei barbari, che prepararono la rovina dell’impero.
Anche le gesta di Marco Aurelio furono celebrate nei bassorilievi di una colonna, che sorge ancora a Roma, in piazza Colonna (Colonna Antonina). Inoltre, in piazza del Campidoglio, è tuttora eretta la sua statua equestre.

Storia di Roma IMPERIALE – Commodo (180 – 192)

Questa bella serie di imperatori si chiuse tristemente con Commodo, crudele e vizioso. Era figlio di Marco Aurelio, ma profondamente diverso dal padre; finì assassinato nel 192.

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Storia di Roma IMPERIALE – Decadenza dell’impero nel III secolo

Alla morte di Commodo cominciò un periodo di anarchia militare. Le legioni dislocate nelle province pretesero di eleggere imperatori i loro generali: i pretoriani misero l’impero all’incanto, si dichiararono pronti ad acclamare colui che pagasse di più. Dopo 4 anni di disordini e di violenze, fu innalzato un generale valoroso, Settimio Severo.
Appoggiato dall’esercito, mirò a creare una monarchia assoluta e dinastica. Vinse i Parti, togliendo loro la Mesopotamia settentrionale, e combattè i Caledoni, a nord della Britannia, ove ricostruì il Vallo di Adriano. A ricordo di queste vittorie gli fu eretto nel Foro un grandioso Arco di Trionfo.

Triste inizio ebbe il regno del figlio e successore, Caracalla, così soprannominato per la foggia gallica del suo mantello, che per non dividere il trono con il fratello Geta, lo pugnalò fra le braccia della madre. Egli è famoso per l’editto del 212, col quale estese il diritto di cittadinanza romana a tutti gli uomini liberi dell’impero.
In Roma eresse le grandiose terme, che portano il suo nome e di cui restano imponenti ruderi. Caracalla fu ucciso.

L’esercito, di nuovo in rivolta, creò ed uccise gli imperatori. Per 50 anni questi si succedettero l’uno all’altro e scomparvero rapidamente, fra congiure e guerre civili, saccheggiando e depredando le province: tra queste, molte tentarono di tenersi indipendenti.
L’impero sembrava avviarsi fatalmente alla rovina, ma nella seconda metà del secolo fu salvato da una serie di imperatori di nazionalità illirica, che furono detti restauratori.

Il primo di essi fu Claudio Gotico, così soprannominato per la grande vittoria riportata sui Goti, i quali dal Mar Nero erano scesi verso il Mediterraneo, invadendo l’Asia minore e la Grecia.

Più grande ancora fu Aureliano, che in 5 anni di guerra domò le province insorte e consolidò le frontiere. Sconfisse i Vandali e gli Alemanni che erano penetrati in Italia, e cinse Roma di una nuova e possente cerchia di mura (mura Aureliane) che esistono ancora in gran parte. Ma dovette abbandonare la Dacia ai Goti, per accorciare i confini dell’impero e poterli meglio difenderli. Morì nel 275.

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Storia di Roma IMPERIALE – Diocleziano e la tetrarchia (285 – 305)

Dieci anni dopo si iniziava un nuovo periodo nella storia dell’Impero, per opera di Diocleziano, anch’egli di stirpe illirica e valoroso soldato. Egli fece dell’impero una vera e propria monarchia assoluta, circondandola di un fastoso cerimoniale, che ricordava quello delle corti orientali.
Convinto che un solo imperatore non bastasse più ad amministrare il vasto impero, si associò al governo l’antico suo compagno d’armi Massimiano col titolo di Augusto: questi governava la parte occidentale dell’impero, stando a Milano.
Diocleziano governava l’Oriente, da Nicomedia, una città dell’Asia Minore.
Roma, troppo lontana dal Danubio e dall’Asia, non poteva più essere la capitale dell’impero.
Successivamente i due Augusti si scelsero ognuno un collaboratore, o Cesare, designandolo come successore.
Questa partizione del potere si chiamò Tetrarchia, dal greco “comando di quattro”.
L’impero restò uno dal punto di vista giuridico, ma amministrativamente fu diviso in 4 parti dette Prefetture: ogni prefettura era divisa in diocesi, ogni diocesi in province.
Il potere civile fu separato da quello militare: l’impero diventò un complesso ingranaggio burocratico. Fu necessaria una riforma tributaria, che accrescesse il gettito delle imposte, per stipendiare questo esercito di impiegati civili e le truppe necessarie alla difesa dei confini.
Per frenare la speculazione, Diocleziano fissò con un calmiere il prezzo massimo delle merci di più largo consumo.
Convinto che, per mantenere l’unità dello stato, fosse necessaria l’unità del culto, ordinò nel 303 una persecuzione contro i cristiani, che fu la più violenta e la più lunga di tutte (303 – 311), tanto che questo periodo si chiamò l’era dei martiri. Ma il cristianesimo non fu estirpato, anzi, la chiesa si ricostituì più forte di prima.
Nel 305, dopo 20 anni di governo, volendo assistere al funzionamento del sistema che aveva creato, Diocleziano abdicò e si ritirò a Salona, presso l’odierna Spalato, nella nativa Dalmazia, dopo aver indotto il suo collega Massimiano a fare altrettanto.
I due Cesari divennero Augusti e adottarono due nuovi Cesari.
Ma il sistema non fece buona prova. Presto scoppiarono tumulti e lotte civili fra Augusti e Cesari, finchè sui vari competitori trionfò Costantino, figlio di Costanzo Cloro, il Cesare dell’Occidente.

Diocleziano

Tra i numerosi imperatori che succedettero a Adriano è da ricordare Diocleziano, feroce e sanguinario. Sotto il suo governo i Cristiani subirono la più tremenda persecuzione (303 – 311). Questo periodo fu chiamato era dei martiri.

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Storia di Roma IMPERIALE – Costantino e l’Editto di Milano

Storia di Roma IMPERIALE – Costantino

Nel 312 divenne imperatore Costantino. Si narra che, durante la guerra contro il suo rivale Massenzio, gli fosse apparsa in cielo una croce luminosa con il motto “In hoc signo vinces” e che subito avesse fatto applicare una croce sugli stendardi delle sue legioni, convinto di vincere la battaglia. Massenzio fu infatti sconfitto a Roma presso il Ponte Milvio.
Nel 313, a Milano, Costantino emanò il famoso Editto con il quale veniva permesso ai Cristiani di professare liberamente il proprio credo religioso. Durante il suo regno la capitale dell’Impero venne spostata da Roma a Bisanzio, in Oriente, che da lui prese il nome di Costantinopoli.

Storia di Roma IMPERIALE – Costantino

Egli era stato acclamato Cesare nel 306, dalle regioni della Britannia, mentre infieriva ancora la persecuzione contro i cristiani ordinata da Diocleziano. Ma Costantino aveva compreso che il cristianesimo era ormai una grande forza e, invece di perseguitare la chiesa, si appoggiò ad essa.
Venuto in Italia nel 312, si liberò dell’ultimo rivale, Massenzio, con la battaglia combattuta ai Saxa Rubra, sulla riva del Tevere, nei pressi dell’attuale ponte Milvio.
L’anno seguente, da Milano, Costantino emanò il famoso Editto di Tolleranza, con il quale pose termine alle persecuzioni e concesse ai cristiani, in tutto il territorio dell’impero, piena libertà di culto. La religione ufficiale dello stato continuava però ad essere il paganesimo.
Egli, mantenendo la divisione fatta da Diocleziano, regnava in quel tempo col collega Licinio, imperatore dell’Oriente.
Nel 324, rotti i buoni rapporti con Licinio, lo sconfisse e riunì nelle sue mani l’Oriente e l’Occidente.
L’anno seguente, nel 325, Costantino convocò a Nicea un concilio di vescovi per reprimere una dottrina sulla natura di Cristo, diffusa dal vescovo di Alessandria, Ario, e perciò detta Arianesimo. Ario sosteneva che Cristo non era dio fattosi uomo, ma creatura umana perfetta e perciò divinizzata. Molti vescovi condannarono come eretica, e cioè erronea, questa dottrina, ma essa si diffondeva pericolosamente. Nel concilio di Nicea l’arianesimo fu condannato.
Nel 330 Costantino trasferì la capitale a Bisanzio, sul Bosforo, che da lui prese il nome di Costantinopoli.
Roma però continuò ad essere la capitale morale dell’impero, anche se gli imperatori non vi risiedevano più: tanti secoli di storia gloriosa le avevano conferito un prestigio sacro.
Costantino morì nel 337.

L’impero romano-cristiano
Nel decennio successivo alla battaglia di Ponte Milvio, Costantino assunse un atteggiamento sempre più favorevole ai cristiani e giunse infine al riconoscimento del cristianesimo come religione ufficiale dell’impero. Da una minoranza eroica di perseguitati, esso si trasformava così in religione di massa, aumentando immensamente il numero dei propri aderenti ed inserendosi nella compagine statale dell’impero romano.
Fra le altre conseguenze, ciò portò ad una crescente diversificazione fra la massa dei semplici fedeli o laici (dal greco laos = popolo), spesso convertiti di fresco ed ignoranti delle dottrine cristiane, e la parte eletta dei ministri del culto o clero (dal greco kleros = scelto). In seno a quest’ultimo, sull’esempio della burocrazia imperiale, si delineò una gerarchia sempre più precisa, facente capo ai vescovi. Costantino incoraggiò questa evoluzione della Chiesa cristiana, consentendo alle comunità non solo di recuperare ciò che avevano perduto nelle persecuzioni, ma altresì di aumentare il proprio patrimonio in misura cospicua, grazie ai lasciti ed alle donazioni. Concesse al clero privilegi importanti, tra cui l’esenzione o immunità dalle prestazioni d’opera (munera). Concesse inoltre che i vescovi assumessero attribuzioni giudiziarie verso coloro che volessero ricorrere alle loro sentenze.
Il monogramma di Cristo fu posto sulle monete. Fu riconosciuta la domenica come festività ufficiale. L’imperatore inoltre pose tutta la propria energia nel rafforzare e difendere l’unità della Chiesa, in quanto organismo universale (Ecclesia Catholica) contro ogni  scissione interna. Si operava infatti, in seno al cristianesimo, una sistemazione dottrinale, in cui si precisavano a mano a mano le dottrine che tutti i fedeli dovevano accettare, respingendo quelle deviazioni o eresie, che eventualmente sorgessero. Il IV secolo, anzi, fu un’età di controversie teologiche particolarmente importanti, specie intorno alla natura ed agli attributi di Cristo. Tra esse fondamentale fu quella fra i seguaci di Atanasio, assertori del dogma della trinità, e i seguaci di Ario, il quale assimilava la natura di Cristo a quella di un uomo, negando così in sostanza il dogma trinitario.
Infine Costantino dovette affrontare l’ultimo dei suoi rivali nell’impero, cioè Licinio, dominatore dell’Oriente. Poichè quest’ultimo favoriva i pagani, la lotta assunse il carattere di un duello fra cristianesimo e paganesimo: la vittoria su Licinio (324) e quindi l’annessione anche dell’Oriente ai domini di Costantino apparvero così una vittoria cristiana.
Alla ricostituita unità dell’impero, sotto la monarchia di Costantino, corrispose altresì il ristabilimento dell’unità della chiesa, travagliata dalla controversia ariana. Si riunì pertanto il Concilio Ecumenico, cioè l’assemblea di tutti i vescovi crisitani, a Nicea (325), dietro convocazione dell’imperatore, e lì la dottrina atanasiana fu riconosciuta come la sola valida. Il concilio di Nicea fissò inoltre in modo definitivo la dottrina cristiana con una dichiarazione di fede o simbolo niceno. Attribuì infine particolare autorità sugli ecclesiastici nelle rispettive zone ai metropoliti di Roma, Alessandria ed Antiochia; pari dignità venne attribuita più tardi anche al metropolita di Bisanzio.
All’indomani della sua vittoria su Licinio, Costantino decise di creare una nuova capitale, interamente legata alla fede cristiana, trasportando la residenza imperiale a Bisanzio, che da allora assunse il nome di Costantinopoli. Alla vecchia Roma del paganesimo, si contrapponeva così la nuova Roma del cristianesimo. L’impero, sino a ieri persecutore del cristianesimo, diventava Impero Romano Cristiano.
Da allora in poi, la dignità imperiale ed il concetto stesso di Impero non dovevano più dissociarsi dall’idea cristiana e dalla funzione di sommo protettore e regolatore della cristianità. (G. Spini)

Grandezze e meschinità di Costantino
L’imperatore Costantino, passato alla storia con il nome di Grande, non fu tuttavia immune da debolezze umane; molte sue opere ce lo confermano, ed anche i suoi biografi. Secondo Eutropio, storico attendibile sia per essere vissuto in tempi abbastanza vicini, sia per essere un sommarista delle opinioni altrui, Costantino era degno di essere paragonato ai più grandi imperatori per i suoi primi anni di regno, ma per gli ultimi anni, ai più meschini. In lui rifulsero comunque moltissime virtù di animo e di corpo. Assai avido di gloria militare, ebbe favorevole la fortuna in guerra, ma non al punto da superare la sua stessa abilità. Infatti, anche dopo la guerra civile, sconfisse più volte i Goti e, in ultimo, stringendo la pace con loro, lasciò grata memoria di sè presso i barbari. Amava le belle arti e gli studi liberali; poichè desiderava la considerazione del popolo, ma voleva ben meritarsela, egli riuscì ad ottenerla con la munificenza e l’affabilità. Fu indifferente verso alcuni amici, ma caldo verso altri, e non si lasciava sfuggire occasione alcuna per beneficarli di ricchezze e di onori.
Promulgò molte leggi, alcune buone e giuste, molte però superflue, e altre severe più del dovuto. Mentre preparava la guerra contro i Parti che già premevano ai confini della Mesopotamia, morì a Nicodemia, in un  palazzo dello stato. Aveva 66 anni e il popolo disse che la sua morte fu preannunciata da una vistosa cometa che solcò il cielo per un certo tempo. (M. Bini)

Bisanzio
Bisanzio sorse nel VII secolo aC come colonia greca; nel 201 aC divenne romana.
Era una solida cittadella che, affacciata sullo stretto, poteva controllare il passaggio delle navi dal Mediterraneo al mar Nero e quindi la via verso l’Asia.
La sua posizione era quindi ideale, oltre a ciò Bisanzio era straordinariamente bella: su una penisola collinosa, circondata dalle acque azzurre del Mar di Marmara, del Bosforo e del Corno d’Oro.
Quando Costantino il Grande,  imperatore romano dal 306 al 337 dC, realizzando un progetto già caro ad Augusto, diede all’impero una capitale orientale (le province orientali superavano ormai di gran lunga per forza economica e popolazione quelle d’Occidente), le località tra cui ritenne di dover scegliere erano Troia, Bisanzio ed Alessandria.
Troia, secondo la leggenda, era la madre di Roma; Alessandria era la seconda metropoli dell’Impero. Ma la scelta cadde su Bisanzio, sia per necessità pratica sia per la bellezza della sua posizione.
Nel 330, ribattezzata Costantinopoli, fu proclamata capitale dell’Impero. (W. Schneider)

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Storia di Roma I GRACCHI – dettati ortografici e letture

Storia di Roma  I GRACCHI – dettati ortografici e letture. Una raccolta di letture e dettati ortografici  di autori vari, per la classe quinta della scuola primaria.

Storia di Roma I GRACCHI

Dopo la vittoria su Cartagine, Roma divenne ricca e potente, ma i benefici di tale ricchezza e potenza non erano equamente distribuiti fra tutti i cittadini. Molti fra coloro che avevano lungamente combattuto, trascurando lavoro e interessi, erano caduti in miseria.
Le terre di conquista erano distribuite ai cittadini, ma gran parte di esse toccavano a pochi patrizi che aumentavano i loro possedimenti. Essi avevano campagne estese (latifondi) a perdita d’occhio e sovente ne trascuravano la buona coltivazione.
Il numero dei poveri aumentava ogni giorno. Essi abbandonavano le loro case e i loro campicelli, e si riversavano nelle città. Era una situazione molto grave, e due nobili fratelli romani, Tiberio e Caio Gracco, cercarono con tutte le loro forze di porvi rimedio. Nominati tribuni, proposero la “legge agraria”. Essa stabiliva che molte terre fossero distribuite ai contadini più bisognosi.
I patrizi, aiutati degli amici del Senato, combatterono con ogni mezzo la legge agraria che li danneggiava.
Tanto fecero che Tiberio fu assassinato in un tumulto, e il fratello Caio, abbandonato anche dagli amici e dai beneficati, si fece uccidere da uno schiavo.

Storia di Roma I GRACCHI – I Romani diventano ricchi, ma non tutti

Roma aveva conquistato immensi territori. Divenuti ricchi, i cittadini presero ad amare il lusso, gli oggetti preziosi, i banchetti, i divertimenti. Gli schiavi lavoravano per loro.
Naturalmente, non tutti i cittadini romani erano diventati ricchi. Anzi, la maggior parte di essi era rimasta povera, più povera di prima! Solo i proprietari di vaste terre (i latifondi) ammassavano facilmente le ricchezze, facendo lavorare gli schiavi e trasformando i campi in pascoli per le greggi e gli armenti.
Infatti, siccome il grano arrivava in abbondanza dall’Africa e dall’Asia Minore, non era più necessario coltivarlo in Italia. Questo sistema riduceva in miseria i piccoli proprietari che abbandonavano i loro campicelli e si trasferivano a Roma, a vivere come oziosi mendicanti.
Due uomini vollero porre riparo a tanta miseria,  realizzando le prime riforme a favore degli operai e dei contadini: Tiberio e Caio Gracco.

Storia di Roma I GRACCHI – Tiberio e Caio Gracco

Tiberio e Caio, per l’indole egregia e per il grande studio che Cornelia mise nell’educarli, divennero i più disciplinati di quanti Romani allora vivevano; e dall’esempio loro si dimostrò che l’educazione è ottima guida per condurre gli uomini a virtù. Tiberio e Caio furono somiglianti nella forza, nella temperanza, nella liberalità, nella grandezza d’animo e nell’eloquenza; ma grandemente differivano in altre cose. Tiberio nell’aria del volto, nello sguardo e nel portamento era mite e composto. Caio, invece, era impetuoso e pieno di forza; cosicchè quando arringava il popolo, egli non si teneva già modestamente fermo al suo posto, come il fratello; anzi fu il primo dei Romani a passeggiare qua e là per la ringhiera (il palco da dove parlavano gli oratori) ed a tirarsi la toga giù dalle spalle. Se poi era preso dall’ira, s’infiammava e strillava sino a prorompere in contumelie e a confondersi nel discorso. Venendo a parlare dei costumi e della maniera di vivere, si lodavano in Tiberio la frugalità e la semplicità; mentre Caio, sebbene temperato ed austero in confronto agli altri, si poteva dire largo e magnifico rispetto al fratello. (da Plutarco)

Storia di Roma I GRACCHI – I veri gioielli

Le ricche signore romane si chiamavano matrone. Andavano coperte di ampie vesti e portavano indosso ornamenti d’oro. Molte si facevano accompagnare da uno schiavo, con un cofanetto pieno di gioielli che mostravano alle amiche.
Ma una di loro non faceva così. Si chiamava Cornelia. Si era sposata con Sempronio Gracco ed era rimasta presto vedova, con due figli, Tiberio e Caio, che allevava teneramente. Quei due ragazzi, che a Roma chiamavano i fratelli Gracchi, le davano molte soddisfazioni, perchè erano seri, buoni, studiosi. Cornelia, per quanto vedova, si sentiva contenta di loro.
Un giorno si recò a farle visita un’altra matrona, diversa da lei. Era una donna ambiziosa e vanitosa, piena di ornamenti. La seguiva uno dei soliti schiavi, col cofano dei gioielli. La matrona lo aprì dinanzi a Cornelia. Trasse fuori collane d’oro, con la bulla che era una specie di medaglia. Sollevò fili di perle opaline. Si infilò alle dita anelli gemmati. Mostrò braccialetti larghissimi, d’oro sbalzato. Eppoi, filigrane e fibule, che erano fatte come i nostri spilli di sicurezza, ma più ricchi e lavorati.
E mentre si passava, da una mano all’altra, tutti quei gioielli preziosi, i suoi occhi brillavano più che i diamanti sfaccettati.
Cornelia sorrideva per cortesia, ma in cuor suo compativa quella donna che, per darsi importanza, aveva bisogno di tutte quelle cose inutili.
A un certo momento, la matrona vanitosa chiese a Cornelia che le mostrasse i suoi gioielli. Forse la voleva umiliare. Ma Cornelia, com’era una donna di giudizio, era anche una donna di spirito. Invece di aprire un cofano o di frugare in un cassetto, chiamò presso di sè i suoi due bravi figlioli.
Prese Tiberio da una parte, Caio dall’altra. Passò sulle loro spalle le sue materne braccia, poi disse, modesta e insieme orgogliosa: “Ecco i miei gioielli!”
La sciocca matrona, a quella bellissima risposta, rimase confusa.
Abbassò gli occhi sui suoi gioielli. Le sembrò che non sfavillassero più. Anche nei suoi occhi si era spenta la luce della gioia. Richiuse il cofano. Ma ora erano gli occhi di Cornelia e dei suoi cari figlioli che riempivano di luce la casa. (P. Bargellini)

Storia di Roma I GRACCHI – Discorso di Tiberio Gracco

Tiberio Gracco, divenuto tribuno della plebe, propose nel 133 aC, una legge, per la quale la grande proprietà terriera, o latifondo, doveva essere frazionata in modo tale che nessun cittadino potesse possedere più di 1.000 giornate di demanio pubblico. Il resto doveva essere confiscato e diviso in piccoli poderi da 30 iugeri, da distribuirsi fra i cittadini nullatenenti.
Ecco il discorso con cui Tiberio arringò la folla in tale occasione:
“Le belve che vivono allo stato selvaggio hanno le loro tane, ma quelli che muoiono per l’Italia non sono padroni che dell’aria che respirano. Essi devono andare raminghi, con la moglie e con i figli, senza casa, senza tetto.
Quando i loro comandanti, prima della battaglia, li incitano a combattere per le loro tombe e per i loro Lari, mentono e sanno di mentire, perchè nessuno dei soldati possiede tali cose. I loro combattimenti, i loro morti, non servono che ad accrescere il lusso dei ricchi.
Si ha il coraggio di chiamare padroni del mondo questi disgraziati che non posseggono neppure una zolla di terra!”
(da Plutarco)

Storia di Roma I GRACCHI – Tiberio Gracco

Tiberio fu eletto Tribuno della Plebe e fece approvare una legge che vietava ai cittadini di possedere latifondi troppo estesi e imponeva ai proprietari terrieri di assumere un certo numero di contadini liberi, da far lavorare nei campi oltre agli schiavi, mentre a tutti i cittadini poveri lo Stato avrebbe assegnato un piccolo terreno. Questa legge non poteva piacere ai grandi proprietari… Non potendo privare Tiberio del potere, i patrizi provocarono aspri disordini durante le elezioni dell’anno 133 aC; Tiberio fu assalito e ucciso.

Storia di Roma I GRACCHI – Caio Gracco

Nove anni dopo, Caio Gracco, fratello minore di Tiberio, fu eletto a sua volta Tribuno della Plebe. Per favorire i poveri, Caio fece approvare una legge perchè fossero ricostruite alcune famose città: Taranto, Capua, Cartagine. Per salvare i plebei dalla fame, Caio mise in opera la legge frumentaria, che impegnava lo Stato a vendere ad ogni cittadino cinquanta chili di grano al mese, a bassissimo prezzo. Neppure queste leggi poterono essere gradite ai profittatori.
Per attaccare Caio Gracco fu trovata una scusa: Caio aveva guidato tremila coloni in Africa, perchè ricostruissero Cartagine. Ma, al termine della terza guerra punica, il territorio di Cartagine era stato dedicato alle divinità infernali. Caio Gracco fu accusato di sacrilegio e perseguitato. Morì ucciso nel 121 aC.

Storia di Roma I GRACCHI – Vicino al popolo

Caio Gracco abbandonò la propria ricca casa patrizia per andare ad abitare in una catapecchia di un quartiere popolare, e ciò per essere maggiormente vicino al popolo e vederne così con i propri occhi i bisogni.

Storia di Roma I GRACCHI – Le guerre civili

La miseria, le ingiustizie, l’inimicizia tra i pochi ricchissimi ed i molti poveri continuarono dopo la morte dei Gracchi. All’improvviso scoppiò una vera guerra fra gruppi di cittadini romani. Si disse “guerra civile” perchè era combattuta da uomini appartenenti alla stessa patria. Gli interessi della plebe erano difesi da Caio Mario, un popolano che, per il suo coraggio, era giunto ai più alti gradi militari.
Il suo avversario era il nobile Lucio Silla, intelligente e ambizioso. La lotta durò molti anni: se trionfavano gli uomini di Mario, la vendetta colpiva i “sillani”; se invece era vittorioso Silla, tutti gli amici di Mario erano perseguitati ed uccisi.
Quando Mario morì, Silla si fece nominare dittatore e governò lo stato con grande durezza fino all’anno 79 aC.

Storia di Roma I GRACCHI – Mario

Era nato da contadini. Aveva combattuto con Scipione nella Spagna, e ben presto era divenuto generale. Coraggioso, forte, abile, resisteva a qualsiasi fatica. Viveva la vita dei suoi soldati: mangiava il loro pane e, come loro, riposava sulla nuda terra. Durante le soste, metteva anch’egli mano al lavoro per scavare una fossa o un vallo (trincea). I soldati lo ammiravano e lo amavano, pronti a compiere con lui le più audaci imprese.

Storia di Roma I GRACCHI – Caio Mario, il salvatore della Patria

Mentre a Roma la plebe era in fermento, scoppiò una guerra contro Giugurta, re della Numidia. Essa fu conclusa vittoriosamente dal console Caio Mario, di umili origini. La gloria di Mario si accrebbe pochi anni dopo, quando salvò Roma dalla terribile invasione dei Cimbri e dei Teutoni, bellicosi popoli germanici. Il console fu acclamato “salvatore della patria” e “terzo Romolo”.
Caio Mario riorganizzò l’esercito. I soldati furono equipaggiati a spese dello stato e ricevettero una paga.

Storia di Roma I GRACCHI – Eroico modo di attingere acqua

I soldati di Mario, assetati, protestavano con il condottiero perchè volevano acqua. “Il campo nemico ne abbonda” disse Mario “andate a prenderla!”. E li guidò alla battaglia.

Storia di Roma I GRACCHI – Silla

Era di ricca famiglia patrizia. Aveva occhi azzurri e aspetto fiero. La sua faccia era di colore scuro, qua e là pezzato di bianco. In lui c’era un impasto di virtù e di vizi. Forte e valoroso in guerra, era poi prodigo, spavaldo, ambizioso e vendicativo. I nemici lo temevano; lo sapevano uomo senza pietà. Gli amici lo adoravano, perchè lo sapevano pronto a qualsiasi aiuto.

Storia di Roma I GRACCHI – Lucio Cornelio Silla

Nonostante le vittorie conseguite, Roma covava dentro di sè continue discordie, alimentate ora dai patrizi, ora dai plebei.
Per alcuni anni prevalse il partito dei plebei, capeggiato da Mario, che fece strage dei suoi nemici. Quando morì, si disse: “Non fu amato da nessuno, fu odiato da molti”.
Poi prevalse il partito dei patrizi, capeggiato da Silla. Ma anche di lui si disse: “Nessuno fece tanto bene ai suoi amici e tanto male ai suoi nemici”. Raggiunto il pieno potere, infatti, Silla riempì Roma di stragi senza fine e senza limite.
Molte conquiste della plebe furono distrutte: i tributi non poterono esercitare il diritto di veto e proporre le leggi. Dopo quattro anni di dittatura Silla si ritirò a vita privata.
“C’é qualcuno” domandò al popolo convocato in piazza “che voglia chiedermi conto di quello che ho fatto?” Nessuno aprì bocca.

Storia di Roma I GRACCHI – La battaglia di Aquae Sextiae

Quando tutto fu pronto, Mario col grosso delle forze si accampò verso le foci del Rodano, in luogo forte, cinto di staccati e di fosso. Ecco arrivare finalmente i nemici, in numero quasi infinito
Mario ordinò che i legionari dall’alto dei terrapieni, a turno stessero ad osservare i nemici, in modo da assuefarsi al loro aspetto strano, alle loro voci spaventose: ottenne così che i Romani non soltanto temessero più d’attaccare battaglia, ma ogni giorno chiedessero ad alte grida che il console desse il segnale. Ed egli, impassibile, li frenava. Alfine i Teutoni s’impazientirono e da ogni parte, alla rinfusa, assalirono il campo romano, quasi per provare la forza d’animo dei difensori. Respinti dalla pioggia di saette, senza ritentar la prova e quasi disprezzando quel nemico trincerato, decisero di muovere senz’altro verso i passi delle Alpi, per ricongiungersi coi Cimbri e insieme passare in Italia. Levate le tende, i barbari si avviarono, sfilando, per derisione, lungo il campo di Mario.
Solo quando le retroguardie del nemico furono scomparse, verso oriente, Mario levò il campo e li seguì cautamente. Pensava non senza ragione, che durante la marcia il disordine sarebbe entrato più facilmente in quelle enormi masse indisciplinate. Quasi ogni giorno egli faceva prigionieri gruppi di ritardatari e di sbandati. Vicino ad Aquae Sextiae potè finalmente coglierne all’improvviso una grossa schiera di trentamila, separati da un canale e, con abile manovra, parte cacciarli giù nell’acqua, parte uccidere, parte inseguire fino al campo.
Il terzo giorno la tensione degli animi era diventata tale, che Mario ritenne miglior consiglio affrontare la prova. Trasse le legioni dagli steccati e le schierò su un pendio. L’ordine dato ai soldati era semplice: mantenere ad ogni costo l’ordinanza, aspettare i nemici a piè fermo e scagliare i giavellotti a giusta distanza; Mario, come sempre, combattè in prima fila, per dare esempio e coraggio.
Dopo una lunga lotta, i barbari si ritirarono per riprendere fiato; ma ecco, in quel mentre Claudio Marcello assalirli alle spalle. Alla inattesa vicenda, i Teutoni restarono un momento incerti; combattere su due fronti non era loro costume; credettero ad un tradimento, ad un  prodigio; la confusione entrò nelle loro file. Molti corsero verso il campo, ove avevano lasciato le mogli, i vecchi, i bambini.
Le legioni allora presero l’offensiva e si slanciarono con alte grida giù dal pendio. Nella battaglia all’arma bianca, come erano quelle dell’antichità, non vi era quasi scampo per gli sconfitti; quando incominciava la ritirata, era quasi la strage sicura. Più di centomila Teutoni furono distrutti in poche ore; in parte uccisi, in parte fatti prigionieri;  tutte le loro cose divennero bottino di guerra. (A. Valori)

Storia di Roma I GRACCHI – Le proscrizioni di Silla

Silla riempì Roma di stragi senza fine e senza limite. Molti che non avevano mai avuto nulla a che fare con lui, furono fatti mandare a morte per odi personali: egli lasciava fare per compiacere i suoi amici.

Silla proscrisse dapprima ottanta cittadini senza dare alcuna comunicazione ai magistrati: ciò provocò generale indignazione. Lasciò allora passare un giorno, ma poi ne proscrisse duecentoventi altri e il terzo giorno altrettanti. Parlando al pubblico, disse che aveva proscritto chi gli era venuto in mente e che in seguito avrebbe preso la medesima misura contro altri che gli fossero venuti a memoria.

Stabilì la pena di morte per chiunque avesse dato ospitalità o salvato un proscritto, anche se fosse stato fratello, figlio, genitore, e fissò un premio di due talenti per chi avesse ucciso uno posto al bando, fosse anche il servo a uccidere il padrone o il figlio a uccidere il padre.
Ciò che parve ingiusto al massimo fu l’avere Silla stabilito la perdita di ogni diritto e la confisca dei beni anche a danno dei figli o dei nipoti dei proscritti.
Le proscrizioni non furono limitate a Roma, ma furono estese a tutte le città d’Italia. Non vi fu tempio di divinità, focolare domestico o casa paterna rimasta monda dal sangue degli uccisi: erano trucidati i mariti accanto alle mogli, i figli presso le madri.

Il numero delle vittime per rancori e odi personali fu lungi dall’eguagliare quello degli uccisi a causa delle loro ricchezze. Gli assassinati avrebbero potuto ben dire che l’uno doveva la morte alla sontuosa abitazione, l’altro al suo giardino, l’altro ancora alle sue stanze. Quinto Aurelio, uomo inoffensivo e che non partecipava a tante calamità se non con il sentire compassione per le sventure altrui, recatosi al Foro vide il suo nome nella lista dei proscritti.

“Misero me” disse “è il mio podere l’Albano che mi perseguita”. Fece qualche passo, e fu assassinato da uno che si era messo a seguirlo. (Plutarco)

Storia di Roma I GRACCHI – Il dono di Caio Mario

Caio Mario si trovava presso Vercelli, quando gli si presentò un uomo ancora giovane, sano e robusto, ma lacero e sudicio. “Salve, illustre console!”, lo salutò il mendicante.
Mario rispose con rude cenno: “Che cosa vuoi?”.

L’uomo fu un po’ turbato da quel modo aspro di trattare; pure si fece coraggio e disse: “Vorrei chiederti aiuto. Tu vedi, o console, come sono povero”.
Mario corrugò la fronte, incrociò le braccia sul petto e, dopo averlo osservato attentamente, domandò: “Quanti anni hai?”
“Ne ho compiuti trenta un mese fa”
“Va bene. Torna domani  e ti darò un dono degno di me”.
Il mendicante si chinò davanti al capitano e gli volle baciare la mano, ma fu respinto: “Ricordati che le adulazioni non mi piacciono”.

Il misero se ne andò confuso. Il giorno dopo, di buon mattino, si presentò alla tenda del console. Mario, appena lo scorse, gli disse: “L’ora è assai propizia per il dono che ti faccio”, e gli mostrò un aratro dalla lama lucidissima e ricurva, che scintillava al sole. “Adoperalo dal biancheggiare dell’alba fino al rosso del crepuscolo, e ti assicuro che non sarai più povero”. (G. Visentini)

Storia di Roma I GRACCHI – Le province

I Paesi conquistati fuori dell’Italia peninsulare ebbero il nome di province. La prima fu la Sicilia.
A capo di ogni provincia vi era un governatore romano, proconsole e propretore, cioè console o pretore uscito di carica, che governava per un anno. Costoro, pur rispettando le usanze, i costumi, la religione degli indigeni, esigevano il pagamento dei tribuni imposti ad ogni provincia, comandavano le forze armate, facevano le leve e le requisizioni, giudicavano le cause civili e penali e sorvegliavano l’amministrazione regionale e locale. Naturalmente, per disimpegnare tutte queste funzioni, erano assistiti da un numeroso stuolo di funzionari.
Il governo romano fu in generale benefico: nei paesi quasi barbari dell’Europa occidentale (Gallia e Spagna) portò la sua civiltà; nelle province del Mediterraneo orientale pose fine alle lotte che rovinavano quei popoli.

Storia di Roma I GRACCHI – Le colonie

Nelle terre di recente conquista i Romani fondavano colonie. Era scelto un luogo che fosse ben difeso per natura: alla confluenza di fiumi o su alture che dominassero vaste regioni. I coloni erano quasi tutti soldati romani che si trasferivano con le loro famiglie nel luogo prescelto. Ognuno di essi aveva in proprietà un pezzo di terra. I coloni continuavano ad essere soldati, cittadini di Roma. Potevano andare a Roma ad esercitare i loro diritti; accorrevano alla chiamata nell’esercito di Roma.
Erano dunque ben diverse queste colonie da quelle fenicie e greche, che erano indipendenti dalla Madre Patria. I diritti di cittadinanza romana, di cui godevano i coloni, erano incitamento ai vicini per meditare anch’essi quei diritti con la fedeltà e la devozione a Roma.

Storia di Roma I GRACCHI – Come i Romani fondavano una colonia

La fondazione delle colonie romane si facevano tracciando due strade principali in croce, da nord a sud l’una e da est a ovest l’altra.
Parallelamente a queste si tracciavano le altre strade. Molte nostre città conservano in modo evidente ancor oggi questa impostazione, che risale alla fondazione di una colonia romana. Torino con la sua pianta quasi geometrica si può considerare come un modello di colonia romana, con le sue ampie strade, rettilinee, che si incrociano tutte ad angolo retto. Del resto nella fondazione di una colonia i Romani rispettavano le stesse norme che essi usavano nel porre un accampamento, e molto spesso l’accampamento, e molto spesso l’accampamento a carattere permanente si trasformava col tempo in un vero e proprio villaggio, poi in città.

Storia di Roma I GRACCHI – dettati ortografici e letture. Tutte le opere  contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.

Storia di Roma LE GUERRE PUNICHE – dettati ortografici e letture

Storia di Roma LE GUERRE PUNICHE – dettati ortografici e letture. Una raccolta di letture e dettati ortografici  di autori vari, per la classe quinta della scuola primaria.

La prima guerra punica: l’occasione del conflitto

L’0ccasione del conflitto coi Cartaginesi di presentò dieci anni dopo la partenza di Pirro dall’Italia. Bande di mercenari campani, detti Mamertini (ossia “uomini Mamers”, da Marte, dio della guerra), assoldate da Agatocle, tiranno di Siracusa, dopo la morte di questo si erano impossessate a tradimento di Messina, trucidandone gli abitanti, e di lì minacciavano varie località dell’isola. Un ufficiale siracusano, Gerone, che li sconfisse, fu acclamato re di Siracusa.
Ripresa la guerra, egli ambiva a occupare Messina, e a tale scopo si era alleato coi Cartaginesi, che lo prevennero, introducendo un loro presidio nella rocca. I Mamertini, stretti tra due fuochi, chiesero allora la protezione di Roma, signora della vicina Reggio.
Il Senato esitò a lungo: sentiva di offuscare il buon nome e la fede tradizionali, aiutando dei mercenari crudeli e invadendo un territorio che Cartagine considerava propria zona di influenza. Ma il popolo romano sentiva che se lo stretto di Messina fosse casuto nelle mani dei Cartaginesi, la sicurezza della penisola era minacciata. La Sicilia sarebbe diventata, come scrisse lo storico Polibio, il ponte di passaggio per i Cartaginesi in Italia. Cartagine era ormai incontrastata padrona del Mediterraneo occidentale e, col possesso delle tre maggiori isole e l’alleanza coi Galli della Provenza e coi Liguri, avviluppava tutto il Tirreno.
Perciò il console Appio Claudio, autorizzato da un decreto del popolo, assai probabilmente contro il parere dei Senatori, nell’estate del 264 aC varcò lo stretto e Messina fu occupata. Dopo i primi successi romani, Gerone si staccò dall’alleanza cartaginese, schierandosi a fianco di Roma, sotto la cui protezione si posero molte città siciliane.
Così il conflitto, inizialmente limitato a Messina, si estese a tutta l’isola.

Storia di Roma LE GUERRE PUNICHE – La prima flotta romana

Si presentava a Roma questo imperativo: diventare una grande potenza anche sul mare. Era uno sforzo non facile, per una città essenzialmente continentale, che non aveva mai tentato avventure marinare e aveva rifuggito fino allora dei commerci oltremarini.
Ma la fortuna di Roma e il segreto della sua grandezza erano nella sua indomita volontà, nella sua fermezza di propositi, nella sua eroica disciplina.
La leggenda ha inventato favole strane: essa dice che le navi furono fatte a Ostia e ad Anzio, e che i marinai si allenavano al remo sulla spiaggia; in due mesi si sarebbero avute così centoquarantaquattro triremi.
I Romani erano invece navigatori prima delle guerre puniche, come mostra il trattato del 509 o del 384 aC con Cartagine… i Romani poi non avevano bisogno di ciò avendo conquistato l’Italia meridionale con città come Taranto: essi avevano modo di prendere, con la forza o con il denaro, da questi paesi, navi con tutto l’equipaggio. Quindi la flotta del 260 aC fu forse costruita ad Ostia ed Anzio per ordine del Senato, ma fu anche costruita con l’ausilio delle città costiere dell’Italia meridionale e dell’Etruria.
La formazione della flotta del 260 aC segna l’inizio delle lotte terribili per il predominio del Mediterraneo. Essa era formata di centoventi quinqueremi e tatticamente seguiva l’antica formazione a triremi. (A. Silva)

La prima guerra punica

Dopo la guerra combattuta contro Pirro, terminata con la conquista di Taranto e della circostante regione salentina, Roma divenne la più potente città d’Italia; essa dominava ormai tutta la Penisola e i suoi eserciti erano invincibili.
Sulle coste settentrionali dell’Africa, ove oggi sorge Tunisi, proprio di fronte alla Sicilia, vi era Cartagine, ricca e potente città, padrona di tutti i traffici marittimi del Mediterraneo. I Cartaginesi possedevano una potente flotta e avevano fondato delle colonie in Sardegna e in Sicilia. Roma ormai grande e potente, spingeva le sue navi sullo stesso mare.
I Cartaginesi, che vedevano mal volentieri il continuo crescere della potenza romana, cercavano di ostacolarla in tutti i modi. La guerra tra le due potenti rivali scoppiò quando Roma tentò di conquistare la Sicilia.
I Romani, fino allora, avevano combattuto soltanto per terra. Ora incontravano un nemico che aveva la sua forza sul mare, e sul mare bisognava batterlo. In due mesi costruirono una flotta si centoventi navi e al affidarono al comando del console Caio Duilio. Il console conosceva la superiorità dei nemici e trovò il modo di trasformare il combattimento da navale a terrestre. Armò gli scafi con una specie di ponte lavatoio munito di ganci, detti corvi, e li mandò ad assalire la flotta nemica che avanzava, sicura di sè, quasi senza schierarsi. Le navi romane affiancarono le cartaginesi; i corvi agganciarono i bordi e i fanti balzarono sul ponte nemico sorprendendo  e sgominando gli avversari. Lo scontro avvenne nelle acque di Milazzo e fu la prima vittoria navale dei Romani.
Roma, imbaldanzita dal successo, decise di portare la guerra sul territorio nemico. Una poderosa flotta di navi sbarcò i soldati romani davanti a Cartagine. Presto, però, essi furono indeboliti dal caldo, dalla sete e dagli scarsi rifornimenti. I nemici li assalirono con vigore disperato, li sconfissero e presero prigioniero lo stesso comandante romano, il console Attilio Regolo.
Pur avendo riportato una vittoria importante, i Cartaginesi temevano la rivincita di Roma ed erano stanchi della guerra: preferivano i loro ricchi commerci al rischio delle armi. Decisero, perciò, di lasciar libero sulla parola Attilio Regolo. Egli doveva recarsi a Roma e ottenere buone condizioni di pace; in caso di fallimento della missione, sarebbe ritornato in Africa, prigioniero.
Il console venne a Roma e, in Senato sconsigliò i concittadini a trattare con il nemico: Cartagine non avrebbe potuto resistere a lungo a nuove battaglie. Poi ritornò volontariamente nelle mani dei Cartaginesi, i quali lo fecero morire rotolandolo in una botte irta di chiodi.
La guerra riprese per terra e per mare e terminò nel 241 aC, con la vittoria dei Romani. Essi tolsero a Cartagine i possedimenti in Sicilia, e in seguito quelli della Sardegna e della Corsica. La campagna vittoriosa si disse “prima guerra punica”; i Romani, infatti, chiamavano Puni (Fenici) gli abitanti di Cartagine.

Caio Duilio

A questo complesso di navi da battagli Roma diede un comandante degno della gravità del compito che lo attendeva: il console Caio Duilio.
Lo scontro avvenne nella primavera del 260, nelle acque di Milazzo: Duilio riportò la prima grande vittoria navale dei Romani, sgominando la ben più numerosa armata cartaginese, e catturando ben cinquanta vascelli nemici, tredici affondandoli, e facendo inoltre settemila prigionieri.
Si dice che una gran parte del merito della vittoria fosse dovuto a un geniale arnese applicato dai Romani al bordo delle loro navi: il corvo o raffio, una specie di enorme uncino che veniva gettato sulla nave avversaria, obbligandola ad accostarsi, e provocando così un combattimento quasi terrestre. Naturalmente però la vittoria fu specialmente merito della genialità di Duilio e del valore dei soldati romani.
L’eco della sconfitta subita a Milazzo da Cartagine fu tale, che la sua potenza cominciò da allora a declinare. Pareva impossibile al mondo che Roma avesse potuto sconfiggere la potentissima armata dei Punici. Eppure questo trionfo segnava l’inizio della politica di espansione dell’Urbe oltre i confini territoriali della Penisola; e a Caio Duilio, che ad esso aveva legato il suo nome, il Senato e la cittadinanza romana tributarono onori trionfali.
A ricordo di quella vittoria fu elevato nel Foro una colonna rostrato, che esiste in parte ancor oggi.

Storia di Roma LE GUERRE PUNICHE – Vita di Cartagine

Cartagine era stata fondata sessantun’anni prima di Roma dai Fenici e fu per molti secoli il centro dei commerci che si svolgevano nel Mediterraneo. I ricchi abitavano case a sei piani (veri grattacieli, per quell’epoca!) e avevano fatto costruire templi con colonne rivestite d’oro e d’argento, ornati di statue d’oro massiccio.
I Cartaginesi, come altri popoli di origine orientale, adoravano le divinità offrendo loro quanto di più caro avevano, persino vittime umane.
Nel porto militare di Cartagine potevano mettere l’ancora anche duecento navi. Al centro, era stata allestita un’isola artificiale, dalla quale gli ammiragli passavano in rassegna la flotta.
A Cartagine non c’era democrazia: il potere era nelle mani dei mercanti più ricchi. La città traeva grandi guadagni anche dalle industrie e dall’agricoltura.

Potenza di Cartagine

Cartagine, una colonia fenicia, sorgeva sulla costa settentrionale dell’Africa, presso l’odierna Tunisi, in una felice posizione geografica, a poca distanza dalla Sicilia, con un ottimo porto naturale.
Essa era riuscita a strappare ai Greci della Sicilia e della Magna Grecia e agli Etruschi il primato commerciale sul Mediterraneo occidentale, fondando colonie sulle coste dell’Africa settentrionale, nella Spagna meridionale, in Corsica, in Sardegna e nella Sicilia occidentale.
I Cartaginesi verso il 280 aC erano padroni di quasi tutta la Sicilia, tranne del territorio intorno a Messina e della costa orientale soggetta a Siracusa.

Le navi da guerra prima delle guerre puniche

Le navi da guerra di quell’epoca erano mosse a vela e a remi; erano munite a prua di speroni ferrati, i rostri, mediante i quali potevano speronare e affondare le navi nemiche.
Una battaglia navale richiedeva coraggio e intelligenza, e marinai svelti ai remi, alle vele, al timone. Le navi si rincorrevano sul mare azzurro e cercavano di raggiungersi. Quando due navi erano vicine, la più agile di esse puntava la prua armata di rostro contro l’altra, la squarciava e la affondava.

Caio Duilio

Roma era ormai una grande potenza terrestre; i suoi soldati avevano dimostrato di saper combattere con ineguagliabile valore e di saper vincere. Ma cosa sarebbe successo in uno scontro navale?
I Cartaginesi erano provetti marinai e da secoli avevano una flotta militare ben fornita; i Romani erano ancora ai primi passi. Ma l’ingegno di Caio Duilio supplì a tale inferiorità di Roma. Egli era console quando scoppiò la guerra tra Roma e Cartagine. Ordinò allora che venissero costruiti i corvi, speciali ponti per ogni nave romana; sull’altro lato erano infissi degli enormi uncini. Questi ponti, detti corvi, avrebbero agganciato la nave nemica, costringendo l’equipaggio a una lotta corpo a corpo. Con tale accorgimento, Caio Duilio affrontò le navi di Cartagine nelle acque di Milazzo, in Sicilia, e ottenne la piena vittoria.

Storia di Roma LE GUERRE PUNICHE – Attilio Regolo

Dopo la vittoria di Milazzo, i Romani sbarcarono sulla costa africana. L’esercito romano era comandato da Attilio Regolo, il quale, sconfitto, cadde prigioniero dei Cartaginesi.
Condotto nella città nemica, gli venne dato l’incarico di ritornare a Roma, come ambasciatore. Egli doveva persuadere i Romani a fare la pace. Se fosse riuscito a convincere i senatori alla pace, sarebbe stato salvo. Se no, doveva tornare a Cartagine, dove l’avrebbe atteso una straziante morte.
Attilio Regolo accettò l’incarico e diede la sua parola d’onore di tornare a Cartagine nel caso di insuccesso.
Giunto a Roma, invece di consigliare i Senatori a far pace con Cartagine, egli disse di continuare la guerra. “Il momento è propizio”, disse Attilio Regolo, “i Cartaginesi hanno perduto gran parte della loro flotta e si sentono deboli. Bisogna dunque insistere, per avere la vittoria”.
Quando fu sicuro di avere convinto tutti i Senatori, si dispose al ritorno a Cartagine, dove l’attendeva sicura morte.
Tutti lo sconsigliavano di partire. I familiari lo trattenevano, piangendo. Ma egli diceva: “Un Romano ha una parola sola. Io ho dato la mia. Ho promesso di ritornare e devo mantenere la promessa fatta al nemico anche se mi costerà la vita”.
E partì. Tra l’ammirazione e il dolore di tutta Roma.
I Cartaginesi non seppero apprezzare la grandezza d’animo di questo grande Romano. Erano un popolo ricco ma crudele, che non capiva i gesti generosi degli eroi.
Attilio Regolo fu chiuso in una botte, irta di chiodi sporgenti nell’interno. La botte venne fatta rotolare lungo i fianchi di un monte.
La morte di Attilio Regolo fu dolorosa, ma servì da esempio, per dimostrare che i Romani erano uomini d’onore.

Come si concluse la prima guerra punica

La prima guerra punica si concluse con la vittoria di Roma: i Cartaginesi perdettero la Sicilia, che divenne così la prima grande provincia romana. A Roma, nel Foro, venne eretta la colonna rostrata, decorata cioè con i rostri delle navi catturate al nemico.

Le navi romane

A contatto con i Cartaginesi, di cui furono acerrimi rivali, i Romani si fecero esperti marinai e potenziarono la loro flotta. Le navi romane erano costruite con lunghe tavole di pino e di abete, unite con chiodi di legno e coperte all’esterno di lana intrisa nel catrame, su cui era stesa una lastra di piombo.
Le navi da guerra erano lunghe e sottili, spinte da due, tre, e perfino cinque file di remi: si dicevano perciò biremi, triremi e quinqueremi. Invece le navi da trasporto, cariche di olio, vino, cereali, bestiame, erano larghe, possenti, più lente.
Possedevano un’ampia vela quadrata e tenevano legata a rimorchio quasi sempre una scialuppa di salvataggio, chiamata scafo. Un marinaio di vedetta stava attento a che non si riempisse di acqua e affondasse. Navigavano solo di giorno e poco d’inverno. Durissima era la disciplina imposta ai marinai.

Storia di Roma LE GUERRE PUNICHE – La seconda guerra punica

I Cartaginesi erano ancora molto forti. Essi volevano tornare ad essere padroni del mare, e dopo qualche anno Roma e Cartagine erano di nuovo in guerra fra loro.
I Cartaginesi misero a capo del loro esercito un grande generale, che si chiamava Annibale. I Romani sorvegliavano il mare tra Cartagine e la Sicilia perchè pensavano che i Cartaginesi sarebbero passati di lì per muovere contro Roma. Invece Annibale ancò in Spagna e poi, attraverso la Francia, arrivò ai piedi delle Alpi per cogliere di sorpresa i Romani.
Attraverso le Alpi non c’erano strade. Le montagne erano coperte di boschi, di neve o di ghiaccio. Sulle montagne abitavano popolazioni selvagge, che tendevano imboscate a tutti coloro che capitavano nelle loro terre. Per valicare le Alpi, Annibale dovette aprirsi una nuova strada e, al tempo stesso, combattere  i montanari nemici. Ma riuscì ugualmente ad attraversare le montagne con tutto il suo esercito, con i carri, i cavalli e persino con alcuni elefanti, che erano un po’ i carri armati di quel tempo.

Perchè scoppiò la seconda guerra punica

Cartagine, benchè sconfitta, non si dette mai per vinta e cercava un pretesto per poter riprendere la guerra contro Roma. Troppo forte era il desiderio di rivincita, di tornare padrona assoluta del Mediterraneo e di rioccupare le tre grandi isole della Sicilia, della Sardegna e della Corsica.
L’occasione venne dopo alcuni anni di pace, quando i Romani accorsero in difesa di Sagunto, una città della Spagna assalita dai Cartaginesi. Questi, nonostante l’intervento, non tolsero l’assedio ed ebbe così inizio la seconda guerra punica.

Vittorie di Annibale

Mentre i Romani sorvegliavano il mare, l’esercito di Annibale apparve all’improvviso, come per miracolo, nella pianura padana. L’esercito romano si mosse rapidamente per affrontare il nemico, ma i soldati di Roma arrivarono stanchi e spaventati e combatterono debolmente contro l’esercito di Annibale.
I Cartaginesi vinsero una prima volta presso il fiume Ticino. Allora i Romani si ritirarono un poco più a sud. Sulle rive del fiume Trebbia ci fu un’altra battaglia; i Cartaginesi vinsero anche questa. Allora i Romani si ritirarono ancora fin quasi alle soglie di Roma.
Questa volta erano decisi a vincere e, quando seppero che Annibale si trovava presso il lago Trasimeno, si misero in marcia anch’essi verso il lago. Ma Annibale, sentendo avvicinarsi i Romani, finse di ritirarsi, nascondendosi invece con il suo esercito sulle colline che dominavano il lago, favorito anche da una fitta nebbia.
L’esercito romano che lo inseguiva fu assalito all’improvviso mentre avanzava lungo le rive del lago, così anche nella battaglia del lago Trasimeno i Romani furono battuti.
Annibale pensava che alla fine i Romani si sarebbero arresi, ma questi perdevano le battaglie e non si arrendevano. A Canne, in Puglia, i Romani furono sconfitti ancora una volta. Annibale finse di ritirarsi e fu inseguito dai Romani che rimasero così circondati. Morirono tanti Romani che Annibale, dopo la battaglia, fece raccogliere tre cesti di quegli anelli d’oro che i patrizi portavano al dito.

Consuetudini di Annibale

Pur essendo generale Annibale conduceva una vita durissima. Nel dormire e nel vegliare non faceva nessuna differenza tra la notte e il giorno; dava al riposo soltanto il tempo che gli rimaneva dopo aver compiuto il suo lavoro, e non cercava, per dormire, ne la morbidezza del letto ne il silenzio. Più volte fu visto giacere a terra fra le guardie e i cocchi dei soldati, coperto di un semplice mantello.

Ritratto di Annibale

Audacissimo nelle imprese rischiose, ma prudentissimo nei pericoli, Annibale non poteva essere stancato da nessuna impresa e da nessuna fatica. Poteva indifferentemente sopportare il caldo e il freddo. Moderato nel bere, non mangiava oltre la necessità; non aveva limiti nella veglia e al sonno concedeva solo il tempo minimo necessario. Non si distingueva dagli altri soldati per le vesti, ma per le armi e per i cavalli; primo fra tutti i fanti e i cavalieri nell’avviarsi alla battaglia, ultimo nell’allontanarsi. Ma a tale somma di virtù corrispondevano altrettanto difetti: crudele fino ad essere disumano, perfido, menzognero e spergiuro, non aveva timore degli dei ne rispetto per gli uomini. (da Livio)

Storia di Roma LE GUERRE PUNICHE – Annibale

Questa volta Cartagine ebbe la fortuna di contare su un abilissimo e coraggioso generale: Annibale.
Pochi comandanti lasciarono nella storia antica una fama pari a quella lasciata dal grande Cartaginese. Egli era veramente un uomo straordinario, che dedicò la sua vita per la grandezza della patria.
Da giovane, in compagnia del padre, aveva combattuto in Spagna contro i Romani. Il padre, prima di morire, aveva fatto giurare eterno odio a Roma. Era molto coraggioso, forte, ardito e sprezzante di ogni pericolo; dormiva poco e lavorava moltissimo.
Passava giornate intere con i suoi soldati tra stenti e fatiche, sempre pronto ad impegnare battaglia con il nemico. Faceva lunghe ed estenuanti marce, spesso sopportando la fame e la sete. Vestiva assai modestamente. In guerra era sempre il primo ad avanzare contro il nemico e l’ultimo ad abbandonare il campo di battaglia.

Storia di Roma LE GUERRE PUNICHE Il piano di Annibale

Annibale attuò un piano molto audace: dalla Spagna, attraverso le Alpi, giunse in Italia e piombò di sorpresa addosso ai Romani. Cinque mesi durò il viaggio di Annibale dalla Spagna in Italia, e quindici giorni furono necessari per passare le Alpi. Con un esercito numeroso il generale cartaginese superò difficoltà di ogni genere, camminando per dirupi scoscesi, in mezzo alla neve e al ghiaccio, combattendo una guerriglia insidiosa contro i montanari. Molti soldati morirono per la strada. Le bestie, elefanti e cavalli, erano sfinite per la fame, perchè lassù mancavano i pascoli. La discesa fu più difficile della salita, ma alla fine l’esercito cartaginese raggiunse la Pianura Padana.

Storia di Roma LE GUERRE PUNICHE Furbizia di Annibale

Annibale, il grande nemico dei Romani, non solo sapeva combattere bene, ma conosceva mille furbizie e spesso le usava durante la guerra.
Una volta doveva combattere per mare contro un re che era alleato dei Romani. Questo re era molto più forte di lui, bisognava vincerlo con l’inganno, con l’astuzia. Annibale, allora, chiamò a raccolta i marinai e disse loro: “Amici, raccogliete dei serpenti velenosi vivi, quanti più ne potete trovare, e chiudeteli in vasi di coccio. Poi, quando si attaccherà battaglia, venite dietro a me, e assaliremo tutti insieme la nave del re”.
“E che faremo dei vasi di coccio?”
“Li getteremo sulle navi nemiche quando ci verranno addosso!”
“Bene, comandante. Ma come sapremo qual è la nave del re?”
“Ci penso io!”
Infatti, poco prima della battaglia, quando le due flotte erano schierate l’una di fronte all’altra, Annibale mandò un araldo, in una barchetta, in mezzo alla flotta avversaria.
“Ehi, tu, che cerchi?”, gli domandarono.
“Cerco il re: devo consegnargli questa lettera da parte di Annibale”.
Lo guidarono alla nave ammiraglia e i marinai di Annibale, che stavano a vedere, capirono così quale era e dove si trovava. Il re aprì la lettera: credeva che vi fossero delle proposte di pace, invece non trovò che delle parole di beffa!
Allora ordinò che si cominciasse a combattere. Subito le navi di Annibale assalirono quella del re da ogni parte e la costrinsero a fuggire, poi i marinai presero a gettare i vasi di coccio sulle altre navi nemiche. E i serpenti velenosi si sparsero sulle tolde avversarie portando lo spavento e la morte.
Così Annibale, con pochi uomini e molta furberia, sconfisse una potente flotta.

Storia di Roma LE GUERRE PUNICHE Gli elefanti di Annibale

Gli elefanti di Annibale, quando egli mosse dalla Spagna per venire ad invadere l’Italia, arrivati sulle rive del fiume Rodano non volevano più marciare. “Arrilì! Arrilà!” urlavano i conducenti, incitandoli e punzecchiandoli, “Va lì! Va lì! Ih! Oh! Su!” … ma era lo stesso che parlare al muro. Quegli enormi bestioni si erano impuntati, e non c’era verso di smuoverli.
E tutto l’esercito stava fermo; e Annibale, per cui ogni giorno voleva dire qualcosa, andava su e giù con il frustino, ed era assai inquieto e contrariato.
“Arrilì! Arrilà! Arrisù! Arrigiù! Che i tristi Numi vi fulmino, maledette bestiacce! Ih! Ih! Ih! Là!”
Si provarono anche a spingerli… sì! Ma era meglio dover spingere una montagna! Gli elefanti non si spostavano di un passo; cominciarono anzi a recalcitrare, alzando minacciosamente le proboscidi e guardando male con quegli occhietti furbi e feroci, pestando nervosamente la terra coi piedi.
E’ inutile! Ormai, e chi sa perchè, si erano spaventati dell’acqua e si erano intestarditi di non passare, e non passavano. Forse il giorno dopo…
Ma Annibale non voleva aspettare fino al giorno dopo!
Egli chiama un fantaccino e gli chiede: “Sei tu che sai nuotare come un pesce?”
“Lo dicono i miei compagni, capitano”
“Allora vieni qui! Piglia un bastone!”
Il fantaccino raccatta un bastone.
“Vieni con me!” gli dice Annibale. Lo conduce presso un elefante, il primo della fila, sulle rive del fiume: “Stai attento!” gli dice Annibale “Quando io ti darò il segno, appena ogni conducente sarà a posto, vicino alla sua bestia, tu da’ una bastonata nel ceppo dell’orecchia a questo elefante”
“Ma io… capitano…”
“Non sai dare una bastonata?”
“Le bastonate le so dare, me è questione…”
“Di che hai paura?”
“Gli è che l’elefante, se io gli dò una bastonata, mi afferra con la proboscide e mi scaraventa contro un albero, oppure mi mette sotto i piedi!”
“E tu” lo guarda maliziosamente Annibale, “non sai nuotare?”
“Sì”
“Buttati allora subito a nuoto, e nuota!”
“E se l’elefante…”
“Via!” comandò Annibale. Quando Annibale comandava non c’era da far altro che obbedire.
“Voi!” comandò poi anche agli altri conducenti, “State pronti a mandar avanti gli elefanti!” e al fantaccino: “A te! Via!”
Il povero disgraziato si avvicina alla prima bestia della fila, col bastone dietro la schiena, fingendo di non capire. Sta lì un poco, tanto che l’elefante si svii da ogni sospetto. Intanto guarda l’acqua del fiume, per misurare ad occhio la distanza e per contare i balzi che gli ci vogliono per tuffarsi. Con un occhio guarda il Rodano, e con quell’altro l’elefante. A un tratto, quando questo meno se lo aspetta, alza il bastone e gli dà una gran bastonata nell’orecchia, così forte, che l’orecchia dell’animale rimbomba con  uno schiocco e uno scoppio.
Numi del firmamento! L’elefante dà un barrito tremendo; drizza la proboscide; il fantaccino si è gettato in acqua; l’elefante, che non perdona, si butta in acqua anche lui.
“Arrilì! Arrilà!” urlano i conducenti agli altri elefanti. Questi, vedendo il primo che si è buttato, gli vanno dietro come pecore…
Così, in men che non si dica, furono tutti sull’altra riva.
“Avanti!” potè allora trionfalmente ordinare Annibale, rimontando  a cavallo. E l’esercito proseguì, marciando verso le Alpi e contro l’Italia. (R. Maurizi)

Storia di Roma LE GUERRE PUNICHE  L’ardimento di Scipione giovinetto

Annibale, attraversate le Alpi, marciava su Roma; il pericolo era grave ed imminente. L’esercito romano era comandato da un valoroso console che aveva con sè il figlio diciassettenne, il quale aveva voluto seguire per la prima volta il padre in guerra. La battaglia si accese lungo le sponde del fiume Ticino. Dopo accanito combattimento la cavalleria cartaginese riuscì a travolgere le schiere romane.
Il console stesso, ormai circondato, stava per cadere nelle mani del nemico, quando una voce echeggiò sul campo. Era il figlio del console che d’un balzo si era avvicinato al padre ormai in pericolo e, facendogli scudo col proprio corpo, riusciva  a portarlo in salvo.
Mirabile esempio di ardimento e di amor filiale. Quel giovinetto era Scipione, il futuro vincitore di Annibale.

Storia di Roma LE GUERRE PUNICHE – La battaglia del Trasimeno

Annibale si accampò nella pianura, tra il lago Trasimeno e i monti di Cortona, e collocò il grosso del suo esercito sulle pendici dei monti, nascondendo la cavalleria ai piedi di certe alture vicine, per tenerla pronta a sbarrare il passo ai Romani. Infatti i Romani, appena furono entrati in campo, si sentirono improvvisamente attaccare da tutte le parti prima ancora che potessero trar fuori le spade.
Il console Flaminio tentò di riordinare i soldati sbigottiti, ma una fitta nebbia levatasi dal lago impediva la visuale, tanto che era impossibile riconoscere le bandiere, mentre il rumore ed il tumulto impedivano di udire gli ordini trasmessi. Ogni soldato si trovava così a combattere secondo il proprio ardore e talento.
La zuffa durò per ben tre ore, aspra ovunque ma soprattutto intorno al console, il quale fu passato da parte a parte dalla lancia di un cavaliere che Annibale aveva arruolato in Gallia.
Nella battaglia morirono 15.000 Romani; 10.000 furono i dispersi. Dei nemici 1.500 rimasero morti sul campo. (da Livio)

Storia di Roma LE GUERRE PUNICHE Annibale ha paura

Dopo le vittoriose battaglie al Ticino, alla Trebbia e al Trasimeno, parve che Annibale volesse marciare su Roma; invece deviò verso l’Adriatico e si spinse nell’Italia meridionale. Roma era una città fortificata, cinta da colonie romane e latine fedeli: bisognava prenderla d’assalto e non con l’assedio: ma Annibale non aveva le macchine necessarie e temeva sorprese alle spalle.

Storia di Roma LE GUERRE PUNICHE Il “Temporeggiatore”

Quinto Fabio Massimo fu detto il “Temporeggiatore” perchè la sua tattica era quella di stancare ed indebolire il nemico rimandando il più possibile la battaglia finale.
I soldati romani correvano verso le campagne, sorprendevano alla spicciolata le pattuglie nemiche, molestando i carriaggi e i trasporti ma si ritiravano appena appariva il grosso dell’esercito; essi non dovevano in nessun caso accettare battaglia in campo aperto, perchè i nemici erano più forti e numerosi.
Il piano di Fabio Massimo era semplice: bisognava logorare le forze dei Cartaginesi, finchè essi, sfiniti, non avessero ceduto.
Questo modo di fare la guerra, però, non soddisfò i Romani; essi erano ansiosi di combattere in campo aperto col nemico e perciò il dittatore venne presto destituito.

Storia di Roma LE GUERRE PUNICHE – Fabio Massimo e i buoi di Annibale

Il dittatore Quinto Fabio Massimo era riuscito a rinchiudere in una specie di vicolo cieco, tra il fiume Volturno, il monte Callicula e il passo di Casilino, i Cartaginesi. Egli si riprometteva di sterminarli l’indomani all’alba. Ma Annibale, nella notte, radunati tutti i buoi che seguivano il suo esercito come vettovagliamento, fece legare sulle corna di ognuno un fascio di sarmenti. Poi ordinò di dar fuoco a quei fasci e di spingere gli animali terrorizzati verso il valico. Quello strano fiume ardente ruppe lo sbarramento romano e dilagò nella pianura. Soltanto all’alba i Romani si accorsero che, dietro la mandria, se ne era andato anche l’esercito cartaginese.
Quinto Fabio Massimo perse così una facile occasione per distruggere l’esercito nemico.

Storia di Roma LE GUERRE PUNICHE La battaglia di Canne

Due furono le astuzie che Annibale usò a Canne. La prima fu nella scelta della posizione, per cui schierò i soldati con le spalle al vento il quale gettava la polvere negli occhi dei Romani; la seconda fu nel modo di schierare i suoi uomini. Mise alle due ali i più forti e valorosi, i più deboli nel centro, disponendoli a cuneo in modo che essi precedessero i più validi. Al quali ordinò che non appena i Romani avessero messo in fuga il centro penetrando così nel vuoto lasciato i dai fuggiaschi, essi li assalissero di fianco, li aggirassero, chiudendoli in una sacca. E così vinse.

Storia di Roma LE GUERRE PUNICHE – La battaglia di Canne

Mentre a Roma si facevano i preparativi per la prossima campagna, era già incominciata la guerra nell’Apulia. Appena la stagione permise di abbandonare i quartieri d’inverno, Annibale si mosse, e prendendo, com’era sua abitudine, egli stesso l’iniziativa della guerra e l’offensiva, partì da Geronio, dirigendosi verso sud; lasciando da un lato Lucera, passò l’Ofanto e pree il castello di Canne (tra Canosa e Barletta) che dominava il piano canosino, e che fino allora aveva servito da magazzino principale dei Romani. L’esercito romano, il quale, dopo che Fabio ebbe deposta a metà d’autunno, a norma della costituzione, la carica di dittatore, era stato posto sotto il comando di Gneo Servilio e di Marco Regolo, prima come consoli, poi come proconsoli, non aveva saputo impedire quella piccola perdita.
Sia per riguardi militari sia per riguardi politici diveniva sempre più urgente la necessità di mettere un freno ai progressi di Annibale, per mezzo di una battaglia campale. Con questo preciso incarico del Senato giunsero all’Apulia i due nuovi generali Paolo e Varrone sul principio dell’estate 538 di Roma (corrispondente al 216 aC). Con le quattro nuove legioni e col corrispondente contingente degli Italici che essi portatono con sè, l’esercito romano ammontava a 80.000 fanti, metà cittadini e metà federati, ed a 6.000 cavalieri, un terzo cittadini e due terzi federati. L’esercito di Annibale invece vantava 10.000 cavalieri, ma soltanto 40.000 fanti.
Annibale desiderava ardentemente una battaglia non solo per i motivi generali già accennati, ma anche perchè la grande pianura dell’Apulia gli permetteva di utilizzare tutta la superiorità della sua cavalleria e perchè il mantenimento del suo grande esercito, stabilito vicino ad un eservito di piazzeforti, ben presto, nonostante la superiorità della cavalleria, gli sarebbe riuscito difficile.
Anche i capi dell’esercito romano erano, come dicemmo, in generale decisi di azzuffarsi e perciò si avvicinavano al nemico; ma i più avveduti, conoscendo la posizione di Annibale, volevano che si aspettasse e si prendesso soltanto posizione vicino al nemico per obbligarlo a ritirarsi o ad accettare battaglia su un terreno meno favorevole.
Annibale accampava presso Canne, sulla riva destra dell’Aufidus. Paolo mise il suo campo sulle due rive del fiume, in modo che la forza principale fosse sulla riva sinisra, ma un forte corpo prendeva pure posizione immediata sulla riva destra immediatamente di fronte al nemico, per impedirgli il vettovagliamento, e forse anche per minacciare Canne. Annibale, al quale premeva di venire presto a battaglia, attraversò il fiume col grosso delle sue truppe, e offrì battaglia sulla riva sinistra, ma Paolo non accettò.
Ma al console democratico spiacque questa pedanteria militare; si era detto tanto di voler entrare in campagna non per starvi a far da sentinella, ma per adoperarvi le spade! Egli comandò di marciare sul nemico dovunque lo si trovasse. Per l’antico costume, stoltamente conservato, il voto preponderante nel consiglio di guerra si avvicendava ogni giorno tra i due supremi comandanti: fu quindi necessario adattarsi alla volontà dell’eroe della piazza.
Sulla riva sinistra, dove l’ampio campo offriva buon gioco alla preponderante cavalleria del nemico, neppure egli voleva battersi; ma decise di riunire tutte le complessive forze romane sulla riva destra, prendendo posizione fra il campo cartaginese e Canne, e offrir battaglia minacciando seriamente la città.
Una divisione di 10.000 uomini rimase nell’accampamento principale romano, con l’ordine di impadronirsi del campo cartaginese durante il combattimento, tagliando così all’esercito nemico la ritirata oltre il fiume. Il grosso dell’esercito romano, coll’albeggiare del 2 agosto secondo il calendario nonriformato, forse nel mese di giugno secondo il calendario riformato, passò il fiume, scarso d’acqua in quella stagione, e che non impediva molto i movimenti delle truppe e si ordinò in linea all’occidente di Canne, vicino al campo minore romano, cui si appoggiavano tanto l’ala destra dei Romani, quanto l’ala sinistra dei Cartaginesi. La cavalleria romana stava ai lati, quella della milizia cittadina, meno valida e comandata da Paolo, a destra del fiume; quella dei confederati, più valida, a sinistra verso la pianura era guidata da Verrone. La fanteria in linee molto profonde comandate dal proconsole Gneo Servilio componeva il centro.
Annibale dispose la sua fanteria in semicerchio di fronte a quella dei Romani e in modo che le truppe celtiche ed iberiche, con la loro armatura nazionale, formassero il centro avanzato; le libiche, armate alla romana, le due ali ripiegate. Verso il fiume si spiegò tutta la cavalleria pesante sotto gli ordini di Asdrubale; verso la pianura la cavalleria leggera numidica.
Dopo un lieve combattimento di avamposti fra le truppe leggere, tutta la linea si trovò impegnata nel combattimento. Dove combatteva la cavalleria leggera dei Cartaginesi contro la cavalleria pesante di Varrone, le cariche dei cavalieri numidici si succedevano le une alle altre senza riuscire a un risultato decisivo. Nel centro invece le legioni respinsero del tutto le truppe iberiche e le galliche che prima scontrarono, e approfittando del vantaggio ottenuto, le inseguirono animosamente.
Ma intanto la fortuna aveva volto le spalle ai Romani sull’ala destra. Annibale aveva solo voluto tenere occupata l’ala sinistra della cavalleria nemica, perchè Asdrubale potesse spiegarsi con tutta la cavalleria regolare contro la debole ala destra e respingerla per la prima. Dopo una breve resistenza i cavalieri romani piegarono e quelli che non furono tagliati a pezzi, furono cacciati all’insù del fiume e dispersi nella pianura; Paolo, ferito, cavalcò verso il centro dell’esercito volendo cambiare la sorte delle legioni e condividerla con esse. Per trarre maggior profitto dalla vittoria riportata contro l’avanzata fanteria nemica, le legioni avevano cambiata la loro fronte in una colonna d’attacco che penetrava in forma di cuneo nelle file del centro nemico. Da questa posizione esse furono assalite con impeto dai due lati della fanteria libica che, convergente, si avanzava a destra e a sinistra; una parte delle legioni fu costretta a fermarsi per difendersi contro gli attacchi di fianco per cui, non solo le fu impedito di avanzare, ma la massa della fanteria, ordinata in file troppo profonde, non ebbe assolutamente lo spazio per svolgersi.
Intanto Asdrubale, finito il suo compito sull’ala comandata da Paolo, raccolse e riordinò i cavalieri, e passando dietro il centro nemico, li condusse verso l’ala comandata da Verrone. La cavalleria italica messa già abbastanza alle strette dai Numidi, sorpresa da nuove forze si disperse definitivamente. Asdrubale lasciando ai Numidi la cura di inseguire i fuggitivi, riordinò per la terza volta i suoi squadroni coi quali prese alle spalle la fanteria romana.
Questo ultimo colpo fu decisivo. La fuga era impossibile e non si dava quartiere; non c’è dorse altro esempio di un esercito tanto numeroso distrutto interamente sul campo stesso di battaglia e con sì lieve perdita dell’avversario, come fu dell’esercito romano presso Canne.
Le perdite di Annibale non superavano i 6.000 uomini, due terzi dei quali erano Celti che sostennero il primo urto delle legioni. Dei 76.000 Romani, invece, che erano schierati in battaglia, 70.000 morti coprivano il campo, fra i quali il console Lucio Paolo, il proconsole Gneo Servilio, due terzi degli ufficiali superiori, 80 senatori. Il console Marco Verrone soltanto si salvò per la sua repentina risoluzione e per la velocità del suo destriero che lo portò a Venosa ed ebbe l’animo di sopravvivere. Anche i 10.000 uomini di presidio nel campo romano furono per la gran parte fatti prigionieri: solo alcune migliaia fra le truppe di presidio e dell’esercito scamparono in Canusio. E come se in quell’anno ogni cosa dovesse andar perduta per Roma, la legione spedita nella Gallia cadde in un agguato prima ancora del termine dell’anno, e fu interamente distrutta dai Galli insieme col suo comandante Lucio Postumio, che era stato eletto console per l’anno seguente. (T. Mommsen)

Storia di Roma LE GUERRE PUNICHE Dopo la battaglia di Canne

La sera stessa della battaglia di Canne, il comandante dei cavalieri numidi, si era presentato ad Annibale: “Lasciami andare con la sola cavalleria” gli disse, “e fra cinque giorni tu banchetterai in Campidoglio”.
Ma il Cartaginese pensava altrimenti. Il suo esercito era piccolo, nè egli poteva facilmente colmarne i vuoti; non aveva macchine d’assedio, e Roma era cinta da potenti mura. E poi era certo che il solo suo apparire alle porte della città, anzicchè scoraggiare i Romani, li avrebbe eccitati ad agire.

Storia di Roma LE GUERRE PUNICHE – Roma dopo Canne

Giunta in Roma la notizia di così grave sciagura, la città fu presa da tanto dolore che vennero interrotti gli annuali sacrifici di Cerere. I sacrifici non potevano essere celebrati da matrone in lutto e non c’era in tutta Roma una matrona che ne fosse esente! Per evitare che venissero trascurati gli altri sacrifici pubblici e privati, il Senato decretò che il lutto avesse termine dopo trenta giorni.
In tale occasione i Romani dettero prova di straordinaria forza d’animo e  di grande amor patrio.
Furono arruolati i giovani dai 17 anni in su, furono chieste milizie agli alleati, secondo le convenzioni, furono prelevati dai tempi e dai portici gli antichi trofei tolti ai nemici per provvedere armi, dardi e scudi. Poichè mancavano gli uomini liberi, furono arruolati 8.000 schiavi, scelti tra i più valorosi.
La sconfitta era veramente più grave di tutte le precedenti e lo dimostra il fatto che gli alleati cominciarono a disperare della salvezza di Roma e passarono alle file nemiche.
Ne il lutto generale ne le defezioni degli alleati indussero mai i Romani a parlare di pace, ne prima del ritorno in patria del console superstite (Terenzio Varrone) ne dopo il suo ritorno. In tale occasione, anzi, i Romani andarono incontro al console, che pure era stato la causa principale della disfatta, e lo ringraziarono perchè non aveva disperato della Repubblica. (da Tito Livio)

Costanza dei Romani

Nell’ultima fase della lunga guerra contro Cartagine i Romani passarono di disfatta, ma non cedettero mai alla sorte avversa e al valore dei nemici. Le donne romane offrirono oro, argento, gioielli, per sostenere lo sforzo della patria in pericolo.
Ma perchè questa costanza, questa volontà di vincere ad ogni costo? I Romani erano devoti alla patria e non esitavano ad affrontare la morta per difenderla. I soldati cartaginesi erano invece in massima parte mercenari e combattevano per guadagno.

Storia di Roma LE GUERRE PUNICHE – Scipione l’Africano

Annibale vinceva sempre, ma era come chiuso in gabbia in Italia. I Cartaginesi non potevano mandargli rinforzi perchè i Romani sorvegliavano il mare. Dopo ogni battaglia, Annibale aveva un numero minore di soldati, di armi, di cavalli. Intanto i Romani, guidati dal generale Scipione, erano sbarcati in Africa e minacciavano la stessa Cartagine. Annibale fu richiamato in patria, ma a Zana subì la prima sconfitta, che segnò la fine della seconda guerra fra Roma e Cartagine. Questa volta i Romani, dopo aver vinto la guerra, vollero tutte le navi di Cartagine.
I Cartaginesi non potevano più commerciare attraverso il mare. Cartagine era ormai diventata una città senza importanza.

Storia di Roma LE GUERRE PUNICHE Scipione e gli elefanti

Publio Cornelio Scipione, nella battaglia di Zama, in Africa, vedendo i nemici dotati di elefanti, incolonnò i suoi soldati ordinando loro, quando avessero visto gli elefanti precipitarsi su di essi, di spostarsi in modo che gli animali si trovassero a percorrere una specie di corridoio. Così fu fatto: gli elefanti, giunti alle spalle dell’esercito romano, furono circondati e sopraffatti.

Storia di Roma LE GUERRE PUNICHE – La battaglia di Zama

Annibale e Publio Scipione uscirono in campo con i loro eserciti e si prepararono alla battaglia: i Cartaginesi per la propria salvezza, i Romani per il dominio del Mediterraneo.
Scipione dispose le schiere del suo esercito in questo ordine: per primi gli astati e le loro insegne, a intervalli regolari; in seconda fila i principi; per ultimi i triari. Nell’ala sinistra schierò la cavalleria romana, in quella destra la cavalleria dei Numidi; quindi riempì gli intervalli della prima fila con le coorti di veliti, ordinando loro di accendere la zuffa e, qualora avessero dovuto cedere, di ritirarsi lungo la linea retta di intervallo, portandosi alle spalle dell’esercito.
Annibale schierò più di ottanta elefanti in prima fila, quindi i mercenari, circa 15.000, e dietro questi Cartaginesi e altri alleati africani. Assicurò poi le ali con la cavalleria.
Annibale diede ordine ai condottieri degli elefanti di attaccare, ma appena suonarono le trombe e i corni, alcuni elefanti, spaventati, indietreggiarono improvvisamente, creando un’indescrivibile confusione fra le schiere dei Cartaginesi. In quel momento la cavalleria romana attaccò, e le due falangi avanzarono, dapprima a passo lento e grave, poi emettendo alte grida e percuotenso gli scudi con le spade… Poichè entrambe le schiere erano uguali di numero, di valore e di armatura, la battaglia rimase a lungo indecisa e gli uomini morivano, ostinati, nello stesso luogo in cui combattevano… Infine la cavalleria aggirò Annibale e lo attaccò alle spalle, costringendo i Cartaginesi ad una precipitosa e disordinata ritirata.
In questa battaglia morirono oltre millecinquecento Romani e oltre ventimila Cartaginesi. (da Polibio)

Preghiera di Scipione

Dall’alto della sua nave, al cospetto delle sue truppe e del mare, il comandante volge al cielo la sua preghiera: “O dei e dee del mare e della terra, io chiedo a voi che ogni cosa da me fatta o che farò, sia propizia a me e  al popolo di Roma, ai nostri amici, a tutti coloro che parlano latino, a tutti quelli che ci seguono attraverso il mare, con il cuore e col pensiero. Proteggeteci; concedeteci di ritornare vincitori nelle nostre case”.

Storia di Roma LE GUERRE PUNICHE Il trionfo di Scipione l’Africano

Dopo la sua magnifica vittoria su Cartagine, il Senato accordò a Scipione l’onore del Trionfo.
Il generale salì su un carro dorato, vestito di una toga di porpora ricamata d’oro, con ricchi bracciali ai polsi, la testa cinta dall’alloro, e un ramo di  alloro nella mano destra. Precedevano il carro i senatori, i trofei di guerra, i prigionieri incatenati, le insigne delle legioni vittoriose; lo seguiva tutto l’esercito, e ogni soldato teneva in mano un ramo d’alloro. Sul carro, in piedi dietro a Scipione, c’era uno schiavo che gli reggeva sulla testa una corona d’oro tempestata di gemme e che ripeteva continuamente queste parole: “Ricordati che sei un uomo”, Si ammoniva così il trionfatore di non insuperbire per tanti onori!
L’interminabile corteo sfilò fra ali acclamanti di popolo, mentre si cantavano inni di vittoria e si gettavano fiori.

Ultime parole di Scipione l’Africano

Scipione l’Africano, il vincitore della seconda guerra punica, venuto in sospetto ad alcuni suoi concittadini, sdegnosamente si ritrasse in una sua villa a Literno in Campania; passò il resto della vita intento agli studi, e prima di morire ordinò che sulla sua tomba si scrivessero queste amare parole: “Ingrata patria, non avrai le mie ossa”.
Morì in quell’anno stesso in cui il suo avversario Annibale moriva, esule, in Bitinia.

Morte di Annibale

Annibale, sino all’ultimo, non cessò di eccitare nemici contro Roma, fra cui Antioco; ma, vinto costui, si rifugiò presso Prusia, re di Bitinia, in Asia Minore, sul Ponto Eusino. I Romani inviarono ambasciatori a Prusia perchè consegnasse Annibale nelle loro mani. Allora Annibale, vedendo chiusa ogni via di scampo, bevve il veleno dicendo: “Liberiamo il popolo romano da questo suo incessante timore”.

Storia di Roma LE GUERRE PUNICHE La terza guerra punica

Cartagine, vinta a Zama, era finita come potenza militare, ma ben presto rifiorì economicamente.
Essa rimaneva sempre lo sbocco principale dei prodotti africani; il suo porto era affollato di navi, i suoi frutteti, i vigneti, i campi erano tra i più lussureggianti del mondo.
Pur adempiendo scrupolosamente agli obblighi impostile dal trattato di pace, Cartagine sollevava sospetti e timori a Roma, espressi ripetutamente in Senato dall’ottantenne Catone il Censore (“Delenda est Carthago”, cioè “Bisogna distruggere Cartagine”).
L’occasione del conflitto fu offerta da Cartagine stessa, che stanca di subire le soverchierie di Massinissa, re della confinante Numidia, a un nuovo strappo di territorio gli mosse guerra, violando così le condizioni di pace dell’anno 201. I Romani allora sbarcarono in Africa, per punirla.
Sbigottiti, i Cartaginesi tentarono di placare il potente nemico, accettando tutte le sue condizioni: consegna di ostaggi e di tutte le armi e le navi da guerra. Ma, ottenuto ciò, i consoli intimarono ai Cartaginesi di sgomberare la città, la quale doveva essere distrutta; essi potevano costruirne un’altra, purchè non fortificata e distante dal mare almeno quindici miglia.
Il crudele comando provocò la disperata resistenza dei Cartaginesi, che difesero eroicamente, per due anni, la loro patria. Alla fine furono costretti ad arrendersi e Cartagine venne rasa al suolo. Sulle rovine della città i Romani sparsero del sale: ciò significava che essa non doveva più risorgere… e mai più risorse.
La luce di una grande civiltà si spegneva così nel Mediterraneo e si affermava sempre più quella di Roma.

Storia di Roma LE GUERRE PUNICHE Catone il Censore

Fra i Romani che maggiormente temevano il rifiorire di Cartagine c’era Catone il Censore. Costui diceva a tutti coloro con i quali parlava: “Cartagine deve essere distrutta”, ma i senatori non davano peso alle sue parole: pensavano infatti che Cartagine era lontana e non poteva dar noia.
Un giorno Catone capitò in Senato con un cesto di bellissimi fichi freschi. Invece di cominciare, secondo il suo solito, a dire: “Cartagine deve essere distrutta!”, si volse ai senatori e offrì quei frutti.
I senatori accettarono e mangiarono. Quando il cestino restò vuoto Catone, col suo miglior sorriso, domandò: “Erano buoni?”
Tutti risposero di sì: erano così freschi! Nella polpa rossa brillava persino una goccia zuccherina…
“Ebbene” dice Catone, facendosi improvvisamente serio, “ieri mattina pendevano ancora dall’albero, in un frutteto di Cartagine…”
I senatori si fecero pensosi: davvero Cartagine non è molto lontana da Roma… Se rialzasse la testa, sarebbe un guaio…
E ricordarono con angoscia Annibale quando scorrazzava per l’Italia.
Ricordarono con sgomento che, dopo Canne, accorsero sotto le armi anche giovinetti di tredici, quattordici anni, perchè gli uomini erano in gran parte morti.
Catone vide quei capi chini, quelle fronti corrucciate, e sorrise: finalmente aveva raggiunto il suo scopo; li aveva convinti.

Storia di Roma LE GUERRE PUNICHE Marco Porcio Catone

Quando il venerando Catone entrò nella curia, i senatori si levarono in piedi. Egli salutò reverente il simulacro della Vittoria e si avviò al suo seggio. Procedeva a fatica per i suoi ottantaquattro anni e con la sinistra teneva sollevato un lembo della toga, come vi chiudesse dentro un rotolo, con qualche nuovo discorso.
Invece, grande fu lo stupore del Senato quando egli trasse fuori alcuni fichi. “Questi frutti” disse “sono ancora freschi, eppure vengono da Cartagine. Cartagine è a soli tre giorni di viaggio da Roma. Bisogna distruggere Cartagine”.
Il Senato, che era stato a lungo perplesso, deliberò allora di intraprendere la terza guerra punica.
L’oratoria tagliente di Catone risonava ogni giorno in Senato e nel Foro: il popolo ripeteva i suoi motti scultorei e le sue amare ironie. Eletto censore, aveva dedicato i poteri inerenti alla carica a reprimere il lusso e la corruzione. La già esistente legge Oppia, che limitava appunto lo sfarzo delle matrone, era stata abolita; Catone non solo la ripristinò, ma la inasprì con tasse esorbitanti sulle vesti e suoi cocchi. Espulse dal Senato sette senatori che giudicò indegni di appartenervi.
Nella grande rassegna dei cavalieri, tolse a Lucio Scipione il cavallo troppo riccamente bardato.
Faceva guerra spietata a tutti gli abusi, e si procurò molte inimicizie. Fu accusato innanzi al popolo quarantaquattro volte, e sempre uscì assolto, meno una volta sola in cui dovette pagare una multa.
Quando, nella magra altissima statura, tanto indurito nelle fatiche da parere quasi legnoso, vestito semplicemente, passava riguardando con gli occhi acuti e bigi sotto la chioma rossa, tremavano tutti. Anima ferrea e tenace, fattasi un’opinione, non la mutava più.
Ora si era convinto che Roma non poteva avere un avvenire finchè il Mediterraneo fosse dominato da una potenza straniera e rivale. Perciò, di qualunque argomento parlasse, concludeva sempre il suo discorso con l’immancabile ritornello: “E poi bisogna distruggere Cartagine”.
Cartagine aveva cacciato Annibale, che si era spento lontano dalla patria; ma a lui erano sopravvissuti i suoi saggi ordinamenti. La potenza punica, prostrata dalle armi romane a Zama, era pur rifiorita per virtù dei commerci; e i navigatori cartaginesi avevano di nuovo rannodato con i traffici tutti i ricchi mercati d’Oriente.
Sotto l’assillo di Catone, che usava l’eloquenza allo stesso modo del pungolo, il Senato romano finì col proeccuparsi di così rapida minacciosa resurrezione; la terza guerra punica sarebbe stata decretata. (G. Brigante Colonna)

Storia di Roma LE GUERRE PUNICHE Distruzione di Cartagine

La battaglia feroce, incessante tra il fumo, le fiamme e il chiarore sanguinoso delle fiaccole durò sei giorni. Squadre di zappatori con accette e ramponi precedevano i manipoli d’assalto, spianando le rovine e seppellendo sotto di queste i cadaveri, i feriti, i caduti. Scipione non prese mai sonno nè riposo; combattendo come semplice soldato, sempre presente là dove poteva esserci bisogno della sua azione e della sua parola.
All’alba del settimo giorno la resistenza cartaginese era schiacciata, la battaglia finita, e una lugubre ambasceria di cittadini si recò dal console ad offrire la resa della superstite popolazione, senz’altra condizione che quella di aver salva la vita. Scipione acconsentì, facendo un’unica eccezione per i disertori romani. E allora, mentre le ultime superstiti rovine di quella che era stata Cartagine bruciavano lentamente e si rovesciavano al suolo, crosciando e crepitando, i vincitori videro sfilare dinanzi a sè circa 25.000 donne ed altrettanti uomini, che si recavano prigionieri verso il campo romano, destinati a finire la vita come schiavi in tutte le contrade del mondo antico.
Vi mancarono Asdrubale e la sua famiglia e circa 900 disertori, i quali, si erano trincerati nell’atrio del tempio di Esculapio decisi a resistere fino all’estremo. Fu intorno a questo antico, superbo edificio, che si accanì nei giorni successivi la furia degli assalitori. Alla fine anche l’orgoglio e la ferocia del generale punico caddero; e mentre tutti i suoi compagni, fatti irriconoscibili dalla stanchezza e dalla sofferenza, si rifugiavano nel tempio, e alcuni salivano sul tetto, decisi a disputare fino in fondo la vita, egli, distaccatosi dagli altri, andò a gettarsi ai piedi di Scipione, invocando pietà. Coloro che ancora si battevano, appiccarono con le loro stessa mani il fuoco all’edificio e perirono tutti sotto le sue rovine.
Così finiva Cartagine. Dalla sua tenda Scipione contemplò fra nugoli di polvere quell’estremo angolo della città punica che si sfasciava; pensava a Roma, alla sua patria, forse destinata a una non meno gigantesca rovina. (C. Barbagallo)

Mediterraneo, mare nostro

Nello stesso anno della distruzione di Cartagine, Roma sottometteva anche la Grecia. Ebbe così il predominio sul Mar Mediterraneo. I Romani, guardando questo mare, potevano ormai dire orgogliosamente: “Mediterraneo, mare nostro”.

L’esercito romano

Chi combatteva. Tutti i cittadini romani, sia patrizi che plebei, dovevano prestare il servizio militare. La chiamata alle armi si faceva solo in caso di guerra, finita la quale i soldati tornavano a casa. Erano chiamati alle armi gli uomini dai diciassette ai sessant’anni. I soldati non solo non erano pagati, ma dovevano equipaggiarsi a loro spese. Perciò i più ricchi formavano la cavalleria, gli altri la fanteria.
Il generale Caio Mario, quando riorganizzò l’esercito, stabilì invece che i soldati fossero equipaggiati a spese dello stato e ricevessero una paga.

Come era organizzato l’esercito.  Normalmente si formavano due eserciti, uno per ogni console, ed ogni esercito era composto da un dato numero di legioni, che variava secondo il bisogno. Ogni legione aveva 4.200 fanti e 3.000 cavalieri: la legione era divisa in 10 coorti,  ogni coorte in 3 manipoli, ogni manipolo in due centurie.
A capo di tutto l’esercito era un console, assistito da due o più legati, specie di aiutanti di campo; la legione era comandata da un tribuno militare; il manipolo da un centurione maggiore; la centuria da un centurione minore.

Come si schierava l’esercito sul campo di battaglia. L’esercito romano si schierava a battaglia nel seguente modo: nella prima linea c’erano gli astati, cioè i fanti armati di lancia, che erano scelti fra i più giovani. Nella seconda linea stavano i principi, cioè i fanti dotati di armi pesanti. Nella terza linea i triari, cioè i fanti anziani.
Le tre linee erano disposte a scacchiera, in modo che i vuoti della prima linea corrispondessero agli spazi occupati dalla seconda e i vuoti della seconda occupati dalla terza. Ciò serviva per evitare la rottura dello schieramento, qualora i soldati delle prime linee fossero stati costretti ad indietreggiare.
La cavalleria era usata per l’esplorazione e per l’inseguimento dei nemici in fuga.

Le armi dei legionari. Le principali armi difensive erano la galea, elmo di pelle; lo scudo, di legno e di pelle che il soldato imbracciava al lato sinistro; la lorica o corazza, formata di lamine d’acciaio, disposte a scaglie, che difendevano le spalle e il petto; gli schinieri, gambali. Sotto la corazza, il legionario vestiva una corta tunica.
Le principali armi di offesa erano il pilo o giavellotto, con l’asta e la punta di ferro per combattere a distanza; il gladio e una specie di daga, spada corta e piatta che si adoperava nella lotta corpo a corpo.

Le macchine militari. Molte erano le macchine militari usate in guerra dai Romani. La torre permetteva ai soldati di salire, difesi e coperti, fino all’altezza delle mura nemiche  e di muovere decisamente all’attacco di esse. La testuggine era una specie di capanna coperta da pelli di animali: così difesi dalle frecce che venivano scagliate dalle mura nemiche, i soldati potevano portarsi fin sotto le mura stesse, per attaccarle poi con l’ariete. La catapulta serviva per lanciare pietre dal basso verso l’alto, a mezzo di una fune che veniva tesa e lasciata andare di scatto. Qualche volta contro il nemico venivano lanciate anche frecce incendiarie. L’ariete era costituito da una robusta trave che terminava con un massiccio pezzo di ferro, generalmente a forma di testa di ariete; la trave, sospesa ad una impalcatura, serviva ad aprire brecce nelle mura nemiche.

L’accampamento. L’accampamento romano aveva forma quadrata, ed era circondato da un terrapieno, da una palizzata e da un fossato di circa 3 m di profondità e largo 4 m. Aveva quattro porte: quella che si trovava di fronte all’accampamento nemico si chiamava pretoria; quella della parte opposta, decumana. La tenda del comandante sorgeva vicino alla porta decumana, affiancata dalla tenda dei questori, dei tribuni e dei luogotenenti. Le tende dei soldati erano allineate dentro l’accampamento ed erano di cuoio o di tela.

La disciplina dell’esercito. Punizioni e premi.

Severa era la disciplina. Il comandante aveva diritto di vita e di morte su ogni soldato. Con la morte venivano punite le colpe più gravi, come l’insubordinazione. Altre pene erano la flagellazione con le verghe, la degradazione e, per colpe collettive, la decimazione. Se una legione fuggiva davanti al nemico, era decimata, vale a dire, su ogni dieci soldati si estraeva a sorte un uomo, e quelli designati dalla sorte erano decapitati.
Molte le ricompense che si davano ai valorosi: corone, medaglie. La suprema ricompensa a un console, dopo una grande vittoria era il trionfo, decretato dal Senato. Quando la vittoria era meno grande, si accordava al generale vincitore un trionfo meno solenne, detto ovazione, perchè, in luogo del toro si sacrificava agli dei una pecora (ovis).
Più tardi i Romani eternarono le imprese dei loro generali con monumenti, colonnne ed archi trionfali.
Ogni soldato portava il proprio bagaglio personale: gli altri bagagli erano caricati sui carri. L’esercito, in marcia, durante le tappe costruiva l’accampamento (castra).

La paga dei soldati

Lo stipendium istituito nel 406 aC era pagato anno per anno, e al tempo di Pobilio arrivava a 2 oboli al giorno per un soldato di fanteria. I centurioni avevano il doppio, e i cavalieri il triplo di questa somma.
Non si conosce quale fosse lo stipendio assegnato agli ufficiali superiori; sappiamo di certo che i tribuni non erano pagati. Le spese del vitto e dell’armatura erano tolte dalla paga.
La maggior parte della preda di guerra era distribuita tra i soldati e gli ufficiali; ed ognuno ne riceve una parte proporzionata allo stipendio. (G. Decia)

Storia di Roma LE GUERRE PUNICHE – dettati ortografici e letture. Tutte le opere  contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.

Storia di Roma EPOCA REPUBBLICANA – dettati ortografici e letture

Storia di Roma EPOCA REPUBBLICANA – dettati ortografici e letture. Una raccolta di letture e dettati ortografici su Roma Rebubblicana, di autori vari, per la classe quinta della scuola primaria.

La presa di Veio

Per impadronirsi di Veio, M. Furio Camillo fece scavare una galleria sotterranea che dall’accampamento romano conducesse alla cittadella nemica; senza interruzione fu continuata l’incessante fatica sottoterra, giorno e notte.

Quando il lavoro fu compiuto e solo un sottile diaframma mancava da abbattere, Camillo ordinò di prendere le armi e pregò: “Oh Apollo Delfico, da te ispirato, mi accingo a distruggere la città di Veio; tua sia la decima parte delle prede. E te, Giunone Regina, patrona di Veio, prego di seguirci nella nostra città, che fra poco sarà anche tua; lì avrai per dimora un bellissimo tempio”.

Dopo avere così pregato, fece assaltare la città da tutte le parti per sviare l’attenzione di Veienti dalla cittadella, dove si erano frattanto ammassati i soldati romani.

Lontani erano i Veienti dal sospettare che la cittadella fosse già piena di nemici pronti ad assalirla dal di dentro, e grandemente si meravigliarono che i Romani, come presi da improvviso furore, corressero all’impazzata verso le mura, mentre i giorni prima nessuno di essi si era mosso dai corpi di guardia.

Si racconta che mentre il re di Veio faceva il sacrificio, i Romani appostati nella galleria udissero l’augure dire che vittorioso sarebbe stato chi, primo, avesse tagliato le interiora della vittima, e che allora essi infrangessero l’ultimo diaframma del cunicolo e s’impadronissero delle interiora dell’animale sacrificato, per portarle al loro comandante.

Dalla galleria i soldati romani irruppero nel tempio di Giunone, posto nella cittadella; quindi, divelte le porte, si rovesciarono nella città, corsero sulle mura e, sbarazzatele dei difensori, sfondarono le porte. Come fiumana entrarono gli assedianti e in breve Veio fu piena di nemici. Lotta accanita e immensa strage di armati e di inermi fu in ogni strada. Poi si sedò il furore del combattimento e Camillo, per mezzo degli araldi, dette ordine di risparmiare gli inermi.

Alla vittoria seguì il saccheggio della fiorentissima Veio. Anche le ricchezze degli dei fecero parte del bottino e le stesse divinità, sebbene di esse si impadronissero i Romani più come adoratori che come saccheggiatori. Giovani romani, dal corpo mondo, bianco vestiti, entrarono riverenti nel tempio di Giunone Regina: “Vuoi venire a Roma?” le chiese uno di essi. E la dea, così videro e gridarono gli altri, fece cenno di consentire e docile seguì i movimenti di coloro che la portavano. Ad essa fu data dimora nell’Aventino, dove i voti del duce romano l’avevano chiamata.

Ebbe così fine Veio, la più fiorente città degli Etruschi, grande anche nella rovina. Per dieci estati e dieci inverni aveva retto ad ininterrotto assedio e inflitte più perdite di quante ne avesse subite. Alla fine piegava al destino, più che alla possanza degli uomini; all’astuzia, più che alla forza. (Tito Livio)

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Culto e sacerdozio presso i Romani

A capo del culto era il Collegio dei Pontefici, eletti dal Re, in seguito dai Comizi: compilavano il calendario, stabilendo i giorni consacrati al culto (dies festi) e quelli concessi agli uomini per il disbrigo dei loro affari o ai giudici per l’amministrazione della giustizia (dies fasti). Erano i depositari dei libri sacri e registravano in una specie di cronaca gli avvenimenJti più importanti (Annales Pontificum). Questo collegio era presieduto dal Pontefice Massimo, il capo della religione romana.

Gli Auguri interpretavano la volontà degli dei dai segni celesti (lampo, tuono, fulmine), dal volo o dal canto degli ucceli e dal modo come i polli ingozzavano il becchime. Essi erano consultati negli atti più importanti della vita pubblica, specialmente in caso di guerra.

L’arte degli Auguri era detta divinazione. Quella parte della divinazione che riguardava l’esame delle viscere degli animali sacrificati e l’interpretazione dei sogni, spettava ad altri sacerdoti detti Aruspici, quasi tutti di nazionalità etrusca.

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Ingiustizie contro i plebei

Alle guerre combattute da Roma prendevano parte tutti i cittadini, fossero essi patrizi o plebei. In caso di vittoria, però, il bottino veniva diviso solo tra i ricchi. Così, mentre i patrizi vedevano aumentare le loro ricchezze, i plebei, già poveri, cadevano sempre più in miseria. Essi avevano dovuto lasciare il loro piccolo campo. Se la guerra scoppiava quando era tempo di seminare, l’aratro restava nei solchi, la semente nei sacchi e in breve ogni sorta di erbacce cresceva al posto del buon grano. Se la guerra scoppiava quando era tempo di raccogliere, le spighe aspettavano invano la falce del mietitore. Quando i plebei tornavano alle loro case, la madia era vuota e il fuoco spento. Molti di essi, che avevano speso tutto il loro denaro per acquistare le armi, non avevano di che comprare un asinello o un bue che li aiutasse nel lavoro, e talvolta, nell’impossibilità di pagare i debiti, diventavano schiavi dei patrizi.

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La secessione della plebe

Uno stato così ingiusto di cose non poteva durare a lungo. I plebei andavano chiedendo una riforma delle leggi sui debiti e sulle distribuzioni dell’Agro pubblico, ma le promesse ripetute alla vigilia di una guerra, quando occorreva il braccio dei plebei, non erano poi mantenute alla fine della guerra stessa. Indignata, la plebe nel 494 decise di abbandonare il lavoro e il servizio militare; si stabilì su una collina distante pochi chilometri dalla città, che prese poi il nome di Monte Sacro, per fondarvi una nuova città. Dal verbo secedere (appartarsi), questo atto fu detto secessione. I patrizi furono quasi contenti della partenza dei plebei, ma presto si accorsero che essi erano indispensabili, perchè sapevano cuocere il pane, coltivare i campi, fabbricare armi, costruire le case e le strade. Del resto la secessione era un’arma a doppio taglio che, provocando la rovina della città, avrebbe travolto anche la plebe. Perciò il Senato decise di mandare, per intavolare trattative, un patrizio onesto ed amato dai plebei, Menenio Agrippa, che con la sua autorità ed eloquenza riuscì a placare i ribelli. Si venne ad un accordo. I plebei ottennero migliori condizioni e, cosa molto importante, potrono nominare due loro rappresentanti: i tribuni della plebe, che avevano grande autorità e difendevano, in ogni occasione, gli interessi del popolo.

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I Tribuni della plebe

I Tribuni, due da principio, ma poi accresciuti fino a dieci, e sempre plebei, avevano il compito di difendere la plebe da ogni violenza dei patrizi. Essi avevano infatti due diritti: il diritto di aiuto (ius auxiliii), per cui soccorrevano ogni plebeo che ne facesse richiesta, e il diritto di veto (ius intercedendi), per cui potevano impedire l’esecuzione di qualunque legge che ritenessero nociva ai plebei, solo pronunciando la parola veto (impedisco).

I nuovi magistrati, dichiarati inviolabili, avevano un’autorità morale grandissima e la plebe era pronta a difenderli con ogni mezzo.

Nei due secoli successivi (493-300 aC) i Tribuni, persistendo nel loro programma di rivendicazioni, vincendo l’ostilità e le resistenze del patriziato, riuscirono ad ottenere i desiderati miglioramenti economici e la completa uguaglianza politica, senza atti rivoluzionari violenti, restando sempre nel campo della legalità.

Il Senato era indignatissimo contro questa istituzione: avverso era soprattutto l’arrogante patrizio Coriolano che, non volendo sottostare al giudizio dei Tribuni, dovette lasciare Roma. Assetato di vendetta, si rifugiò presso i Volsci, che erano allora in guerra con Roma, e si pose a capo del loro esercito, guidandolo contro la sua stessa patria. Solo le preghiere della madre lo fecero desistere dalla sua scellerata impresa. I Volsci, come traditori, lo uccisero.

I Tribuni della plebe erano eletti nei primi tempi nei Comizi Centuriati, nei quali la maggioranza dei voti era assicurata ai più ricchi. Dal 471 i Tribuni si cominciarono ad eleggere nei Comizi Tributi. Questi erano formati da rappresentanti delle varie tribù, che erano partizioni territoriali della città abitate insieme da patrizi e da plebei, ma dove i plebei prevalevano numericamente. I patrizi, in principio, benchè invitati, non vollero parteciparvi, ma finirono poi col riconoscere la legalità dei Comizi stessi.

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I ragazzi dell’antica Roma

I ragazzi aiutavano i padri perchè il lavoro dei campi era la loro unica e vera scuola, il loro unico e vero sport. I padri approfittavano dell’occasione per insegnare loro che il seme dava buon frutto solo quando il cielo mandava acqua e sole; e che il cielo mandava acqua e sole quando gli dei lo volevano e che gli dei lo volevano solo quando gli uomini avevano compiuto il loro dovere verso di essi. E che il primo dovere consisteva nell’obbedienza, dei giovani ai vecchi. (I. Montanelli)

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Roma: storia e leggenda

Dopo la cacciata dei re etruschi sembrò che Roma dovesse scomparire perchè fu assalita da tutti i popoli vicini. Ma proprio in questo momento la storia di Roma racconta le più belle imprese dei suoi soldati. Si tratta di uomini coraggiosi, che amano la loro città e sono molto tenaci, cioè non si scoraggiano se subiscono una sconfitta, ma tornano a combattere ancora fino alla vittoria. In questo periodo i Romani furono veramente sconfitti molte volte, ma alla fine furono loro i vincitori. Le imprese dei loro migliori soldati e cittadini, abbellite, per l’ammirazione che esse avevano destato, furono raccontate dai padri ai figli, ai nipoti, finchè divennero racconti in cui è difficile distinguere ciò che è vero da ciò che solo inventato.

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La Repubblica romana

L’ultimo dei sette re, Tarquinio, meritava davvero i soprannome di Superbo. Era anzi peggio che superbo: era crudele, ingrato e prepotente. I Romani lo sopportarono per un po’ di tempo, ma poi, stanchi dei continui soprusi, lo cacciarono dal trono instaurando la Repubblica. A capo di Roma repubblicana c’erano due magistrati, chiamati consoli, i quali venivano eletti dal popolo. I Consoli duravano in carica un anno: essi comandavano gli eserciti ed amministravano la giustizia. Ad assistere i Consoli c’era il Senato. Quando lo Stato era in pericolo per un’invasione esterna o per torbidi interni, il Senato nominava un dittatore, che però durava in carica soli sei mesi. Il dittatore era padrone assoluto durante quei sei mesi, ma alla fine di essi doveva rendere contro al Senato delle sue azioni.

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Guerre contro gli Etruschi, i Latini, i Volsci e gli Equi

I primi anni della Repubblica furono funestati da continue guerre. La prima fu quella di Tarquinio, che per riprendere il trono si alleò col re etrusco Porsenna. I Romani, dapprima sconfitti, riuscirono a riportare finalmente una vittoria decisiva, che costrinse gli Etruschi ad abbandonare l’impresa. I Romani dovettero combattere anche contro i Latini e contro i Volsci e gli Equi, popolazioni del Lazio. Solo dopo lunghe e sanguinose lotte riuscirono a vincerli e a sottometterli. Durante la guerra contro gli Equi si distinse il dittatore Lucio Quinzio Cincinnato il quale, sconfitto il nemico, rifiutò la gloria e gli onori e ritornò a lavorare il suo campicello.

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I consoli

Il governo della Repubblica romana fu affidato a due consoli. I consoli erano eletti dai Comizi Centuriati, e duravano in carica un anno; conducevano l’esercito in guerra, convocavano i comizi per l’approvazione delle leggi che essi stessi avevano proposto, ed esercitavano anche il potere giudiziario, punendo i trasgressori. Erano preceduti dai littori, sei per ciascuno, che portavano i fasci, l’insegna del loro comando, formati di verghe strette insieme a cui era unito il manico di una scure: in guerra e fuori della città i consoli potevano condannare a morte i soldati e per questo sui fasci era infissa la scure, ma in città essa era tolta perchè la condanna non spettava ai consoli.

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Altri magistrati di Roma repubblicana

Altri magistrati erano: i questori, o tesorieri dello Stato, che riscuotevano i tributi e pagavano, secondo gli ordini dei consoli; i pretori, che giudicavano le cause civili; i censori, incaricati di eseguire ogni 5 anni il censimento e di vigilare sui costumi; gli edili, che sovraintendevano ai mercati, ai giochi pubblici, alla pulizia, ecc… In caso di pericolo dello Stato, o per una guerra esterna o per una rivolta, si nominava, in luogo dei consoli, un dittatore, che aveva pieni poteri, ma durava in carica poco tempo, al massimo sei mesi.

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Cincinnato, il vincitore degli Equi

Un messaggero arriva coperto di polvere e si dirige a spron battuto verso la Curia, dove sono riuniti i Senatori di Roma. Egli reca gravi notizie: gli Equi hanno battuto l’esercito romano e lo hanno circondato sul monte Algido. Il console potrà resistere solo per alcune ore. I Padri si consultano brevemente; poi decidono: Cincinnato è eletto dittatore. Egli è al di là del Tevere, intento ad arare con due magri buoi il suo campicello. Cincinnato accetta la carica suprema; indossa la toga bianca, corre a Roma ed ordina: “Tutti gli uomini validi si presentino armati al Campo Marzio ed ognuno porti tre pali lunghi nove piedi”. A notte l’esercito si mette in marcia verso il monte. Il campo nemico viene circondato ed ogni soldato pianta in terra i suoi pali, formando rapidamente una immensa palizzata, dentro la quale sono chiusi gli Equi. Al mattino le trombe annunciano ai soldati del console che i soccorsi sono giunti ed una pioggia di frecce provenienti da due direzioni si abbatte sugli incauti nemici. La vittoria è completa. Gli Equi si arrendono. Cincinnato ha salvato Roma e torna a seminare il grano nei solchi aperti dai due magri buoi. (da Tito Livio)

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Orazio Coclite

Tarquinio il Superbo, fuggito da Roma, si rifugiò presso il suo amico etrusco Porsenna e lo convinse a far guerra alla città che lo aveva cacciato. Porsenna marciò con un grande esercito contro Roma. Egli arrivò d’improvviso con i suoi cavalieri alla riva del Tevere, oltre il quale si estendeva Roma con le sue piccole case, i suoi templi, le sue mura. Pareva una città facile ad essere conquistata. Sul Tevere c’era un ponte di legno che univa le due rive del fiume e portava in città. Porsenna stava per attraversarlo con i suoi soldati, quando un giovane di nome Orazio Coclite si lanciò sul ponte e cominciò a combattere con terribili colpi di spada. Gli Etruschi, che non s’aspettavano tanta resistenza da un uomo solo, ripiegarono un poco. Intanto, alle spalle di Orazio Coclite, alcuni suoi compagni tagliarono con le asce il ponte Sublicio fino a che esso crollò. Orazio Coclite si gettò allora nel fiume e raggiunse a nuoto la riva. Roma era salva per il valore del giovane eroe.

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Muzio Scevola

Il re Porsenna allora decise di assediare Roma. Mise perciò i suoi soldati attorno alla città per impedire che vi arrivassero degli aiuti. In Roma scarseggiava, ormai, il frumento per gli abitanti, gli animali morivano per mancanza di erba. L’acqua dei pozzi era poca e guasta. Un altro giovane, Gaio Muzio, offerse la propria vita per la città. Egli lasciò i suoi cari e gli amici e tutto solo si diresse verso gli accampamenti degli Etruschi per uccidere il loro re. Entrato nella tenda di Porsenna, vide molti guerrieri che stavano parlando con un uomo che indossava ricche vesti. Gaio Muzio credette fosse il re e lo uccise. Egli fu subito arrestato e condotto davanti a Porsenna. Quando Gaio Muzio s’accorse di aver sbagliato, stese il braccio destro su un braciere che ardeva nella tenda e disse: “O re, punisco il mio braccio perchè ha sbagliato, ma sappi che trecento giovani romani hanno giurato, come me, di ucciderti”. Il re, ammirato, lasciò libero Gaio Muzio il quale tornò a Roma ed ebbe grandi onori. Egli fu, da allora, chiamato Scevola, cioè mancino.

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Clelia

Tra gli ostaggi che i Romani avevano dovuto consegnare a Porsenna c’era Clelia, una fanciulla di nobile famiglia. Ella riuscì a fuggire a cavallo dal campo etrusco e, passato a nuoto il Tevere, giunse a Roma. I Romani, anche se a malincuore, la rimandarono da Porsenna perchè volevano rispettare i patti. Il re etrusco, meravigliato per la lealtà dei suoi nemici, tolse l’assedio e ritornò nel suo regno.

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La vittoria del lago Regillo

Dopo che Roma ebbe concluso la pace con Porsenna, le città latine, istigate da Tarquinio il Superbo, si unirono fra di loro e le dichiararono guerra. Tuttavia, presso il lago Regillo, vennero sconfitte e le loro terre divennero dominio di Roma.

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Coriolano

Un nobile generale romano, Caio Muzio detto Coriolano perchè aveva conquistato la città di Corioli, per un grave dissenso con la plebe e col Senato fu costretto a lasciare Roma. Rifugiatosi presso il popolo dei Volsci, che erano nemici dei Romani, Coriolano, vendicativo e fiero, li incitò contro la sua città e marciò egli stesso in testa al loro esercito verso Roma. Quando il Senato seppe che i Volsci erano accampati a poche miglia dalla città, mandò degli ambasciatori per placare Coriolano; ma non ottennero nulla. Andarono poi dei Sacerdoti: inutilmente. Allora s’avviò verso il campo dei Volsci Volumnia, la madre, con la sposa ed i figlioletti di Coriolano che, quando vide sua madre, le andò incontro per abbracciarla. La madre, invece, lo fermò con un gesto e con queste parole: “Dimmi prima se sei mio figlio o il nemico della mia patria”. Coriolano abbassò il capo, si commosse, poi, abbracciando la mamma esclamò: “Madre mia, tu salvi Roma, ma perdi tuo figlio”. Difatti Coriolano fece subito cessare l’avanzata dell’esercito verso Roma, ma fu per questo ucciso dai Volsci.

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La casa romana

Le modeste abitazioni romane dei primi tempi divennero ville e palazzi eleganti. Le case furono lussuosamente ammobiliate con mobili ornati di bronzo e provvisti di coperte. I treppiedi, i bracieri, gli scaffali, le anfore abbellivano ogni stanza, ogni angolo. Ecco la casa di una ricca famiglia romana. Entriamo nell’atrio: aria e luce arrivano da un’apertura sul tetto; se piove l’acqua si raccoglie nell’impluvio. Il padrone e gli ospiti escono dal triclinio, dove hanno banchettato, e si recano nel peristilio, un cortile luminoso e verde come un giardino.

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I patrizi e i plebei

Fin dai tempi di Romolo, la cittadinanza romana fu divisa in patrizi e plebei, cioè in ricchi e poveri. I patrizi, divisi in dieci curie, avevano tutti i privilegi: soltanto essi potevano diventare senatori e occupare le massime cariche dello stato. E sempre ai patrizi spettava amministrare la giustizia, dichiarare la guerra e comandare i soldati. I plebei dovevano solo ubbidire e lavorare il loro campicello, che spesso erano costretti a vendere per pagare i debiti. Se non bastavano i pochi averi per pagare i debiti, divenivano schiavi dei patrizi.

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Come vivevano i patrizi

Il patrizio romano si alzava al mattino presto. Dopo essersi abbigliato, usciva dalla sua stanza e si recava nel vestibolo, dove stavano ad attenderlo i clienti. Questi erano cittadini devoti alla sua famiglia, che gli prestavano dei piccoli servigi e gli tenevano compagnia, ricevendo in cambio un obolo quotidiano. Seguito dai clienti il patrizio usciva per recarsi a far visite o per passeggiare. Si recava al Foro, per discutere di politica e per ascoltare gli oratori o i pubblici lettori. A mezzogiorno il patrizio rientrava in casa per consumare una colazione leggera, alla quale seguiva un breve riposo. Si recava quindi al bagno nella pubblica piscina, e verso le tre del pomeriggio era di nuovo in casa per il pasto principale della giornata. Dopo il pranzo il patrizio si fermava a tavola per conversare con gli ospiti o per giocare a dadi. Usciva quindi per l’ultima passeggiata o per recarsi al “Campo di Marte” per gli esercizi ginnastici o agli spettacoli nei teatri o nei circhi. Alla sera c’era un altro pasto, che spesso si prolungava fino a notte inoltrata.

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Come vivevano i plebei

I plebei abitavano in case comuni, altre quattro o cinque piani ed anche più; spesso il loro alloggio consisteva in un solo locale arredato modestamente: pagliericci per dormire, mensole per le stoviglie, una tavola e alcuni sgabelli. Anche le loro vesti erano modeste: normalmente indossavano un semplice mantello senza maniche, di lana o di pelle, oppure la “lacerna”, una specie di tunica, con cappuccio. Ai piedi portavano i sandali con la suola di cuoio o gli zoccoli. I plebei si dedicavano a qualche lavoro di artigianato o servivano nelle botteghe. La maggioranza dei plebei però conduceva una vita oziosa e passava gran parte della giornata a vagabondare per le strade o a giocare ai dadi nelle osterie. I plebei possedevano pochissimo denaro, ma in compenso la vita a Roma costava poco, inoltre spesso i patrizi facevano distribuzioni gratuite di grano: questo avveniva soprattutto alla vigilia delle elezioni, allo scopo di attirarsi le simpatie dei plebei ed averne il voto.

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Gli schiavi

Dapprima Roma aveva soltanto pochi schiavi, quasi tutti prigionieri di guerra impiegati nei lavori agricoli. Ma con le conquiste e l’arricchimento dei cittadini, Roma vide affluire dentro le sue mura immense schiere di schiavi e i mercanti specializzati ne conducevano sempre di nuovi. Gli schiavi venivano venduti in un mercato vicino al Foro. Li presentavano in piedi su un palco, con un cartello appeso al collo, in cui era scritto il nome, l’origine e le capacità di ognuno. La gente girava intorno, saggiava i loro muscoli, li interrogava per capire se erano intelligenti o tonti, mentre il mercante si dava da fare per vantare immaginarie virtù e per nascondere difetti. Gli schiavi non avevano alcun diritto: erano considerati come cose e si potevano comprare, vendere, picchiare, mutilare, uccidere senza che nessuno lo potesse impedire. Non potevano sposarsi e le schiave che avevano dei figli non avevano il diritto di allevarli: il padrone glieli poteva togliere quando voleva, perchè anch’essi erano schiavi e dunque appartenevano al padrone. Gli schiavi erano utilizzati per ogni genere di lavoro: vi erano schiavi zappaterra, ma anche schiavi medici. I padroni potevano trattarli duramente. Potevano punirli con severi castighi, quali la fustigazione e la condanna a girare, incatenati, con la ruota del mulino. Agli schiavi fuggitivi venivano impresse in fronte le ttere FUG con un marchio infuocato. Le mancanze più gravi erano punite con la morte.

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L’apologo di Menenio Agrippa

Dopo una campagna di guerra particolarmente gravosa, i plebei, visto che i patrizi non avevano cuore per loro, stabilirono di allontanarsi in massa da Roma e si ritirarono sul monte oltre l’Aniene, che oggi si chiama Monte Sacro. I patrizi li lasciarono partire quasi contenti, ma subito si accorsero che senza i plebei, molti dei quali esercitavano le più utili tra le professioni manuali, la città non poteva vivere. Mandarono perciò sul Monte Sacro un’ambasceria capeggiata da Menenio Agrippa, il quale, visto che i plebei non volevano ascoltar ragione, narrò loro l’istruttivo apologo delle membra del corpo umano e dello stomaco. “Le varie membra del corpo umano” disse Menenio, “erano stanche di affaticarsi a beneficio esclusivo dello stomaco. Quell’antipatico sacco, esse pensavano, non fa altro che ricevere i cibi che noi gli forniamo in mille modi, e si ingrassa sulla nostra stanchezza. La nostra sorte è quella di lavorare, la sua quella di godersi in pace il frutto delle nostre fatiche. Dichiariamo guerra a quell’egoista! Voi gambe state ferme, braccia incrociatevi, labbra state chiuse, denti non masticate… Vedremo che farà lo stomaco senza di noi. Così dissero e così fecero; ma, di lì a poco, ogni membro del corpo si sentì stanco, sfinito più di quanto doveva lavorare per lo stomaco. Lo stomaco non riceveva più cibi ma, col suo sfinimento, provocava quello di tutte le altre membra.” I plebei capirono la lezione e tornarono in Roma, dopo essersi fatti concedere dai patrizi una speciale magistratura, quella dei tribuni della plebe, destinata a proteggere i plebei.

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Leggi scritte per una sicura giustizia

I plebei ottennero anche che le leggi fossero messe per iscritto e fossero uguali per tutti. Sino a quel tempo, a Roma le leggi si tramandavano oralmente; così i patrizi, che avevano in mano le cariche più importanti dello stato, potevano interpretare le leggi in loro favore, a danno dei plebei. Ora, il Senato diede l’incarico a dieci magistrati di mettere per iscritto delle leggi che riconoscessero un giusto e uguale trattamento a tutti i cittadini. Si volle inoltre che le leggi potessero essere conosciute da tutti, e che tutti potessero, in ogni occasione, consultarle liberamente: così si pensò di esporle in un luogo pubblico. A Roma c’era una grande piazza dove si tenevano i mercati e si riuniva il popolo in assemblea. Era una zona piana che si apriva tra il Palatino e il Campidoglio; il terreno, un tempo paludoso, era stato prosciugato con la costruzione della Cloaca Massima ed era diventato poi il Foro, cioè la piazza più importante della città. Le nuove leggi furono esposte nel Foro, incise su dodici tavole di bronzo: nessuno, neanche il tempo, avrebbe potuto cancellarle.

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Alcune leggi delle dodici tavole

Se uno rompe un braccio a un altro e non fa pace con lui riceverà lo stesso danno. Se uno con la mano o con un bastone rompe un osso ad un uomo libero, deve pagare 300 assi di multa, se sfregia uno schiavo paga 150 assi. Chi fa ingiuria a qualcuno paga 25 assi. Se qualcuno ruba o compie qualche delitto di notte può essere ucciso.

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La famiglia romana antica

La famiglia romana era ben diversa dalla famiglia moderna. Essa era un organismo politico e religioso. A capo vi era il pater familias, che aveva il potere assoluto, detto patria potestas, su tutti i membri: moglie, figli, nuore, fratelli minori, nipoti, ecc… Egli era il sacerdote del culto domestico, il giudice che poteva punire con la prigionia, le pene corporali e la morte i membri della famiglia, ed era il solo padrone dei beni domestici. Morto il padre, il figlio primogenito diveniva pater familias e la madre rimasta vedova veniva sottoposta alla sua autorità. Però, benchè sempre soggetta all’autorità prima del padre, poi del marito, poi del figlio, la donna era la vera regina della casa, ed era circondata di grande rispetto: sorvegliava il lavoro degli schiavi, educava i figli, tesseva e filava. Il focolare domestico, posto nel centro della casa, era l’altare del culto familiare, di cui il padre era appunto il sacerdote. Gli dei custodi della casa erano le anime degli avi: i Lari e i Penati. L’antica famiglia romana, laboriosa, frugale, disciplinata, ligia al dovere, fu una palestra di virtù: in essa si formarono quei cittadini e quei soldati che portarono poi nell’attività politica e militare le sane energie acquistate nella casa.

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La giornata di un Romano

Gli antichi Romani erano assai mattinieri. Al sorgere del sole s’apre la porta di casa e l’atrio si riempie di numerosi visitatori. Sono gli amici di casa, i clienti: persone con pochi quattrini, di regola ben vestite ma con la pancia vuota, che si fanno un obbligo di venire a rendere omaggio al padrone anche quando il tempo è brutto. Il padrone li riceve seduto, sopra una sedia a braccioli simile a quelle dei vescovi, scambia con essi strette di mano e ne invita un certo numero a mensa; gli altri possono andare a prendere il cibo in cucina. E l’orologio? Un avvisatore annuncia l’ora nella casa. Erano noti soltanto gli orologi a sole o ad acqua. Così d’estate come d’inverno il giorno era diviso in dodici ore e altrettante la notte. All’ora terza del giorno, verso le nove, il padrone di casa esce per andare ad attendere agli affari, ai quali è dedicato il tempo che precede il mezzogiorno: in tutto il pomeriggio è libero di darsi al riposo, allo svago. Nel frattempo la donna domina la casa. I ragazzi più grandi sono a scuola con il loro custode. I più piccoli giocano nel giardino, nel porticato, insieme con i bambini degli schiavi allevati con essi. I servi sono al mercato e fanno la spesa. Le ancelle filano e tessono per i bisogni della famiglia. S’ode risuonare il canto della nutrice che allatta il più piccolo. Quindi è annunciata l’ora settima, cioè quella del mezzogiorno. Giunge il padrone per la colazione. Poi viene il più bello, la dormita del mezzogiorno, che nessuno tralascia di fare, specialmente d’estate. Quindi gran movimento nella cucina e nella sala da pranzo. La servitù prepara il desinare, che ha luogo verso le sei pomeridiane. Durante questi preparativi i signori della casa pensano alla ginnastica e al bagno. In seguito quelli di casa si raccolgono nella sala da pranzo vestiti leggermente e con libertà, nella bella stagione. Ogni commensale ha un servo per sè. La padrona, che è presente, non giace, ma siede. Il pranzo, tra conversazioni, concerti, passatempi e sorprese, si protrae fino a tarda notte. (T. Birt)

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L’abbigliamento maschile

Per un Romano vestirsi è un’operazione abbastanza semplice e rapida. Su di una specie di camicia di lino piuttosto corta ed in diretto contatto con la pelle, egli infila la tunica, ossia una veste di lana formata da due pezzi di stoffa cuciti insieme e tenuta stretta intorno al corpo da una cintura piuttosto bassa sui fianchi: la tunica cade in modo ineguale: fin sul ginocchio davanti, un po’ più lunga di dietro. Le maniche, o mancano del tutto, o non arrivano all’altezza del gomito. La tunica è la veste che porta la gente che lavora perchè è semplice e pratica. Il cittadino romano non si presenta mai in pubblico vestito della sola tunica: prima di uscire di casa egli si avvolge nella toga: essa è un manto di lana bianca pesante tutto di un pezzo. Ai piedi il Romano in casa usa i sandali, ma uscendo infila degli stivaletti di pelle fino al polpaccio e l’unico ornamento è costituito dall’anello che porta sull’anulare della mano sinistra e di cui si serve come sigillo ed ha la stessa funzione della firma per noi moderni.

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L’abbigliamento femminile

Anche le donne indossavano la tunica, differenziata da quella maschile solo per la maggior lunghezza. Sopra la tunica le matrone dovevano indossare la stola: quest’uso era stato imposto dal Senato perchè le matrone si distinguessero dalle donne di bassa condizione e dalle schiave. La stola era una veste lunga e ricca, stretta alla vita e ornata, in basso, sa una balza color porpora. Per uscire in pubblico le donne coprivano la stola con la palla, una specie di toga rettangolare che si avvolgeva intorno al corpo e di cui un lembo poteva essere portato sul capo. Se celebravano sacrifici o se prendevano parte a cerimonie religiose, coprivano la testa con un fazzoletto quadrato di stoffa purpurea o azzurra, ornato di frangia (rica).

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I vestiti nella Roma antica

Tre schiave, Ata, Mira e Dora, nell’ampia camera, le cui pareti erano rivestite di marmi preziosi, aiutavano la loro padrona, una dama della Roma antica, a vestirsi per uscire. Com’erano svelte ed abili, le schiave! La dama, bella con i capelli bruni e gli occhi neri, si mostrava piuttosto esigente e la sua voce imperiosa risuonava nella stanza: “Presto, datemi la stola!” La stola era un abito simile ad una lunga camicia di candida lana con le maniche corte, guarnito sul fondo da una frangia. Inchinandosi, Ata e Mira presentarono l’indumento alla bruna signora, e con i movimenti precisi glielo fecero indossare. Dora cinse la vita della donna con una cintura finemente lavorata. “La palla!” ordinò la dama. La palla era una specie di scialle, lungo e morbido. Mira e Dora lo sollevarono ed Ata le aiutò a farlo scendere, dal capo della loro padrona, sulle sue spalle, avvolgendolo poi con grazia intorno al suo corpo. Vanitosa, la dama non si saziava di ritoccarsi la veste, di drappeggiarsela intorno alle braccia, di aggiustarsi le pieghe dello scialle. Dora portò un paio di calzature, e inginocchiandosi Mira le infilò ai minuscoli piedi della dama. “La lettiga aspetta” disse Ata. Le tre schiave s’inchinarono profondamente, sorridendo alla loro padrona che usciva, maestosa e fiera. Nella strada, vestiti di una tunica scarlatta, immobili nell’attesa, diversi schiavi fiancheggiavano la lettiga sulla quale la dama prese il posto. Che frastuono, che vocio nelle vie della Roma antica! Bottegai, fabbri, barbieri, usciti dai loro bugigattoli senza luce, lavoravano e vendevano la propria merce nella strada. Grida, richiami s’intrecciavano nell’aria, la gente andava a veniva indaffarata. Strillando a perdifiato, bimbi piccini si rincorrevano: i più grandicelli erano andati alla scuola sin dall’alba, quando ancora la città era immersa nel sonno. Ora, sotto il sole, come cresceva l’animazione della città! Seguiti dai propri schiavi passavano uomini severi, consoli, senatori avvolti nella toga, un mantello che scendeva fino ai piedi passando con una delle sue parti sopra la spalla sinistra per lasciare libero il braccio destro. Portavano scarpe alte, chiamate calcei, il cui colore variava, rosso, nero, azzurro, secondo la dignità della persona. Passavano gli schiavi diretti al mercato e gruppi di forestieri il cui abito, nel tessuto e nella foggia, rivelava il paese da cui provenivano. La dama sorrideva, dalla sua lettiga, bella ed elegante…

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Un sontuoso pranzo

Proprio oggi si saranno molti ospiti di importanza. Ce lo dice uno schiavo che corre affannato verso il triclinio, cioè verso la sala da pranzo. Egli ha preparato ogni cosa: il pavimento riluce come uno specchio, gli stucchi delle pareti e delle colonne mostrano tutta la loro bellezza. Ascoltiamo cosa ci dice il bravo schiavo: “All’ora nona (cioè alle tre del pomeriggio) verranno dei senatori, dei generali, un grande avvocato e un poeta. Essi indosseranno la toga conviviale, si cingeranno il capo con una corona di edera o di alloro o di rose. Io ho preparato per loro tre lettucci con dei materassi: non sono letti per dormirci, ma per sdraiarcisi durante il pranzo. La padrona di casa siederà al centro dei lettucci. Un tempo invece le donne mangiavano da sole.” Ad un cenno del padrone lo schiavo servirà l’antipasto durante il quale si berrà del vino misto a miele, poi servirà le varie specie di carne e infine la frutta e i dolci. Si useranno piatti e vassoi d’argento, cucchiai e coltelli, ma le carni si porteranno alla bocca con le mani. Finito il pranzo sarà eletto il re del convito e si aspetterà l’alba fra canti di musici e brindisi.

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La scuola

L’anno scolastico aveva inizio nel mese di marzo. Nei giorni festivi e ogni nove giorni era vacanza. Le scuole non avevano banchi. Gli scolari sedevano su sgabelli e scrivevano su tavolette spalmate di cera usando una cannuccia detta stilo, un bastoncello appuntito, si legno o di metallo. Quando la tavoletta era scritta, si voltava lo stilo, che all’altra estremità era piatto, e si cancellava tutto. La carta di papiro e la pergamena costavano molto. Erano riservate agli scolari più grandi che vi scrivevano con la penna d’oca.

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Un sontuoso pranzo

Proprio oggi ci saranno molti ospiti di importanza. Ce lo dice uno schiavo che corre affannato verso il triclinio, cioè verso la sala da pranzo. Egli ha preparato ogni cosa: il pavimento riluce come uno specchio, gli stucchi della pareti e delle colonne mostrano tutta la loro bellezza. Ascoltiamo che cosa ci dice il bravo schiavo: “All’ora nona, cioè alle tre del pomeriggio, verranno dei senatori, dei generali, un grande avvocato e un poeta. Essi indosseranno la toga conviviale, si cingeranno il capo con una corona di edera o di alloro o di rose. Io ho preparato per loro tre lettucci con dei materassi: non sono letti per dormirci, ma per sdraiarcisi durante il pranzo. La padrona di casa siederà al centro dei lettucci. Un tempo invece le donne mangiavano da sole”. Ad un cenno del padrone lo schiavo servirà l’antipasto durante il quale si berrà del vino misto a miele, poi servirà le varie specie di carne e infine la frutta e i dolci. Si useranno piatti e vassoi d’argento, cucchiai e coltelli, ma le carni si porteranno alla bocca con le mani. Finito il pranzo sarà eletto il re del convito e si aspetterà l’alba fra canti di musici e brindisi.

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I giochi dei bambini

I bambini si dedicavano a un piacevole divertimento: attaccavano i topi a un carrettino di legno e poi li incitavano alla corsa. Gli altri giochi erano simili a quelli di oggi. Si giocava a pari e dispari tenendo chiusi nel pugno noci o sassolini e invitando il compagno a indovinare se erano in numero pari o dispari. Ci si divertiva pure a gettare in aria una moneta, cercando di indovinare quale sarebbe stata la parte rimasta scoperta. Avevano anche dei cerchi ornati di sonagli, trottole, barchette, bambole di terracotta.

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Gli edifici di spettacolo

I Romani preferivano le gare sportive e i combattimenti di belve e di gladiatori. Essi accorrevano ad assistervi nell’anfiteatro, una costruzione di forma ovale. Nel mezzo stava uno spazio libero, l’arena, per i lottatori; attorno, erano le gradinate per gli spettatori; sopra l’ingresso, un’alta balconata era riservata agli imperatori. Il più grande degli anfiteatri fu il Colosseo. I gladiatori erano schiavi o prigionieri di guerra istruiti in scuole speciali, al combattimento nell’arena.

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Il circo

Ecco una biga, cioè un carro velocissimo trainato da due focosi cavalli e guidato da un bravissimo auriga. A che cosa serve? La biga serve per i giochi del circo. Quando sono annunciate le corse delle bighe o anche delle quadrighe, cioè dei carri a quattro cavalli, una folla sterminata corre al circo e si dispone sulle gradinate lasciando i posti migliori ai senatori, ai consoli, ai patrizi. Ad un segnale, le bighe si lanciano a corsa pazza. Alcuni aurighi indossano una veste verde, altri azzurra, altri bianca e altri ancora rossa. I colori indicano, possiamo dire così, le squadre. Le bighe devono fare sette volte il giro di un muro che attraversa per lungo il circo. Alle estremità del muro ci sono tre colonne attorno alle quali i carri devono svoltare velocemente senza rovesciarsi. La folla grida, si entusiasma per un auriga o per un altro. Il vincitore avrà dei premi e potrà passare sotto la porta trionfale in segno di onore.

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L’anfiteatro

Nell’anfiteatro si svolgono invece altri giochi. L’arena dell’anfiteatro è trasformata ora in uno specchio d’acqua. E’ stato costruito anche un piccolo porto, davanti al quale combattono navi armate di rostro e navi armate di falci per tagliare le vele delle navi nemiche. Da un palco assiste allo spettacolo l’imperatore con la sua famiglia. Migliaia di persone accompagnano con urla l’affondamento di una nave. Se fosse invece il giorno dei combattimenti degli schiavi gladiatori, vedremmo terribili scene di paurosi duelli tra uomini e belve e tra schiavi e schiavi armati di spade, di reti e di lacci.

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Il trionfo

Il trionfo è uno spettacolo indimenticabile. Il generale vittorioso ha lasciato i suoi soldati fuori delle mura di Roma. Quando il Senato avrà decretato il trionfo, allora egli entrerà in città attraverso la porta trionfale, e su un cocchio d’oro trainato da quattro cavalli bianchi, percorrerà la via Sacra che porta al Campidoglio, fra un’immensa folla acclamante. Ecco, il trionfatore ha indossato la toga di porpora, nella mano destra tiene un ramo di alloro, sul capo ha una corona pure d’alloro. Vicino alla quadriga ci sono i trombettieri, gli aquiliferi, i re e i capitani nemici, vinti e incatenati, poi avanza l’esercito romano. Il corteo è chiuso dai senatori e da altri cittadini importanti. Dalle porte spalancate dei templi esce odore d’incenso. Dalle case si gettano rose sul vincitore. Arrivato al Campidoglio il trionfatore offrirà sacrifici agli dei.

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Abili costruttori

I Romani furono provetti costruttori di case, di acquedotti, di edifici pubblici, di templi. La casa di una famiglia ricca occupava solo il pianterreno. All’esterno essa presentava muri intonacati, senza finestre, aperti solo per la porta di ingresso e per le vetrine dei negozi che si affacciavano sulla via. L’interno era molto elegante. Molte famiglie povere abitavano in modesti alloggi di affitto entro grosse case di quattro, cinque e anche sei piani.

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Gli edifici pubblici

Attorno alla piazza principale, il Foro, i Romani costruivano gli edifici pubblici più importanti: il tempio, la basilica, nella quale sedevano i tribunali e si trattavano gli affari; le terme, stabilimenti di bagni pubblici con sale di lettura, di conversazione, per la ginnastica; la curia, dove si tenevano le riunioni dei patrizi e del Senato.

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Il Foro

A Roma il Foro era la parte più importante della città. Lì si amministrava la giustizia, lì avvenivano le sfilate dei soldati, lì si vendevano e si compravano le merci, lì erano anche templi dedicati agli dei.
Fino alle undici del mattino, il Foro era pieno di gente che acquistava e vendeva, parlava, gridava, di ragazzi che correvano, di carri e di cocchi.

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La strada romana

I Romani furono abilissimi costruttori di strade e le tracciarono in ogni periodo della loro storia. Furono anche i primi che, con potenti opere di muratura, tagliarono le vie sui fianchi dei monti.
Nei primi secoli le strade di Roma furono costruite per la guerra; poi, a mano a mano che le popolazioni sottomesse vennero pacificate, diventarono strade del lavoro e dei commerci.
Stabilito accuratamente il percorso, si scavava fino a trovare il terreno solido e lo si rafforzava validamente; su questo si sovrapponevano allora quattro strati: il primo era composto di sassi misti ad argilla, il secondo di pietre e frammenti di mattone e sabbia misti con calce, il terzo di pietrisco con frammenti di mattoni fortemente battuti, l’ultimo di lastre di pietra dura (basalto) poligonali, bene levigate e ben combacianti. Al centro, per permettere lo scolo delle acque, la strada era leggermente convessa.
Questa strada, che è la via consolare o la via pubblica, solitamente partiva da Roma col nome del personaggio che ne aveva iniziato i lavori, e, di preferenza, si snodava lungo un percorso rettilineo: infatti per ottenere tale percorso si scavavano gallerie, si rinforzavano i fianchi delle montagne, si gettavano ponti grandiosi e si costruivano solide palizzate, quando ci si trovava in presenza di terreni paludosi. A partire dal Foro, di miglio in miglio, dei cippi, le pietre miliari, indicavano la distanza dall’Urbe. La prima grande strada fu la via Appia da Roma a Capua, in seguito per Benevento fino a Brindisi.

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Gli acquedotti

I Romani furono grandi costruttori di ponti, di strade, di terme e di acquedotti. Questi ultimi erano davvero stupefacenti. Alcuni studiosi pensano che i Romani preferissero l’acquedotto su archi a quello con tubature sotterranee perchè non conoscevano il sistema dei vasi comunicanti. Ma ormai è stabilito che essi erano invece a conoscenza delle leggi fisiche dell’idraulica. Preferirono quasi sempre il sistema ad archi per comodità ed economia: infatti disponevano in abbondanza di travertino, mattoni, cemento, tutto materiale di facile impiego.
Le tubature metalliche, invece, sarebbero riuscite costose e malsicure. I Romani non sapevano lavorare con facilità la ghisa; il bronzo costava troppo; il piombo non poteva servire per una tubatura lunga anche molti chilometri, continua e di grande calibro. La lunghezza degli acquedotti romani (che non correvano sospesi per tutta la loro lunghezza, e in taluni tratti erano interrati) variava da dieci a ottanta – ottantacinque chilometri. L’altezza massima superava persino i sessanta metri.
Gli undici acquedotti esistenti nella Roma imperiale conducevano nella città circa sette milioni di ettolitri d’acqua al giorno. La cifra è alta, ma occorre tenere presente lo sciupio dovuto al sistema di far correre continuamente l’acqua, non esistendo allora i rubinetti.
Il primo acquedotto romano fu l’Appio, costruito da Appio Claudio, censore nel 312 aC. Il primo acquedotto su archi fu quello dell’Acqua Marcia (146 aC) lungo circa ottantuno chilometri.

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I fabbricatori di ponti

Costruire un ponte su un fiume abbastanza largo è un’impresa molto difficile. Gli Egiziani e i Babilonesi, per esempio, che pure sapevano costruire grandi edifici, non erano riusciti a costruire ponti sul Nilo, sul Tigri, sull’Eufrate. Per traversare i fiumi essi si servivano di zattere o di altre imbarcazioni. Costruire un ponte su un fiume non troppo largo è più semplice.
I fiumi dell’Italia non sono tanto larghi. Gli Etruschi furono capaci di costruire ponti sui fiumi e insegnarono la loro arte ai Romani. I primi ponti erano di legno.
L’arte di costruire ponti era conosciuta solo da pochi uomini. Gli uomini che costruivano ponti si chiamavano pontefici, cioè fabbricanti di ponti. Il capo di questi uomini si chiamava Pontefice Massimo.
I primi ponti costruiti sembravano agli uomini comuni opera di magia. I Romani pensavano che un ponte non potesse stare in piedi senza l’aiuto degli dei. Per questo il Pontefice Massimo, cioè l’ingegnere capo, era anche il capo di tutti i sacerdoti che pregavano gli dei.
Quando poi l’arte di costruire i ponti fu conosciuta da un maggior numero di persone e non sembrò più magia, la parola pontefice restò ad indicare solo il capo della religione di Roma. Anche oggi il capo della Chiesa si chiama Pontefice.

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Il lavoro della giornata e la cena presso i Romani

Il lavoro della giornata si concentra tutto nella mattinata e nelle prime ore del pomeriggio. Il padre di famiglia esce al mattino per le sue occupazioni. La donna si cura invece della casa. Dopo la colazione, verso il mezzogiorno, ci sarà il pranzo, un pasto leggero consistente in un piatto di pesce, legumi e frutta. Non occorre, dice uno scrittore, nè apparecchiare la tavola nè lavarsi le mani. E’ solo un rapido spuntino. Nel pomeriggio invece il Romano si mette a tavola. Sono circa le tre. Alcune cene si prolungano fino a tarda sera, altre sono più brevi.

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La posta romana

La storia ci parla di un servizio postale abbastanza organizzato in Roma. Ma non bisogna credere che si trattasse di un’istituzione a favore della popolazione. Era servizio statale di regolari comunicazioni fra capitale e provincia, necessario per l’andamento del governo. Lungo le strade, ogni tanti chilometri, v’era la “posta”, cioè una specie di stazione dove il corriere poteva rifocillarsi, cambiare il cavallo o i cavalli, e proseguire il suo viaggio.

Le insegne romane

Ciò che è per noi la bandiera, era per i Romani l’insegna. Da principio era semplicemente una lancia che portava in alto un pezzo quadrato di stoffa per la cavalleria e portava, invece, la raffigurazione di un animale, come la lupa, il cavallo, per le coorti di fanti. Le aquile d’oro o d’argento erano le insegne riservate alle legioni.
Tra i soldati più valorosi si sceglievano quelli a cui si affidavano le insegne ed essi, allora, venivano chiamati antesignani.

Istruzione dei giovani Romani

Semplice era l’insegnamento che s’impartiva nei primi tempi; l’antico Romano ne aveva abbastanza degli studi quando sapeva leggere, scrivere e far di conto. Ma negli ultimi anni della Repubblica e durante l’Impero, l’istruzione del giovane, fattasi più complessa, passava per tre gradi; le lezioni elementari si facevano nella scuola, dove i ragazzi, dopo aver imparato a leggere e a scrivere alla meglio, imparavano a far di conto e a stenografare. Si faceva lezione in qualche stanzuccia d’affitto o anche all’aperto. L’anno scolastico cominciava di marzo dopo la festa in onore di Minerva, cara soprattutto agli scolari; vi erano delle vacanze nei giorni festivi e ogni nove giorni. Che fosse stabilito un periodo estivo di vacanze non risulta chiaro; ma vi era l’uso di far riposare i ragazzi durante la calda estate. L’orario scolastico era di sei ore: le lezioni cominciavano di buon mattino; venivano interrotte verso mezzogiorno, quando gli scolari tornavano a casa per la colazione, e riprese nel pomeriggio.
L’arredamento della scuola era semplice. Solo in qualche scuola e in certi casi, gli scolari si riunivano col maestro intorno a un tavolo; di regola non vi era il banco nè per il maestro nè per gli scolari; il maestro stava seduto su di una seggiola, gli scolari su sgabelli, tenendo sulle ginocchia la tavola su cui scrivevano e che portavano con sè, insieme con la penna, la carta, l’inchiostro.
Terminati gli studi elementari, cominciavano sotto la guida del maestro di grammatica l’insegnamento medio. Anche questo, secondo l’uso e le possibilità delle famiglie, veniva impartito in casa o in una scuola pubblica tenuta da un privato.
Dalla scuola del maestro di grammatica si usciva conoscendo alla perfezione il latino e il greco, cioè le due lingue che una persona colta doveva necessariamente parlare. Anche le donne conoscevano il greco. (U. E. Paoli)

Tavole cerate, penne e inchiostro

Per scrivere gli alunni avevano le tavolette, dette cerae o tabulae ceratae, che erano usate da tutti i Romani per appunti, lettere e annotazioni brevi: erano tavolette di legno rettangolari dagli orli rilevati, entro in quali si stendeva uno strato di cera molle. Si scriveva incidendo i caratteri sulla cera mediante un cannello di avorio o di metallo (stilus) appuntito ad una estremità e incurvato e appiattito dall’altra per poter cancellare i segni tracciati e rendere di nuovo uniforme lo strato di cera. Portare questi lunghi stili, spesso pericolosi, era alquanto scomodo: si ricorreva ad un astuccio (graphiarium o graphiaria theca), che scolari, scribi e copisti avevano sempre con sè.
Sul margine delle tabulae ceratae erano praticati dei fori, attraverso i quali passava una cordicella che legava tra loro due o più tavolette, in modo da formare una specie di piccolo libro dalle pagine di legno cosparse di cera su entrambe le facciate, eccezion fatta per le tavolette estreme, che fungevano da copertina e avevano la cera solo internamente.
Per scrivere sulla carta (papiro o pergamena) si ricorreva invece all’inchiostro nero (atramentum): un miscuglio ottenuto con fuliggine, pece, liquido di seppia e feccia di vino diluito in acqua. Il calamaio (atramentarium) era formato da uno o due recipienti cilindrici uniti insieme. Per i titoli dei libri esisteva uno speciale inchiostro rosso; c’erano anche vari tipi di inchiostri “simpatici” che comparivano e scomparivano se trattati con speciali accorgimenti.
Lo stilo in questi casi era sostituito da una penna di uccello o da una cannuccia (calamus), appuntite con un coltellino (scalprum) o anche, più raramente, da una penna di bronzo.

Il gran pranzo di un arricchito

C’era gente sobria che si contentava di pan d’orzo, di legumi, un pollo o un pesce, olive e noci, un frutto e uno spicchio di cacio. C’era chi ogni tanto offriva una cena modesta ai parenti e agli amici con qualche coppia di piccioni immersi in un intingolo elaborato, con pepe, olio, aceto, vino, miele, datteri e senape; con funghi cotti nel miele e spezzatino di maiale con cavoli e lenticchie.
Ma c’era anche chi, per mostrare la sua ricchezza e sbalordire gli amici, non si peritava a far mostra della più goffa pacchianeria. Uno stuolo di schiavi accoglie gli ospiti sull’uscio di casa, li accompagna al bagno o porge l’acqua per lavarsi le mani in preziosi bacili.
Poi i servi fanno strada nel triclinio e assegnano i posti alle tavole. Gli ospiti si distendono sui sofà e vedono in bella mostra un originale vassoio per le gustationes: cominciano le meraviglie con questo asinello di bronzo che porta due bisacce, una con olive nere e una con olive verdi. Sui piatti d’argento che l’asinello sostiene, oltre al nome del padrone è inciso il loro peso perchè tutti lo possano vedere e così valutare la ricchezza dell’ospite.
Sui piatti, ghiri conditi con miele e papavero, e salsicce fumanti distese su una gratella d’argento, sotto la quale, per imitare le braci, sono state poste prugne secche, nere, cosparse di rossi chicchi di melograno.
Si dà inizio al banchetto e mentre i sonatori strimpellano una musichetta allegra, entrano altri schiavi portando un gran vassoio sul quale giace una gallina di legno intenta a covare uova che sembrano di pavone. Il padrone fa finta di diffidare della loro freschezza e si viene così a scoprire che il guscio è di farina impastata e che dentro c’è un beccafico bello grasso che nuota in un rosso d’uovo pepato.
Se un vassoio d’argento pesante mezzo quintale cade dalle mani di uno schiavo, il padrone lo fa gettare via insieme ai rifiuti. Poi altri schiavi passano per la lavanda delle mani e adoperano vino puro e non del peggiore. Il vino che vien posto sulla tavola, in anfore sigillate di grosso vetro, è Falerno di cento ani fa. Ed ecco che arriva il primo piatto forte della serata, una specie di trofeo coi dodici segni dello zodiaco e ogni segno è rappresentato da una ghiottoneria particolare: i Pesci due triglie; il Granchio un grosso gambero di mare; il Toro una braciola di manzo; e così via.
Quando tutti hanno osservato ed hanno espresso la loro ammirazione, a un cenno del padrone quattro schiavi entrano a passo di danza e sollevano la parte superiore del trofeo: sotto c’è un immenso vassoio colmo di pollastre grasse e di ventresche lardose che incorniciano una lepre alata, con la quale il cuoco ha voluto raffigurare Pegaso. Quattro satiretti versano intanto da piccoli otri una salsa piccante su certi pesci delicati che sembrano nuotare nel guazzo.
La conversazione si fa sempre più spiritosa, anche se non è tra le più fini, considerando il genere dei convitati, quasi tutti liberti arricchiti. Ed ecco altre sorprese: dopo che i servi hanno disteso nuove coperte sui letti, dipinte con reti e cacciatori, e dopo che una muta di vivacissimi cani da caccia è entrata di corsa nella stanza, arrivano dei servi portando un gigantesco cinghiale disteso su un vassoio, e alle cui zanne sono appesi due cestelli intrecciati con foglie di palma e ricolmi l’uno di datteri carioti, l’altro di datteri tebaici.
Tra le esagerate esclamazioni di meraviglia degli ospiti, si fa avanti allora una specie di barbuto cacciatore con le gambe attorte di cinghie e con una mantellina di damasco; brandito un coltello mena un gran colpo nel fianco del cinghiale, e dallo squarcio si alza a volo uno stormo di tordi. Gli uccellatori stavano pronti all’intorno, con le canne cosparse di vischio e in un attimo riacchiappano tutti gli uccellini che svolazzano come impazziti per il triclinio. Allora il padrone di casa ordina che ne venga servito uno per ciascun commensale. Intanto che gli uccelli cuociono i servi si accostano ai canestri che sono appesi alle zanne del cinghiale, e distribuiscono in egual misura tra i convitati i dolcissimi datteri delle due diverse qualità.
E il banchetto a questo punto è appena a mezzo: il padrone vuol divertirsi ancora a sbalordire gli ospiti, che in cuor loro lo mandano a quel paese, ma che, per essere venuti, sono costretti ormai a stare al gioco.
Ecco, adesso i servi portano in tavola un maiale di rispettabili dimensioni che il cuoco finge di non aver per la troppa fretta sventrato. E proprio mentre sta per essere punito della dimenticanza imperdonabile, il padrone, fingendo di cedere alle preghiere degli invitati, glielo fa aprire lì per lì, e dal ventre del porco escono salsicce e sanguinacci caldi.
Poi mettono in tavola un trionfale trofeo di dolci e di frutta che schizzano giallo zafferano addosso agli ospiti come fontane burlesche; e poi ancora galline ingrassate da rivoltar lo stomaco, con contorno di uova d’oca incappucciate e tordi di fior di farina riempiti riempiti di uvetta e di noci, e mele cotogne irte di spini per figurare dei ricci, e un’oca ingrassata circondata da pesci e da uccelli d’ogni tipo, che il cuoco con abilità da scultore ha foggiato con carne di maiale. E ancora ostriche e lumache.
Ma qualcuno scivola sotto la tavola, altri, più saggi, fanno chiamare i loro schiavi ai quali sottovoce ordinano di preparare la lettiga e le torce, poi, senza parere, tagliano la corda: il padrone è diventato triste e malinconico a causa del troppo vino che ha bevuto e comincia a parlare della morte… (Petronio, Arbitro, Satiricon)

Le grandi strade romane

La prima delle grandi strade fu, tre secoli prima di Cristo, l’Appia. Costruita per iniziativa di Appio Claudio il Cieco, censore, questa via unì Roma a Capua secondo un itinerario razionale, e in seguito fu prolungata fino a Brindisi, estremo lembo d’Italia, passando da Benevento e da Taranto.
Le altre seguirono nei secoli successivi e collegarono dapprima i luoghi vicini a Roma, come la via Clodia che portava in Etruria, la Cassia che attraverso l’Etruria portava in Emilia, l’Aurelia che menava in Liguria, la Postumia che partendo da Genova, attraverso la valle padana e il Veneto, giungeva ad Aquileia e oltre fino a Concordia sull’Adriatico, la Flaminia che arrivava a Rimini, la Salaria che congiungeva Roma all’Adriatico, l’Emilia che attraverso la pianura padana da Rimini raggiungeva Piacenza, la Latina che scavalcava l’Appennino e giungeva in Campania, la Valeria che prolungava la Triburtina da Tivoli fino a Corfinio, la Popilia che distaccandosi dall’Appia giungeva fino a Reggio Calabria attraversando la Lucania. Poi le nuove strade si protesero nelle province conquistate, come l’Egnatia in Balcania, il prolungamento dell’Aurelia in Gallia che, dalla Provenza, di cui seguiva la costa, arrivava fino a Lione seguendo la valle del Rodano, e le altre tante che si diramavano verso il confine del Reno.
Le strade, la cui larghezza massima si aggirava sui cinque metri, erano pavimentate con ghiaia o erano, come la via Appia, selciate con grossi ciottoli o con blocchi di pietra basaltica squadrati a forma di poligoni regolari.

La donna romana fa toilette

Se nei primi tempi di Roma le donne non curavano molto il loro viso e il loro abbigliamento, nell’età repubblicana, per influenza dei costumi orientali, la donna acquisì il gusto delle vesti raffinate, degli ornamenti preziosi e delle cure di bellezza. Come prima cosa il mattino, appena alzata, si lava accuratamente il viso, poi lo ammorbidisce con un unguento oleoso. Passa quindi alla pulizia dei denti e in tutte queste occupazioni è attorniata da due o più schiave che le presentano lo specchio e che sono adibite soprattutto alla sua pettinatura. Essa non ignora poi l’uso del trucco per gli occhi e il rosso per le labbra.

I teatri

Erano formati da una gradinata a semicerchio detta cavea che andava restringendosi verso il centro. Nel mezzo era l’orchestra e lì eran poste sedie riservate ai senatori. Di fronte stava la scena dietro e ai lati da muri variamente ornati. Gli attori portavano sul volto una maschera e quando recitavano le tragedie indossavano abiti pomposi e calzavano alti coturni; per le commedie e per le farse portavano abiti comuni, di colori vivaci, e ai piedi scarpe basse, dette socchi.

Gli anfiteatri

Possono considerarsi formati dall’unione di sue teatri e quindi avevano la forma quasi circolare o meglio ellittica. La gradinata girava tutt’attorno e nel mezzo c’era una spianata pure di forma ellittica in cui si svolgevano gli spettacoli. Questi consistevano in lotte fatte combattere da gladiatori fra di loro o contro bestie feroci. I primi teatri e anfiteatri romani furono costruiti in legno; soltanto nel primo secolo avanti Cristo se ne costruirono in muratura, alcuni di grandissime dimensioni, capaci di parecchie decine di migliaia di persone. In qualche luogo dove il terreno era roccioso e in forte pendio o faceva una curva quasi semicircolare, la gradinata dei teatri si costruiva sulla roccia stessa.

Le terme

Le Terme erano edifici destinati ai bagni, i quali erano molto in uso presso i Romani a causa del clima caldo e per ragioni igieniche. Queste costruzioni, prima semplici, furono più tardi grandiose e piene di lusso. Vi si potevano fare bagni freddi o tiepidi o caldi dentro ad ampie vasche dette piscine o dentro a tinozze. Oltre alla conduttura dell’acqua v’erano anche tubi attraverso cui l’aria alquanto riscaldata era trasportata in apposita stanza detta tepidario dove si raccoglievano quelli che avevano bisogno di sudare. Più tardi si introdusse l’abitudine del bagno a vapore, fatto mediante aria molto calda. Oltre alle stanze per i vari bagni, le Terme contenevano spogliatoi per bagnanti, stanze dove essi si fregavano e si ungevano il corpo dopo il bagno, locali destinati agli esercizi ginnici, al passeggio, alla conversazione.
Le Terme fatte costruire dall’imperatore Caracalla, delle quali ci restano tuttora degli avanzi notevoli, erano veramente magnifiche per grandiosità ed eleganza di costruzione architettonica, per ornamenti di colonne, di statue e di quadri, per la bellezza dei marmi che rivestivano le pareti e dei mosaici che formavano l’impiantito.

Il Carnevale dei Romani

Il giorno decimoquarto avanti le calende di gennaio, ossia per noi il 19 dicembre, a Roma avevano inizio le feste di Saturno, o Saturnalia.
Le vie erano affollate di gente in preda alla più sfrenata allegria. Particolarmente lieti erano gli schiavi, i quali, per tre giorni, erano liberi di fare ciò che volevano, come fossero i padroni. Alla festa intervenivano cantanti e suonatori che inneggiavano a Saturno con il suono acuto dei flauti e con quello più dolce della lira; giocolieri improvvisati; comitive di buffoni con il volto coperto di maschere, i quali saltavano al suono delle tibie e delle chitarre. Ad accrescere il frastuono si univano le voci dei venditori di giocattoli, di cibi e di merce varia.
A un certo punto la folla, che gremiva di continuo il tempio di Saturno, poteva assistere a uno strano spettacolo: l’ingresso del Pretore urbano, portato in trionfo da un gruppo di individui sparuti che avevano in mano una catena di ferro: erano i prigionieri del carcere Mamertino, che venivano graziati in onore del dio e che a lui portavano le loro pesanti catene. (P. Piccoli Allodoli)

Un nuovo cittadino romano

Il 17 marzo in molte case dell’antica Roma c’era festa perchè i giovinetti, che avevano compiuto i diciassette anni, vestivano la toga virile facendosi veri cittadini romani.
Anche in casa dell’avvocato Lucio Emilio Sullo erano convenuti parenti, amici e clienti per festeggiare il figlio Marco, che da poco tempo aveva passato il diciassettesimo anno. All’apparire del giovinetto, tutti esclamarono: “Gli dei ti proteggano, Marco!”
Marco rispose con un sorriso e poi si avvicinò all’altarino degli dei Lari, protettori della casa.
Davanti all’altarino si trovavano già il babbo, la mamma e i fratelli minori. Il padre, sacerdote della famiglia, si accostò a Marco e gli sganciò dal collo la catenina della bulla, una specie di medaglione, che i Romani credevano portasse fortuna.
“Ora”, gli disse il padre, “hai forze sufficienti per sorreggerti da te e non ne hai più bisogno”.
A un cenno del padre, uno schiavo aiutò Marco a togliersi la toga con la balza porpora e quindi porse una candida toga nuova fiammante, senza alcun orlo, proprio come quella che tutti gli adulti Romani indossavano sulla tunica.
La mamma stessa, con le lacrime agli occhi per la commozione, lo aiutò ad indossare l’abito che lo faceva un nuovo cittadino romano.
Quando il giovinetto apparve vestito da uomo, suo padre gli sorrise contento, sua madre lo abbracciò e tutti i presenti si congratularono con lui, ripetendo questo augurio: “Che gli dei ti conservino sano per molti anni!”
Finita la piccola cerimonia, si formò il corteo per accompagnare solennemente il giovinetto fino al Foro.
Il corteo si apriva con alcuni schiavi che avevano trombe d’argento, seguiti da fanciulli e fanciulle. Poi veniva il festeggiato con i parenti, e quindi seguivano gli amici e i conoscenti.
Giunti nel Foro, Marco si presentò davanti al Pretore, il quale scrisse su una pergamena il suo nome e lo salutò con queste parole: “Stai sano, Marco Emilio Sullo! Da oggi sei un nuovo cittadino romano!”
Il corteo proseguì verso il tempio della dea Gioventù e quindi salì il Campidoglio, il colle sul quale si ergeva il tempio di Giove, il più importante di Roma.
Qui il nuovo cittadino offrì agli dei un bianco torello, che venne ucciso davanti all’altare. Salì al cielo il fumo, mentre la sua tenera carne fu poi usata per il banchetto.
Usciti dal tempio, il padre di Marco mostrò al figliolo la città che si stendeva ai piedi del Campidoglio, bellissima coi suoi infiniti marmi bianchi, che rilucevano al sole.
“Marco”, gli disse “da oggi anche tu puoi essere utile alla regina del mondo”.
“Cercherò di esserlo” rispose Marco.
Prima di tornare a casa, il giovanetto sostò nella bottega di un barbiere. Davanti alla bottega gli invitati formarono dei gruppi in attesa. Anche i curiosi si fermavano quando sentivano dire: “C’è un giovinetto che si taglia la prima barba!”
In un recipiente speciale, la barba fu poi offerta in un tempio agli dei, e all’uscita nuovi abbracci, nuovi auguri e anche molti regali al nuovo e fortunato cittadino romano. (R. Botticelli)

Nelle terme

Lucio Valerio attraversò il vasto atrio delle terme, seguito dal corteo dei suoi schiavi. Erano le due del pomeriggio, e i saloni delle terme erano affollati.
Lucio Valerio entrò anzitutto nella palestra, dove fece alcuni esercizi ginnici che gli sciolsero le membra e gli riscaldarono il corpo, poi lasciò le vesti nello spogliatoio (uno schiavo ne rimase a guardia) e si diresse verso la grande piscina fredda: il frigidario. Si tuffò e nuotò nell’acqua gelida per diversi minuti. Quindi si recò nel tepidario, dove sedette su una delle panchine di marmo per ristorarsi con un soffio di aria tiepida… Rimaneva da fare il bagno caldo. Valerio passò nel calidario e si immerse nella vasca.
Subito gli schiavi si misero all’opera: uno gli strofinò le membra con soda per pulirgli la pelle, un altro lo massaggiò con cura, un terzo lo unse con un olio profumato, un quarto gli porse i panni per asciugarsi. Il servo rimasto nello spogliatoio arrivò con le vesti. E, per ultimo, il coppiere gli porse una tazza di vino caldo e fragrante, addolcito con miele.

Uno spettacolo nel Colosseo

Ecco l’Imperatore: il popolo, sempre in solluchero alle feste, e in specie a feste di sangue, gli batte le mani. I sacerdoti e le vestali consacrano sacrifici agli dei protettori di Roma: il sangue corre, le viscere delle vittime ardono, si consumano nel fuoco sacro; risuonano i cori e la musica; e la moltitudine schiamazza di nuovo.
Al segno di comando compaiono i gladiatori che salutano tutti col sorriso sulle labbra, come se li aspettasse uno squisito festino e non l’inesorabile morte.
Sono nati sulle montagne, nei deserti, hanno respirato l’aria pura dei campi e goduto della sacra libertà. La guerra, soltanto la guerra, ha potuto strapparli alla loro patria. In Roma li hanno ben nutriti perchè facessero buon sangue, sangue dolce da offrire in olocausto al popolo romano. Forse molti di essi, or ora, si feriranno, si uccideranno fra di loro; molti si vogliono bene, si sentono fratelli, eppure dovranno ferirsi, immolarsi.
Eccoli, già si guardano, si minacciano, si avviluppano, si gettano contro a barbara lotta. Se qualcuno, preso da paura per sè, o da compassione per il suo avversario, si tira in disparte, il maestro del circo gli conficca nelle carni nude un bottone di ferro rovente. Il sangue rosseggia, inzuppa la terra.

Lotte di gladiatori
Squillarono le trombe e vi fu un profondo silenzio; migliaia di sguardi si diressero sulla porta verso la quale un uomo, vestito da Caronte, avanzava, battendo su questa tre colpi di martello, quasi invitasse alla morte coloro che si trovavano al di là. Aperti lentamente i battenti, lasciando scorgere una cupa voragine, entrarono nel Circo i gladiatori. Avanzarono a schiere di venticinque: Traci, Mirmilloni, Sanniti, Galli; tutti armati pesantemente. Seguivano i retiarii, con la rete in una mano e nell’altra il tridente.

Furono accolti da applausi che divennero fragorosi. In tutto l’anfiteatro si vedevano facce accese, mani alzate, bocche aperte. E intanto i gladiatori, fatto il giro dell’arena con passo fermo, scintillanti nelle ricche armature, si fermarono davanti alla loggia cesarea, superbi e tranquilli. Uno squillo di tromba acuto interruppe i battimani, i gladiatori alzarono le braccia, e rivolgendosi a Cesare, intonarono lentamente: “Salve, Cesare imperatore! Coloro che sono per morire ti salutano!”.

Dopo, presero posto nell’arena.

Dovevano cozzare schiera contro schiera, ma ai più famosi fu comandato di battersi singolarmente, perchè potessero meglio dar prova di sveltezza e di coraggio. Dal gruppo dei lottatori ne uscì uno ben conosciuto, di nome Macellaio (Lanio), famoso vincitore. Con l’enorme elmo e la corazza che fasciava la schiena poderosa, spiccava sulla gialla arena come un immane scarabeo. Il non meno celebre retiario Calendio gli andò incontro.
Cominciarono le scommesse.

“Cinquecento sesterzi per il Gallo!”

“Cinquecento per Calendio!”

“Per Ercole, ne scommetto mille!”

“Duemila!”

Intanto il Gallo, giunto nel mezzo, cominciava a retrocedere; protendendo la spada, e piegando il capo da una parte, seguiva attentamente l’avversario, e il retiario, svelto, nudo, di forme scultoree, coperte di una sciarpa, rapidamente gli girava intorno, agitando con arte la rete, ora abbassando ora rialzando il tridente…

Ma il Gallo non fuggiva; piantandosi saldo, faceva in modo da avere sempre di fronte l’avversario. C’era qualcosa di pauroso nella sua grossa testa mostruosa in in tutta la sua persona. Gli spettatori sapevano che egli si preparava ad un balzo improvviso che avrebbe potuto decidere della lotta. E il retiario ora gli correva incontro, ora dava un balzo indietro con tale rapidità, che non era possibile seguirlo con lo sguardo.

Più volte il colpo del tridente risuonò sulla corazza, ma il Gallo rimase saldo, dando prova così della sua forza inverosimile. La sua attenzione si concentrava non sul tridente ma sulla rete che gli girava attorno come un uccello di cattivo augurio.

Gli spettatori, trattenendo il fiato, seguivano attentamente il gioco dei lottatori. Lanio, al momento opportuno, balzò alla fine sull’avversario, ma questi, rapidissimo, gli sfuggì di mano, si raddrizzò e scagliò la rete. Il Gallo, con un giro, la respinse con lo scudo, quindi, indietreggiarono ambedue. L’anfiteatro echeggiò delle grida di “Macte!” (ammazzalo!). Nelle prime file si impegnarono nuove scommesse.

E i gladiatori ricominciarono a lottare con arte, con precisione di movimenti, da far pensare che non si trattasse di una lotta di vita o di morte, ma di una gara di destrezza. Lanio cercava di evitare la rete, retrocedendo. Allora coloro che scommettevano cominciarono a gridare: “Dagli addosso!”, eccitandolo a non riposarsi.
Il Gallo obbedì, e si slanciò sull’avversario. Il braccio del retiario si coprì di sangue e la rete gli pendette dalla mano. Lanio si raccolse e spiccò un salto per vibrare l’ultimo colpo. Ma in quel punto, Calendio, che aveva finto di non poter reggere la rete, scansò il colpo e, conficcando il tridente nelle ginocchia dell’avversario, lo fece stramazzare a terra.
Lanio, sempre più avviluppato nella rete fatale, cercava invano di rialzarsi, sempre più imbrogliandosi. Intanto altri colpi lo inchiodavano a terra; puntò la mano, raccolse le forze ma invano: portò alla testa la mano che non reggeva più la spada, e cadde. Il Circo tremò dagli applausi, dalle grida. Il pubblico era diviso in due parti. Chi gridava morte, chi grazia. Ma il retiario non guardava che Cesare e le Vestali e aspettava la loro sentenza.

Per sventura, l’imperatore non amava Lanio, perchè aveva scommesso per lui una volta ed aveva perduto, perciò, sporgendo la mano, abbassò il pollice.

Il segno fu ripetuto dalle Vestali. (E. Sienkiewicz)

Storia di Roma EPOCA REPUBBLICANA. Tutte le opere  contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.

Storia di Roma INVASIONE DEI GALLI – dettati ortografici e letture

Storia di Roma INVASIONE DEI GALLI – dettati ortografici e letture. Una raccolta di letture e dettati ortografici  di autori vari, per la classe quinta della scuola primaria.

Le oche del Campidoglio

I Galli erano un popolo ancora selvaggio che viveva di là delle Alpi; erano alti, biondi, forti e si muovevano di terra in terra in cerca di preda. Un giorno scesero in Italia, travolsero la debole difesa degli Etruschi, penetrarono nel Lazio ed entrarono in Roma, incendiando, rubando e distruggendo ogni cosa.
I Romani, per tentare l’estrema difesa, si asserragliarono sul Campidoglio, dove erano custodite le oche, sacre alla dea Giunone. Una notte, mentre le sentinelle, stanche di vegliare, si erano addormentate, i Galli si avvicinarono silenziosi alla fortezza e ne tentarono la scalata. I Romani stavano per essere sorpresi nel sonno e uccisi, quando le oche si misero a starnazzare svegliando i difensori, che corsero alle armi e ricacciarono i nemici.

La spada di Brenno

Nella rocca scarseggiavano i viveri e i Romani furono costretti a chiedere la pace a Brenno, il capo dei Galli, che volle in cambio mille libbre d’oro.
Portata la bilancia, si cominciò a pesare l’oro, ma questo non bastava mai, perchè la bilancia dei Galli era falsa. I Romani protestarono, ma Brenno buttò la sua pesante spada sulla bilancia e disse: “Guai ai vinti! Voglio ancora tanto oro quanto pesa alla mia spada!”
In quel momento terribile, Furio Camillo, radunò i Romani timorosi e dispersi e li guidò ad un assalto improvviso. I Galli non si aspettavano certo l’attacco e furono travolti. Rapidi come erano venuti, si ritirarono nelle loro terre, incalzati dall’esercito di Camillo. Il valoroso generale romano fu chiamato il secondo fondatore di Roma.

L’invasione dei Galli

I Galli erano popoli che abitavano nella regione che oggi si chiama Francia e che anticamente era denominata Gallia. Essi passarono le Alpi e scesero in Italia in cerca di nuove terre. Dopo aver occupato gran parte dell’Italia Settentrionale, attraversarono l’Etruria (così era chiamata in quel tempo la Toscana) e penetrarono nel Lazio. I Romani si prepararono a difendere il loro paese minacciato e dettero battaglia presso l’Allia, un piccolo affluente del Tevere, a soli 16 km dalla città, contro un nemico agguerrito e triplo di numero. Le legioni romane furono travolte, e la via della città aperta al nemico (390 aC).
La popolazione, atterrita, fuggì ma gli uomini atti alle armi si raccolsero a Veio, preparandosi a continuare la resistenza. Solo per patriottismo e per attaccamento al suolo nativo, rimase a Roma un piccolo numero di vecchi, in gran parte patrizi. Un manipolo di giovani animosi si asserragliarono nella fortezza del Campidoglio da dove respinsero l’uno dopo l’altro i ripetuti attacchi del nemico.

Papirio e i Galli

Quando i Galli entrarono in Roma solo i vecchi si rifiutarono di abbandonare le loro case e rimasero in città. Quelli che avevano occupato alte cariche, indossarono la loro toga di cerimonia ed attesero, seduti sul loro scanno d’avorio.
Quando i Galli, avidi di bottino, entrarono nella indifesa città trovarono le case dei plebei sbarrate e vuote, quelle dei patrizi spalancate.
Esitanti si affacciarono dentro l’atrio delle dimore patrizie e la vista di quei vecchi maestosi, immobili come statue, solenni come divinità, li intimorì.
Si racconta che un Gallo volle lisciare la barba a uno di essi: quel gesto ruppe ogni incantesimo. Marco Papilio, tale era il nome del vecchio, colpì con lo scettro che teneva in mano il rozzo soldato e questo segnò l’inizio della strage.
Tutti i vecchi furono trucidati, tutte le case furono saccheggiate e incendiate.

Le oche salvano il Campidoglio

I Galli decidono di approfittare del favore delle tenebre per tentare l’assalto al Campidoglio; con  passo felpato e circondati da un silenzio così profondo da ingannare non solo le sentinelle ma gli stessi cani da guardia, si fanno sotto la rocca.  Non un ramo spezzato, non un bisbiglio: pare che trattengano perfino il respiro. E così cominciano la scalata. Ma non possono sfuggire alle oche sacre a Giunone, quelle oche che i Romani, malgrado la carestia dell’assedio, avevano risparmiato per ossequio alla dea. E le oche salvarono il Campidoglio, salvarono Roma. Intuita la presenza degli estranei, cominciarono a gridare, sbattendo gran colpi d’ali. Il fracasso sveglia M. Manlio che, chiamando all’armi i compagni, corre sugli spalti della rocca: un Gallo è già giunto lì sopra, pronto a scavalcare, ed egli lo precipita giù, facendogli trascinare nella caduta quelli che lo seguivano più vicini. Intanto tutti i Romani subito riuniti assaltano il nemico con ogni sorta di proiettili, specie con macigni che li schiacciano e li fanno rotolare in basso.

Il secondo fondatore di Roma

Purtroppo, costretti dalla fame, dopo pochi giorni, i coraggiosi difensori della rocca capitolina dovettero venire a patti coi Galli. E venne stabilito che il nemico avrebbe abbandonato Roma solo dietro compenso di una grande quantità d’oro.
Mentre si pesava questo oro, Brenno, il capo dei Galli, gettò sulla bilancia, dalla parte dei pesi, la sua pesante spada, per aumentare la taglia; e alle proteste dei Romani arrogantemente rispose: “Guai ai vinti!”
Proprio in quel momento rientrava in Roma Furio Camillo, valoroso generale che aveva raccolto e radunato i guerrieri fuggiaschi. Come una furia giunse sulla piazza; si arrestò di fronte a Brenno dicendo: “Non con l’oro, ma col ferro si libera Roma!”
I Romani, rianimati da tanto coraggio, ripresero la lotta, e i Galli, con enormi perdite, furono cacciati dalla città e costretti alla fuga. Roma era salva.
La città, quasi totalmente distrutta, per volere di Camillo venne ricostruita più bella e più grande.

Camillo

Camillo era un grande generale romano. Egli viveva in esilio, essendo stato accusato di essersi appropriato dei bottini di guerra. Quando apprese che i Galli stavano contrattando la resa di Roma, formò un piccolo esercito di soldati fuggiaschi, arrivò in Campidoglio e provocò la fuga dei barbari e di Brenno, il loro capo.

Furio Camillo

Nel 389 aC Roma attraversò uno dei più critici momenti della sua storia. Un’irruzione di Galli cisalpini, popolo barbaro e indubbiamente assai inferiore ai Romani in virtù militare, invase l’Etruria, minacciando il territorio della stessa Repubblica. Roma mandò loro incontro le sue milizie, ma, orgogliosamente svalutando la potenza di quelle avversarie, le affidò a sei tribuni militari, per giunta fra loro discordi. Sul piccolo fiume Allia, a nord est di Roma, avvenne lo scontro: l’esercito romano fu letteralmente distrutto.

I Galli proseguirono quindi la marcia verso l’Urbe, nella quale entrarono tre giorni dopo la battaglia: furono stupiti di trovarla indifesa e con le porte aperte. Se ne impadronirono quindi senza colpo ferire, e la saccheggiarono e incendiarono facendovi grosso bottino, ma non poterono occupare la rocca del Campidoglio, dove le forze romane superstiti si erano fortificate, pronte a sostenervi un lungo assedio. Allora i Romani pensarono di richiamare al comando dell’esercito un grande capitano che, nonostante le sue mirabili gesta in una precedente guerra contro gli Etruschi, essi avevano mandato in esilio: Marco Furio Camillo.

Camillo giunse a Roma, alla testa di un esercito proprio mentre gli assediati nel Campidoglio stavano patteggiando la resa coi Galli: questi erano comandati da Brenno.

Si era convenuto che, dietro il pagamento di mille libbre d’oro, i Galli avrebbero sgomberato la città; e già si stava pesando il prezioso metallo. Senonché quei barbari usavano inganno nel peso, prima nascostamente, poi anche in palese, come scrive Plutarco, facendo piegare la bilancia dalla loro parte.

E alle lagnanze dei Romani, Brenno aveva risposto con le arroganti parole: “Guai ai vinti!”, e, ciòò dicendo, si era slacciato la spada e insieme col pendaglio, l’aveva aggiunta ai pesi.

A questo punto si ode clamore alle porte della città: sono le avanguardie di Camillo.

E il dittatore, a gran passi, si avvicina; eccolo, è giunto sul colle Capitolino, mentre i Galli, esterrefatti, lo guardavano senza osare fermarlo.

Camillo toglie dalla bilancia l’oro, lo dà ai littori, impone ai Galli di prendere la bilancia e i pesi e di andarsene, e aggiunse che i Romani avevano per loro antica usanza di salvare la patria non con l’oro, ma col ferro.

Nacque subito una zuffa, e sarebbe degenerata in battaglia, se Brenno, con assennata prudenza, non avesse, di nottetempo, abbandonato Roma, ritirandosi a molte miglia da essa.

Ma il giorno seguente, allo spuntare del sole, quei barberi si videro davanti, sorto come per miracolo durante la notte, un esercito ordinato e scintillante di armi e di corazze: lo comandava Camillo. Questa volta furono i Romani ad attaccar battaglia, e non desistessero dal combattere finchè l’ultimo Gallo non fu trucidato o messo in fuga. Ciò fu nel febbraio del 388, essendo l’occupazione di Roma per opera di Brenno durata sette mesi.

Si può immaginare come fosse stata ridotta la città di Romolo; tanto che una corrente di cittadini e di capi fra essi, propendeva per l’abbandono dell’Urbe, e il trasferimento della capitale nella città di Veio. Camillo era di contraria opinione, ma, rispettoso delle leggi, chiede che la cosa venisse deliberata in Senato. Ora, mentre i senatori stavano parlamentando, un centurione, che si trovava a passare presso la Curia, chiamò a gran voce l’alfiere, e gli ordinò di fermarsi e di piantare l’insegna nel luogo dove si trovavano.

“Qui” soggiunse, “resteremo ottimamente”. La voce entrò come un comando e un vaticinio nell’aula senatoria, e parve lo stesso comando di un Dio. E così Roma fu salva, e a Camillo fu attribuito il titolo, mai dato ad altri, di “secondo fondatore di Roma”.

Molte altre gloriose imprese compì ancora questo magnifico condottiero e uomo politico. Basterà dire che per sei volte fu tribuno militare, per cinque dittatore, ed ebbe quattro volte gli onori del trionfo.

Ma non potè concludere, come forse avrebbe desiderato, la sua vita magnanima nell’ardore della battaglia, perchè nel 366 aC morì di pesta. A perenne ricordo gli venne eretta una statua nel Foro, ultima e postuma onoranza fra le tante che questo grande Romano ebbe dalla sua città.

Storia di Roma INVASIONE DEI GALLI – dettati ortografici e letture. Tutte le opere  contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.

Storia di Roma GIULIO CESARE – dettati ortografici e letture

Storia di Roma GIULIO CESARE – dettati ortografici e letture. Una raccolta di letture e dettati ortografici  di autori vari, per la classe quinta della scuola primaria.

Il primo triumvirato

Dopo la morte di Mario e Silla si costituì in Roma il primo triumvirato, cioè il primo governo di tre persone; in tal modo il Senato perdette gran parte della sua autorità e del suo potere e la Repubblica si avviò verso il tramonto.
Questo primo triumvirato era formato da Gneo Pompeo, un abile generale che aveva occupato la Palestina e vinto i Pirati; da Licinio Crasso, noto per le sue sterminate ricchezze; e da Giulio Cesare, un abile generale parenti di Mario e caro ai plebei.
A Crasso fu affidato il comando della guerra contro un popolo asiatico e vi trovò la morte. Pompeo rimase in Roma e Cesare fu inviato a combattere nella Gallia.

Crasso

Ai nostri tempi Crasso sarebbe stato un grande capitalista, un grande uomo d’affari. Aveva una maestranza specializzata di cinquecento schiavi ed ogni volta che Roma era colpita da uno dei soliti incendi o disastri edilizi (le case erano quasi tutte di legno, anche se rivestite di laterizi) egli comprava macerie e terreni e ricostruiva o restaurava.
I suoi schiavi non erano solo specializzati in costruzioni, ma molti erano istruiti e sapevano fare gli scrivani, gli amministratori, i dispensieri, i saggiatori d’argento. Una vera e propria organizzazione industriale!
Ma questo finanziere faceva anche della politica attiva e sempre in prima linea, senza interposta persona. E’ lui l’organizzatore ed il selezionatore di schiavi che, riunito un esercito, vince la battaglia alle sorgenti del Silaro, in cui Spartaco (capo di un gruppo di gladiatore rivoltosi) fu sconfitto ed ucciso.
Crasso cadde in uno sfortunato tentativo di conquista del regno dei Parti.
(F. Arnaldi)

Pompeo

Ufficiale di Silla, diviene ben presto un prode generale. E’ un uomo audace, deciso a tutto. Una volta, mentre stava per salpare  da un porto si levò un vento fortissimo e i piloti decisero di rimandare la partenza. Ma Pompeo saltò sulla nave e ordinò a gran voce che si salpasse ugualmente dicendo: “Ora è necessario navigare, e non vivere”.

Cesare

Lavorava instancabilmente: dormiva  per lo più in lettiga, per continuare la marcia anche di notte. Del cavallo era padrone assoluto, poichè, fin da ragazzo, si era abituato a montarlo e a farlo galoppare tenendo le mani incrociate sul dorso. Divenuto generale, mentre cavalcava, si teneva vicino due o tre scrivani ai quali dettava nello stesso tempo lettere su argomenti diversi.

Storia di Roma GIULIO CESARE – dettati ortografici e letture
Giulio Cesare

Dopo gli anni delle guerre civili, la pace ritornò tra i cittadini romani. Un patrizio abile e ambizioso, Cneo Pompeo, spense le ultime resistenze del partito di Mario e si conquistò molta stima lottando vittoriosamente contro i pirati che minacciavano la navigazione nel Mediterraneo.
Con Pompeo, un altro personaggio si metteva in luce a Roma: Caio Giulio Cesare, di nobile origine, ma amico del popolo. Cesare e Pompeo si accordarono per dividersi il potere e, per alcuni anni, non si ebbero contrasti.
Un grande progetto maturava intanto nella mente di Cesare: l’Italia era tutta romana, ma di là dalle Alpi, c’erano altre terre e altri popoli da conquistare. Cesare mosse con le sue legioni verso la Gallia, la regione che oggi chiamiamo Francia. Fu una guerra lunga e difficile. Le tribù dei Galli si difesero con molto coraggio. Infine Cesare fu padrone di tutta la Gallia: una nuova terra, una provincia, si aggiungeva al dominio di Roma.
Cesare continuò la sua impresa: in dieci giorni gettò un ponte sul fiume Reno, assalì i Germani che abitavano sull’altra sponda e conquistò un tratto delle loro terre. Poi, giunto alla riva dell’oceano Atlantico, preparò una flotta, sbarcò in Britannia, la grande isola che oggi si chiama Inghilterra, e ne sottomise una parte.
Le imprese compiute da Cesare erano straordinarie e tutto il popolo seguiva con entusiasmo gli avvenimenti. Pompeo ebbe timore che la fama di Cesare oscurasse la sua e convinse il Senato a richiamare il generale vittorioso; giunto ai confini dello stato romano egli doveva congedare i legionari e presentarsi a Roma, solo.
Cesare capì che lo si voleva privare del comando. Tornò in Italia con tutto il suo esercito ed entrò in armi nello stato romano, il confine del quale era segnato, allora, dal breve corso del fiume Rubicone (nella pianura romagnola). Cesare si fermò presso il fiume un istante: valicarlo con le legioni voleva dire ribellarsi all’ordine del Senato. Poi si decise e spinse il cavallo nell’acqua esclamando: “Il dado è tratto”.
Cesare entrò in Roma accolto come un trionfatore. Pompeo e gli altri Senatori erano fuggiti dalla città. Pompeo si era rifugiato in Grecia, dove stava raccogliendo le forze rimategli fedeli per preparare la rivincita. Cesare non gliene diede il tempo: lo raggiunse e lo sconfisse in una dura battaglia a Farsalo. Pompeo fuggì in Egitto, stato amico e protetto da Roma. Il re egiziano Tolomeo capì che le sorti dello scontro volgevano a favore di Cesare; catturò Pompeo, lo fece uccidere, ne mozzò il capo e lo presentò al generale vittorioso. Cesare, davanti al nemico ucciso a tradimento, pianse: Pompeo non meritava una morte senza gloria.
Ormai Cesare non aveva più avversari in grado di contrastarlo. Tornato a Roma, fu eletto Dittatore a vita.
Egli aveva un animo grande e generoso e non abusò mai del suo potere, eppure nel cuore di molti nacque il timore che Cesare volesse sopprimere la Repubblica e farsi nuovo re di Roma. Un gruppo di suoi avversari più accaniti lo attese in Senato e lo colpì a pugnalate. Tra gli assalitori, Cesare vide anche Bruto, un giovane che egli aveva protetto e beneficato. Allora non volle più difendersi; si coprì il volto con la toga e cadde trafitto dai pugnali. Era l’anno 44 aC.

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La conquista della Gallia

La più grande impresa di Cesare fu la conquista della Gallia, che egli stesso narrò nelle bellissime pagine dei suoi Commentari. Questi famosi libri di ricordi non ci descrivono soltanto le battaglie combattute da Cesare contro i popoli che abitavano oltre le Alpi, ma ci parlano anche dei loro costumi, del loro modo di vita, delle loro credenze religiose.
I Commentari sono anche un prezioso “atlante” di geografia. Cesare, infatti, fece conoscere agli uomini del suo tempo nuove terre e descrisse i fiumi, le montagne, le città e i villaggi, attraverso i quali passava con i suoi soldati.
La Gallia era abitata da popoli quasi barbari. All’inizio delle guerre galliche, nell’accampamento romano circolavano strane voci: si diceva che i Galli erano guerrieri altissimi di statura, assai feroci, e moti soldati avevano paura.
Non appena Cesare fu a conoscenza di questo, radunò i suoi soldati e disse loro: “Ho sentito che qualcuno di voi ha paura di questi Galli, come se in guerra contasse di più la statura e l’aspetto terribile del valore e della disciplina. Chi non vuole venire con me, domani, o quando darò il segnale della marcia, rimanga pure nelle tende”.
A quelle parole i soldati gridarono: “Verremo tutti con te!”
L’indomani nell’accampamento suonarono le trombe e iniziò la marcia vittoriosa.
In meno di otto anni Giulio Cesare espugnò ottocento città. Tutta la Gallia, corrispondente più o meno alla Francia, al Belgio, all’Olanda e alla Svizzera di oggi, diventò dominio romano.

Storia di Roma GIULIO CESARE – dettati ortografici e letture
In Britannia

Conquistate le Gallie, Cesaer superò la Manica e sbarcò in Britannia. Questa impresa d’oltremare ebbe il valore di un’esplorazione. “Cesare” scrisse lo storico Plutarco, “fu il primo a guidare una flotta romana nell’Oceano Occidentale (Atlantico). Con il suo sbarco allargò le cognizioni dei Romani al di là dei limiti del mondo conosciuto”.
Cesare raggiunse l’isola con ottocento vascelli. Non potè però portare a termine la conquista di quel paese perchè ebbe notizia di una sollevazione della Gallia.
Infatti il capo dei Galli ribelli, il principe Vercingetorige, si era posto a capo di numerose tribù per scacciare le legioni romane. Cesare lo assediò nella roccaforte di Alesia e lo costrinse alla resa. Così la Gallia divenne definitivamente una provincia romana (52 aC).

Il dado è tratto

Secondo le tradizioni, un generale vittorioso aveva il diritto di rientrare a Roma da trionfatore. Al trionfo di Cesare si oppose l’ambizioso Pompeo che, in realtà, voleva diventare il solo padrone della Repubblica. Cesare, allora, rischiò tutto per tutto e rientrò in Italia alla testa delle legioni.
Giunto al Rubicone, Giulio Cesare si fermò perplesso. Egli aveva superato ben altri fiumi, larghissimi e impetuosi. Anzi, con grande stupore dei suoi militi, si era improvvisato ingegnere, costruendo rapidamente grandi ponti di legno. Ma davanti al Rubicone si arrestò, col cavallo fermo, le zampe puntate nella riva ghiaiosa.
Il Rubicone era il confine segnato dal Senato. Egli non lo poteva attraversare senza il permesso dei Senatori romani. Attraversarlo voleva dire farsi ribelle l’autorità di Roma.
Giulio Cesare rimase un istante incerto. Una ruga gli si disegnò sulla fronte, che portava sempre scoperta, senza l’elmo. Poi, risolutamente, spinse il cavallo facendo cenno ai portatori delle Aquile di seguirlo.
Il cavallo, con un balzo, lo portò sull’altra riva. Allora il volto di Giulio Cesare si rischiarò. “Il dado è tratto!” disse. La cosa è fatta.
Avrebbe marciato su Roma e sarebbe diventato il capo, non soltanto del suo esercito, ma di tutti i Romani.

Cesare dittatore

Tornato a Roma, Cesare venne onorato con 4 grandiosi trionfi e dal Senato ricevette il titolo di dittatore a vita. Cesare seppe governare nell’interesse del popolo: distribuì terre ai poveri e ai veterani dell’esercito, scacciò i funzionari disonesti e obbligò i grandi proprietari terrieri a far coltivare le loro terre non dagli schiavi, ma da liberi cittadini: in questo modo sarebbe scomparsa la disoccupazione.

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Le idi di marzo

Più volte il Senato offrì a Cesare la corona di imperatore; ma egli sempre rifiutò, perchè credeva che ancora vosse viva la libertà della Repubblica. Tuttavia alcuni patrizi videro in lui il tiranno e decisero di ucciderlo. Fra i congiurati era persino Giunio Bruto, che Cesare amava come un figlio. Fu deciso di ucciderlo in Senato, nel giorno delle idi di marzo (cioè il 15 marzo) del 44 aC.
Pareva che il cielo si opponesse a questa infamia. Un sogno avvertì la moglie di Cesare che il marito correva un grave pericolo; ed elle cercò di trattenerlo a casa, ma invano. Poi, lungo la strada, un indovino avvertì il dittatore e un altro cercò di trattenerlo sulla porta del Senato. Ma sempre invano.
Appena entrò nel Senato, i congiurati gli si gettarono addosso coi pugnali alzati. Cesare cercò di ripararsi con la toga, ma quando vide che tra gli assalitori c’era Bruto, esclamò: “Anche tu, Bruto, figlio mio?”. Rattristato si coprì il volto con la toga per non vedere e cadde morto ai piedi della statua del suo antico avversario Pompeo.

Il calendario giuliano

Il nostro calendario si basa sul Sole, cioè sul movimento di rivoluzione della Terra che gira intorno al Sole. Gli antichi popoli, invece, avevano un calendario basato sulle fasi della Luna.
Anche il calendario romano si basava sulla Luna, e aveva causato grande confusione, tanto è vero che le feste della mietitura non capitavano più in estate, nè quelle della vendemmia in autunno.
Fu Giulio Cesare a far adottare il calendario solare, che fissava la durata dell’anno in 365 giorni e un quarto: lo stesso calendario che usiamo noi, sia pure con qualche modifica. Forse ti chiedi perchè proprio Giulio Cesare volle riformare il calendrio: perchè era Pontefice Massimo, e il calendario era un aspetto della religione. Infatti nell’Antica Roma, il sacerdote e il magistrato erano la stessa persona.

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Ritratto di Cesare

Fu di alta statura, di carnagione bianchissima, occhi neri e fulminei, salute d’acciaio, eccetto negli ultimi tempi, molto accurato nella persona e nelle vesti.
Molto sobrio nel bere, poco curante dei cibi.
Nell’eloquenza e nell’arte della guerra uguagliò se forse non superò tutti i più famosi. Cicerone scriveva di lui: “Quale oratore, anche di coloro che non hanno mai atteso ad altro, si può anteporre a Cesare? Chi più acuto e più ricco di idee? Chi più ornato ed elegante nella forma?”
Nell’uso delle armi e nel cavalcare fu abilissimo, resistente oltre dire alla fatica. Durante la marcia era sempre in testa alle truppe, qualche volta a cavallo, più spesso a piede, e a capo scoperto sia che piovesse, sia fosse bel tempo.
Faceva viaggi lunghissimi con incredibile rapidità, giungendo a percorrere cento miglia al giorno; se un fiume gli impediva di proseguire, lo attraversava a nuoto o tenendosi a galla con otri gonfiati. Nelle spedizioni guidava il suo esercito con audacia pari alla prudenza. Se doveva attraversare zone pericolose non faceva avanzare i suoi uomini se prima non aveva esaminato attentamente la natura del luogo.
Molti sono gli episodi che testimoniano il coraggio di Cesare. Una volta, per rientrare nel proprio accampamento cinto d’assedio dai Germani, si travestì da guerriero gallo ed attraversò indisturbato le linee ed i posti di guardia nemici.
Una notte tentò la traversata dell’Adriatico affidandosi da solo ad una piccola imbarcazione, senza rivelare la propria identità al barcaiolo. Solo quando la tempesta minacciò di travolgere l’imbarcazione, Cesare permise al barcaiolo di tornare indietro.
Amava i suoi soldati e ne era riamato: li giudicava infatti in base al loro valore e li trattava con grande severità o indulgenza a seconda delle necessità. Quando il nemico era vicino, esigeva nell’accampamento una disciplina ferrea e non ammetteva che si chiedesse l’ora ed il luogo del combattimento. Tutti dovevano essere pronti per attaccare o per marciare al momento che lui riteneva opportuno. Con questi metodi Cesare si assicurò la devozione dei suoi uomini e ne fece dei soldati coraggiosissimi (rid. da Svetonio, “Le vite di dodici Cesari”)

Storia di Roma GIULIO CESARE – dettati ortografici e letture
Cesare, uomo di attività

Il dinamismo di Cesare era leggendario e famosissimo quando ancora egli era in vita. Divenne poi quasi un esempio costante, dopo la morte del dittatore, nè alcuno storico benevolo o malevolo che fosse, si dimenticò di parlarne. Anche Plutarco fa un ritratto di Cesare in cui sottolinea il dinamismo di quel condottiero; dice, lo storico greco, che Cesare era gracile e pallido e soggetto a continue emicranie. Ma da questa debolezza del corpo egli, invece che farne una scusa per vivere in modo tranquillo con abitudini molli, trasse motivo di esercitare il corpo in continue marce, mangiando frugalmente e dimorando il più possibile all’aria aperta. Per lo più dormiva su di un carro o su di una lettiga, accoppiando così il riposo con l’azione. Durante il giorno si recava con il cocchio a visitare accampamenti, città e fortificazioni, tenendosi sempre al fianco un giovanetto esperto nello scrivere strada facendo quel che egli dettava. Lo seguiva un soldato con la spada. Viaggiava inoltre con tanta rapidità che la prima volta che partì da Roma giunse al Rodano in otto giorni. Il cavalcare gli riusciva facile perchè vi si era addestrato sin da fanciullo e sapeva stare, con le mani sul dorso, sul cavallo spinto al galoppo. E fu proprio durante quella sua prima campagna che si abituò a dettare lettere cavalcando a due scrivani contemporaneamente; anzi, secondo quel che riferisce Oppio, anche a più di due alla volta.
Era poi molto resistente alle fatiche del nuoto, cosa che lo salvò durante la battaglia di Alessandria contro Tolomeo.

Storia di Roma GIULIO CESARE – dettati ortografici e letture
La ricognizione di Cesare in Britannia

Nel quarto anno della guerra gallica (55 aC) Cesare conduce due ardite spedizioni: una contro i Germani d’oltre Reno, che avevano oltrepassato il fiume e inflitto uno scacco alla cavalleria romano-gallica; l’altra in Britannia, sul finire dell’estate. In dieci giorni getta sul Reno un ponte magnifico e passa con tutto l’esercito. Devasta il territorio dei Sugambri e li costringe a rifugiarsi nelle selve, semina il panico fra gli stessi Suebi che pure  si occultano nelle foreste; e dopo aver fatto un soggiorno di 18 giorni sulla riva germanica, ripassa il Reno e distrugge il ponte. Evidentemente il momento non gli parve opportuno per una guerra germanica fra le selve e le paludi, con la Gallia irrequieta alle spalle: nei Commentari egli afferma che le sue intenzioni non andavano oltre una ricognizione.
E come ricognizione egli intraprese pure la sua prima spedizione in Britannia sulla fine dell’estate.
L’estate volgeva al termine, e per quanto nella Gallia settentrionale l’inverno sia precoce, Cesare iniziò i preparativi di una spedizione in Bretagna, dove sapeva che i Galli avevano ricevuto aiuti in tutte le loro guerre. Se la stagione non fosse stata sufficiente, considerata già un risultato apprezzabile riuscire a sbarcare nell’isola e osservare direttamente gli abitanti, i luoghi, i porti, le vie d’accesso, di cui i Galli non avevano quasi notizia. E’ raro infatti che qualcuno si diriga in quella regione, ad eccezione dei mercanti; del resto anche questi non conoscono altro che la zona costiera e il paese che sta di fronte alla Gallia.
Cesare chiamò a sè i mercanti da ogni dove, ma non gli fu possibile venire a conoscere ne l’estensione dell’isola, ne il numero e la natura degli abitanti, ne la loro pratica militare, ne le loro istituzioni. Oscuro parimenti gli restava quali fossero i porti adatti per un gran numero di navi grandi.
Per raccogliere le informazioni necessarie prima di affrontare la prova, mandò con una nave da guerra Voluseno, uomo di fiducia, con l’ordine di compiere un’attenta esplorazione e di tornare al più presto. A sua volta si reca fra i Morini, di dove il passaggio in Bretagna era brevissimo, e dispone che si radunino là molte navi e la flotta che l’estate precedente aveva sostenuto la campagna contro i Veneti.
Frattanto il disegno di Cesare si era divulgato e i Britanni ne erano venuti a conoscenza per mezzo dei mercanti. Alcune città dell’isola mandarono legati a lui, promettendo ostaggi e dichiarandosi pronti a obbedire agli ordini di Roma. Cesare li ascoltò con molta cordialità e li esortò a tener fede alle promesse, quindi li rimandò ai loro paesi, in compagnia di Commio, un capo che Cesare aveva fatto re degli Atrebati, dopo la vittoria riportata su di essi. Il generale romano ne conosceva molto bene il valore e l’intelligenza, lo riteneva uomo fidato, e sapeva che godeva grande prestigio in quelle regioni. Gli ordina dunque di recarsi in quante più città può, di persuaderle ad accogliere il dominio di Roma e di annunciare la sua prossima venuta. Voluseno intanto, dopo aver osservato tutte le regioni dalle navi (egli diffidava dei barbari e perciò aveva creduto bene non sbarcare), tornò cinque giorni dopo da Cesare e gli comunicò il risultato delle sue osservazioni.
Mentre Cesare indugia in questa regione per allestire la flotta, la maggior parte dei Morini mandarono legati per scusarsi della condotta tenuta in precedenza verso di lui, cioè che, barbari e ignari com’erano della consuetudine, avessero osato far guerra ai Romani, e per promettere obbedienza. Questa ambasceria parve oltremodo opportuna a Cesare, il quale non voleva lasciarsi un nemico alle spalle, nè poteva, data la stagione, fare una guerra; d’altra parte non gli era possibile anteporre alla spedizione in Bretagna questioni di sì piccola importanza. Pertanto impose loro gran numero di ostaggi. Questi furono consegnati e la loro sottomissione fu accolta.
Radunate e allestite circa ottanta navi da carico, quante gli parevano necessarie per il trasporto di due legioni, le distribuì, insieme con le navi da guerra che aveva, al questore, ai legati e ai prefetti. Cesare disponeva inoltre di diciotto navi da carico, che si trovavano a otto miglia di distanza, alle quali i venti impedivano di raggiungere il porto di concentramento; e queste le assegnò ai cavalieri. Il rimanente dell’esercito lo affidò  ai legati Quinto Titurio Sabino e Lucio Auruncueleio Cotta, perchè lo conducessero fra i Menapii e nei paesi dei Morini, che non avevano mandato legati a presentarsi. Infine ordinò al legato Sulpicio Rufo di presidiare il porto Izio con un conveniente nucleo di forze.
Appena ebbe compiuti questi preparativi e si presentò il tempo propizio alla navigazione, dopo la mezzanotte levò le ancore, ordinando in pari tempo alla cavalleria di raggiungere l’altro porto, imbarcarsi e mettersi sulla sua rotta. L’ordine fu eseguito con una certa lentezza, mentre Cesare all’ora quarta toccava la Bretagna con le prime navi. Su tutti i colli lo aspettavano schierate le forze nemiche. Il terreno presentava una serie di alture che dominavano il mare e dall’alto permettevano di lanciare dardi sulla spiaggia. Lo sbarco in quel luogo non era facile, pertanto Cesare calò le ancore e aspettò che arrivassero le rimanenti navi.
Intanto, convocati i legati e i tribuni, e messili al corrente delle informazioni avute da Voluseno, espose loro i suoi intendimenti, e raccomandò di eseguire ogni atto, al cenno del comandante e al momento opportuno, secondo le regole dell’arte militare e soprattutto della marina. Sciolta la riunione, per buona combinazione venti e marea erano propizi. Allora diede il segnale; si levarono le ancore ed egli condusse le navi ad ancorarsi a circa sette miglia da quel luogo, in una spiaggia aperta e piana. I barbari, quando videro le intenzioni dei Romani, mandarono avanti la cavalleria; fatti poi seguire i carri, con cui più di frequente combattono, e le altre forze, cercavano di impedire ai nostri di sbarcare.
Lo sbarco era oltremodo difficile per diverse ragioni. Le navi, data la loro grandezza, dovevano fermarsi al largo; i soldati, ingari dei luoghi, con le mani impegnate, gravati dal peso non indifferente delle armi, dovevano saltare dalle navi, resistere nell’acqua e dall’acqua combattere contro i nemici. Questi invece, dalla spiaggia o avanzandosi di poco in mare, liberi nella persona, lanciavano dardi e spingevano avanti i loro cavalli assuefatti a tali prove. I nostri, atterriti, non avvezzi a tale genere di combattimento, non dimostravano lo slancio e l’entusiasmo che erano loro familiari nelle battaglie di terra.
Si combattè accanitamente da ambe le parti. I nostri però non potendo ne mantenersi ordinati, ne tener fermo il piede, ne restare nei propri manipoli, si ammassarono confusamente, chi da una nave chi da un’altra, dietro le prime insegne che trovavano, provocando grande disordine. I nemici, al contrario, che conoscevano tutti gli approdi, quando dalla spiaggia vedevano qualcuno dei nostri sbarcare isolatamente, davano di sproni al cavallo e l’assalivano nel momento dello sbarco; circondavano i nostri con forze superiori, altri lanciavano dardi al fianco scoperto, prendendo di mira il grosso.  Come si rese conto della tattica del nemico, Cesare calò molti uomini in lance e altre imbarcazioni da esplorazione, e li mandò prontamente in aiuto a coloro che vedeva in situazione critica.
Quando i nostri riuscirono a raggiungere la riva e poterono riunirsi, si slanciarono contro il nemico volgendolo in fuga; ma non poterono spingersi decisamente all’inseguimento, perchè la cavalleria non era riuscita a tenere la rotta e ad approdare all’isola. Fu questa l’unica contrarietà che nella fortunata operazione Cesare dovette incontrare. I nemici furono tuttavia sconfitti, e quando si riebbero dalla fuga mandarono tosto legati a Cesare, dichiarandosi pronti a dare ostaggi e ad eseguire gli ordini che volesse dare. (Cesare, da “Commentari della Guerra Gallica”, libro IV)

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Cesare al Rubicone

Al campo di Ravenna è di stanza la Decimaterza legione, una forza di cinquemila fanti e di trecento cavalieri. Le altre legioni sono tarde a giungere a causa delle strade impraticabili, i valichi nevosi e le strade ghiacciate. E’ il gennaio del 49 aC.
Cesare chiama alla spicciolata i centurioni e comunica in segreto, quasi uno per uno, l’obiettivo di marcia e la condotta dell’impresa: senza carico d’armi, veramente in leggerissima, puntare su Rimini, prima città della Repubblica. Occupandola di eviti il più possibile le rapine, le stragi, i tumulti del popolo.
Uscito dai quartieri militari, lasciando il comando delle truppe al suo luogotenente, Cesare passa tutto il giorno in pubblico, assistendo allo spettacolo dei gladiatori.
Sull’imbrunire presiede un banchetto perchè tutti lo vedano. Più tardi, con indifferenza studiata e con modi di affettuosità e di sorriso, chiede di allontanarsi; ritornerà a momenti; prega gli ospiti di aspettarlo.
Appena fuori della sala Cesare allungò il passo per le vie della campagna. In luogo solitario l’aspettava un gruppo di amici, al corrente del suo proposito. Ripresero il cammino. A mezza strada, nel cuore della notte, il vento alzò la nebbia e spense le fiaccole. L’oscurità smarrì i viandanti nella rete delle strade campagnole; essi battevano a tastoni i cespugli e le stoppie alla ricerca del sentiero. Sull’alba trovarono una guida del luogo che li portò a piedi per lo stretto viottolo che era la buona via.
Le coorti bivaccavano lungo gli argini del fiume Rubicone. Sulla testata del ponte spiccava la lapide terminale della Repubblica che imponeva il disarmo dei cittadini prima di passare nel territorio di Roma. Il fiume era in magra. I legionari guardavano sull’altra riva: attendevano il cenno d’avanzata.
E Cesare comanda: “Si vada dove ci invocano i prodigi degli dei e l’iniquità dei nemici. Il dado è tratto”.
Col suo cavallo guadò il Rubicone e avanzò nel territorio della Repubblica a redini abbandonate, col seguito dei cavalleggeri.
Prima di giorno, investì e prese Rimini senza colpo ferire.
(A. Foschini)

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Presagi delle idi di marzo

Tutti i biografi di Cesare concordano nel riferire alcuni episodi, casuali certo ma pieni di fascino in anni così carichi di superstizione; pareva che tutto concordasse nel dissuadere Cesare dall’andare verso il suo fatale destino. Anche Svetonio, che fra gli storici è il meno sensibile al fascino del mito, raccolse questi episodi e li riferì; il che ci conferma la loro autenticità.
Apparvero infatti strani segni a preannunciare la morte di Cesare. Un aruspice già lo aveva messo in guardia di un grave pericolo che gli incombeva entro i primi quindici giorni di marzo. E Cesare stesso, la notte prima degli idi, sognò di librarsi tra le nuvole, mentre la moglie Calpurnia sognava che il tetto della casa era crollato e Cesare ne era rimasto ferito. Per tali motivi, e anche perchè non si sentiva troppo bene, la mattina delle idi Cesare era perplesso e pensava quasi di restarsene a casa rimandando al altra data le faccende che doveva sbrigare in Senato. Ma poi, in ultimo, decise di uscire. Erano le 11 del mattino.
Sulla porta di casa si imbattè in un uomo che gli porse un messaggio con cui lo informava della congiura tramata a suo danno; Cesare non lo lesse e lo ripose fra le altre carte che portava con sè, pensando di leggerlo più tardi.
Sulla soglia della Curia si imbattè nell’aruspice: “Non hai indovinato”, gli disse scherzando, “sono trascorsi i primi quindici giorni di marzo, e non mi è capitato niente!”. Rispose l’aruspice: “Le idi di marzo non sono ancora trascorse del tutto!”.
Entrato in Senato, i congiurati gli si assieparono intorno e uno di essi, Tullio Cimbro, fece l’atto di porgergli una supplica, che Cesare rifiutò con un cenno, facendo intendere di rimandare a momento migliore. Cimbro lo afferrò per i lembi della toga e Cesare protestò: in quell’istante Casca, un altro congiurato, gli vibrò il primo colpo di pugnale alla gola. Cesare cercò di difendersi con uno stilo per scrivere, chè altro non aveva tra le mani, ma fu colpito ancora. Come si accorse che i congiurati lo stringevano da ogni lato, armati con il pugnale, si avvolse nella veste sul capo, lasciò cadere la toga sino ai piedi, per non giacere con il corpo scoperto quando fosse caduto. Ventitrè colpi lo trafissero, nè lui emise grido o sospiro.
(A. Foschini)

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Cesare e il giovane Gallo

Caio Giulio Cesare fu il conquistatore della Gallia. La guerra durò quasi dieci anni, e fu spesso dura e sanguinosa.
Cesare aveva un animo nobile e non mai crudele e vendicativo contro i nemici; anzi apprezzava il loro eroismo e la loro generosità. Puniva però severamente tutti coloro che si erano mostrati crudeli, traditori e vili.
Accadde che un gruppo di otto soldati romani fu fatto prigioniero dai Galli e trascinato in un loro villaggio fortificato. Il capo del villaggio mandò a dire a Cesare che avrebbe liberato i prigionieri se dai Romani avesse avuto un eguale peso di argento. Mentre si trattava la questione, i poveri prigionieri erano sottoposti ad inauditi tormenti, così che, appena liberati e portati davanti a Cesare, questi si indignò e diede ordine al suo luogotenente di assalire il villaggio dei Galli, di incendiarlo e di far prigionieri tutti gli abitanti, cercando di recuperare l’argento versato per il riscatto.
I Galli furono facilmente sbaragliati e il loro villaggio dato alle fiamme; tutti gli abitanti vennero fatti prigionieri e portati davanti a Cesare per il giudizio di condanna.
Il generale romano ordinò che venissero uccisi i capi e tutti coloro che avevano martoriato i prigionieri romani; gli altri si dovevano vendere come schiavi.
Un prigioniero romano, a cui i barbari avevano tagliato le mani e bruciato i piedi, disse: “Cesare, fra i Galli si trova un fanciullo che non merita condanna: egli mi portò da bere ogni giorno, medicò come potè le mie ferite, mi portò dei cibi e delle vesti: io ti chiedo di consegnarlo a me: lo tratterò come fosse mio figlio.”
Cesare fece venire il fanciullo e lo consegnò al soldato, dicendogli: “Un solo atto di pietà merita la più alta riconoscenza. E tu, fanciullo, cerca di riscattare, con l’affetto verso questo soldato, tutta l’inutile crudeltà che il tuo popolo usa coi prigionieri”.
Il fanciullo venne portato a Roma, dove imparò a vivere secondo le leggi della civiltà e della giustizia.
(C. Del Grosso)

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Recite per bambini ANTICA ROMA

Recite per bambini ANTICA ROMA – una raccolta di recite e brevi dialoghi sulla storia romana, di autori vari, per bambini della scuola primaria.

Attilio Regolo

Personaggi: Attilio Regolo, la moglie coi figli, primo cittadino, secondo cittadino, altri cittadini.

Popolo: Resta a Roma, oh Regolo!

Regolo: Oh amici romani, ho giurato di ritornare fra i Cartaginesi; e il giuramento è sacro. Nessuna forza potrà far sì che Regolo manchi di parola.

Moglie: Nessuna forza? Neppure la forza che viene dall’amore della tua famiglia? Guarda. Ho le lacrime agli occhi, e silenziosamente piangono anche i nostri fanciulli.

Regolo: Oh moglie mia! Non piangere. Oh figlioletti cari! Non piangete. Forte è vostro padre e anche voi siate forti, come i robusti rami di un albero saldo. Moglie mia, conduci a casa  i nostri figlioletti. Che gli dei, per mezzo tuo, li proteggano. Andate. Forse la mia decisione non è presa…

La moglie e i figli si allontanano.

Primo cittadino: Dunque, Regolo, resterai a Roma?

Regolo: Chi ha detto questo?

Primo cittadino: M’ è parso…

Regolo: Gli occhi lacrimosi dei piccoli mi hanno fatto pronunciare parole di dubbio. Ma la decisione è ben ferma nel mio cuore: tornerò fra i Cartaginesi.

Secondo cittadino: Ma i Cartaginesi non ti perdoneranno le parole che tu hai detto davanti al Senato romano!

Popolo: Resta a Roma, oh Regolo!

Regolo: Cittadini, ai miei figli, ai vostri figli insegnerete che Roma è grande perchè ricca di virtù. Col giuramento ho impegnato non solo me stesso, ma anche la dignità di Roma. E’ un Romano che ha giurato! E mi vergognerei di vivere in mezzo a voi, davanti alle statue dei nostri dei, su questo sacro Campidoglio, per non aver mantenuto la parola data!

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Annibale

Annibale: Voi sapete, oh miei soldati, che io vinco le mie battaglie per due ragioni: attacco il nemico da dove meno se lo aspetta, e lo costringo perciò alla battaglia nella località a me più favorevole. Ora si tratta, oh Cartaginesi di attaccare i Romani di sorpresa.

Soldati: Siamo in Spagna, generale. Da dove vuoi attaccare a sorpresa i Romani, in quale località della Spagna vuoi costringerli alla battaglia? Ma ti scrolli il capo, perchè?

Annibale: Perchè non sarà in Spagna che li potrò attaccare di sorpresa, ma in Italia.

Soldati: E come potremo attaccarli di sorpresa in Italia quando già le loro truppe sono in Spagna? Le dovremo fatalmente scontrare prima di raggiungere il mare e imbarcarci!

Annibale: Noi non raggiungeremo l’Italia per mare, come i Romani si aspettano, ma per la via delle Alpi a cui essi certo non pensano. Quando lo sapranno, noi saremo già nella valle del Po.

Soldati: Vuoi valicare le Alpi con sessantamila uomini?

Annibale: E gli elefanti. Così, secondo la mia tattica, farò ciò che il nemico non si aspetta.

Narratore: In tal modo Annibale giunse al fiume Trebbia, l’affluente del Po che scorre lungo i monti e le piane del piacentino. E si accampò. Con un esercito racimolato in fretta per la sorpresa dell’attacco, stanchi per il lungo cammino percorso, trafelati nell’ansia di fermare il nemico il più lontano possibile da Roma, i Romani si scontrarono con Annibale prima presso il fiume Ticino, poi presso il Trebbia. E vennero sconfitti.

(G. Aguissola)

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Cornelia

Personaggi: Cornelia, Flavia (amica di Cornelia), Tiberio e Caio.

Le due matrone romane sono sedute in conversazione. Passano ogni tanto schiave e schiavi affaccendati.

Flavia: Sai, Cornelia, che cosa penso?

Cornelia: Dimmi, Flavia.

Flavia: I Romani si fanno ogni giorno più ricchi! Non ti sembra? Osserva i miei nuovi braccialetti: sono d’oro massiccio. Guarda queste buccole preziose, che vengono dall’Oriente. Ma il mio tesoro maggiore è rappresentato da due gemme, di cui a Roma non esiste nulla di più prezioso. Forse sbaglio: so che anche tu, Cornelia, hai molti gioielli, anche se non ti piace mostrarli spesso. Ma via, sii sincera verso la tua amica Flavia; quali sono i tuoi tesori più grandi? Potranno competere con le gemme, di cui ti ho parlato?

Entrano i due ragazzi. Tiberio è il maggiore.

Tiberio e Caio: Ave, mamma!

Cornelia: Oh Tiberio, oh Caio, figlioli adorati! Ero in pensiero per voi. Roma oggi somiglia al mare in tempesta. Il pedagogo vi ha fatto passare per il Foro?

Tiberio: Sì, madre. Abbiamo visto un ufficiale minacciare alcuni poveri che tumultuavano. A noi si è stretto il cuore nel vedere una simile scena. Però il pedagogo ci ha rimproverati perchè ci siamo fatti tristi, dicendo che è indegna per i Romani una simile commozione. Ma non sono Romani anche quei poveri?

Cornelia: Sì, Tiberio. In verità, non hai torto. Anche quei poveri sono Romani.

Caio: E invece li chiamano vili canaglie. Forse, però, avranno fatto qualcosa di male!

Tiberio: Zitto, Caio! Non è vero! Ho sentito io di che si tratta. Sono cittadini che hanno dovuto vendere per forza i loro campi ai ricchi proprietari, che vogliono sempre nuove terre, ma non vi dedicano poi cure amorose. Essi chiedono giustizia. Se già fossi grande, lotterei per loro!

Caio: Ed io ti seguirei, fratello!

Cornelia: Ecco, Flavia. Tu volevi conoscere quali sono i miei più grandi tesori, vero?

Flavia: Sì, la curiosità è un difetto che non so vincere!

Cornelia: (accennando ai due ragazzi) Ebbene, questi sono i miei veri tesori, di cui spero anche in futuro di essere orgogliosa.

Cesare

Personaggi: Terenzio e Lucano, giovani romani

Terenzio: ho visto tuo padre molto felice oggi. Da molto tempo non lo vedevo così!

Lucano: Ha ben ragione d’esserlo. Tu sai che è stato favorevole a Pompeo; e perciò temeva, prima o dopo, di ricevere da Cesare l’ordine di abbandonare Roma. Invece ieri Cesare stesso l’ha fatto chiamare e gli ha detto : “Non temere Lucio Mannio. So che sei un valente e vorrei il tuo parere su una questione che mi sta a cuore”…

Terenzio: Cesare dimentica il nome dei nemici!

Lucano: E’ vero. Cesare è di animo nobile.

Terenzio: E’ generoso. Vedi quella fila di poveri?

Lucano: Sì

Terenzio: Vanno a una distribuzione di grano ordinata da Cesare in favore dei cittadini poveri. Egli, per combattere la miseria, ha distribuito le terre conquistate tra i veterani dell’esercito, ha emanato una legge contro il lusso eccessivo dei ricchi e farà costruire gigantesche opere pubbliche, tra cui un nuovo Foro, nuovi templi, basiliche e teatri.

Lucano: E’ vero che gli illustri personaggi giunti da ogni dove sono qui, a Roma, per invito di Cesare?

Terenzio: E’ vero. Molti sono studiosi. Cesare ne ha incaricati alcuni di studiare una riforma del calendario, affinchè questo sia più rispondente alla realtà dell’avvicendarsi delle stagioni. Sembra che il calendario, il quale ora conta 355 giorni, ne avrà 365,  e ogni quattro anni 366.

Lucano: Sarebbe giusto che fosse chiamato Calendario di Cesare

Terenzio: Non si chiamerà così; ma il Senato ha proposto che il settimo mese porti il nome di Julio, in onore di Cesare.

(R. Botticelli)

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Virgilio

Personaggi: Mecenate, Asinio Pollione, Virgilio

In un giardino imperiale. Si incontrano Asinio Pollione e Mecenate.

Asinio Pollione: Salve, o grande Mecenate!

Mecenate: Salve, amico Pollione! Torno ora da una passeggiata per Roma. Sono inebriato di sole, di bellezza, di felicità. Niente al mondo è più bello di Roma. Ne conosco ogni angolo; e ogni angolo mi par sempre nuovo. Le sue statue, i suoi templi, i suoi palazzi di marmo mi sembrano essi stessi coscienti della grandezza dell’Urbe. Roma è grande! Quando penso che essa è padrona di tutto il Mediterraneo e di tutto il mondo dalla Britannia alla Libia, e vedo le strade imperiali che dal Campidoglio si dipartono per ogni direzione, ripeto fra me con orgoglio “Sono cittadino romano” !”

Asinio Pollione: La fortuna di Roma, oggi, è di avere sul trono Cesare Ottaviano Augusto

Mecenate: Augusto! IL divino Augusto! Sagge leggi, e pace e benessere scendono da quel trono, come dalla sorgente un fiume che reca la vita. Oh Roma, tutti gli dei ti hanno protetta!

Asinio Pollione: Mecenate, tu che sei, per volere di Augusto, il grande protettore degli artisti e dei letterati, non ti sembra che alla nostra Roma manchi un nuovo Omero, che canti la potenza dell’Impero e la grandezza di Augusto?

Mecenate: E’ vero, o Asinio Pollione. Ci vorrebbe un poema sublime, degno dell’Odissea e dell’Iliade.

Asinio Pollione: Perchè non esorti a scriverlo il dolce Virgilio?

Mecenate: Ci avevo già pensato. L’autore delle Georgiche, che tu e io proteggiamo, è davvero un grande poeta. Ma egli è semplice e soave nell’animo. Ama la campagna, la pace, la serenità. Come potrebbe cantare anche le guerre che Roma ha dovuto combattere?

Asinio Pollione: Virgilio ama come noi la grandezza e la potenza di Roma. Vedi come gli piace abitare nell’Urbe? Vedi come abita volentieri la sontuosa villa, di cui tu gli hai fatto dono?

Mecenate: E’ vero; ma rimpiange il suo campicello di Andes, presso Mantova, da cui lui e i suoi genitori furono scacciati per una legge a loro ingiusta, e ancora ne prova dolore! Tuttavia lo esorterò, oh Asinio.

Virgilio (arrivando) E’ proprio codesto dolore, oh grande Mecenate, che oggi mi fa apprezzare in tutto il loro valore, la tua generosità, la tua amicizia e la pace romana instaurata da Augusto.

Asinio Pollione: Virgilio, dolce poeta, hai sentito le nostre parole?

Mecenate: Hai sentito che cosa speriamo da te?

Virgilio: (come se parlasse da solo) Ci fu al mondo un altro uomo, ben più famoso di me, che dovette fuggire dal luogo natio…

Asinio Pollione: Non capisco…

Mecenate: Taci, oh Asinio. Quando Virgilio parla così, la sua fantasia corre lontano. La Musa gli sta vicina. Noi non la vediamo nè la sentiamo, ma lui sì. Forse Roma avrà il suo poema immortale!

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Primi cristiani

Personaggi: Licia, ragazza romana; Priscilla, schiava; Svetonio, schiavo.

Una ragazza e una schiava giocano a palla. Ad un tratto la palla, sfuggendo alla ragazza, va lontano.

Licia: (con alterigia) Me l’hai tirata male, Priscilla! Vai a riprenderla!

La schiava obbedisce e prontamente corre a cercarla.

Licia: Dove vai?

Priscilla: A cercare la palla!

Licia: (riflettendo) Priscilla… perchè sei così docile?

Priscilla: Perchè sono una schiava e tu sei la ma piccola… Ma dov’è andata la palla? Ah… l’ho trovata!

Licia: Ridammela.

Priscilla: Eccola (gliela porge)

Licia: Dimmi, Priscilla. Che cosa volevi dire quando hai interrotto il tuo discorso?

Priscilla: Stavo per dire la parola “padrona”, ma sbagliavo.

Licia: Perchè?

Priscilla: Perchè nessuno è padrone in questo mondo.

Licia: Come? Neppure mio padre?

Priscilla: No… proprio padrone, no.

Licia: Neppure l’imperatore?

Priscilla: Neppure.

Licia: Ora chiamerò Svetonio e ti farò fustigare.  Vedrai se esistono i padroni! (A voce alta) Svetonio! Svetonio!

Svetonio: piccola padrona, hai chiamato?

Licia: (pentita) Non voglio nulla. Vattene. (Svetonio se ne va)

Priscilla: (avvicinandosi alla ragazza) Ti ringrazio, Licia.

Licia: Sì… Priscilla. Tu sei tanto buona! Ma dimmi: nessuno dunque è padrone nel mondo?

Priscilla: Veramente un padrone c’è!

Licia: E chi è?

Priscilla: Non posso dirlo.

Licia: Dimmelo.

Priscilla: E’ il Padre nostro, che è nei cieli, infinitamente buono.

Licia: Priscilla, io non dirò nulla a nessuno, ma tu parlami di questo dio…

Marco Petreio

Narratore: Nel 52 aC tutte le stirpi galliche, sotto il comando del loro capo Vercingetorige, si ribellarono ai Romani e, presso le mura di Gergovia, in Frangia, sconfissero i legionari di Cesare. In tale occasione rifulse l’eroismo del centurione Marco Petreio.

Lucio Fabio, centurione: Orsù, legionari, rinnoviamo a Gergovia i fasti di Avarico! Ricordate quanta preda facemmo in quella città? Qui una preda ancor maggiore ci attende: alle mura, alle mura! Alzatemi sulle vostre spalle, perchè voglio giunger primo alla cima! Così… forza… ecco! Ed ora a voi? Già i nemici fuggono atterriti!

Sesto Furio, centurione: Non odi le trombe che chiamano a raccolta? Discendi dalle mura, così vuole Cesare!

Lucio Fabio, centurione: Oh, Sesto. Chi ha paura non porti la spada, ma la rocca e il pennecchio! Avanti, miei legionari, avanti! Vedete là Marco Petreio che con i suoi sta ormai calandosi dalle mura nella città? Volete essere a loro secondi? Addosso ai barbari! Addosso!”

Un legionario: Quante teste di meno avranno i Galli tra poco…

Un altro legionario: E noi, quante collane d’oro avremo in più…

Marco Petreio, centurione: Presto, legionari, corriamo ad aprire le porte!

Teutomato, principe gallico (rivolto ai suoi): Ancora una volta fuggiranno, dunque, quelli a cui è affidata la libertà della Gallia? Scacciate il timore e disponetevi alla battaglia! Non vedete che soltanto pochi nemici han varcato le mura?

Narratore: Così si accese una mischia furibonda tra i pochi Romani e la moltitudine crescente dei barbari. Lucio Fabio cadde trafitto in mezzo a molti dei suoi. Marco Petreio, pur gravemente ferito, si slanciò tra i nemici

Marco Petreio, centurione: Lucio Fabio è caduto e tanti altri con lui: salvatevi, legionari! Come potremo noi sostenere lo sforzo di così gran numero di nemici? Io, per desiderio di gloria, vi ho gettati nel pericolo, ed io vi salverò. Giacchè non posso salvare me stesso, procurerò almeno di salvare voi.

Narratore: Da solo Marco Petreio sostenne l’ira nemica, finchè cadde a terra straziato da mille colpi.
Poco tempo dopo Cesare piegava per sempre i Galli e il loro capo Vercingetorige doveva seguire in catene il carro trionfale del grande generale romano.

(U. Gaiardi)

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Per strada

Personaggi: Aulo, Licio, il pedagogo di Licio

Aulo: Amico Licio, giochiamo con la moneta?

Licio: Ce l’hai?

Aulo: Guarda. Me l’ha data il liberto Lucano, ieri, quando è venuto a casa mia.
(tira fuori una moneta)
Ha l’effige del dio Giano. Da un verso c’è la testa del dio, dall’altro una nave. Testa o nave? A te la scelta!

Licio: Nave!

Aulo: Ed io testa. Aspetta: poso in terra le mie tavolette, e poi lancio la moneta.
(posa le tavolette e lancia in aria la moneta)

Licio: Ah! E’ venuta la testa per davvero! Ho perso. Tieni.
(offre al vincitore il polpaccio della gamba; e questi giù un bel colpo con la mano)
Ahi!

Aulo: Ora sta a me scegliere. Scelgo la nave.

Licio: Io, la testa.
(Aulo lancia di nuovo la moneta)

Aulo: Ho vinto un’altra volta. E’ venuta la nave. Su, dammi la gamba ancora.
(Licio offre di nuovo la gamba; e l’altro, giù un secondo colpo con la mano)

Licio: Hai! Sembri mio padre quando frusta uno schiavo. Però ora, la moneta, la voglio lanciare io!

Aulo: No, la lancio sempre io.

Licio: Perchè?

Aulo: Perchè è mia!

Licio: Questa non è ragione giusta. Il gioco così non va bene. Potresti farmi un inganno.

Aulo: Prova a ripeterlo!

Licio: Sì, lo ripeto: mi puoi ingannare. Cesariano!

Aulo: (con disprezzo) Pompeiano!

(I due ragazzi si avvicinano per misurarsi nella lotta).

Il pegagogo di Aulo: (arrivando)  Vergogna, sembrate figlioli di schiavi o di miserabili plebei. Guardate come si sciupano le vostre toghe Se non ti fermi subito, Aulo, sentirai questa sera tuo padre!

Aulo: Per Giove, staccati, Licio! Oggi l’ho già sentito abbastanza, mio padre!

Il lavoro trasforma la terra

Narratore: Nei primi anni della Repubblica, si racconta, viveva in Roma un agricoltore, padrone di un campicello, alle porte della città. I vicini lo invidiavano e, qualche volta, parlavano di lui con malignità.

Primo contadino: Un campicello miracolo, dicono… Ogni anno dà buoni raccolti.

Secondo contadino: Altro che miracoloso, amico mio, qui c’è sotto qualcosa. La pioggia scroscia, le nostre terre si allagano e il campo di Cresino resta all’asciutto…

Primo contadino: Viene la siccità, brucia tutto, e il campo di Cresino è verde e rigoglioso come a marzo

Secondo contadino: E i raccolti? Pianta uno e raccoglie venti. Sempre così, sia grano, orzo o avena.

Primo contadino: E il frutteto non lo conti? Alberi sempre carichi, mele grosse così, bianche e rosse.

Secondo contadino: Qui c’è sotto qualcosa. Arti magiche, te lo dico io!

Primo contadino: Bravo, è quel che ho sempre pensato: il vecchio la faccia di stregone ce l’ha.

Secondo contadino: E quella sua figlia spilungona che sta sempre per i campi… Canta certe nenie, tutto il giorno, china sulla zappa…

Primo contadino: Brutta faccenda. E il peggio è che non si accontentano di far prosperare le loro biade. Io temo…

Secondo contadino: Mi hai tolto la parola di bocca. Quelli hanno messo il malocchio nei nostri campi: ecco perchè, annata dopo annata, le cose vanno di male in peggio.

Primo contadino: E noi ce ne stiamo qui con le mani  in mano…

Secondo contadino: Ah, no! Questa storia deve finire, e presto. Se te la senti di venire con me dal giudice trascineremo in tribunale padre e figlia.

Primo contadino: Certo che me la sento. Andiamo.

Narratore: Di lì a qualche giorno Cresino e sua figlia furono chiamati in giudizio dal magistrato, incolpati di arti magiche in danno dei vicini.

Primo contadino: Guarda là, se ne vanno al Foro sul carro trainato dai buoi…

Secondo contadino: Come se andassero alla festa…

Primo contadino: E si portano appresso l’aratro e vanghe e zappe e tridenti.

Secondo contadino: Mah… forse il vecchio è sicuro della condanna e già pensa a sloggiare.

Primo contadino: Staremo a vedere.

Narratore: Quando il magistrato lesse l’accusa, Cresino e la figlia se ne stettero fermi e zitti, senza badare ai commenti della folla di curiosi che gremiva il Foro.

Magistrato: Cresino, ora conosci le accuse: puoi parlare in tua discolpa. Sii breve e preciso.

Cresino: Voi mi accusate di stregoneria, voi dite che il mio campo prospera per le mie arti magiche… Ebbene, non tenterò di difendermi, o Romani, anzi vi svelerò il segreto: ecco qui queste mie forti braccia che mai si stancano, ecco queste mie mani callose che quando afferrano la zappa par che non vogliano più abbandonarla… Ed ecco mia figlia che dall’alba al tramonto mi sta a fianco nei campi; ed ecco i miei buoi, i più forti, i più ben curati dell’Agro Romano… ed ecco i miei strumenti, zappe, vanghe, picche, sempre risplendenti, sempre in moto. Romani, io esercito la magia del lavoro… Orsù, magistrati, riconoscete la mia colpa e punitemi come prescrivono le leggi.

Narratore: Dalla folla si alzò un grido di ammirazione. Il magistrato alzò un braccio, impose il silenzio, poi disse…

Magistrato: Cresino, le tue arti magiche sono le stesse che hanno fatto grande la nostra città: la tenacia, la perseveranza, il lavoro. Noi magistrati di Roma ci uniamo alle lodi che ha tributato il popolo.

Recite per bambini ANTICA ROMA – Tutte le opere contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.

IL FIUME materiale didattico vario

IL FIUME materiale didattico vario – una raccolta di dettati ortografici, letture, poesie e filastrocche sul fiume, di autori vari, per bambini della scuola primaria.

Le acque prodotte dallo sciogliersi delle nevi e dei ghiacciai scorrono in disordine fra i massi dell’alta montagna, poi si raccolgono a formare il torrente: un corso d’acqua impetuoso, ora abbondante ora povero d’acqua, interrotto da macigni e da salti improvvisi.
Il torrente scende al piede del monte e imbocca, ancora turbinoso e violento, la valle. Altri torrenti scendono da altri nevai e ghiacciai e si uniscono al primo.
Nella pianura le acque rallentano la loro corsa, si allargano in un solco (letto) più ampio. I cento torrenti sono diventati un unico fiume.
Il fiume è un corso d’acqua perenne. Esso scorre in un letto limitato da due sponde o argini. Il fiume può portare le sue acque ad un altro fiume: si dice allora che ne è l’affluente; può alimentare un lago: si dice allora che ne è l’immissario; può scaricarne le acque: si dice che ne è l’emissario; può infine portare le sue acque al mare. Il luogo ove le acque del fiume si mescolano con quelle del mare è detto foce.
Gli uomini costruirono le loro città presso i fiumi, per difendersi dietro una barriera scura e per sfruttarne le acque.
Il fiume favorisce l’agricoltura, offrendo acque per l’irrigazione. Sui fiumi navigabili si sviluppa un movimento di chiatte e di battelli per il trasporto delle merci e delle persone. Dal letto del fiume gli uomini estraggono con speciali macchie, le draghe, ghiaia e sabbia per la costruzione di case. Le grandi città scaricano nel fiume tutte le acque portate dai canali delle fognature.
Molti fiumi sono pescosi, offrono cioè quantità di buon pesce.

Il fiume

Va il fiume per la grande pianura e le sue onde mormorano sommesse: “Sono il fiume maestoso che irriga campagne, che inverdisce terre riarse, che dà moto e lavoro agli opifici, ai paesi, a città intere. Sono il fiume maestoso e calmo, rifletto il sole e la nuvola, il roseo dell’alba e l’oro del tramonto, l’alto pioppo e il piccolo cespuglio. Sulla mia riva cantano gli uomini, gorgheggiano gli uccelli, trillano i bimbi tuffandosi lieti nelle mie onde, si dondolano liete le barche. Sono il fiume e vado al mare”. (Hedda)

La sorgente

Nella primissima luce dell’alba, solamente la sorgente volubile parlava… L’acqua veniva dalle interne, misteriose vie dalla montagna, si affacciava ad uno spacco della roccia, balzava in una coppa di pietra larga, un po’ verde e un po’ violacea, tremava in giri aperti intorno al ribollire del mezzo, straripava dall’orlo e si perdeva fra i muschi e le felci. (G. Fanciulli)

La foce

Il luogo ove le acque del fiume sboccano nel mare si chiama foce. A volte la foce si apre a ventaglio ed è detta estuario. Quando invece la foce si dirama in diversi corsi d’acqua simili alle dita di una mano, si chiama delta. Quando un fiume alimenta un lago si dice che ne è l’immissario. L’emissario, invece, è un fiume che scarica le acque di un lago.

Il lavoro dell’uomo

Sulla riva del torrente l’uomo costruisce mulini, segherie, piccole officine. In capo alle valli egli innalza dighe per produrre elettricità o per irrigare la terra. Più in basso, quando l’acqua sembra stendersi pacifica nel letto del grande fiume, ecco le prime imbarcazioni: sono battelli per il trasporto di materiali o di persone, sono chiatte, adibite al traghetto dei veicoli, sono leggere barche per la pesca. I pesci di fiume sono gustosissimi: trote, anguille, carpe ed altri esemplari vengono catturati per mezzo di reti o di lenze. Neppure la sua ghiaia e la sua sabbia sono da disprezzare. I muratori ne fanno largo uso.

Il fiume è utile

Dove scorre un fiume la terra si fa rigogliosa. Aria e sole non bastano a rendere fertili i campi, è necessaria anche l’acqua, per nutrire le piante e dissetarle nei mesi più caldi. Per questo l’acqua del fiume viene incanalata e usata per irrigare vaste campagne. Alcuni fiumi sono per un buon tratto navigabili e sono solcati da barconi da trasporto; dal letto dei fiumi si ricavano ghiaia e sabbia. Il più grande fiume d’Italia è il Po, navigabile per buona parte del suo corso. Ma l’opera dell’uomo non si è fermata qui, e il Po è stato unito, per mezzo di un canale, alla laguna di Venezia.

Animali e piante nelle acque dolci e lungo le rive

I ranuncoli d’acqua fioriscono nelle zone d’acqua ferma, vicino alle sponde. Le ninfee aprono le bianche corolle nelle zone dove l’acqua è più tranquilla. Molto spesso le rive sono verdeggianti di giunchi e di canne palustri.
Nelle acque dei fiumi vivono la trota, ricercata per la squisitezza della sua carne, e il luccio che è munito di denti robustissimi. La carpa preferisce le acque poco correnti, dove abbonda la vegetazione.
Numerosi sono gli insetti che vivono vicino alle acque dolci. La libellula è uno dei più conosciuti e più belli. Le zanzare popolano soprattutto le zone di acqua stagnante.
Ci sono anche uccelli che vivono presso le acque dei fiumi. Durante l’inverno, qualche volta, nelle paludi e nei campi che costeggiano i fiumi si incontrano le anatre selvatiche. Il falco pescatore e il martin pescatore sono veloci ed instancabili nel catturare i pesci.

La piena

Quando piove troppo a lungo, il livello delle acque del fiume cresce e si innalza talvolta fino a superare e a travolgere gli argini: il fiume è in piena. Acqua torbida e fangosa invade la pianura, distruggendo le coltivazioni e danneggiando case e strade. L’uomo cerca in vari modi di prevenire le alluvioni: rimbosca le montagne, per impedire che il terreno frani e i torrenti portino a valle fango e sassi; pianta filari di alberi lungo il fiume e scava canali di scarico. Egli innalza argini e li protegge con grandi gabbie di rete metallica, piene di sassi.

La cascata

Dalla destra e dalla sinistra del fiume giungono gli affluenti frettolosi e uniscono le loro acque a quelle del compagno maggiore. E tutti insieme vanno lietamente verso il piano. Non sempre la strada è agevole e priva di ostacoli. In certi punti le pareti dei monti, entro cui scorre il fiume, si avvicinano tanto che tra l’una e l’altra rimane appena un piccolo spazio. Questo stretto passaggio si chiama gola. Altrove il terreno cede tutto d’un tratto e il fiume deve spiccare un salto più o meno alto. Si ha, così, una cascata.
Per il turista la cascata è uno dei più attraenti spettacoli che presenti la montagna. L’acqua balza dall’alto impetuosa, rivestendo di minute e luccicanti goccioline le piante, gli arbusti e le erbe che il vento del salto ha piegato verso il basso. Da punto dove la colonna d’acqua batte, cadendo, si solleva una nebbiolina, formata da piccolissime gocce frantumate dal balzo e sulla nebbiolina risplende, in graziosi colori, la luce del sole.
Per l’ingegnere la cascata è una preziosa fonte di energia elettrica. Veramente prima dell’ingegnere, ha pensato l’umile mugnaio a sfruttare il lavoro che l’acqua fa cadendo. E’ bastato mettere una ruota a pale sotto la colonna d’acqua e trasmettere, con una cinghia, il movimento della ruota alle macine che trasformano il grano in farina.
Dal primitivo impianto del mugnaio è nata la turbina, che riceve la spinta della cascata e la comunica alle macchine incaricate di produrre energia elettrica.
Così il giovane fiume balzante dalla rupe mette la sua forza a servizio dell’uomo, per illuminare le case e le strade, per animare le macchine degli opifici, per la cura dei malati, per il trasporto da luogo a luogo delle merci e delle persone.

Il fiume

Scende il fiume dalle montagne. Viaggia notte e giorno. La sera l’acqua arriva tiepida, perchè ha viaggiato tutto il giorno. La mattina arriva ghiacciata, perchè ha camminato tutta la notte. Cammina, cammina senza sapere dove va. Traversa le valli, scende lenta verso il piano, passa fra distese brulle e attraversa paesi. Improvvisamente si sente stretto tra due muraglioni. E’ arrivato in città. (A. Campanile)

La cascata

Là dove c’è la cascata, l’acqua del fiume precipita, balza, spumeggia, si gira in gorghi e in vortici. Una bambina guarda, ammirata. Il babbo prende un ramo grosso, nodoso e lo getta dove l’acqua comincia a precipitare verso la cascata. Appena tocca l’acqua, il ramo balza verso il cielo, rotola, precipita. Si agita nei gorghi. Pare che l’acqua si diverta, ferocemente, con lui. “Ecco perchè” dice il babbo alla figlia, “la cascata è pericolosa”. (M. L. Magni)

Gli scavatori di sabbia

Da giovane il fiume è impetuoso torrente dopo essere stato ruscello canterino. Scende lungo i fianchi della montagna, schiuma contro le rocce, straripa facilmente. Giunto in pianura si stende placido e silenzioso. Il suo canto diventa sussurro. Lungo le sue rive diventate calme vi sono le cave di sabbia. E gli scavatori lavorano ogni giorno per noi, per portarci quella sabbia che servirà poi per la costruzione delle nostre case.

La foce

Eccolo il nostro fiume sempre più maestoso avviarsi rapido verso il mare. Si è fatto ora silenzioso. Ha accolto lungo la sua via, a destra e a sinistra, gli omaggi degli altri fiumi; ha bagnato città e villaggi; ha specchiato nelle sue acque rosse torri, castelli solitari, umili casolari, fronde tremule d’alberi, giardini in fiore, nere ciminiere. Ha accolto bonario i ponti creati dalla mano dell’uomo; ha trasportato barche e battelli; ha diffuso da per tutto la sua forza; ha donato la prosperità.

Il ruscello

Lungo le rive muscose e verdeggianti canta allegro il ruscello, mentre l’acqua limpida saltella di sasso in sasso. Occhieggiano al suo passaggio fiorellini dallo stelo corto, dalla corolla bianca a forma di stella: i ranuncoli dell’acqua. Più in basso, il ruscello rallenta la sua corsa. E’ arrivato in un’ampia zona pianeggiante ed ora si allarga fino a formare un piccolo lago dalle acque tranquille. Eccoci davanti a un placido stagno. E’ azzurro d’acque e verde d’erbe, che sfidano anche i rigori invernali, perchè le loro radici sono protette dall’acqua profonda, che non gela mai.

Vita nello stagno

L’anitra selvatica si alza improvvisamente in volo dalle acque dove ha cercato il suo nutrimento. Ha udito qualche rumore sospetto, e cerca scampo nella fuga, ignorando che, forse, il cacciatore è in agguato. Un grazioso martin pescatore è aggrappato a una canna palustre e la fa dondolare lentamente. Scruta attento le acque in cerca di pesciolini o insetti, che sa acchiappare con grande bravura.

Lungo la strada dell’acqua

Senza un tonfo, come adagiato sull’acqua, lo scuro e pesante barcone avanza. E’ colmo di ghiaia. Davanti gli si stende, fino a smarrirsi tra i pioppi e la foschia, la verde strada del canale. Come questo, due, tre, dieci, cento altri barconi seguono il lento cammino dell’acqua. Portano rena, sabbia, ghiaia, pietre alla città che ha fretta di crescere. Vanno, portati dall’acqua. E non cambiano mai. Scuri e tranquilli, lavorano in pace, lungo la verde strada d’acqua. (M. L. Magni)

L’uomo e il fiume

Tutte le grandi civiltà sono sorte vicino ai fiumi. Infatti tra il Fiume Giallo e il Fiume Azzurro è nata la civiltà cinese; sul Gange la civiltà indiana; sul Tigri e sull’Eufrate quella babilonese; sul Nilo quella egiziana; sul Tevere quella latina. Perchè accade questo? I motivi dipendono dalla presenza del fiume: le pianure in cui si stabilirono le prime genti erano state create dal fiume stesso ed erano perciò fertilissime; inoltre il fiume era una comoda via di comunicazione, forniva l’acqua per irrigare i campi e per bere, ed era una difesa naturale contro gli assalti dei nemici.
Per questi motivi nell’antichità i fiumi importanti venivano considerati sacri. Alcuni conservano ancor oggi il loro significato religioso, come il fiume Gange dove gli indiani si bagnano per purificarsi e dove gettano, dopo la morte, le loro ceneri.
Un fiume sacro alla memoria dei cristiani è il Giordano, in Terra Santa; con l’acqua di questo fiume Gesù fu battezzato.
La tecnica moderna ha consentito di realizzare lungo il percorso di molti fiumi, opere veramente considerevoli: industrie, officine e centrali idroelettriche sfruttano l’energia delle acque, e porti di notevole importanza commerciale sorgono lungo le rive dei grandi corsi d’acqua.
Spesso questi fiumi, lungo le rive dei quali sorgono ricche città portuali, sono collegati con altri centri mediante una rete di canali navigabili, in modo da favorire e agevolare lo sviluppo del commercio e dell’industria.

Vocabolario

Fiumana, rivo, riviera, affluente, immissario , emissario, tributario, torrente;

guadabile, ghiaioso, impetuoso, navigabile, perenne, profondo, rapinoso, tortuoso, vivo, morto, sinuoso;

anse, alveo, argine, bocche, bacino, banchina, braccio, chiusa, cascata, cateratta, confluente, corrente, corso, direzione, diga, delta, estuario, foce, ghiareto, greto, guado, letto, livello, meandro, pescaia, pelo, proda, ripa, sorgente, sponda o margine, tonfano, vortice o gorgo, magra, piena, rapida, risucchio, alluvione, illuvione, inondazione;

immettere, sboccare, nascere, finire, sfociare, versarsi, fluire, diramarsi, bagnare, correre, gonfiarsi, esalveare, irrigare, scaturire, sgorgare, inalveare;

fluviale, ponte, traghetto, alzaia, ciottolo, navalestro, frontista o rivierasco, portata.

 Il ruscello
C’era una volta un giovane ruscello
color di perla, che alla vecchia valle
tra molti giunchi e pratelline gialle
correva snello;
e c’era un bimbo, e gli tendea le mani
dicendo: “A che tutto codesto fuoco?
Posa un po’ qui. Si gioca un caro gioco,
se tu rimani.
Se tu rimani, e muovi adagio i passi,
un lago nasce, e nell’argento fresco
della bell’acqua io con le mani pesco
gemme di sassi:
fermati dunque, non fuggir così!
L’uccello che cinguetta ora sul ramo
ancor cinguetterà, se noi giochiamo
taciti qui”.
Rise il ruscello, e tremolò commosso
al cenno delle amiche mani tese;
e con un tono di voce cortese
disse: “Non posso!
Vorrei: non posso! Il cuor mi vola: ho fretta!
In mezzo al piano, a leghe di cammino,
la sollecita ruota del mulino
c’è che mi aspetta;
e c’è la vispa e provvida massaia
che risciacquar la nuova tela deve,
e sciorinarla, sì che al sole neve
candida paia;
e il gregge c’è, che a sera porge il muso
avido a bere di quest’onda chiara,
e gode s’io la sazio, e poi ripara
contento al chiuso…
Lasciami dunque”, terminò il ruscello,
“correre dove il mio dover mi vuole.”.
E giù nel piano, luccicando al sole,
disparve snello.

Il ruscello
Oh, piccolo ruscello argenteo e chiaro,
che in avanti ti affretti senza posa,
alla tua riva me ne sto pensoso.
Da dove vieni tu? Dove te ne vai?
Vengo dal buio seno della roccia;
il mio corso se ne va tra muschio e fiori
e sul mio specchio dolcemente freme
l’azzurra amica immagine del cielo. (W. Goethe)

Tutte le opere contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.

LE FORMICHE: dettati ortografici e letture

Materiale didattico sulle FORMICHE – una raccolta di dettati ortografici, letture e altro materiale didattico, di autori vari, per la scuola primaria.

Le formiche

Le formiche hanno le loro regine, i loro maschi e le loro operaie. La formica attraversa i seguenti stadi di sviluppo: uovo, larva, pupa e infine insetto perfetto.
Dalle pupe schiuse escono regine e maschi, alati gli uni e le altre, e le formiche operaie, prive di ali, destinate a provvedere alla casa e al nutrimento…
Un giorno sereno d’estate le giovani regine ed i bei maschi escono dal nido e volano per l’aria soleggiata: è il loro giorno di nozze. Scesa a terra dopo il volo nuziale, la regina si mette a lavorare di mandibole e di zampe e si strappa le ali: la natura le ha insegnato che da quel momento il suo posto è nella casa, e la regina non volerà più: per tutto il resto della vita camminerà come le altre formiche: è finita la festa per lei, comincia il lavoro! Deve fondare una nuova colonia o deporre uova nella colonia già esistente. Quanto al povero maschio, le cose vanno diversamente: il suo giorno di nozze è l’unico della sua vita all’aria aperta: la mattina è sposo e la sera è morto. Che un uccello l’afferri al volo per portarlo ai suoi piccini, che un ragno lo divori o in qualunque modo la morte lo colga, è certo che vi si rassegna e non tenta nemmeno di rientrare nel formicaio. Se le formiche operaie della sua famiglia lo vedono abbandonato sul terreno, non lo aiutano, lo considerano ormai un essere inutile, e gli passano accanto indifferenti; venuta la notte, il maschio muore: è legge di natura.

Le zampe tuttofare delle formiche

Come gli altri insetti, le formiche hanno sei zampe attaccate al torace. Il primo paio, oltre che per camminare, serve per smuovere oggetti, spazzolare e lavare se stesse (soprattutto le antenne) ed i piccoli, e per centro altri lavoretti. Insomma, assieme alle mascelle, sono l’equivalente delle nostre braccia.

Ali principesche

Non tutte le formiche hanno le ali, ma solo i principi e le principesse, che ne possiedono quattro. Dopo il matrimonio, i principi consorti muoiono e le regine si strappano le ali.

Le antenne

Le formiche, come in genere tutti gli insetti, sentono gli odori con le antenne. Possono riconoscere se la formica che si avvicina è loro amica, possono inseguire i vari insetti, ritrovare la strada per il proprio formicaio. Con le antenne inoltre sentono gli oggetti come noi con i polpastrelli delle dita. Per questo le formiche, mentre camminano, sfiorano e picchiettano leggermente i corpi che incontrano e che vogliono conoscere, così come fa il cieco con la sua canna quando va a spasso. E quando le formiche si incontrano con questo mezzo si danno segnali e comunicazioni.

Dall’uovo alla formica

Le uova deposte nei formicai, impiegano quindici giorni a schiudersi, per dar vita ad una larva, dal corpo trasparente, fornito di testa, di anelli, ma non di zampe. Le formiche operaie nutrono le piccole larve, rigurgitando nella loro bocca i succhi elaborati dal loro stomaco. Poi portano i piccini al sole, all’aria; e, come balie premurose, quando si accorgono che il sole è troppo forte, ritirano i loro protetti in un luogo più riparato.
Dopo un certo tempo, le larve si schiudono in un bozzolo di colore grigio giallastro. Le ninfe sono prima biancastre, poi diventano scure, infine nere. Hanno già tutti gli organi, ma rinchiusi nel bozzolo. Allora le formiche operaie, che hanno fatto da balia alle larve, intervengono ancora ad aiutare le ninfe a liberarsi degli involucri: e l’insetto perfetto è pronto. Le balie gli portano ancora da mangiare, lo conducono a spasso, gli insegnano a lavorare.

Di che cosa si nutrono le formiche

Le formiche si nutrono di semi di vegetali, di frutti, di sostanze zuccherine tratte da vegetali o dagli afidi, di insetti, di larve, di uova.
Alcune formiche costituiscono veri e propri allevamenti di afidi (come vacche nella stalla) da cui traggono una sostanza zuccherina, di cui sono ghiottissime. Talora scarniscono dei topi, delle lucertole che hanno trovato morte. Certe formiche tropicali danno la caccia anche ad animali vivi e possono inscheletrire un elefante se lo incontrano malato e lento nei movimenti.

Le formiche
Viste fuori, in un giardino, in un campo, le formiche sono ammirevoli per il loro affaccendarsi continuo e per il loro zelo nel portare a termine i loro compiti. Il loro nido è sotto terra, coperto da un monticello di aghi di pino sminuzzati, di erbe e di rametti. Nel monticello ci sono due o più aperture che le formiche chiudono di notte e riaprono al mattino al sorgere del sole. Ma se piove, le porte restano chiuse anche di giorno.

Le formiche nutrici
Le uova deposte nei formicai impiegano quindici giorni a schiudersi per dar vita alle larve. Le formiche operaie nutrono le piccole larve, rigurgitando nella bocca i succhi elaborati dal loro stomaco. Poi portano i piccini al sole, all’aria, e come balie premurose, quando si accorgono che il sole è troppo forte, ritirano le loro protette in un luogo più riparato. (P. Addoli)

Il lavoro delle formiche
Le formiche muratrici fortificano il formicaio con pallottoline di terra che, bagnata con la loro saliva, diventa dura come il cemento.
Chi porta i materiali, chi li dispone, chi li appiccica l’uno all’altro, le formiche lavorano tutte e l’edificio cresce a vista d’occhio, solido, forte, e pioggia o sole o vento non riescono ad abbatterlo.

Guerre di formiche
Il formicaio è una grande repubblica, anche se esiste una regina. Tutti gli individui che l’abitano, vivono in prosperità, aiutandosi fraternamente gli uni con gli altri. Ma fra un formicaio e l’altro, fra una specie di formiche e l’altra, possono scoppiare guerre feroci, zuffe sanguinose. Particolarmente accanite sono le formiche rosse. Quando scoppia un conflitto, le formiche vinte vengono scacciate dal formicaio e fatte prigioniere. Sul campo di battaglia, teste, zampe, ali provano che le cose si sono fatte sul serio.

Spesso, nelle belle giornate di primavera, si vedono formiche alate. Sono le giovani regine che vanno alla ricerca di un nido per fondare un nuovo formicaio. Finita la ricerca, poichè le ali non servono più, esse se ne sbarazzano, rodendole alla base. E noi, fino alla prossima primavera, non vedremo più formiche alate.

Fra l’erba di un prato, al riparo di grossi sassi, il formicaio apre le sue numerose entrate. La vita dei suoi abitanti si svolge alacre e misteriosa sotto terra, nell’oscurità delle celle scavate in ogni direzione; vi sono anche le corse al sole, su e giù per gli steli delle erbe e dei cespugli, alla ricerca di cibo o di altro materiale, ma il dovere presto richiama giù nei tortuosi cunicoli e nelle celle dell’intricata casa dove la formica nasce, cresce, lavora e muore. (J. Hill)

Andiamo a scuola dalle formiche. Non parlano, ma insegnano con l’esempio. Attenti! Ecco una formica che ha scoperto un vermiciattolo. Che cosa fa? Invita le sorelle a pranzo. Eccone un’altra, stanca. Poverina, morirà in mezzo alla strada? No, no! Una sorellina gentile la porterà al formicaio. Oh, nel formicaio ce n’è una ammalata! Le sorelle la assistono e la curano affettuosamente. Le formiche si aiutano fra di loro in un modo meraviglioso. Non parlano, ma con il loro esempio insegnano anche a noi ad essere buoni, a volerci bene.

Quando la formica si accorge che, nonostante i suoi sforzi, non può riuscire nel suo intento, quando è spossata per il cammino penoso, non si arrende. Si arrampica su un sassolino, che è una montagna per lei, e si guarda intorno. Vede altre compagne lì vicino, fa loro dei cenni muovendo il corpicino in mille modi, e quelle capiscono. Corrono presso la compagna che invoca aiuto, si aggiungono ad essa nel lavoro e tutte insieme riprendono a spingere, tirare, sollevare il chicco di grano, che a poco a poco va a finire nel formicaio. La formica ci insegna che non bisogna perdersi d’animo davanti alle difficoltà: ci insegna che, a stare uniti, si riesce meglio a superare tutti gli ostacoli. (L. Tolstoj)

Le formiche
Chissà quante volte hai posto un piede sul formicaio, mettendo lo spavento e il disordine nell’ordinatissima vita delle formiche! All’esterno il formicaio è soltanto un monticello di terra o un mucchio di aghi di pino tagliuzzati. Ma dentro, che meraviglia! Ampi magazzini, camere per allevare i figlioletti, strade, piazze, e persino il cimitero. Un paese molto ben organizzato.

Le formiche operaie
Vanno e vengono per portare un granellino, un semino, una briciola. Sono le operaie, gli industriosi abitanti del formicaio. Una formica può portare un carico pesante molte volte più del suo stesso peso. In proporzione, l’uomo dovrebbe poter portare per lo meno qualche quintale.

La formica regina
Mentre le operaie sono occupate a lavorare e ad accumulare provviste, la regina pensa a fare le uova. E’ la mamma di tutto il formicaio e ha il suo bel da fare a deporre migliaia e migliaia di uova. Dopo, non ci pensa più. Ci sono le nutrici che curano queste uova, le portano al sole perchè si riscaldino, le mettono al riparo quando minaccia di piovere.

Formiche forestiere
Quando le formiche s’incontrano, si toccano leggermente con le antenne. Lo fanno per riconoscersi. Se per caso una delle due è forestiera, comincia una lotta accanita che finisce con la morte o con la fuga di una delle due lottatrici. E se una schiera di formiche forestiere si avvicina al formicaio, ecco un esercito pronto a difendere la città o morire.

Il formicaio

Un formicaio significa una mirabile organizzazione di lavoratrici, di capi e dipendenti, di facchine, di scavatrici, di combattenti, di avvistatrici, di becchine, che vanno e vengono in lunghissime file tra i campi, sempre in faccende da quando spunta il sole a quando tramonta. (V. Fraschetti)

Le formiche

Le formiche hanno lasciato il loro rifugio sotterraneo. Dove la terra è più calda le vediamo passare in lunghe file nere alla ricerca di cibo, per rifornire i loro magazzini ormai vuoti. Spesso lavorano insieme: uniscono le loro forze per trasportare qualche cosa che è più grande di loro.
(G. G. Moroni)

Le formiche

Il popolo delle formiche è in faccende. Ecco le operaie, sole o in lunghe file, che attraversano in linea serpeggiante il terreno. Foglie di pino e di abete, pezzetti di legno, granelli, sono i pesi giganteschi che esse trasportano al nido con grandi stenti. Se per una sola formica il fardello è troppo greve, subito le compagne accorrono e tutte insieme, sospingendo o tirando con le robuste mandibole, adempiono al loro compito per il bene della comunità.

Le formiche
Viste fuori, in un giardino, in un campo, le formiche sono ammirevoli per il loro affaccendarsi continuo e per il loro zelo nel portare a termine i loro compiti. Il loro nido è sotto terra, coperto da un monticello di aghi di pino sminuzzati, di erbe e di rametti. Nel monticello ci sono due o più aperture che le formiche chiudono di notte e riaprono al mattino al sorgere del sole. Ma se piove, le porte restano chiuse anche di giorno.

Le formiche nutrici
Le uova deposte nei formicai impiegano quindici giorni a schiudersi per dar vita alle larve. Le formiche operaie nutrono le piccole larve, rigurgitando nella bocca i succhi elaborati dal loro stomaco. Poi portano i piccini al sole, all’aria, e come balie premurose, quando si accorgono che il sole è troppo forte, ritirano le loro protette in un luogo più riparato. (P. Addoli)

Il lavoro delle formiche
Le formiche muratrici fortificano il formicaio con pallottoline di terra che, bagnata con la loro saliva, diventa dura come il cemento.
Chi porta i materiali, chi li dispone, chi li appiccica l’uno all’altro, le formiche lavorano tutte e l’edificio cresce a vista d’occhio, solido, forte, e pioggia o sole o vento non riescono ad abbatterlo.

Guerre di formiche
Il formicaio è una grande repubblica, anche se esiste una regina. Tutti gli individui che l’abitano, vivono in prosperità, aiutandosi fraternamente gli uni con gli altri. Ma fra un formicaio e l’altro, fra una specie di formiche e l’altra, possono scoppiare guerre feroci, zuffe sanguinose. Particolarmente accanite sono le formiche rosse. Quando scoppia un conflitto, le formiche vinte vengono scacciate dal formicaio e fatte prigioniere. Sul campo di battaglia, teste, zampe, ali provano che le cose si sono fatte sul serio.

Spesso, nelle belle giornate di primavera, si vedono formiche alate. Sono le giovani regine che vanno alla ricerca di un nido per fondare un nuovo formicaio. Finita la ricerca, poichè le ali non servono più, esse se ne sbarazzano, rodendole alla base. E noi, fino alla prossima primavera, non vedremo più formiche alate.

Fra l’erba di un prato, al riparo di grossi sassi, il formicaio apre le sue numerose entrate. La vita dei suoi abitanti si svolge alacre e misteriosa sotto terra, nell’oscurità delle celle scavate in ogni direzione; vi sono anche le corse al sole, su e giù per gli steli delle erbe e dei cespugli, alla ricerca di cibo o di altro materiale, ma il dovere presto richiama giù nei tortuosi cunicoli e nelle celle dell’intricata casa dove la formica nasce, cresce, lavora e muore.
(J. Hill)

Andiamo a scuola dalle formiche
Non parlano, ma insegnano con l’esempio. Attenti! Ecco una formica che ha scoperto un vermiciattolo. Che cosa fa? Invita le sorelle a pranzo. Eccone un’altra, stanca. Poverina, morirà in mezzo alla strada? No, no! Una sorellina gentile la porterà al formicaio. Oh, nel formicaio ce n’è una ammalata! Le sorelle la assistono e la curano affettuosamente. Le formiche si aiutano fra di loro in un modo meraviglioso. Non parlano, ma con il loro esempio insegnano anche a noi ad essere buoni, a volerci bene.

Quando la formica si accorge che, nonostante i suoi sforzi, non può riuscire nel suo intento, quando è spossata per il cammino penoso, non si arrende. Si arrampica su un sassolino, che è una montagna per lei, e si guarda intorno. Vede altre compagne lì vicino, fa loro dei cenni muovendo il corpicino in mille modi, e quelle capiscono. Corrono presso la compagna che invoca aiuto, si aggiungono ad essa nel lavoro e tutte insieme riprendono a spingere, tirare, sollevare il chicco di grano, che a poco a poco va a finire nel formicaio. La formica ci insegna che non bisogna perdersi d’animo davanti alle difficoltà: ci insegna che, a stare uniti, si riesce meglio a superare tutti gli ostacoli. (L. Tolstoj)

Le formiche
Chissà quante volte hai posto un piede sul formicaio, mettendo lo spavento e il disordine nell’ordinatissima vita delle formiche! All’esterno il formicaio è soltanto un monticello di terra o un mucchio di aghi di pino tagliuzzati. Ma dentro, che meraviglia! Ampi magazzini, camere per allevare i figlioletti, strade, piazze, e persino il cimitero. Un paese molto ben organizzato.

Le formiche operaie
Vanno e vengono per portare un granellino, un semino, una briciola. Sono le operaie, gli industriosi abitanti del formicaio. Una formica può portare un carico pesante molte volte più del suo stesso peso. In proporzione, l’uomo dovrebbe poter portare per lo meno qualche quintale.

La formica regina
Mentre le operaie sono occupate a lavorare e ad accumulare provviste, la regina pensa a fare le uova. E’ la mamma di tutto il formicaio e ha il suo bel da fare a deporre migliaia e migliaia di uova. Dopo, non ci pensa più. Ci sono le nutrici che curano queste uova, le portano al sole perchè si riscaldino, le mettono al riparo quando minaccia di piovere.

Formiche forestiere
Quando le formiche s’incontrano, si toccano leggermente con le antenne. Lo fanno per riconoscersi. Se per caso una delle due è forestiera, comincia una lotta accanita che finisce con la morte o con la fuga di una delle due lottatrici. E se una schiera di formiche forestiere si avvicina al formicaio, ecco un esercito pronto a difendere la città o morire.

Il formicaio

Un formicaio significa una mirabile organizzazione di lavoratrici, di capi e dipendenti, di facchine, di scavatrici, di combattenti, di avvistatrici, di becchine, che vanno e vengono in lunghissime file tra i campi, sempre in faccende da quando spunta il sole a quando tramonta. (V. Fraschetti)

I nemici delle formiche

Molti uccelli e specialmente gli insettivori, danno una caccia accanita alle formiche. Ma non mancano tra i nemici gli insetti, in primo luogo le stesse formiche. Esiste una specie di formiche rosse che non è capace di procurarsi il cibo, nè di curare la prole. Per questo la principessa, appena diventata regina, va in cerca di un formicaio di formiche nere. Ne uccide la regina e si sostituisce ad essa. Le operaie serviranno come schiave alla nuova regina.
Ma il più accanito nemico delle formiche è il formichiere, un mammifero che vive nell’America Centro – Meridionale, il quale, riuscendo ad introdurre la sua lunga lingua nei formicai, fa una vera strage di questi insetti.
Altri temibili nemici sono: il pangolino, la talpa, e alcuni rettili.

Nel formicaio

Le formiche hanno costruito molte, moltissime stanze. La regina non aiuta le operaie, ma fa qualcosa di molto importante. Essa depone delle uova. Depone uova, uova e ancora uova. Dopo poco tempo, vi sono molte larve in più e molte formichine in più.
Questi insetti industriosi sono occupati tutto il giorno! Alcuni fanno da bambinaia: nutrono le larve e si prendono cura di loro.
Alcune formiche escono a far provviste. Esse portano il cibo alle operaie che rimangono a casa.  Il cibo è di vario genere. Talvolta portano il dolce che gli uomini hanno lasciato cadere, altre volte ancora dei minuscoli pezzi di frutta. Non mancano, però, bruchi e mosche.
Il cibo che le operaie trascinano a casa è in quantità superiore a quella che le formiche del nido possono mangiare. Allora esse ripongono il cibo che avanzano nelle dispense.
Alcune operaie tengono pulito il formicaio.
Altre operaie fanno un importantissimo lavoro: stanno di guardia tenendosi sempre pronte a fronteggiare le insidie dei nemici.

Il formicaio

La formica, si sa, è da secoli l’animale citato come esempio di operosità e di tenacia nel lavoro. E in verità, se potessimo scrutare nell’interno di un formicaio, avremmo molto da apprendere in fatto di lavoro, di metodo, di previdenza. Mentre nei corridoi che conducono alle diverse celle è sempre un viavai affaccendato di formiche operaie, nelle celle di incubazione sono raccolte le larve, che vengono trasportate da una cella all’altra, secondo il grado di sviluppo delle stesse. In basso si trova la cella – dispensa, dove riposano, sospese al soffitto, enormi formiche – otri, gonfie di liquido zuccherino che servirà, nel bisogno, a saziare l’appetito della colonia.
Nei boschi si incontrano spesso cumuli di foglie di conifere: si tratta di nidi costruiti da colonie di formiche con laboriosa pazienza e stupefacente ingegnosità.

I mestieri delle formiche

Le formiche di uno stesso formicaio non svolgono tutte lo stesso lavoro. Ci sono formiche che si occupano della salute e del benessere delle regine e dei maschi. Ci sono formiche che vanno a raccogliere semi, foglie, pagliuzze, insetti.
Ci sono formiche che si occupano di costruire il nido. Scavano la terra con le zampe davanti e la spingono dietro di loro; poi la trasportano all’aperto con la bocca. Altre scavano il nido nel legno degli alberi.
Ci sono formiche soldati, che difendono il formicaio dalle incursioni delle altre tribù di formiche. Ci sono formiche che coltivano, all’interno del formicaio, alcuni speciali tipi di funghi.
Ci sono formiche che allevano alcuni piccoli insetti verdi, gli afidi, i quali succhiano la linfa dagli alberi e producono un liquido zuccherino che piace molto alle formiche.
Le formiche spingono gli afidi sui rami delle piante, perchè possano succhiare i germogli; costruiscono col fango dei recinti, per rinchiudervi questi insetti; durante l’inverno mettono gli afidi al sicuro nel formicaio.

Di notte e d’inverno

Al sopraggiungere dell’oscurità o quando minaccia la pioggia, la formica provvede a chiudere l’imbocco delle gallerie che conducono al nido. Si protegge così dalla pioggia e dai nemici.
L’inverno interrompe il lavoro delle formiche. Esse chiudono ogni passaggio del formicaio con muschio, rivestono di bava impermeabile le pareti delle delle e, così al riparo, cadono in letargo.

Il ponte di paglia

Al centro di una pozzanghera sorgeva un piccolissimo isolotto, nel mezzo del quale vi era qualche chicco di grano. Le formiche correvano in su e in giù, intorno agli orli della pozzanghera, per tentare di giungere al grano. Però l’acqua impediva di arrivarci. Poichè le formiche, come le api, hanno la loro regina, le chiesero consiglio.
La regina, certamente, deve aver dato loro degli ordini speciali, perchè ad un tratto si videro le formiche operaie correre a raccogliere piccoli fuscelli di paglia e trasportarli sulle rive della pozzanghera. Quando parecchi fuscelli furono ammucchiati, dieci, venti, formiche spinsero nell’acqua un lungo filo di paglia. Si assicurarono che reggesse il loro peso e poi, camminando su di esso, ne trascinarono un secondo, poi un terzo, fino a che costruirono un solido ponte tra l’isolotto e la riva.
Appena l’isolotto fu raggiunto, le formiche sembravano impazzite di gioia. Si incontravano e sembrava che con le loro antenne si parlassero, poi si allontanavano per andare a muovere le antenne davanti ad altre formiche. Venne il momento di prendere il grano. Alcune formiche, giunte all’isolotto, si caricavano un chicco, che portavano a riva faticosamente attraverso il ponte di paglia. Là, un’altra schiera di formiche era pronta a dar aiuto, per portare il prezioso cibo nei vari piani del rifugio e riempire i magazzini della loro città sotterranea.

Le formiche operaie

Secondo il lavoro che le operaie compiono, possiamo suddividere le formiche in varie categorie.
Le formiche agricole sono quelle che vanno tutto il giorno a caccia di semi e di foglie. Per procurarseli spesso si allontanano parecchie centinaia di metri dal loro nido. Queste formiche hanno una forza formidabile. Pensate che possono trascinare un peso sessanta volte maggiore a quello del loro corpo! In proporzione, un uomo del peso di 70 kg dovrebbe trascinare oltre 40 quintali. Le formiche agricole dimostrano di aver capito che il lavoro in serie procura un notevole guadagno di tempo. Esse infatti adottano spesso questo sistema: mentre una taglia le foglie e le lascia cadere a terra, altre raccolgono i pezzi e li portano al nido. Alcune formiche (ad esempio le anomme dell’Africa) hanno anche trovato il modo per superare piccoli corsi d’acqua che ostacolano il loro cammino. Il sistema escogitato è davvero sorprendente. Alcune di esse dopo aver formato una lunga catena, tenendosi agganciate le une alle altre con le zampe e le mandibole, cercano di raggiungere l’altra sponda. Formano così una specie di ponte sul quale possono passare tutte le altre. La raccolta dei semi e delle foglie non è il solo lavoro delle formiche agricole. Giunte al formicaio, esse masticano le foglie fino a ridurle in poltiglia. Lasciano poi tale poltiglia in una camera speciale del formicaio fino a quando su di essa si stende una vegetazione biancastra (un fungo), di cui le formiche si nutrono con avidità.
Le formiche fornaie  sono insetti straordinari. Prima di tutto ricavano la farina dai chicchi di grano, macinandoli con le robuste mandibole. Poi, servendosi della saliva, impastano la farina e con le zampe anteriori formano delle minuscole pagnotte che servono all’alimentazione delle larve.
Ci sono poi formiche operaie dedite alla pastorizia, che cioè allevano il “bestiame”. Si tratta degli afidi o pidocchi delle piante, che le formiche ospitano nei loro nidi perchè sono ghiotte della sostanza zuccherina che questi insetti espellono dall’addome. Gli afidi sono mantenuti e nutriti da queste formiche e in compenso essi rendono loro un prezioso servizio. Basta infatti che una formica “accarezzi” con le antenne uno di tali insetti (è questo il modo con cui le formiche comunicano con gli afidi) perchè esso emetta la gustosa sostanza.
Vi sono formiche che hanno nell’addome una sacca speciale in cui possono immagazzinare una grande quantità di cibo: la sostanza zuccherina di alcune piante, di cui le formiche sono golosissime. Si tratta delle formiche magazzino. Quando la sacca è piena di tale sostanza, il loro addome si gonfia fino a raggiungere la grandezza del pollice di una mano. Ma non si creda che quelle formiche siano esageratamente golose. Una buona parte di quella dolce sostanza la distribuiscono alle loro compagne. Se ne stanno infatti a rigurgitare gocce di quella sostanza tutte le volte che una loro compagna mostra di volerne gustare. Quelle formiche posso essere considerate dei veri e propri magazzini viventi.

Un nido di formiche è una città, una fortezza e al tempo stesso un magazzino

Noi chiamiamo nido il formicaio; ma è città, fortezza e magazzino insieme. Il tutto costruito con abilità grandissima. Le nostre formiche comuni scavano una città sotterranea, molto complicata, con gallerie e sale a diversi piani; ogni parte ha la sua destinazione; l’intero edificio è fatto secondo un piano prestabilito.
Le grosse formiche dei boschi non si accontentano del terreno, come materiale da costruzione, ma raccolgono le foglie del pino e ne fanno una cupola sul formicaio con porta e finestre aperte di giorno e chiuse di notte, come quelle di una fortezza. Queste formiche hanno mandibole potenti, la cui stretta è dolorosa; tanto più che esse secernono un veleno, detto appunto, dal loro nome, acido formico. Sia detto fra noi, per inciso, che l’acido formico ora si può ottenere con varie sostanze, ma la prima volta fu estratto dalle formiche.
Ogni specie ha una propria forma di nido; nell’America meridionale vi sono certe formiche che costruiscono collinette entro cui sono disposti i granai, le stanze per le larve, i corridoi.
L’istinto meravigliosamente sviluppato delle formiche le spinge però, talvolta, a commettere quelle che noi consideriamo cattive azioni.
Alcune di esse tengono eserciti pronti per combattere guerre sanguinose, col solo scopo del furto, e fanno schiave le formiche più deboli.
Le formiche amano le loro parenti; in quanto alle estranee, le odiano tanto da ucciderle. Hanno una memoria sorprendente. Una formica tolta al proprio formicaio e tenuta prigioniera per diversi mesi, quando ritorna a casa viene riconosciuta, accolta con carezze e manifestazioni di soddisfazione. Probabilmente, oltre alla memoria, deve essere l’odorato ad aiutarle a riconoscersi. Sappiamo che l’odorato aiuta le formiche nella ricerca delle compagne e a  ritrovare la strada di casa. Se questo senso dell’odorato aiuta le formiche a riconoscere una loro compagna rimasta lungamente assente, vien fatto di pensare che ogni comunità abbia un suo speciale odore; e ciò anche per un’altra ragione: un uovo può essere tolto dal suo formicaio, trasportato in uno diverso e allevato da altre formiche; ma quando la nuova formica è nata e vien rimessa nella casa paterna, è subito riconosciuta e festeggiata dalle compagne che non l’avevano mai veduta.
Vi possono essere in una località diverse colonie di formiche della stessa specie, ma esse non si ingannano mai: conoscono assai bene le formiche nate dalle uova appartenenti al loro formicaio. Se invece vedono entrare in casa una compagna della loro specie, ma nata da un uovo di altro formicaio, la uccidono immediatamente.

Guerre di formiche

Le formiche sono gelosissime del terreno che stanno sfruttando e lo difendono in modo battagliero da ogni minima invadenza delle società vicine. Nelle loro lotte, esse dispongono di armi terribili: le mandibole, con le quali possono forare crani e tagliare zampe e teste. Le formiche doriline dispongono di un pungiglione che inietta veleno nel corpo del nemico e devono a ciò il loro nome, dal greco dory, che significa lancia.
Altre lanciano per mezzo di una vera siringa addominale dell’acido formico che asfissia l’avversario; altre ancora lo spruzzano sul nemico per mezzo dell’addome che può muoversi in tutte le direzioni. Alcune, infine, spandono un odore ripugnante, che mette in fuga tutti gli insetti che non vi sono abituati.
La tattica delle formiche è varia quanto la natura delle loro armi. La formica dei prati eccelle nella guerra di trincea e delle barricate. Si nasconde nei corridoi sotterranei del formicaio dopo aver chiuso tutte le aperture con granelli di terra o sassolini. Le assalitrici, per avanzare, devono togliere ad uno ad uno tali ostacoli e lottare contro le formiche del luogo che difendono ostinatamente il nido, galleria per galleria.
Talvolta i combattenti non fanno uso ne del veleno ne del pungiglione; si ghermiscono, si tirano, si mordono. Quando uno di essi è spossato, il più forte lo tortura con le sue mandibole; gli taglia un’antenna, poi una zampetta e così di seguito, finchè la vittima, atrocemente mutilata ma ancora viva, si trova nell’incapacità assoluta di difendersi. Allora il vincitore si decide a farla fuori, oppure la trascina in luogo deserto e l’abbandona al suo triste destino.
Si possono osservare anche delle battaglie campali. Nel caso più semplice, queste consistono in un attacco frontale in cui le schiere nemiche si disputano il terreno centimetro per centimetro. Il combattimento ha luogo, generalmente, fra due formicai vicini.  I due eserciti  occupano una larghezza di circa 70 cm, e si scontrano a metà strada dalle loro abitazioni. Gli avversari si afferrano per le mandibole o per le zampe, si stiracchiano in tutte le direzioni, si mutilano reciprocamente e si inondano di acido formico. In poco tempo i cadaveri delle formiche coperti di veleno giacciono sparsi sul terreno; un odore acre e penetrante esala dal campo di battaglia.
La formica rossa usa una tattica sapiente manda al combattimento, a ondate successive, piccoli gruppi di combattenti che cercano i punti deboli dell’avversario, per tentare un attacco di fianco o alla retroguardia. Alcune specie di formiche non sopportano queste manovre laterali e abbandonano rapidamente il campo di battaglia. Altre specie, al contrario, quella color nero-cenere e la “minatrice”, ad esempio non si lasciano intimidire da questa strategia degna dei grandi capitani, accettano la lotta e spesso fanno strage delle avanguardie troppo ardite.

Formiche “schiaviste”

Presso le amazzoni, formiche schiaviste, la guerra è una necessità assoluta. Esse hanno mandibole a forma di falcetto che servono solo alla lotta; sono incapaci di costruire il nido, di allevare la loro covata e di cercarsi il cibo. Perciò affidano tutti i lavori del formicaio a schiave che essi catturano a viva forza. In giorni determinati, si dirigono verso il nido che desiderano depredare delle larve e delle ninfe, lo circondano a poco a poco e poi passano all’attacco; abbattono le operaie che tentano di resistere e afferrano larve e ninfe portandole via. Le operazioni di cattura possono durare anche molti giorni.
Le formiche schiave, che abitano la cittadella delle amazzoni ormai da molti mesi, si impadroniscono delle larve e delle ninfe catturate, le curano, le allevano e mettono ogni cura per farne delle nuove schiave. Le une e le altre del resto sono molto attaccate alle loro padrone: riparano il nido, curano le uova, danno da mangiare agli adulti e se è necessario combattono per conto delle amazzoni, mentre queste si accontentano di sorvegliare la lotta e di intimidire l’avversario con la loro solo presenza. Si sono viste perfino delle schiave dare battaglia a formiche della loro stessa specie per difendere il nido delle padrone.

L’animale più pericoloso

La discussione favorita dai cacciatori di grossa selvaggina consiste nello stabilire qual è l’animale più pericoloso: non è il leone o la tigre, ma, come prova l’inglese John Compton senza alcun dubbio, la formica migratrice.
Fu in Africa, durante il periodo delle piogge, che Compton si imbattè in questo insetto per la prima volta. Nel corso di un’escursione incontrò una tribù di formiche migratrici in formazione di marcia. Le bestiole avanzavano a gruppi di cinque o sei mentre, ai fianchi, le più grosse facevano la guardia. Non si vedeva ne il principio ne la fine della colonna.
Compton si arrestò per osservare qualche tempo questa strana processione. Ma, all’improvviso, sentì un forte dolore alla gamba sinistra, come se gli fosse entrato profondamente nella carne un ago arroventato. Era una formica che si era conficcata nella pelle e vi si era attanagliata con le pinze.
“Quando volli strappare l’insetto” scrive Compton, “non mi rimase tra le dita che il corpo della formica, mentre la testa, armata di pinze, era rimasta conficcata sotto la pelle della gamba”.
“Fu una cosa grave” racconta Compton, “quella che capitò nel cuore della Rhodesia. Rientrato da una caccia notturna, mi installai  in una capanna abbandonata. Appesi ad un albero l’antilope che avevo uccisa, attaccai il cavallo ad un altro ramo e mi coricai nella capanna. All’improvviso, un topo, caduto dal tetto per la paura, mi capitò sul viso e sentii allora il cavallo nitrire e scalciare come un pazzo intorno a sè. La corda alla quale era legato si spezzò e prima che potessi raggiungerlo, l’animale era fuggito galoppando selvaggiamente. Fortunatamente avevo infilato le scarpe e mi misi così ad inseguire il cavallo per un momento, fino a che mi resi conto che non avrei mai potuto raggiungerlo. Ma quando ritornai, restai inchiodato al suolo, ad un centinaio di passi dalla capanna. Alla pallida luce della luna notai che l’antilope morta si muoveva sull’albero e constatai con spavento che il mio ricovero era stato attaccato da un gigantesco esercito di formiche.
Compton passò la notte su di una piccola collina un po’ distante dalla capanna e il giorno dopo, quando venne a vedere ciò che era accaduto, le formiche erano scomparse. Dell’antilope non rimanevano che le ossa, e nella capanna stessa si vedeva lo scheletro di qualche topo. Compton doveva esclusivamente al caso di esserne uscito sano e salvo: infatti, il topo caduto sulla sua faccia l’aveva svegliato in tempo. Se si fosse svegliato qualche secondo più tardi, avrebbe certamente potuto ancora correre, ma sarebbe tuttavia morto per le ferite prodottegli dalle formiche. Sembra dunque, dopo tutto ciò, che la formica sia la potenza più temuta, nelle contrade selvagge. (P. Lauret)

Le mucche delle formiche

Hai mai visto i germogli teneri delle rose o di altre piante, invasi da innumerevoli pidocchi grigioverdi? Essi si chiamano gorgoglioni o mucche delle formiche.
La pianta che ha molti di questi inquilini, in pochi giorni deperisce mentre i suoi parassiti, succhiandone gli umori, si riempiono di una sostanza dolce.
Dove vive una colonia di gorgoglioni, ben presto arrivano le coccinelle rosse dai sette punti e le formiche. Le coccinelle cercano i pidocchi per farne una strage divorandoli vivi. Le formiche, invece, li cercano continuamente per… mungerli. Sì, per mungerli, proprio come se fossero mucche, succhiandone il miele attraverso due piccoli tubi che essi hanno ai lati dell’addome. Ti viene da ridere? Ma questo non basta. I pidocchi, non solo si lasciano mungere, ma si lasciano persino trasportare dalle formiche nell’interno della terra, in una tana da queste appositamente scavata in comunicazione col formicaio. Per mantenerli grassi, cioè ben pieni di miele, che cosa fanno? Scavano dei passaggi tra una radice e l’altra, e, reggendo delicatamente con le mandibole le mucche prigioniere, le conducono a fare i loro pasti sulle parti più tenere.

Battaglia tra formiche e coccinelle

La coccinella è la grande nemica dei pidocchi delle piante e il giardiniere ha per lei molto rispetto. Una volta una coccinella, in due giorni, divorò una colonia di duecento gorgoglioni. Quattro coccinelle, in una sola settimana, liberarono interamente un alberello da frutto dai parassiti che lo coprivano tutto.
Le formiche odiano la nemica dei loro fornitori di miele e, se l’incontrano, le danno subito battaglia. Le corrono intorno intorno, la spruzzano col loro acido irritante, le montano arditamente sul dorso e tentano di staccarle le zampette con dei morsi.
Ma la coccinella si comporta come un carro armato, e la sua forma rotonda e liscia è molto adatta alla sua difesa.
Essa si ritrae tutta sotto il suo guscio lucido e duro, contro il quale le formiche non possono far nulla. Appena le sue nemiche si allontanano deluse, riprende la strage. Qualche volta le formiche ritornano ad assalirla in forte massa, e allora riescono a cacciarla.
Le formiche si comportano come pastori che difendano il loro gregge dai lupi, ma son dannose, perchè mantengono in vita un nemico delle piante.

Le formiche

Le formiche hanno lasciato il loro rifugio sotterraneo. Dove la terra è più calda le vediamo passare in lunghe file nere alla ricerca di cibo, per rifornire i loro magazzini ormai vuoti. Spesso lavorano insieme: uniscono le loro forze per trasportare qualche cosa che è più grande di loro.
(G. G. Moroni)

Le formiche

Il popolo delle formiche è in faccende. Ecco le operaie, sole o in lunghe file, che attraversano in linea serpeggiante il terreno. Foglie di pino e di abete, pezzetti di legno, granelli, sono i pesi giganteschi che esse trasportano al nido con grandi stenti. Se per una sola formica il fardello è troppo greve, subito le compagne accorrono e tutte insieme, sospingendo o tirando con le robuste mandibole, adempiono al loro compito per il bene della comunità.

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IL CRISANTEMO leggenda giapponese

IL CRISANTEMO leggenda giapponese

C’è, in Giappone, un luogo dove il crisantemo non è coltivato perchè ricorda una storia troppo triste.

Una volta, in un castello dalle trenta torri, nella graziosa città di Himeji, abitava un ricchissimo signore. Egli prese al suo servizio una fanciulla di buona famiglia, chiamata O-Kitu, il che, in giapponese, significa appunto “fior di crisantemo”. O-Kitu doveva aver cura di molti oggetti preziosi e, fra l’altro, di dieci piatti d’oro.

Un giorno, uno dei piatti scomparve e la ragazza, per dimostrare la propria innocenza, si annegò in un pozzo. Il suo spirito tormentato, la notte, tornava al castello e singhiozzando cantava: “Ichi-mai, ni-mai, san-mai, yo-mai, go-mai, ro-ku-mai, shichi-mai, bachi-mai, ku-mai”. “Uno, due, tre, quattro, cinque, sei, sette, otto, nove!”

Il decimo piatto non c’era e la povera servetta non trovava pace: finchè si trasformò in un insetto che somiglia a uno spirito coi capelli scompigliati e che fu chiamato la “mosca crisantemo”.

L’immagine di una chioma spettinata, che richiama alla mente i petali frastagliati del crisantemo, ha dato origine sempre in Giappone, a un’altra leggenda.

Una musmè aveva sposato  un giovane, che amava teneramente. Egli era mercante e spesso doveva allontanarsi per lunghi viaggi sul mare. Una fosca sera di novembre la moglie lo aspettava, ritta su uno scoglio. La nave apparve, ma una tempesta terribile si scatenò. La povera musmè, coi capelli ondeggianti al vento, assistette inorridita al dramma: il bastimento fu inghiottito dai flutti furibondi. Disperata, la sposa si gettò anch’essa nelle onde e morì. Il giorno dopo, sul luogo dove aveva atteso il suo sposo, sbocciarono i fiori del crisantemo, e i loro petali fluttuavano al vento come i capelli della musmè.

Un’altra commovente leggenda giapponese è questa. Due giovani sposi vivevano tranquilli e felici. Purtroppo scoppiò la guerra e il marito dovette partire. Dopo lunghi mesi di dolorosa separazione gli fu dato un congedo ed egli potè tornare alla sua casetta. La moglie gli chiese: – Quanti giorni resterai? –

– Quanti petali ha quel fiore – rispose il marito, indicando un fiore in un vaso.

I petali erano pochi: di notte la sposa si levò, prese un paio di forbici e li frastagliò in tanti minutissimi frammenti. E il marito rimase con lei molti giorni, assai più di quanto non gli fosse stato concesso…

Tornato al campo, fu giudicato e condannato a morte come disertore. E la sposa, per il rimorso e per il dolore, morì.

Ma il ricordo del suo grande, sebbene così tragico amore, le sopravvisse in un modo strano e poetico. Sulla sua tomba nacquero bellissimi fiori mai visti prima: erano i crisantemi dai petali innumerevoli, simili a quelli del fiore che la donna aveva frastagliato con le sue incaute forbicine.

La pianura – materiale didattico vario

La pianura – materiale didattico vario: dettati ortografici, racconti, testi brevi, di autori vari, per la scuola primaria.

La pianura

La pianura è un’estensione di terreno piatto o leggermente ondulato che, di solito, non supera i 200 metri di altitudine, misurando dal livello del mare.

Nei tempi antichissimi scorrevano sulla Terra fiumi giganteschi: le loro acque trascinavano con sè, strappandoli dalla montagna, frammenti di roccia e terriccio. Questo materiale, accumulandosi per millenni e millenni, formò le pianure.

Anche oggi, nelle pianure, scorrono i grandi fiumi. Gli uomini devono costruire argini potenti per trattenerne le acque e ponti di cemento e di ferro per scavalcarne le correnti.

Centinaia di anni fa,   gli uomini non si fermavano volentieri nella pianura a costruire case e città. Temevano gli assalti dei nemici e il pericolo delle paludi. Nei tempi moderni, invece, la pianura è il luogo preferito per la costruzione delle grandi città, centri di industrie e di commerci. Nella pianura è possibile tracciare strade, autostrade, ferrovie ed aeroporti senza troppi impedimenti di salite, discese e curve.

Le pianure, bene irrigate dai fiumi e dai canali scavati dall’uomo, sono coltivate intensamente. Negli ampi terreni pianeggianti è possibile l’uso dei trattori e delle altre macchine agricole. Nelle pianure si coltivano i foraggi (erbe di cui si ciba il bestiame), cereali (grano, granoturco, riso), tabacco, barbabietole da zucchero, alberi per legname (pioppi, faggi) e alberi da frutto.

Nasce una pianura

Molti e molti secoli fa, la grande valle del Po era occupata dal mare e le sue onde si frangevano ai piedi delle Prealpi. Ma poi, dalle gole nascoste delle Alpi, discesero i ghiacciai, i quali colmarono i fiumi e i torrenti che portavano tonnellate di detriti.

Questa terra, strappata alle acque, si coprì di immense foreste e qua e là, nelle grandi radure che si aprivano nell’intrico della vegetazione, sorsero miseri villaggi di capanne, circondati da brevi campi coltivati a cerali o a viti.

Furono i Romani che, dopo molti secoli, cominciarono per primi ad abbattere le dense boscaglie per farvi passare le larghe strade che dovevano congiungere i paesi conquistati. Più avanti nel tempo, specialmente per opera dei monaci, altre vastissime zone furono diboscate; si prosciugarono plaghe paludose, si costruirono canali di irrigazione.

La pianura era ormai nata e l’intensa opera dell’uomo la rendeva di anno in anno più fertile; eppure ancora oggi il vomere del contadino affonda nei resti delle antiche vette demolite dal gelo, e qualche volta appare, tra i sassi, il fossile di qualche antica spiaggia dalle onde che flagellavano le scogliere di ghiaccio. (A. Stoppani)

Flora e fauna 

Nei campi della pianura vivono i lombrichi e moltissimi insetti di ogni specie. Ci sono i ricci, voraci insettivori, e i timidi conigli selvatici.

Gli uccelli sono numerosi: il cardellino, la tortora, la quaglia e l’allodola amano le ampie distese della pianura. In alcune zone della Maremma e della Sardegna si trova ancora il cinghiale, che è un maiale selvatico. Ma anche gli animali selvatici, come le piante spontanee, vanno scomparendo dalla pianura.

Anche la pianura ha le sue piante. Nella zona di alta pianura crescono platani, robinie, betulle, pini silvestri, sambuchi, ginestre e brughi. Dai cespugli di brugo, certe zone di alta pianura hanno preso il nome di brughiere.

Nella bassa pianura troviamo pioppi, salici e numerosissimi tipi di erbe.

Ora le brughiere e le zone non coltivate della pianura vanno scomparendo perchè l’uomo, mediante imponenti lavori di bonifica e di irrigazione, cerca di sfruttare ogni zona di terreno.

Le comunicazioni

In pianura le comunicazioni sono facili e dirette: anche per questo la vita tende ad accentrarsi nelle pianure. Qui sorgono grandi città, centri industriali e commerciali dove le merci e i prodotti possono rapidamente giungere e partire per le varie destinazioni.

Il traffico maggiore è svolto per mezzo delle ferrovie e degli automezzi. Veloci automobili e autotreni col loro rimorchio corrono sulle autostrade. Queste sono grandi e moderne strade riservate agli automezzi: pedoni e ciclisti non possono percorrerle. Esse congiungono direttamente le grandi città, sono abbastanza larghe e ben pavimentate e non sono mai tagliate di strade trasversali.

Così i veicoli possono viaggiare a grande velocità senza pericolo. Agli incroci spesso una strada scavalca l’altra come un ponte: si ha così un cavalcavia. Anche i fiumi talvolta vengono usati in pianura come vere e proprie vie d’acqua. Per mezzo di barconi e chiatte, molte merci vengono trasportate lungo i fiumi e i grandi canali.

Il lavoro industriale

Le facili comunicazioni permettono il rapido trasporto delle materie prime che le industrie lavorano e trasformano in utili prodotti. Per questo i più grandi stabilimenti industriali sorgono più numerosi in pianura che altrove. Quante industrie sono necessarie per rifornirci di tutto quello che ci serve per vivere! Gli stabilimenti tessili ci forniscono i vestiti che indossiamo, i calzaturifici ci preparano le scarpe, le cartiere fabbricano i nostri quaderni, i mobilifici arredano di mobilio le nostre case, gli stabilimenti  meccanici ci donano utensili e macchine di ogni tipo, necessari per il nostro lavoro, per i nostri trasporti e per rendere la nostra casa più comoda. Ma ad essi occorrono ferro, acciaio ed altri metalli che sono lavorati negli stabilimenti siderurgici e metallurgici.

Paludi e stagni

Non tutte le zone di pianura sono abitate e coltivate. Vi sono dei luoghi dove l’acqua, non  assorbita dal terreno, si ferma e ristagna, formando le paludi. Molte di esse, separate da sottili lingue di terra, si trovano lungo le coste dei mari: sono le lagune.

Quando l’acqua si raccoglie in piccole conche del terreno, forma gli stagni, acquitrini melmosi, ricchi di erbe acquatiche, di arbusti intricati e di canneti. In questi luoghi, che rappresentano il paradiso dei cacciatori per i molti uccelli acquatici che vi si possono trovare, l’aria è malsana, densa di moscerini e di zanzare.

In alcune regioni d’Italia sono state compiute opere di bonifica, per prosciugare e rendere produttivi molti terreni paludosi.

Nelle marcite, tipi particolari di campi in cui l’acqua circola tra le piantine e le mantiene umide, si possono fare anche otto tagli di erba all’anno.

Il riso

Il riso è una pianta che cresce solo nell’acqua: viene perciò coltivata  nei terreni paludosi o appositamente allagati. In marzo i contadini preparano i piccoli appezzamenti destinati alla semina del riso, zappano la terra a mano, lavorando nel fango, e sminuzzano le zolle con l’erpice tirato da due robusti cavalli. Prima della semina, che di solito si effettua in aprile, immettono l’acqua nei campi.

Dopo due mesi le piantine verdi, cresciute fitte fitte nel campo, sono pronte per il trapianto. Le mondine scavano un piccolo buco nella melma e vi affondano ad una ad una le radici dei cespi di riso. In giugno o in luglio procedono a varie mondature, cioè strappano le erbacce dalla risaia.

In settembre le pianticelle si incurvano sotto il peso dei chicchi maturi: è l’ora della mietitura. Le risaie vengono prosciugate e le pianticelle falciate a mano. Quindi il riso viene trebbiato con la macchina trebbiatrice e portato sull’aia ad essiccare.

Infine passa nelle riserie, dove altre macchine trasformano i chicchi scuri, violacei, rossastri, in granelli bianchi e brillanti. La sua lunga storia è finita: il riso è pronto per apparire nelle nostre cucine.

In campagna

Dalla casa colonica lo sguardo spazia, al di sopra della pianura, per un vasto orizzonte; sono lontani i monti che appaiono di un azzurro più scuro nell’azzurro vivo del cielo.

Attorno alla casa, prati e campi di frumento, di granoturco, di avena. Da campo a campo, lunghe file di pioppi fanno alta siepe di verde; le foglie tremano al vento leggero.

Nelle belle, calde sere di giugno, dai prati rigogliosi, dai campi dove già le messi cominciano a biondeggiare, si levano a mille le lucciole. Sembrano stelline vaganti che si agitano per rispondere, con la loro minuscola lucetta, allo scintillio delle grandi stelle nei cielo.

Nel silenzio si leva il canto dei grilli.

Le grandi fattorie

In pianura sorgono numerose fattorie. Visitiamone una. Appena entrati ci troviamo in un ampio cortile cinto da un alto porticato. Nel mezzo si trova l’aia, sulla quale si stendono le biade ad essiccare. Intorno si affacciano le stanze di abitazione, le stalle e i ripostigli. Sotto il portico è ammucchiato il fieno, vicino a cataste di legna da ardere e a balle di paglia. Qua e là si scorgono diverse macchine agricole. Tutt’intorno è un brulicare di galline, di anatre, di oche, e non mancano mai cani fedeli che fanno la guardia e agili gatti a dar la caccia ai topi.

Perchè il fiume è chiuso fra due argini?

In pianura i fiumi non hanno forte corrente, dato che la pendenza del terreno è minima. I barconi e le chiatte cariche di merci possono così risalire facilmente i grandi fiumi placidi della pianura. Ci sono anche i canali scavati dagli uomini per irrigare i campi o per impedire che in certe zone l’acqua del fiume ristagni a formare le paludi. I canali, togliendo molta acqua ai fiumi, impediscono anche che essi inondino la campagna durante le piene. Servono perciò a regolare il corso dei fiumi. In certe zone però ciò non basta. Il fiume, che in pianura scorre lento, deposita sul fondo tutti  i detriti che le sue acque portano via dalla montagna. Il solco del suo letto si riempie e il fiume viene poco per volta ad essere più alto del terreno che sta intorno e minaccia di straripare. Per impedirlo, l’uomo ha dovuto costruire dei robusti argini di terra lungo le sponde. Per costruire questi argini, gli uomini adoperano la terra che tolgono dallo stesso letto del fiume con le draghe. Le draghe che scavano il fondo del fiume servono a rendere navigabili tutte le sue parti anche ad imbarcazioni piuttosto grosse. Inoltre contribuiscono ad impedire che il fondo del fiume si alzi troppo.

(in costruzione)

La pianura –  dettati ortografici e letture – Tutte le opere  contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.

Antico Egitto dettati ortografici e letture

Antico Egitto dettati ortografici e letture – una raccolta di brevi testi di autori vari per la classe quarta della scuola primaria.

Gli Egizi

L’Egitto è una terra sulla quale la pioggia cade assai raramente. Il deserto di pietra e di sabbia si stende a perdita d’occhio. L’Egitto è percorso da un grande fiume, il Nilo. Esso, una volta all’anno, nel periodo da maggio a ottobre, straripa, inonda il territorio circostante e vi depone una fanghiglia fertile. Quando le acque si sono di nuovo ritirate, il contadino ara i campi, semina e, in meno di quattro mesi, raccoglie grano in abbondanza.

Seimila anni fa, lungo le sponde del fiume benefico, sorse una grande civiltà: quella degli Egizi. Gli Egizi seppero sfruttare il Nilo; regolarono il corso delle sue acque, le incanalarono, edificarono in altro le loro case per proteggerle dagli allagamenti.

Essi formarono una società bene ordinata, guidata da leggi, governata da un re, detto faraone, venerato come un dio.

Gli Egizi erano molto religiosi: adoravano il Sole, la Luna, e molti animali. Essi credevano che ogni uomo avesse un’anima, la quale durava oltre la morte, fino a quando il corpo si fosse conservato; si preoccupavano, perciò, di imbalsamare le salme, di fasciarle e di porle in sarcofaghi riccamente decorati. I corpi così preparati si dicono mummie e sono ancora oggi intatti. Alcuni faraoni si fecero costruire tombe gigantesche, le piramidi, alte più di cento metri, occupate da corridoi, gallerie e sale.

I personaggi più importati dello Stato erano i sacerdoti e i guerrieri; poi c’era il popolo dei contadini, degli artigiani e dei mercanti; ultimi venivano gli schiavi, trattati al pari delle bestie. I sacerdoti amministravano la religione e la giustizia; istruivano il popolo, erano astronomi, scienziati, ingegneri. I guerrieri erano i nobili; seguivano il re e combattevano in gruppi di fanteria con lance, archi, scuri e pugnali.

Gli Egizi scrivevano su una specie di carta ricavata dalla pianta del papiro. Prima usarono una scrittura a disegni detti geroglifici, poi inventarono un vero e proprio alfabeto.

L’Egitto e il Nilo

L’Egitto deve la sua straordinaria fecondità alle periodiche inondazioni del fiume. D’estate, per effetto delle grandi piogge equatoriali cadute nelle zone del suo alto corso, il Nilo si gonfia tanto che l’acqua trabocca dalle rive ed inonda tutto il paese intorno, deponendo sul terreno un limo fecondatore.

In autunno, quando le acque si ritirano, il suolo riemerge meravigliosamente fertilizzato. A novembre si semina e quattro mesi dopo si miete un abbondantissimo raccolto.

Gli antichi abitanti dell’Egitto, colpiti dal meraviglioso fenomeno, non conoscendone le cause, adorarono il fiume come un dio benefico.

Ma quelle acque, abbandonate a se stesse, potevano essere anche rovinose: perciò fin dai tempi più antichi gli Egizi costruirono canali, argini e laghi artificiali, per disciplinarle a proprio vantaggio. Dono dunque del Nilo, ma anche dell’intelligenza e del lavoro umano, l’Egitto.

Le città

Lungo il Nilo gli Egizi costruirono meravigliose città. Le più belle furono Menfi e Tebe. Quest’ultima aveva cento porte di bronzo e magnifici templi dedicati al dio Sole, buono e generoso come il Nilo.

Le credenze religiose

Gli Egiziani più antichi adoravano gli animali, come il falco, l’avvoltoio, il cane, lo scorpione, convinti che in essi si incarnassero e si manifestassero gli dei.

Con particolare devozione essi adoravano Api, un bue tutto nero con una macchia bianca sulla fronte: volevano così esprimere la loro riconoscenza all’animale che aiuta l’uomo nelle fatiche dei campi.

Adoravano inoltre la Luna, che chiamavano Iside, e che pensavano fosse la moglie del Sole, cioè di Osiride.

Un’altra divinità egiziana era Ibis, l’uccello sacro che portava sulle grandi ali le anime dei morti nel regno delle ombre.

Gli Egiziani credevano che, alla morte di ogni uomo, l’anima, dopo un lungo viaggio sulle ali di Ibis, comparisse davanti ai giudici, in mezzo ai quali sedeva il dio Osiride, cioè il Sole che tutto vede. Osiride pesava le anime su una bilancia e ascoltava le loro confessioni. Le anime leggere, cioè senza colpe, volavano negli incantevoli giardini dove il grano era alto sette braccia. Le anime pesanti, cioè quelle cattive, erano subito punite.

Il culto dei morti

Quando qualcuno moriva, gli Egiziani ne imbalsamavano il corpo e lo fasciavano con lunghe e strette bende intrise di sostanze resinose.

Deponevano il morto così fasciato dentro una custodia di legno a forma umana, sulla quale facevano il disegno del volto e del vestito.

Le salme così preparate si chiamavano mummie.

Sono state ritrovate dopo migliaia e migliaia di anni e ora si trovano nei musei.

Nella tomba, accanto alla mummia, venivano posti gli oggetti appartenenti al morto.

Si credeva che esso dovesse fare un lungo viaggio. Perciò insieme con gli oggetti d’uso, si ponevano nelle tombe anche i cibi necessari per via.

Le grandi piramidi

Le più grandi piramidi furono costruite oltre quattro millenni e mezzo fa. Quella di Cheope supera i 145 metri di altezza, ciascuno dei quattro lati è 230 metri. Plinio dice che vi lavorarono 400.000 uomini per venti anni.

A destra di essa sono le minori piramidi di Chefren e di Micerino.

La sfinge

La sfinge è un monumento egiziano che sorge vicino alle piramidi di Giza. Raffigura un dio egizio con testa di donna e corpo di leone. E’ alta 17 metri ed è lunga 38. Questa statua vuole significare la forza e l’intelligenza dei Faraoni, che erano i padroni di tutte le ricchezze egiziane.

Tutankhamon

La tomba di questo famoso faraone, che regnò in Egitto dal 1358 al 1349 aC, fu scoperta nella Valle dei Re nel 1922. Il corpo mummificato del giovane re, giaceva in una bara d’oro. Attorno furono rinvenute suppellettili funerarie, e, come di consueto nelle tombe egizie, gli oggetti che avevano servito il vivo ed altri che l’affetto dei sudditi offriva perchè il faraone potesse abitare nella nuova casa dell’al di là.

La scrittura.

Gli Egiziani sapevano scrivere ma, poichè la carta non era ancora stata scoperta, essi scrivevano sulle pareti dei templi e nelle tombe, o sui fogli del papiro, un arbusto che nasce lungo il Nilo. Per scrivere sulla pietra usavano scalpelli. Per scrivere sul papiro usavano pennellini intinti nel color rosso.

Essi non usavano le lettere dell’alfabeto, come facciamo noi; disegnavano invece moltissime figurine (circa 3000), ciascuna delle quali aveva un significato. Questi disegni si dicono ideogrammi; le iscrizione composte di molti ideogrammi sono dette iscrizioni a caratteri geroglifici.

Ogni figurina aveva un suo significato. Per dire “Il sole è forte” disegnavano un tondo (che significava il sole) e accanto vi disegnavano un leone (che significava la forza).

Per dire “L’uomo è puro”, disegnavano un uomo e accanto un fiore di loto, che nasceva in riva al Nilo e dava l’idea di purezza.

La terra dei vivi

L’egiziano era un popolo semplice e la sua vita era fatta di piccole cose che per gran parte oggi ci sono rimaste conservate nelle tombe. La casa dell’uomo comune era una piccola capanna a un solo locale con una porta – finestra costruita in mattoni cotti al sole. Il tetto era per lo più di paglia.

Nell’interno c’era un focolare e molte stuoie arrotolate che venivano distese per la notte sulla terra battuta del pavimento. Pochi cibi bastavano per vivere: un po’ di pane, di quello duro che ognuno cuoceva nel proprio focolare; cipolle, minestra di ceci. Fichi freschi e fave completavano il pasto quotidiano.

Vita d’oltretomba

Gli Egiziani pensavano che ci fosse una vita anche dopo la morte. Dopo un periodo di permanenza nella cella funeraria, l’anima poteva emigrare in un’altra terra. L’anima, lasciata la tomba, deve volgere le spalle alla vallata, ed inoltrarsi arditamente nel deserto. Lì incontrerà un albero di sicomoro, detto anche “albero – fata”. Dall’albero uscirà una dea, che offrirà all’anima un piatto pieno di pan e un vaso colmo d’acqua. L’anima che accetta questi doni diviene ospite della dea, e non può più ritornare indietro, senza il permesso della dea stessa.

Paesaggi spaventosi si offrono allora all’anima: dove serpenti e ogni sorta di animali feroci si aggirano indisturbati; dove torrenti di acqua bollente scorrono impetuosi, interrotti da paludi dove scimmie gigantesche prendono i “doppi” con le reti. Di fronte a simili pericoli, molte anime non resistono  e  muoiono; ma quelle che sono fornite di amuleti e di incantesimi proseguono, e arrivano in vista di un gran lago, oltre il quale sono le isole dei beati.

L’uccello sacro, l’ibis, solleva le anime sulle sue ali e le trasporta davanti ad Osiride.

Un tribunale assai strano

In una grande sala sono adunati quarantadue assessori; in mezzo ad essi siede il dio Osiride. L’ibis pesa il cuore delle anime sulla sua bilancia. Da un altro lato, la dea Verità suggerisce alle anime una confessione negativa, che le dichiara innocenti di ogni peccato. Se il tribunale dà parere favorevole, le anime possono entrare nei campi delle fave.

I campi delle fave sono di una fertilità inesauribile: lì la battaglia del grano deve essere stata combattuta con tutte le regole… Pensate che il grano è alto sette braccia, di cui due rappresentano la spiga. I morti coltivano, mietono, ripongono le messi: però, se sono stanchi, c’è chi lavora per loro. Sono i “rispondenti”, cioè certe statuine di smalto che sono state chiuse con loro nella tomba. Si chiamano “rispondenti” proprio perchè rispondono quando il padrone li chiama al lavoro (chi sa a quanti ragazzi farebbe comodo un rispondente quando c’è un compito di grammatica, o un problema difficile…).

Ad eccezione dei lavori dei campi, le anime non fanno altro: o meglio, pensano a divertirsi, con canti, giochi e balli.

Le tre possibilità dell’anima

L’anima che esca dal corpo e dalla tomba alla ricerca di beni ultramondani ha tre possibilità:

1. il soggiorno nei campi di Jaru, dove i defunti ricevono in compenso del loro lavoro il doppio e il triplo di quanto è riservato al coltivatore del paese d’Egitto.

2. il soggiorno nei campi delle offerte, dove ogni sorta di cibi e di vivande è messa a disposizione dei fortunati che riescono a raggiungerlo.

3. il Duat, che il morto deve raggiungere prendendo posto sulla barca del Sole e dove vivono gli dei immortali. (T. Venturi)

L’enigma della scrittura egiziana

Fino a un secolo e mezzo fa la scrittura egiziana rimase indecifrabile; le lunghe iscrizione incise sulle pareti dei templi, delle piramidi, sugli obelischi, e i numerosi papiri erano un mistero.

Nel 1798, durane la spedizione napoleonica in Egitto, un ufficiale francese trovò a Rosetta, sul delta del Nilo, una stele di porfido con un’iscrizione redatta in tre forme di caratteri: egiziano antico, egiziano meno remoto, e greco. Fu quello il punto di partenza. Dal confronto fra i segni greci e i corrispondenti segni egiziani fu possibile desumere il significato di questi. Nel 1822 lo studioso francese Champollion riuscì a sciogliere l’enigma della scrittura egiziana.

Il papiro

L’albero che permise agli uomini di scrivere è il papiro. Il papiro è una grande erba perenne acquatica, con radice sotterranea – strisciante, dura e carnosa. Il fusto esterno, triangolare, si erge diritto da due fino a cinque metri, e termina con chioma a ombrello: una specie di piumino.

Il papiro prosperava già anticamente nell’Egitto, lungo il Nilo, e in Asia sulle rive dell’Eufrate. Secondo lo scrittore Cassiodoro che lasciò parecchi libri di storia, filosofia e scienza, le rive del Nilo si potevano allora scambiare per “un’immensa foresta senza rami, una boscaglia senza foglie”.

Oggi il papiro si trova con  maggiore facilità e diffusione, ma è meno cercato. Lo si trova in Palestina, in Africa, a Malta; ed anche in Sicilia, presso Siracusa, sulle rive dell’Anapo, dove lo trapiantarono gli Arabi.

Gli antichi trassero dalla corteggia del papiro un foglio largo, lungo e sottile, molto pieghevole, su cui poterono scrivere: il suo altro fusto, tagliato in sottili listarelle avvicinate le une alle altre nei due sensi verticale e orizzontale, come si farebbe per i fili di una stoffa, forniva una carta di un colore gialliccio che assomiglia alla buccia delle cipolle. (G. Bitelli).

La prima lettera

Quando gli altri popoli della terra andavano ancora a caccia con la mazza e abitavano nelle caverne, gli Egiziani costruivano le piramidi e irrigavano i terreni.

Fu così che un bel giorno un egiziano, ancora più intelligente degli altri, ebbe un’idea. Doveva mandare a dire una cosa ad un suo amico che abitava nel paese vicino. C’era appunto un tale che doveva recarvisi e l’egiziano pensò di approfittare dell’occasione. Ma se poi quello, strada facendo, si fosse dimenticato il messaggio?

L’egiziano intelligente ebbe allora un’idea: prese un bel foglio di papiro, che era una pianta che cresceva sulle sponde del Nilo, appuntì un ramoscello e si mise a fare dei disegnini sulla scorza molle.

Voleva dire “casa”? E disegnava una casa, o magari solo il tetto, o un rettangolo, qualche cosa insomma che somigliasse a una casa.

Voleva dire “bue”? Ed ecco un bel paio di corna, e l’amico doveva proprio essere tardo se non capiva che quello voleva dire bue.

La “luna” poi era presto fatta, e così il “sole”.

Quando l’egiziano ebbe finito, guardò compiaciuto i suoi disegnini, fece un rotolo del suo papiro e lo consegnò al messaggero con mille raccomandazioni e tanti saluti per l’amico.

Questi, magari, ricevendo il plico non ci avrà capito niente ed avrà pensato che l’altro aveva del tempo da perdere; invece, altro che tempo da perdere!

In quel preciso momento in cui l’egiziano intelligente tracciava i suoi disegnini sopra un pezzo di scorza di papiro, era nata nientemeno che la scrittura e nello  stesso tempo, la prima lettera. (M. Menicucci)

Il passaggio del Faraone

Neris, ragazzo egiziano di quattromila anni fa, viveva in un villaggio di povere case di fango presso il delta del Nilo. Era il maggiore di diversi fratellini e sorelline. Un proverbio dell’antico Egitto diceva: “Famiglia numerosa, grazia degli dei”.

Tutte le mattine la mamma, dopo essere stata al fiume per l’acqua, e aver preparato qualche focaccia di grano tritato, affidava le bestie ai figli: ai maschietti gli asini ed i buoi, alle bimbe le oche. Solo Neris andava col babbo, che si recava sulle sponde del Nilo a tagliare i fusti di papiro.

Ogni tanto un mercante, giunto da lontano, caricava sul suo barcone i fusti e li portava via. Neris sapeva che sarebbero serviti per fabbricare fogli su cui certi uomini sapienti avrebbero scritto. Il mercante gli aveva anche detto che la loro scrittura somigliava ai disegnini che i ragazzi facevano talvolta con uno stecco nel fango del Nilo. Quei sapienti si chiamavano scribi e il mercante soleva ripetere: – Beati loro! Gli scribi possono diventare generali, governatori, architetti, sacerdoti…-

– Ma tu, o mercante –  gli chiedeva Neris, – li hai visti questi personaggi importanti? –

– Sicuro! Li vedo sempre quando vado a Tebe, la città capitale. A Tebe ho veduto più volte anche il Faraone…-

– Davvero? E com’è? –

– Il suo passaggio è meraviglioso. Egli passa alto e rigido sul cocchio, preceduto dai Grandi Sacerdoti vestiti di porpora. Indossa abiti dorati, ha i capelli lunghi e arricciati, ma il viso tutto rasato. Le sue ciglia sono dipinte di verde, le unghie dei piedi e delle mani di rosso. In testa ha una corona sormontata da un serpente d’oro e di smalto con testa d’avorio. E’ un simbolo. Vuol dire che il Faraone ha il diritto di vita e di morte sui cittadini. Il Faraone è il figlio del Sole, un dio! –

Neris, con entusiasmo, esclamò: – Beato te, che hai veduto il Faraone! –

Allora il mercante, godendo di quella infantile sincerità, chiese al babbo di Neris di poter condurre il ragazzo a Tebe. Il babbo restò un poco incerto. Poi acconsentì.

Pochi giorni dopo, Neris saliva sul barcone del mercante. Il babbo, dopo avergli dato l’addio alzò le mani in alto e pregò il Nilo: – Salute a te che esci dalla terra e arrivi per dar vita all’Egitto! Tu che nascondi la tua origine nelle tenebre, tu, che quando straripi fai urlare la terra di gioia, tu che fai da specchio al dio Ra, il Sole, e alla dea Iside, la Luna, accompagna dolcemente il mio figliolo, che va a riverire il figlio del Sole! –

E il viaggio di Neris fu felice. Il ragazzo osservò lungo il Nilo i palazzi dell’antichissima Menfi, vide le belle navi a vela per le cerimonie religiose e quelle che trasportavano le mummie, ammirò la sfinge e le colossali piramidi. Giunto a Tebe, la città dalle cento porte di bronzo, restò meravigliato dei palazzi e dei templi maestosi. Mentre si trovava vicino al tempio di Ammone, una squadra di arcieri a cavallo annunciò il passaggio del Faraone. Il popolo si ritirò tutto da una parte della piazza in religiosa attesa.

Il cuore di Neris battè. Finalmente avrebbe goduto anche lui la vista del figlio del Sole! Ma ecco giungere altri soldati, che gridarono: – Il radioso Faraone oggi non permette lo sguardo del popolo! Giù tutti, col capo chino! Guai a chi solleverà lo sguardo! –

Il popolo si inchinò e piegò il capo. Anche Neris dovette fare altrettanto; anzi il mercante per essere sicuro del ragazzo, gli tenne una mano sul capo. Sapeva bene come fosse pericolosa una disobbedienza al figlio del Sole!

Così passò il corteo reale e il povero ragazzo non vide nulla.

– Non ti dispiacere – gli disse dopo il buon mercante, – se non hai visto il Faraone. Del resto, anch’io non l’ho mai osservato bene! Ed è giusto che sia così, perchè il Faraone è un dio. –

Ma durante il viaggio di ritorno Neris si disperò e pianse. E solo la promessa di un nuovo viaggio che il mercante gli fece, valse a consolarlo un po’. (R. Botticelli)

La famiglia egiziana – Una breve recitina

La comune famiglia dell’antico Egitto viveva poveramente in case di fango. La mattina, mentre l’uomo usciva al lavoro agricolo, la donna accudiva alle faccende e mandava le bestie al pascolo, affidandole ai bambini.

Personaggi: la madre e quattro bambini: Koti, Kamcis, Rames e Neris.

Madre: Figlioli, quando vi vedo attorno a me, sapete a cosa penso?

tutti e quattro i figli: A che cosa, mamma?

madre: al proverbio “famiglia numerosa, grazia degli dei” !

Koti: Bene! Possiamo andare?

madre: Ah no! Tu, Koti, che sei il più grande, porterai gli asini ed i buoi all’abbeveratoio; tu Kamcis accompagnerai le oche; ma non fare a cavalluccio con quelle povere bestie, capito?; tu, Rames, cercherai sterco di animali per fare il combustibile;  e infine tu, piccolo Neris, andrai in cerca di foglie secche e fuscelli

Rames: io lo sterco non lo voglio raccogliere oggi. Perchè sempre io?

madre: e va bene. Ci penserà Kamcis, e tu Rames condurrai le oche…

Koti: le oche a Rames? Non è buono, madre! Gli scapperanno come farfalle!

madre: insomma, mettetevi d’accordo. Tutti dovete lavorare. Non siete figli di uno scriba. Vostro padre lavora la terra che Api rende fertile e io ho tante cose da fare. Chi prepara, ad esempio, il pane che trovate a casa?

tutti: Tu, mamma!

madre: andate, dunque. Gli dei vi proteggano. Se vi metterete d’accordo, dirò a vostro padre che vi racconti come fu che a Tebe vide il Faraone.

(in costruzione…)

Antico Egitto dettati ortografici e letture – Tutte le opere  contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.

Storia di Roma – FONDAZIONE E I SETTE RE – dettati ortografici e letture

Storia di Roma – dettati ortografici e letture. Una raccolta di letture e dettati ortografici sull’antica Roma, dalla fondazione a tutto il periodo regio, di autori vari, per la classe quinta della scuola primaria.

Nasce Roma

Secondo gli studiosi, verso la metà dell’ottavo secolo a.C. quando la potenza etrusca si estendeva dalle Alpi fin presso il Tevere, sorse nel cuore dell’Italia un umile villaggio di Latini, destinato a diventare il dominatore del mondo: Roma.

I Latini si erano stabiliti nella vasta pianura ondulata che è tra il basso Tevere, i colli Albani ed il mare. Il nome Lazio, dato alla regione, significa “luogo largo ed aperto”.

Il suolo era adatto alla pastorizia ed all’agricoltura ed infatti i Latini furono pastori ed agricoltori. Vivevano in capanne sparse per la campagna o si raggruppavano in villaggi detti vici ed oppida, che servivano da rifugio anche alla popolazione sparsa per la campagna, quando vi fosse qualche pericolo.

I villaggi erano fondati sulle alture sia per ragioni di sicurezza, sia per igiene: infatti i popoli delle vicine montagne (Sabini, Marsi), facevano frequenti scorrerie nella pianura per saccheggiare i raccolti, e le acque dei fiumi, impaludando, provocavano la malaria.

Il villaggio sul colle Palatino fu il primo nucleo di Roma, la Roma quadrata. Coi Latini del Palatino si fusero ben presto i Sabini del Quirinale.

Questo gli studiosi hanno potuto sicuramente stabilire attraverso i ritrovamenti archeologici e l’interpretazione di essi, liberando il vero dalle molte leggende che avvolgono le origini di Roma.

Secondo la leggenda

Quando i Romani furono i signori del mondo, vollero nobilitare le loro origini ed elaborarono una vasta leggenda che li diceva discendenti dall’eroe troiano Enea, figlio di Venere, scampato dalla distruzione della sua patria. Narra il mito che Enea, sbarcato dopo lunga navigazione nel Lazio, ebbe ospitalità ed amicizia dal re del luogo, Latino, che gli diede in sposa la figlia Lavinia, in onore della quale Enea fondò la città di Lavinio. Suo figlio Ascanio o Julo fondò Albalonga, e tra i suoi discendenti fu Romolo, il mitico fondatore di Roma.

Dopo una lunga serie di re albani discendenti da Enea, il trono passò a Proca, che ebbe due figli: Numitore e Amulio. Quest’ultimo spodestò il fratello e costrinse la figlia di lui, Rea Silvia, a farsi sacerdotessa di Vesta, per impedire ogni pericolo di restaurazione da parte dei suoi discendenti. Le vestali non potevano sposarsi, nè avere figli sotto pena di essere sepolte vive.

Ma Rea Silvia ebbe dal dio Marte due gemelli e Amulio li fece esporre in una cesta, sulla riva del Tevere, ai piedi del Palatino. Una lupa, prodigiosamente, li nutrì del suo latte; un pastore di  nome Faustolo li raccolse e li allevò, chiamandoli Romolo e Remo. Divenuti forti ed animosi giovani, i due fratelli vollero fondare una città presso il luogo dove erano stati raccolti.

Il rito della fondazione di una nuova città, che i Latini avevano appreso dagli Etruschi, consisteva nel tracciare anzitutto, col vomere, un solco di forma quadrata, che ne era il perimetro. Per stabilire chi dei due dovesse tracciarlo ed essere re, i due fratelli consultarono il volere degli dei, cioè presero gli auspici.

Remo dal colle Aventino vide sei avvoltoi, Romolo dall’alto del Palatino ne scorse dodici. Gli dei avevano favorito Romolo. Egli, aggiogati un bianco vitello e una vacca bianca, tracciò sul Palatino il solco quadrato, lungo il quale dovevano essere erette le mura, sollevando il vomere alla metà di ogni lato, per le porte. Il solco era sacro e nessuno poteva violarlo. Remo, deluso, per scherno lo saltò, e Romolo, accecato dall’ira, lo uccise.

Così rimase re della città e le impose il proprio nome: Roma. Secondo la tradizione la fondazione avvenne il 21 aprile del 753 aC. Da quel giorno i Romani computarono il tempo ab urbe condita e, a ricordo dell’avvenimento ogni anno, il 21 aprile celebrarono delle feste campestri.

La Roma quadrata fu un piccolo villaggio di pastori e di agricoltori, non diverso dagli altri che già sorgevano nel Lazio. I suoi abitanti si vestivano di pelli, perchè scarsa era ancora la lana, abitavano in capanne di forma circolare a tetto spiovente, coperte di canne, con le pareti fatte di legname dei vicini boschi e rinforzate da pezzi di tufo.

21 aprile: Natale di Roma

In un lontano giorno di primavera, nell’anno 753 aC, due giovani fratelli, Romolo e Remo, tracciarono un solco con l’aratro sulla sinistra del Tevere, e segnarono il posto dove volevano fondare una città.
Era il 21 aprile, e la città che sorse in quel solco fu Roma.
Roma diventò grande e potente, conquistò tutti i Paesi intorno al Mediterraneo e fu la capitale di un vasto impero, a cui diede le sue leggi e la sua civiltà.
Dopo la caduta dell’Impero romano, Roma, divenuta la sede del papato, fu il centro del mondo cristiano e cattolico. Roma è la capitale d’Italia.

Nascita di Roma

Qualche colle selvaggio. Una conca di valle, acquitrinosa. Un mattino d’aprile. Pochi, rudi uomini (pastori? guerrieri?) intorno a un rude capo, sulla sommità di un colle. Un volo augurale passa nel cielo. Il capo ha aggiogato all’aratro un bue e una giovenca: guida con mano ferma e il vomere traccia un solco quadrato. Guai a chi, nemico, varcherà quel solco! Roma.

Roma antica

Augusti quartieri di capanne di fango; ecco che cos’era la Roma di allora. Ogni abituro era coperto con tetto di paglia e destinato ad una sola famiglia. Il tetto faceva da granaio. Il fumo del focolare usciva dalla porta. La casa era circondata da stalle, il bestiame correva per le vie.
Nell’inverno il romano primitivo abitava sul Palatino e sul Quirinale, e nell’estate scendeva giù al piano per attendere ai lavori del campo. Anche il cittadino più ragguardevole si metteva dietro l’aratro. Vie non lastricate, ripide scale conducevano alla città da colle a colle. (T. Birth)

Roma

Sulla collina più vicina al guado del fiume, alcuni Latini costruirono le loro capanne. Il posto era comodo per commerciare. Infatti tutti i Latini che volevano commerciare con gli Etruschi dovevano passare da quel guado.

Quel colle si chiamava Palatino; il villaggio costruito sul colle fu chiamato Roma, che, a quel che sembra, vuol dire “città del fiume”.

Roma era una città per modo di dire Era un villaggio di capanne rotonde, col tetto aperto nel mezzo per fare uscire il fumo del focolare. Tutto intorno al villaggio c’era un muro di grosse pietre. Nel muro c’era una porta che si apriva sul viottolo che portava verso la pianura e il fiume. Di qui passavano i mercanti che andavano a commerciare, i contadini che andavano nel loro campo, i pastori che portavano le pecore e le mucche al pascolo. La mattina, appena era sorto il sole, tutta la città risuonava dei muggiti del bestiame che andava al pascolo. Per questo la porta era chiamata Mugonia.

I Latini

Tra le popolazioni italiche, una delle più importanti era quella dei Latini. Essi occupavano i colli e le pianure del Lazio ed erano circondati da altre popolazioni: i Sabini, assai vicini, i Campani, i Sanniti, i Marsi. A nord, appena varcato il Tevere, cominciava il territorio degli Etruschi.

Un giorno un gruppo di pastori latini si portò su un colle che sorgeva in vista delle rive del Tevere e vi fondò un villaggio.

La località era propizia al pascolo e alla difesa. Poichè la dea di questi pastori si chiamava Pale, intitolarono ad essa il colle, che si chiamò, perciò, Palatino.

Il Palatino era di difficile accesso e quindi si prestava ad essere ben difeso dai nemici; altra difesa naturale era il Tevere, il quale, inoltre, con le sue frequenti inondazioni, rendeva fertili i campi circostanti e serviva molto bene come mezzo di comunicazione per i trasporti.

Anche il mare non era troppo lontano e permetteva il commercio con l’Etruria, con la Grecia, con la Fenicia. V’era, infine, abbondanza di acqua potabile e i terreni, parte in pianura, parte in collina, si prestavano a ogni sorta di coltivazioni. (F. Palazzi)

Romolo e Remo

Non  lontano dalle rive del Tevere, in una povera capanna, abitavano Faustolo, un vecchio pastore, e sua moglie Laurenzia.

Una sera Faustolo sedeva stanco sulla porta della capanna. Il sole era tramontato lontano nel mare, verso la foce del fiume Tevere, ed il silenzio era grande.

Nell’interno dell’umile capanna, Laurenzia, la buona moglie di Faustolo, preparava lo scarso cibo serale.

All’improvviso, dal bosco, si intese un fruscio, e laggiù, verso il fiume un’ombra scura scivolò alla riva…

“Sarà bene andare a vedere” , mormorò Faustolo fra sè. Disse alla moglie di aspettarlo ed avanzò cauto verso la riva del Tevere. Era tutto un pantano. Per le piogge recenti, il fiume aveva allagato i campi ed il terreno era cosparso di larghe pozze di acqua. In una di quelle pozze, ai piedi di un albero, Faustolo vide una lupa enorme, col dorso appoggiato al tronco della pianta. Era sdraiata e due bambini si nutrivano del suo latte.

Credeva di sognare. Si ritirò piano piano, rifece la strada percorsa e tornò alla capanna. Giunto sulla soglia gridò: “Laurenzia, ho visto una lupa che allatta due gemelli…”

“Saranno lupacchiotti”, rispose tranquillamente la donna.

“Ma no, ma no: due bambini, ti dico. Vieni, vieni subito a vedere!”

E prima che ella potesse rifiutarsi, l’afferrò per un braccio e la trascinò verso il fiume. Poco dopo, i due trovatelli riposavano al caldo, nella capanna di Faustolo. Laurenzia aveva acceso un gran fuoco e si affannava intorno alla culla sorridendo fra le lacrime: “Gli dei”, mormorava “ne fanno delle belle: mi mandano due bambini adesso che sono vecchia e stanca! Ma non temete, poveri piccoli, Laurenzia è vecchia, ma la nonna ve la saprà fare”.

I trovatelli crebbero presto. In pochi anni, furono due ragazzi grandi e forti, un po’ selvaggi, ma buoni. Faustolo li aveva chiamati Romolo e Remo; ed essi lo rispettavano come un padre. Correvano a perdifiato il monte e il piano, come due puledri. Tornavano, a sera, stanchi e felici, per ricominciare il giorno dopo. E ogni giorno si spingevano più lontano, in cerca di nuove avventure… (G. Brigante Colonna)

La fondazione di Roma

Cominciò la cerimonia. Le vestali, tutte candide, portarono nei vasi sacri il fuoco, e lo deposero sugli altari. Aggiunsero piccoli pezzi di legna secca, arida, e svilupparono la fiamma: poi i sacerdoti giovani scannarono le vittime per i sacrifici; e i vecchi ne esaminarono le viscere per dare responsi.

“Gli dei accettano i sacrifici!”

“Proteggeranno la città nuova!”

“La renderanno grande e forte!”

“Vogliamo che si chiami Roma!”

“Roma durerà in eterno!”

“A Roma verranno le genti di ogni parte d’Italia e del mondo!”

Così dissero i sacerdoti esaminando le viscere delle vittime mentre i fuochi scoppiettavano sugli altari. Da quel popolo radunato si alzò allora un altissimo grido: “Roma, Roma, Roma! Viva Roma, ora e sempre!”

Due uomini portarono al principe Romolo un aratro grande, di bronzo, trascinato da un toro bianco e da una vacca bianca. E il principe lo guidò nel solco, cantando preghiere, seguito dai compagni silenziosi. (L. Orvieto)

I patrizi, i plebei, gli schiavi

Le famiglie dei primi abitatori dei colli, che avevano occupato il territorio, erano raggruppate in “genti”. La gente era l’insieme delle famiglie che discendevano dallo stesso antenato, legate fra loro oltre che da vincoli di sangue e d’affetto, anche dal culto dei propri dèi gentili. Tutti i componenti la gente portavano lo stesso nome gentilizio, avevano gli stessi altari familiari, la tomba e la proprietà fondiaria in comune. Essi si chiamavano patrizi, ossia discendenti da un medesimo pater. La plebe era una moltitudine varia e sempre più numerosa, formata dagli abitanti delle città vinte costretti a stabilirsi in Roma, da commercianti ed artigiani venuti ad esercitare la loro attività, da clienti di cui si erano estinti i patroni. Erano liberi della propria persona, ma esclusi dalla vita politica e dalle cerimonie religiose (perchè religione e stato formavano una cosa sola), nè potevano contrarre matrimonio con i patrizi.

Il governo di Romolo

Romolo fu dunque il primo re e i primi abitanti furono i compagni di lui, umili pastori, che lo avevano seguito da Alba. Per popolare la città, Romolo la offerse come asilo a schiavi fuggiaschi e a liberi perseguitati. Vi affluì una turba di uomini di infima condizione, banditi, avventurieri. Mancavano le donne e non era facile, per tale gente, ottenerle pacificamente dai popoli vicini. Allora Romolo ricorse allo stratagemma del ratto delle Sabine.

Invitò i popoli vicini ad una grande festa, e quelli accorsero numerosi, specialmente i Sabini. Ma a metà della festa, a un segnale convenuto, molti Romani armati si gettarono sulle donne e le rapirono.

Da ciò nacque una guerra fra i due popoli. I Sabini superarono le difese, erette da Romolo sul Campidoglio, per il tradimento di una giovane romana, Tarpea,  figlia del guardiano della rocca, che fu dallo stesso nemico gettata da una rupe (Rupe Tarpea). Di là furono, in seguito, gettati i traditori della patria.

Ma le donne sabine si interposero poi fra Romani e Sabini e la pace fu fatta. Romani e Sabini formarono un popolo solo e Romolo regnò su tutti. Egli organizzò il primo esercito e si circondò d’un consiglio, il Senato, composto di uomini anziani e saggi, detti senatori.

Dopo trentotto anni di regno (753-715 aC) Romolo scomparve misteriosamente durante un uragano, mentre passava in rivista l’esercito. Si disse che era stato assunto in cielo da suo padre, Marte, e più tardi venne onorato come dio col nome di Quirinio.

Numa Pompilio

Dopo la morte di Romolo fu eletto re il sabino Numa Pompilio, uomo pacifico e pio. Egli fece innalzare un tempio alla dea Vesta ed uno a Giano, dio della pace e della guerra, e pose a capo della religione un pontefice massimo.

Tullo Ostilio

Alla morte di Numa divenne re Tullo Ostilio. Era un re guerriero e tosto venne a battaglia con gli Albani, che abitavano sui colli vicini ed avevano come capitale Albalonga. Per evitare troppi lutti e rovine,  ci si accordò perchè tutto fosse deciso dallo scontro di tre soldati romani e di tre soldati albani. Scesero in campo tre fratelli romani, gli Orazi, e tre fratelli albani, i Curiazi. In breve due Orazi furono colpiti a morte; il terzo si diede alla fuga, incalzato dagli avversari. All’improvviso si fermò, si volse e uccise l’inseguitore più vicino, e così fece con il secondo, poi con l’ultimo. La vittoria toccò a Roma che si impadronì di Albalonga ed estese maggiormente il suo territorio.

Anco Marzio

Tullio Ostilio fu ucciso e fu creato re Anco Marzio, nipote di Numa e, come il nonno, uomo pacifico. Egli fece costruire un ponte, detto Sublicio (ponte di travi) sul Tevere e un porto sulla marina di Ostia.

Tarquinio Prisco

Alla reggia di Anco Marzio era giunto un nobile forestiero, Tarquinio Prisco. Egli apparteneva al vicino e civilissimo popolo degli Etruschi. Tarquinio s’era conquistata la stima del re romano e ne era diventato il consigliere e l’amico. Alla morte di Anco, Tarquinio ne divenne il successore. Il nuovo re portò tra i Romani le abitudini raffinate degli Etruschi. In Roma furono costruiti nuovi templi, fu tracciata una grande piazza, il Foro, per il mercato e le riunioni pubbliche. La città ebbe, con la cloaca massima, il primo impianto di fognature.

Servio Tullio

Il figlio di Tarquinio, Servio Tullio, ebbe in eredità dal padre una città ricca e potente. Seppe ordinarla ed organizzarla così bene, che i sudditi lo chiamarono “secondo fondatore di Roma”. La città si estendeva ormai su sette colli e Servio Tullio la circondò di mura robuste. Egli divise il popolo in classi e centurie e stabilì che i cittadini pagassero tasse secondo la loro ricchezza.

Lucio Tarquinio

Servio Tullio fu assassinato per iniziativa di Lucio Tarquinio, il quale diventò re. Subito, si dimostrò ingiusto e violento a tal segno che il popolo insorse e cacciò il tiranno. Lucio Tarquinio, detto il Superbo, si rifugiò presso gli amici Etruschi a preparare la rivincita.

Roma al tempo dei re

Al tempo dei re, la città di Roma non era certo bella come Atene. Essa era una città di capanne rotonde col tetto aperto nel centro perchè il fumo del focolare potesse uscire.

I suoi abitanti vivevano poveramente, ma amavano molto la terra che avevano scelto come loro dimora.

Assai più belle invece erano le case degli dei, cioè i templi.

Accanto al re, c’era il Senato, cioè un’assemblea di uomini saggi che lo aiutavano a dettare le leggi e lo consigliavano se doveva fare guerra o stringere amicizia con i popoli vicini.

La religione romana

I Romani adoravano press’a poco gli stessi déi dei Greci: Giove, Giunone, Minerva, Apollo, Diana, Nettuno, ma specialmente Marte, il dio della guerra e Vesta, la dea del fuoco sacro e protettrice della città.

Le sacerdotesse di Vesta, chiamate Vestali, avevano speciali onori, un posto riservato in tutti gli spettacoli pubblici, e il privilegio di graziare il condannato a morte che le incontrasse per strada, mentre lo conducevano al patibolo.

Un dio tutto romano e solamente romano era Giano, il dio delle porte. Il suo tempio restava sempre chiuso in tempo di pace; si apriva soltanto quando il paese era in guerra.

Accanto a queste divinità che erano adorate da tutto il popolo, ogni famiglia aveva i suoi dei particolari, protettori del focolare domestico, i Lari e i Penati. E questi erano adorati soltanto dai membri della famiglia.

A tutti questi dei venivano offerti sacrifici: si uccideva cioè sull’altare, in loro onore, qualche animale, scelto specialmente tra i tori, le pecore, i maiali. Agli dei si offrivano anche le primizie agricole e i profumi.

Tra i vari sacerdoti, avevano una speciale importanza gli Auguri, i quali, dal volo degli uccelli e da altri segni celesti, pretendevano interpretare la volontà degli dei e prevedere perfino il futuro.

I Romani erano molto religiosi. Non intraprendevano alcuna azione importante senza prima aver fatto un sacrificio agli dei e interrogato gli Auguri. La religione dei Romani era assai più austera di quella greca.

Un sacrificio agli dei

Una processione di uomini dall’aspetto grave e solenne avanza lentamente. Che è mai? Se guardiamo bene, vediamo le colonne di alcuni templi e un’ara, cioè un altare verso il quale quei personaggi si dirigono.

Essi stanno offrendo un sacrificio agli dei. In loro onore si offrono di solito frutti, si bruciano nei tripodi i profumi, si immolano animali. Questo è un sacrificio solenne e verranno uccisi un maiale, una pecora e un toro.

Tra poco il sacerdote sacrificatore salirà il gradino dell’ara e la toccherà con la mano per invocare l’aiuto della divinità a cui si sacrifica.

Poi metterà un poco di farina cotta e di sale sul capo dell’animale, vi verserà del vino e infine lo ucciderà. Il sangue della vittima verrà raccolto in grandi vasi chiamati patere.

Sull’ara arde il fuoco che brucerà le carni dei tre animali. I sacerdoti ne osserveranno bene le viscere, guarderanno come si agitano le fiamme e come si alza il fumo dell’incenso per capire ciò che gli dei vogliono.

Il territorio su cui sorse Roma

L’aspetto di Roma, al tempo in cui sorse sul Palatino, era ben diverso da quello di oggi. Regnava allora una squallida solitudine intorno a quei colli selvaggi rivestiti di querce, di faggi, di lauri e incisi da valli poderose, solcate da fiumi la cui piena riempiva di acquitrini e di paludi tutta la zona.

Qui vivevano genti primitive, fiere e rozze, che erano tutte dedite all’agricoltura ed alla pastorizia. Era logico che i Latini si stabilissero sui colli. Essi erano un ottimo presidio per resistere agli assalti dei nemici interni e di quelli che si fossero avventurati a risalire il Tevere. Attraverso il fiume poi si potevano allacciare relazioni con i navigatori greci ed etruschi. Il Tevere era anche una via naturale per il commercio del sale, che divenne in breve importantissimo.

Roma. infatti, dovette al sale la sua prima ricchezza ed al sale dedicò un’arteria importante: la via Salaria.

Perciò i Latini non trascurarono neppure la pianura sia per rendere più facile la navigazione del fiume, sia per poterla coltivare. Si misero a bonificare il terreno paludoso, a prosciugare le valli, a regolare il corso del Tevere.

Fondazione di una città

Il rito che i Latini compivano per la fondazione di una città non era molto semplice e sembra che essi lo abbiano appreso dagli Etruschi. Con molta probabilità Roma fu fondata secondo quel rito.

Ecco: un gruppo di pastori e di contadini è giunto sul colle dove dovrà sorgere la nuova città. Viene acceso un fuoco di sterpi e ciascuno di essi salta attraverso la fiamma per purificarsi da ogni peccato.

Quello che sarà il fondatore della città scava una fossa profonda e ciascuno dei presenti vi getta un po’ di terra dei villaggi da cui proviene. Ora il fondatore indossa le vesti sacerdotali; aggioga un toro e una mucca all’aratro ed egli stesso lo guida per tracciare il solco. Lungo quel solco saranno tracciate le mura della città; dove si apriranno le porte, il fondatore solleva l’aratro e interrompe per un breve tratto il solco. Il recinto tracciato è sacro: nè gli stranieri nè i cittadini hanno il permesso di oltrepassarlo senza il permesso del fondatore. Saltare al di là del piccolo solco è un atto empio che viene punito con la morte.

La tradizione sull’età regia (753-510 aC)

Roma ebbe per lungo tempo un governo monarchico: la tradizione ci ha conservato i nomi di sette re, ma probabilmente  furono di più: Romolo, Numa Pompilio, Tullio Ostilio, Anco Marzio, Tarquinio Prisco, Servio Tullio, Tarquinio il Superbo.

I primi quattro furono alternativamente latini e sabini, gli ultimi tre etruschi: i latini furono guerrieri, i sabini pacifici, gli etruschi costruttori e organizzatori.

Evidentemente gli Etruschi, stabiliti anche nella Campania, si impadronirono un certo momento di Roma, testa di ponte sul Tevere, importante per le comunicazioni terrestri tra l’Etruria ed i nuovi acquisti campani. Ai primi due elementi etnici, Latini e Sabini, se ne aggiunse così un terzo: l’etrusco.

Le notizie tramandate di questo primo periodo sono in gran parte leggendarie. I Latini fra l’VIII e il VI secolo non conoscevano ancora la scrittura o la usavano pochissimo: i fatti affidati al puro racconto orale, passando di generazione in generazione, furono in parte dimenticati, travisati e abbelliti dall’orgoglio civile di quel popolo così fervidamente partecipe della storia della sua città, che volle illuminata di gloria anche nelle ore della sconfitta.

Tuttavia, attraverso i ritrovamenti archeologici e la critica della tradizione, i caratteri complessivi dell’età regia sono sufficientemente netti.

Il re mite

Numa fu, fra i Re di Roma, il più mite e saggio. Si racconta che una volta chiese a Giove che cosa dovesse fare per scongiurare il pericolo del fiume. Dal folto del bosco uscì una voce che disse: “Taglia un capo!”. Numa ne fu inorridito, ma bisognava che obbedisse. Pensò un poco, poi si fece portare il capo d’aglio. Prese la spada e lo tagliò. Così aveva obbedito a Giove e non aveva fatto male a nessuno!

Romolo Quirino

Stava Romolo parlando ai soldati che passava in rassegna, quando un temporale, sorto all’improvviso con gran rumore di tuoni, lo circondò di una nuvola così densa da toglierlo alla vista dei soldati. La gioventù romana, quando, cessata la paura e tornato il cielo sereno, vide vuoto il trono, prestò fede ai senatori, che erano stati più vicini al re, i quali affermavano che la violenza del temporale lo aveva portato in alto, e quasi sbigottita stesse per qualche tempo in doloroso silenzio. Quindi decretarono che Romolo, dio nato da un dio, dovesse venire onorato come Re e padre della città di Roma, e gli rivolsero preghiere affinchè concedesse pace alla sua stirpe.

Un tale di nome Giulio Proculo, vedendo il popolo agitato per la scomparsa del Re lo rianimò dicendo: “O Quiriti, stamane all’alba, sceso improvvisamente dall’alto, mi venne incontro, e mentre io lo guardavo pieno di terrore e di venerazione: -Va’-, mi disse – e annuncia ai Romani che gli dei vogliono che la mia Roma sia capo del mondo; perciò curino l’arte militare, e sappiano e tramandino ai posteri che nessuna forza umana potrà resistere alle armi di Roma-. Ciò detto, l’apparizione si innalzò in cielo”. (Tito Livio)

Monelli dell’antica Roma

– Ave, maestro -, con questo saluto i ragazzi entrarono nella scuola, una povera stanza presa in affitto dal maestro. Questo sedeva su una sedia con spalliera, che si chiamava cattedra.

– Salve, miei discepoli – rispose il maestro. – Minerva vi protegga. Sedete e aspettate in silenzio -.

Non c’erano i banchi. I ragazzi sedettero, alcuni su una piccola panca, altri su sgabelli, tenendo sulle ginocchia la loro tavoletta di legno spalmata di cera e l’occorrente per scrivere.

– Vediamo -, riprese il maestro – ci siete tutti? Aulo, Marzio, Gaio, Licio, Tullio, Terenzio… Bene, prendete ora il vostro sacchettino dei calcoli e venga qui, vicino a me, il piccolo Aulo –

Aulo, tenendo in mano il suo sacchettino, si avvicinò al  maestro, che gli disse: – Tira su dieci calcoli –

Aulo introdusse la mano nel sacchetto, ma la tirò subito indietro, tutta sporca.

– Che hai lì dentro? – strillò il maestro, – Fammi vedere! – .  Frugò nel sacchettino di Aulo. – Frutta fradicia! – esclamò sbalordito, tirando fuori un pugno di susine andate a male.

Una gran risata accolse quel gesto.

Aulo, balbettando, provò a scusarsi, dicendo che un compagno doveva certo avergli combinato un brutto scherzo, ma il maestro non intese regioni.

Era stato l’amico Terenzio a fare ad Aulo il brutto scherzo. E non era il primo che combinava!

Una volta gli aveva forato con un punteruolo la tavoletta cerata; una seconda volta gli aveva nascosto lo stilo, e una terza volta, oh che brutta idea! Gli aveva bagnato il libro di papiro, facendo sbiadire una buona parte delle lettere.  Aulo aveva provato a protestare, ma neppure gli altri compagni lo avevano spalleggiato, perchè dicevano: “Si tratta di scherzi. Non devi prendertela!”. Ma quel giorno Aulo era rimasto proprio mortificato.

– Cosa ti è successo?- gli chiese il pedagogo, che era lo schiavo accompagnatore, perchè bisogna sapere che tutte le famiglie patrizie tenevano in casa uno schiavo che aveva il compito di badare ai fanciulli. Aulo raccontò la sua disavventura e il pedagogo, mentre passavano per il Foro, gli dette un consiglio per fare cessare quei brutti scherzi.

– Buona idea! – esclamò Aulo. – Ti ringrazio, mio buon pedagogo -.

Il giorno dopo, Aulo mostrò ai compagni, sotto il portico della scuola, un bel carrettino: uno di quei carrettini che i ragazzi romani amavano attaccare a un cane o a una capretta, immaginando di far le corse nel Circo. Era così perfetto, che i compagni glielo invidiarono. Allora Aulo, volgendosi a Terenzio, gli disse: – Sarà tuo se, in presenza di tutti, ti farai dare da me dieci colpi di mano sul polpaccio della gamba -.

Terenzio, vinto dalla tentazione, gli disse: – Va bene, accetto. –

– Giuralo –

– Per Giove e per Giunone, giuro che prenderò il carretto solo dopo il decimo colpo –

Gli altri ragazzi si strinsero attorno in cerchio; Terenzio offrì ad Aulo il polpaccio della gamba destra, e questi, giù un bel colpo con tutta la forza del braccio!

– Ahi! – strillò Terenzio

– E uno! E due! E tre! – ma arrivato al nono, Aulo si arrestò.

– Perchè aspetti? – chiese impaziente Terenzio.

– Non ne ho più voglia – rispose Aulo con calma.

– Allora il carretto è mio –

– Niente affatto. Hai giurato che l’avresti preso dopo il decimo colpo. Non vorrai certo attirarti le vendette di Giove! –

– Allora dammi il decimo colpo – disse Terenzio, offrendo di nuovo il polpaccio.

– No, no – rispose fermo Aulo – Tu tieni i nove colpi ricevuti, e io mi terrò il carretto. –

Risero i compagni, risero i pedagoghi presenti. Terenzio andò a casa arrabbiatissimo, ma il giorno dopo sembrava un altro. Piano piano, i due piccoli Romani divennero amici per la pelle. (R. Botticelli)

Le oche dei tre Romani

Nell’antica Roma c’erano gli schiavi. Ma non tutti i padroni erano esosi tiranni. Ascoltate. Il patrizio Marco Licio Petronio andò al mercato degli  schiavi. C’erano, sui palchi girevoli, giovinetti da vendere in serie, buffoni che facevano boccacce, muscolosi giganti adatti per i lavori di fatica, agili portatori di lettighe… I poveretti, come ogni merce, portavano un cartello con l’indicazione del prezzo, del luogo d’origine, dei pregi.

Marco Licio Petronio cercava un precettore, cioè un insegnante privato che facesse scuola al figlio, il quale aveva finito i ludi letterari, ossia la scuola elementare. Non c’è da ridere! Anche gli insegnanti venivano venduti e comprati. Marco Licio Petronio trovò un Greco dottissimo, ma lo pagò a caro prezzo, tanto caro che, quando fu a casa, chiamò a sè tutti gli altri servi e disse: – Il grammatico mi costa fior di sesterzi. State attenti alla sua salute. Che non prenda neppure un raffreddore! -.

In quel tempo Marco Licio Petronio era tormentato da tre clienti, che non lo lasciavano mai in pace. I clienti, al tempo di Roma antica, erano degli sfaccendati che vivevano alle spalle di un patrizio: la mattina correvano a dargli il buon giorno, lo lodavano, gli battevano le mani quando parlava, cercando in ogni modo di fargli piacere.  Tutti i patrizi avevano i loro clienti: anche Marco Licio Petronio ne aveva molti, ma i tre erano troppo fastidiosi.

Un giorno, per levarseli di torno, Marco Licio Petronio regalò loro undici oche vive e disse: – Tu, o Sestilio, prendine la metà. Tu, o Vitulio, la quarta parte. Tu, o Renzio, la sesta parte -.

I tre clienti si trovarono nei guai: come fare la metà di undici oche? E come farne la quarta parte? E come la sesta?

I tre, dopo aver bisticciato, si recarono dal grammatico: – O precettore, illuminaci su questa difficoltà!-

Il precettore chiese un giorno per pensarci. Il giorno dopo mostrò ai tre litiganti una piccola oca di legno e disse: – Immaginiamola vera. Quante oche avete ora? –

– Dodici – risposero in coro i tre clienti.

– Bene – disse il grammatico – a te, Sestilio, spettano sei oche, cioè la metà; a te, Vitulio, tre oche, cioè la quarta parte. E a te, Renzio, due oche, cioè la sesta parte. In tutto sono undici. A me restituite quella di legno -.

I tre si presero, tutti contenti, le oche così distribuite.

Quando Marco Licio Petronio venne a conoscere l’ingegnosità del precettore lo chiamò a sè e gli disse: – Ti ho pagato carissimo, ma apprezzo il tuo ingegno e ti rendo libero. Come liberto, spero che resterai qui, ad istruire mio figlio, ma riceverai una ricompensa e potrai lasciarci quando vorrai -. (R. Botticelli)

I primi quattro re

Gli abitanti della città quadrata erano pochi e, per popolarla, Romolo la offerse come asilo a schiavi fuggitivi e a liberi perseguitati. Poichè questi banditi non avevano diritto di connubio, cioè di nozze, coi popoli vicini, Romolo si procurò le donne per creare le famiglie, facendo rapire, durante una festa religiosa, quelle dei Sabini intervenuti.

Ne derivò una guerra, presto finita per l’interposizione delle stesse donne rapite, divenute spose dei Romani, e i due popoli si fusero.

Da questa fusione la tradizione fa derivare il doppio nome del popolo: Romani, nome di guerra, Quiriti (da Curi, capitale dei Sabini) nome religioso e civile.

Romolo regnò per qualche tempo insieme al re sabino Tito Tazio, poi da solo, e a lui sono attribuiti i primi ordinamenti civili e militari: il Senato di 100 membri, la divisione del popolo in tre tribù, Tizii, Ramnensi, Luceri, ed in trenta curie, l’ordinamento dell’esercito nella legione (leva) di 3000 fanti e 300 cavalieri (costituzione romulea).

I Ramnensi erano i Latini, compagni di Romolo; i Tizii, i Sabini venuti con Tito Tazio; i Luceri, erano stranieri di cui è dubbia l’origine (chi dice etrusca, e chi latina), stabiliti sul colle Celio.

Dopo 37 anni di regno, Romolo scomparve misteriosamente durante un uragano, assunto si disse in cielo dal padre Marte; e fu venerato anche lui come dio col nome di Quirino.

La tradizione fa seguire a Romolo il lungo e pacifico regno di Numa Pompilio, sabino. E come a Romolo furono attribuite tutte le prime istituzioni politiche e militari, così ai sabini Numa Pompilio e Anco Marzio sono riferite quelle religiose e pacifiche.

Ispirato dalla ninfa Egeria, Numa intese a mitigare con le istituzioni religiose e col sentimento della giustizia gli spiriti fieri del popolo incline alla violenza. Edificò templi, fra cui quello di Giano, le cui porte erano chiuse in tempo di pace, aperte in tempo di  guerra, perchè Giano, dio della porta (ianua) seguiva l’esercito in campo. Istituì i grandi ordini sacerdotali: i Pontefici, le Vestali, gli Auguri, gli Aruspici, i Saliari, i Fratelli Arvali, i Flamini. Dette impulso all’agricoltura e, per regolarne i lavori, riformò il calendario, premettendo all’anno, che prima era di dieci mesi e cominciava il primo marzo, gennaio e febbraio.

Tullio Ostilio, romano, rispecchia l’ardore guerriero della sua stirpe. Delle imprese militari che condusse, la più importante fu quella contro Alba, decisa, per evitare spargimento di sangue, da un combattimento fra i trigemini Orazi romani e i trigemini Curiazi albani, finito vittoriosamente per i primi. Alba dovette sottomettersi a Roma. In seguito, avendo il dittatore albano Mezio Fuffezio tenuto un contegno ambiguo durante una guerra di Roma contro l’etrusca Veio, Tullio Ostilio lo mise a morte, facendolo dilacerare da due quadriglie lanciate in opposta direzione. Alba fu distrutta, la sua popolazione dedotta a forza a Roma, il territorio annesso. Roma divenne così la prima città del Lazio.

Anco Marzio, sabino, fu pari a Numa per spirito pacifico e religioso, ma costretto anche a combattere, per la sicurezza di Roma, contro i Latini.  Alcune città latine furono prese e così il territorio romano si estese fino al mare ed alla foce del Tevere, dove Anco Marzio fondò il porto di Ostia (nome che significa “le bocche del fiume”), e Roma divenne padrona del commercio del sale, che si svolgeva per la via detta poi Salaria, la quale dal mare raggiungeva il paese dei Sabini e degli Umbri. Tuttavia l’antico popolo romano non sentì nessuna attrazione per il mare, dove per lungo tempo non contese il commercio ai Tirreni, ai Cartaginesi, ai Greci.

Anco Marzio estese la città dalla parte dell’Aventino, ed edificò una fortezza sul Gianicolo, il colle che, essendo sulla destra del Tevere, costituiva un baluardo verso l’Etruria; a lui sono attribuiti anche il primo ponte di legno sul fiume, il ponte Sublicio, e il carcere Tulliano ai piedi del Campidoglio, detto più tardi Carcere Mamertino, di cui ancora si ammirano i resti.

Coi Latini, Anco Marzio concluse un trattato con il quale si affermava la supremazia di Roma sul Lazio. Tale trattato era custodito nel tempio federale dedicato a Diana sull’Aventino, dove i rappresentanti delle città alleate si riunivano per celebrare le feriae latinae, come un tempo di faceva in Alba.

L’età dei Tarquini e la fine della monarchia

Mentre i primi quattro re erano stati eletti dalle Curie, ora o per successione ereditaria o per violenza, i re si fanno da se stessi. Il fatto è significativo, perchè denota la tendenza della monarchia a passare dalle forme costituzionali al dispotismo.

Con Tarquinio Prisco comincia la serie dei re etruschi.

La leggenda dice che era figlio di un ricco mercante greco di Corinto, stabilitosi a Tarquinia. Avido di gloria, venne a Roma, dove seppe acquistarsi larga popolarità e la fiducia di Anco Marzio che, morendo, lo nominò tutore dei figli ancora giovani. Ma Tarquinio si impossessò del trono.

Egli ampliò il territorio con guerre fortunate contro i Sabini ed i Latini, ma soprattutto fu imponente l’impulso da lui dato alle costruzioni pubbliche.

Spianò il Foro, che divenne la piazza principale di Roma, edificò fuori della città il  Circo Massimo, per i giochi pubblici, prosciugò la parte bassa della città con un sistema di fognature o cloache confluenti in un canale più grande, la Cloaca Massima, che sbocca nel Tevere. A lui è attribuita l’introduzione di istituzioni e costumi etruschi; i ludi del circo, la pretesta (toga orlata tutto intorno di porpora, portata dai magistrati), i littori, la sedia curule, l’arte della divinazione.

Tarquinio Prisco morì ucciso dai figli di Anco Marzio, ma il trono non passò a loro, perchè la vedova di Tarquinio, la scaltra Tanaquilla, dalla leggenda presentata come una profetessa ispirata, favorì la successione di un suo fedele, allevato a corte, anch’egli etrusco e genero, pare, del morto re: Servio Tullio.

A questi la tradizione attribuisce la costruzione di una nuova cerchia di mura in sasso (mura serviane), delle quali rimangono ancor oggi alcuni tratti, includente tutti i sette colli; e un nuovo ordinamento civile e militare che va sotto il nome di riforma serviana, ma appartiene invece ad un’età più tarda. Così Roma divenne il septimontium, la città dei sette colli, avendo come centro il Palatino. I colli Capitolino, Aventino e Gianicolo non si abitavano, ma rimasero per uso militare.

Anche il regno di Servio Tullio finì tragicamente. La tradizione narra che egli fu ucciso da un figlio o nipote di Tarquinio, Lucio Tarquinio, al quale aveva data in sposa una sua figlia, Tullia, e narra anche la scelleratezza di questa che, per giungere più presto ad essere acclamata regina, passò con il cocchio sul cadavere del padre. La monarchia degenerava in tirannide.

Tarquinio il Superbo governò dispoticamente, perseguitando l’aristocrazia. Molti nobili  condannò a morte o all’esilio, per impadronirsi delle loro ricchezze; guerra, pace, alleanze trattò da solo senza consultare nè il popolo nè il Senato. Condusse molte guerre con esito fortunato, sottomettendo fra le altre la città di Ardea e, a tradimento, Gabii. L’oltraggio fatto da suo figlio Sesto alla matrona Lucrezia esasperò gli animi, incitandoli alla rivoluzione. A capo di questa furono Collatino, il marito di Lucrezia, e un suo parente, Giunio Bruto.

I Tarquini, cacciati da Roma, ripararono in Etruria: la monarchia fu abolita e vi subentrò una repubblica aristocratica (510 aC).

Storia di Roma – dettati ortografici e letture. Tutte le opere  contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.

Gioco di lettura – Il tesoro dello gnomo Ghioffo

Può essere un ottimo stimolo alla lettura per bambini poco motivati, ma si rivela un gioco divertente anche come racconto per i più piccoli, che ancora non sanno leggere,  e come gioco di “caccia al numero”.

Avevo ricevuto tempo fa un bellissimo racconto di pirati preparato in questo modo, da Sybille di Buntmond; qui propongo un racconto di Gnomi ed altri esseri magici, sempre alla ricerca di un tesoro.

Ho preparato le carte in varie versioni. Per le versioni con disegni da colorare ho utilizzato il materiale offerto dal sito: http://www.midisegni.it/disegni.html

Il materiale comprende:
– corsivo con disegni
– corsivo senza disegni
– stampato maiuscolo  con disegni
– stampato maiuscolo senza disegni.

Il tesoro dello Gnomo Ghioffo – stampato maiuscolo con disegni





Dettati ortografici – LA SCUOLA

Dettati ortografici – LA SCUOLA

Dettati ortografici – LA SCUOLA – una raccolta di dettati ortografici, di autori vari, per bambini della scuola primaria. Difficoltà ortografiche miste.

Una scuola di città
La ghiaia del cortile, le pozzanghere, i muri alti, con tante finestre tutte uguali, ogni finestra una classe, tanti maestri, tante maestre, tanti ragazzi tutti vestiti con lo stesso grembiule, e le stesse parole, gli stessi rimproveri, gli stessi problemi, da anni… Non c’è proprio niente di nuovo… Uno sguardo nel corridoio: come sempre un attaccapanni lunghissimo, tanti cappotti, tante mantelline, sciarpe rosse, duo o tre pelliccette e dentro le tasche, che cosa? Fischietti, bottoni, viti, il coperchio di una scatola di lucido, briciole di dolci mangiati chi sa quanto tempo fa, briciole che diminuiscono perchè ogni tanto, a ricordo di quel sapore, anche una briciola è buona. (G. Mosca)

Una vecchia scuola di villaggio
Il locale aveva tre pareti su quattro, dimezzate dal tetto a punta e due aperture per la luce simili più a feritoie che a finestre. L’una infatti spiava su un vicolo angusto e l’altra guardava le montagne che chiudevano l’orizzonte dalla parte di tramontana. I banchi erano lunghi e di quercia stagionata e portavano i segni ingloriosi delle offese ricevute da cinque generazioni di scolari. Al momento dell’entrata i primi arrivati si annunciavano con il battere dei loro zoccoli sui gradini della ripida scala di legno. (M. Menicucci)

Scuola
Tutti, tutti studiano ora. Pensa agli operai che vanno a scuola la sera, dopo aver faticato tutta la giornata; alle donne, alle ragazze che vanno a scuola la domenica, dopo aver lavorato tutta la settimana. Pensa agli innumerevoli ragazzi che, press’a poco a quell’ora, vanno a scuola in tutti i paesi. Vedili con l’immaginazione, che vanno, vanno per i vicoli dei villaggi quieti, per le strade delle città rumorose, lungo le rive dei mari e dei laghi, dove sotto un sole ardente, dove tra le nebbie, tutti con i libri sotto il braccio. E pensa: se tutto questo movimento cessasse, l’umanità ricadrebbe nella barbarie. (A. De Amicis)

Animo, al lavoro!
Animo, al lavoro! Al lavoro con tutta l’anima e con tutti i nervi! Al lavoro che mi renderà il riposo dolce, i giochi piacevoli, il mangiare allegro; al lavoro che mi renderà il buon sorriso del maestro e quello benedetto di mio padre. A. De Amicis

La cartella
Stamattina ho ripreso in mano la mia cartella per tornare a scuola. E’ la mia cartella dell’anno passato che la mamma ha ben spolverata e lucidata. Mi seguirà ancora per un intero anno scolastico  e sarà partecipe delle mie gioie e dei miei dolori. Come l’anno passato conterrà libri, quaderni, astuccio. Cercherò di conservarla bene.

Ritorno
L’estate è finita. I felici giorni trascorsi sulle spiagge, in campagna, sui monti, rimangono vivi soltanto nel nostro ricordo: si torna al lavoro, le vacanze sono finite. Anche i bambini, a cui il riposo ha ritemprato le forze, tornano volentieri a scuola. Cominciano serenamente il nuovo anno scolastico: è bello lavorare, è bello imparare! (Teresa Stagni)

La scuola
Anche la scuola ha le sue lotte, le sue battaglie; ma lotte pacifiche, battaglie amichevoli, dove la vittoria è comune, comune il premio. Vittoria è sentirsi dopo la battaglia più ricchi di virtù e di sapere; premio è il sentire cresciuta l’amicizia e la stima. Lontano dalla scuola i rancori e le insidie; oh, non arrivino mai questi a turbare l’aria pura e serena della scuola! (F. De Sanctis)

Ritorno
Bentornati, bambini, a scuola. Il tempo del riposo e dello svago è finito ed ora dobbiamo dedicarci allo studio. C’è in noi un certo rincrescimento per aver lasciato il mare, i monti e la campagna, ma c’è anche la gioia di esserci incontrati ancora tutti, per riprendere insieme il nostro lavoro.
La scuola non vi toglierà tutto il vostro tempo, di cui avete bisogno per giocare, ma vi ricorda che prima del gioco  avete un dovere da compiere: studiare.
Amate la scuola, accorrete alle vostre aule puntuali, volenterosi e soprattutto sereni. Ricordatevi che le vacanze estive vengono tutti gli anni e saranno sempre più belle per chi durante l’anno scolastico avrà ben meritato.
Buon lavoro e siate buoni! (G. Spanu)

A scuola
Eccoci di nuovo a scuola. Tu non sei più uno scolaretto timido come nelle classi precedenti, quando eri più piccino. Sai che il tuo dovere è quello di studiare e di imparare tante cose che ti faranno diventare onesto, forte, buono.

I migliori amici
I libri sono nostri amici. Essi ci fanno compagnia nella quiete del nostro studio, ci seguono nella campagna, rallegrano la nostra solitudine, riempiono le ore placide della vita. Ci parlano se interrogati; se li lasciamo non si lamentano; divertono nei tempi quieti e sereni, danno forza e coraggio nelle terribili circostanze, aprono le pagine della storia, ci fanno vivere coi grandi uomini che già furono. (F. Pananti)

Compagni di scuola
Tu vuoi bene, vero, ai tuoi compagni di scuola? Potrai avere una predilezione per il tuo vicino di banco, per il più bravo della classe, per quello che è stato colpito dalla sventura, ma a tutti, vero? A tutti vuoi bene. Al più ricco come al più povero tu doneresti, se venisse a casa tua, un fiore del giardino e tua madre gli chiederebbe della sua mamma, e gli aprirebbe il suo cuore chiamandolo “Figlio mio”. (M. Moretti)

Il maestro

Ogni maestro è come il comandante di una nave pronta a salpare. La scuola è la tua nave e tu sei scolaro e marinaio. A ogni lezione si parte e si arriva. Ed è sempre il maestro che ti dà il segnale, indica i punti da vedere e insegna le cose da imparare. Spesso scrive sulla lavagna lettere e vocali, numeri e parole. E sempre guarda negli occhi e guarda nel cuore di ciascuno come un buon comandante fa coi suoi marinai. Ogni mattina si parte per una tappa nuova. E la nave scuola solca il grande mare del sapere. (N. Salvaneschi)

A scuola

La scuola vi accoglie con un sorriso e vi dice: “Siete ritornati a scuola, come a una festa. Sono passate le vacanze, e ne avete abbastanza di giochi, di corse, di libertà. I vostri occhi brillano di gioia, della gioia di ritrovare i vostri compagni, le vostre compagne, la vostra maestra. Vi ritrovo cresciuti, con un bel colorito: quasi non vi riconosco più. Il vostro viso è sorridente, nei vostri occhi c’è il desiderio di imparare. Al lavoro, bambini, con serenità!” (A. R. Piccinini)

Parla il libro

Io sono soltanto un libro, una cosa che tu potresti strappare con tue mani impazienti, che tu potresti sgorbiare con la tua penna, che tu potresti gualcire in un momento di stizza. Ma ricordati che sono il frutto del lavoro di tanti uomini.
Per farmi così, come mi vedi, una fabbrica ha lavorato per produrre la carta.  Su questa carta gli stampatori hanno impresso i caratteri e le illustrazioni. Ma, prima di questo, lo scrittore ha dovuto scrivere i racconti e il pittore ha disegnato e colorato le figure. Ora sono nella tua cartella e tu puoi leggere su di me tante belle e nuove cose. Se tu vuoi ti insegnerò a diventare più buono e più bravo. In cambio ti chiedo di non sciuparmi e di leggermi, di studiarmi. Non è molto in confronto a tutto quello che ti dono. (M. Menicucci)

I miei compagni
22, sabato.
Ieri, mentre il maestro ci dava notizie del povero Robetti, che dovrà camminare un pezzo con le stampelle, entrò il Direttore con un nuovo iscritto, un ragazzo di viso molto bruno, coi capelli neri, con gli occhi grandi e neri, con le sopracciglia folte e raggiunte sulla fronte; tutto vestito di scuro, con una cintura di marocchino nero intorno alla vita. Il Direttore, dopo aver parlato all’orecchio al maestro, se ne uscì, lasciandogli accanto il ragazzo, che guardava noi con quegli occhioni neri, come spaurito.
Allora il maestro gli prese una mano, e disse: “Voi dovete essere contenti. Oggi entra nella scuola un piccolo italiano nato a Reggio di Calabria, a più di cinquecento miglia da qua. Vogliate bene al vostro fratello venuto di lontano. Egli è nato in una terra gloriosa, che diede all’Italia degli uomini illustri, e le dà dei forti lavoratori e dei bravi soldati; in una delle più belle terre della nostra Patria, dove son grandi montagne, abitate da un popolo pieno di ingegno e di coraggio. Vogliategli bene in maniera che non si accorga di essere lontano dalla città dove è nato; fategli vedere che un ragazzo italiano, in qualunque scuola italiana metta piede, ci trova dei fratelli”.
Detto questo si alzò e segnò sulla carta murale d’Italia il punto dov’è Reggio di Calabria.
Poi chiamò forte: “Ernesto De Rossi!”, quello che ha sempre il primo premio. De Rossi si alzò.
“Vieni qua” disse il maestro.
De Rossi uscì dal banco e s’andò a mettere accanto al tavolino, in faccia al calabrese.
“Come primo della scuola” gli disse, “da’ l’abbraccio del benvenuto in nome di tutta la classe, al nuovo compagno; l’abbraccio del figliolo del Piemonte al figliolo della Calabria”.
De Rossi abbracciò il calabrese, dicendo con la sua voce chiara: “Benvenuto!”, e questi baciò lui sulle due guance, con impeto. Tutti batterono le mani.
“Silenzio!” gridò il maestro, “Non si battono le mani a scuola!”.
Ma si vedeva che era contento. Anche il calabrese era contento.
Il maestro gli assegnò il posto e lo accompagnò al banco. Poi disse ancora: “Ricordatevi bene di quello che vi dico. Perchè questo fatto potesse accadere, che un ragazzo calabrese fosse come in casa sua a Torino, e che un ragazzo di Torino fosse come a casa sua a Reggio Calabria, il nostro Paese lottò per cinquant’anni, e tremila italiani morirono. Voi dovete rispettarvi, amarvi tutti tra voi; ma chi di voi offendesse questo compagno, perchè non è nato nella nostra provincia, si renderebbe indegno di alzare mai più gli occhi da terra quando passa una bandiera tricolore”.
Appena il calabrese fu seduto al posto, i suoi vicini gli regalarono delle penne e una stampa e un altro ragazzo, dall’ultimo banco gli mandò un francobollo di Svezia.

Martedì, 25
Il ragazzo che mandò il francobollo al calabrese è quello che mi piace più di tutti, si chiama Garrone, è il più grande della classe, ha quasi quattordici anni, la testa grossa, le spalle larghe; è buono, si vede quando sorride; ma pare che pensi sempre, come un uomo. Ora conosco già molti dei miei compagni. Un altro mi piace pure, che ha nome Coretti e porta una maglia color cioccolata e un berretto di pelo di gatto; sempre allegro, figliolo di un rivenditore di legna, che è stato soldato nella guerra del ’66, nel quadrato del Principe Umberto, e dicono che ha tre medaglie. C’è il piccolo Nelli, un povero gobbino, gracile e col viso smunto. C’è uno molto ben vestito che sempre si leva i peluzzi dai panini e si chiama Votini.
Nel banco davanti al mio c’è un ragazzo che chiamano il muratorino, perchè suo padre è un muratore; una faccia tonda come una mela, con un naso a pallottola; egli ha un’abilità particolare, sa fare il muso di lepre, e tutti gli fanno fare il muso di lepre, e ridono; porta un piccolo cappello a cencio che tiene appallottolato in una tasca come un fazzoletto. Accanto al muratorino c’è Garoffi, un coso lungo e magro, col naso a becco di civetta e gli occhi piccoli piccoli, che traffica sempre con pennini, immagini e scatole di fiammiferi, e si scrive la lezione sulle unghie per leggerla di nascosto.
C’è poi un signorino, Carlo Nobis, che sembra molto superbo ed è in mezzo a due ragazzi che mi sono simpatici: il figlio di un fabbro ferraio, insaccato in una giacchetta che gli arriva al ginocchio, pallidino che par malato e ha sempre l’aria spaventata e non ride mai; e uno coi capelli rossi che ha un braccio morto, e lo porta appeso al collo: suo padre è andato in America e sua madre va attorno a vendere erbaggi.
E’ anche un tipo curioso il mio vicino di sinistra, Stardi, piccolo e tozzo, senza collo, un grugnone che non parla con nessuno e pare che capisca poco, ma sta attento al maestro senza batter palpebra, con la fronte corrugata e coi denti stretti; e se lo interrogano quando il maestro parla, la prima e la seconda volta non risponde, la terza volta tira un calcio. E ha daccanto una faccia tosta e trista, uno che si chiama Franti, che fu già espulso da un’altra sezione.
Ci sono anche due fratelli, vestiti uguali, che somigliano a pennello, e portano tutti e due un cappello alla calabrese, con una penna di fagiano.
Ma il più bello di tutti, quello che ha più ingegno, che sarà il primo di sicuro anche quest’anno, è De Rossi, e il maestro, che l’ha capito, lo interroga sempre. Io però voglio bene a Precossi, il figlio del fabbro ferraio, quello dalla giacchetta lunga, che pare un malatino; dicono che suo padre lo batte; è molto timido e ogni volta che interroga o tocca qualcuno, dice “Scusami”, e guarda con gli occhi buoni e tristi. Ma Garrone è il più grande e il più buono.
(E. De Amicis)

Dettati ortografici – LA SCUOLA – Tutte le opere  contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.

PULCINI GALLINE E GALLETTI: dettati ortografici e letture

Dettati ortografici PULCINI GALLINE E GALLETTI

Dettati ortografici PULCINI GALLINE E GALLETTI – una raccolta di dettati ortografici, di autori vari, per bambini della scuola primaria. Difficoltà ortografiche miste.

Sono due pulcini usciti ieri dall’uovo. Sono già nel prato a godersi la primavera. Guardano intorno, beccano in terra e si bisticciano. Bisticciano per una crostina di pane trovata fra l’erba. Tira uno, tira l’altro… nessuno vince. Il pulcino più scuro dà una beccata alla crostina; il pulcino più chiaro dà una beccata al compagno; l’altro scappa via contento col boccone. Non è passato che un momento; ecco i pulcini già in pace. Beccano contenti l’uno quasi contro l’ala dell’altro.

(in costruzione)

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IL RICCIO: dettati ortografici e letture

Dettati ortografici IL RICCIO

Dettati ortografici IL RICCIO – una raccolta di dettati ortografici, di autori vari, per bambini della scuola primaria. Difficoltà ortografiche miste.

Sotto la grande quercia vive tutto un popolo strano: formiche brune, ricci, lumache, una faina. Si lavora continuamente giorno e notte. Ogni tanto la riccia torna a casa con un fascio di foglie sopra la schiena. E’ andata a rotolarsi sotto i castagni e tante foglie le si sono infilzate sul dorso, tante ne porta a casa. E’ stata sveglia, come di solito, tutta la notte e ha ancora molto da fare. Il piccino suo, seduto sopra una radica di quercia, la guarda tutto contento. E’ simile a un minuscolo porcellino da latte, più ignorante di una talpa, e non sa niente, non capisce niente. (F. Tombari)

(in costruzione)

Dettati ortografici IL RICCIO – Tutte le opere  contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.

IL LOMBRICO: dettati ortografici e letture

Dettati ortografici – IL LOMBRICO- una raccolta di dettati ortografici, di autori vari, per bambini della scuola primaria. Difficoltà ortografiche miste.

Il lombrico uscì da un buco della terra e si allungò e si snodò per venire fuori tutto. Stava volentieri sotto terra, perchè era nudo, molle e cieco e i nemici erano tanti: il vomere, la vanga, la zappa del contadino e poi gli uccelli. Essi, alla vista di un lombrico grasso e tenero, si buttano giù a capofitto tutto becco e fame, e il verme, senza accorgersene, passa dal buio della terra, al buio di uno stomaco. Sottoterra, dove lento e tenace, il lombrico si scava la sua strada, esso è sicuro e sta bene. Lo chiamano mangiatore di terra, ma non è vero; per scavare il suo buco il lombrico ingoia la terra, ma poi la restituisce resa più grassa, più fertile dal passaggio del suo corpo. Benedetto il campo dove i lombrichi stanno di casa!

Il lombrico
Nudo, molle, cieco, striscia sul terreno e si infila volentieri nel primo buco che incontra. Si dice che il lombrico mangia la terra. In realtà, quando scava, il lombrico ingoia la terra che scava e poi la restituisce più grassa. Perciò quest’umile verme è di grande vantaggio al contadino, perchè rende la terra più soffice, porosa, fertile.

Il lombrico
E’ un verme simpatico, perchè non soltanto è prezioso per il terreno dove abita, ma se lo ferisci, anzi, se lo tagli addirittura a metà, in due pezzi, in tre pezzi, in quattro, vedrai che ogni pezzo se ne andrà tranquillo per conto suo come se non gli fosse accaduto nulla di male. E invece di un lombrico solo, ne abbiamo due, tre, quattro, ognuno con la sua testa, il suo stomaco, i suoi anelli!

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ANIMALI DELLO STAGNO E DEL FOSSO: dettati ortografici e letture

Dettati ortografici – animali dello stagno e del fosso – una raccolta di dettati ortografici, di autori vari, per bambini della scuola primaria. Difficoltà ortografiche miste.

Nel fosso l’acqua non era profonda, ma limpida e ridente. Vi abitavano molti pesci, spinelli e carpe, che passavano e ripassavano in fila. C’erano anche libellule verdi, azzurre, brune, che non appena si posavano sui vincastri, io afferravo piano piano, dolcemente, o mi sfuggivano, leggere, silenziose, col fremito delle loro ali di velo. C’erano certi insetti bruni dal ventre bianco, che saltellavano sulla superficie dell’acqua, e facevano muovere le loro esili gambe allo stesso modo dei calzolai quando tirano lo spago. E non mancavano le ranocchie che non appena si accorgevano di me, si tuffavano nell’acqua. C’erano poi delle salamandre acquatiche che rovistavano nella mota e dei grossi scarafaggi che si davano un gran da fare nelle pozzanghere. (F. Mistral)

(in costruzione)

Dettati ortografici – animali dello stagno e del fosso – Tutte le opere  contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.

IL LETARGO: dettati ortografici e letture

Dettati ortografici IL LETARGO – una raccolta di dettati ortografici, di autori vari, per bambini della scuola primaria. Difficoltà ortografiche miste.

Il risveglio del tasso

Quatto quatto, ancora un po’ incerto, è uscito dalla tana anche il tasso. Poveraccio, com’è dimagrito! Ne ha guadagnato la linea, è vero, ma sembra il ritratto della fame. Ghiottone com’è, si accorge che è ancor presto per le grandi scorpacciate, la natura offrendogli  ben poco; ma forse è meglio riabituarsi al cibo un po’ alla volta, con moderazione. Data un’occhiata in giro e addentato qualcosa, ritorna guardingo verso la tana; è stanco e una dormitina non gli farà male. D’improvviso si arresta, poi, rassicurato, prosegue: il fischio che aveva sentito l’aveva subito riconosciuto. Toh, s’è svegliata pure la signora marmotta: aperto il cunicolo che immette alla tana, è uscita al richiamo della primavera.
(V. De Marchi)

Lo scoiattolo si risveglia

Lo scoiattolo non riusciva più a dormire. Il sole lo guardava. Si strofinò gli occhietti, afferrò una noce e si pose a sedere. Aveva molta fame, ma era ben provvisto: tutto il nido era foderato di noci, poi ne tirava fuori un’altra di sotto il letto. Così, quando nel pancino non ce ne stettero più, si diede una gran lisciata di baffi e si mise a guardare intorno. Passava da un ramo all’altro a corsettine, senza mai toccar terra. Saltava su un abete, rimbalzava su un pino, gettava pinoli in tesa ai conigli. Riappariva su un nido di gazza per rubarvi le uova. Le uova col sole dentro.
(L. Volpicelli)

Le lucertole

Le lucertole, riscaldate dal sole tiepido, escono dai buchi dove sono state in letargo per tutto l’inverno e si fermano al calduccio, guardando qua e là con gli occhietti vispi. Sono alla caccia di un insetto. Hanno tanto dormito che ora vorrebbero proprio saziarsi di qualche insettuccio incauto che arrivi alla porta della loro lingua. (M. Menicucci)

La lucertolina

Ecco là sul muricciolo la lucertolina che sta a godersi il sole. No, non sta lì a goderselo, sta lì al sole per vera necessità. E’ una lucertolina giovane, uscita da poco da una crepa del muro, dove ha passato l’inverno, e ora aspetta che il caldo la irrobustisca, le dia snellezza per acchiappar mosche e vivere. Ecco dunque chi potrebbe diminuire il gran numero di mosche che minacciano la nostra salute. Ma vi è forse al mondo un’altra bestiola più perseguitata dai ragazzi?
(Reynaudo)

Che cos’è il letargo

Molti animali, per difendersi dai rigori dell’inverno, si rinchiudono nella tana sin dall’autunno e vanno in letargo. Durante questo sonno profondissimo, la temperatura del loro corpo si abbassa e il loro respiro si fa più lento: essi consumano pochissime energie e non hanno bisogno di nutrirsi. E’ il caso del ghiro e della marmotta. Lo scoiattolo, invece, si sveglia di tanto in tanto per mangiare il cibo immagazzinato nella sua tana.

Letargo e ibernazione

Agli inizi dell’inverno milioni di animali, in ogni parte del mondo, cadono in un particolare stato di riposo: il letargo. Il letargo è un mezzo per sopravvivere, offerto dalla natura ad alcune specie di animali che in questa stagione non troverebbero più il cibo adatto.

Molti animali hanno un letargo che consiste semplicemente in un sonno più o meno profondo e prolungato: tra questi vi sono l’orso, il tasso, lo scoiattolo, la talpa.

Alcuni mammiferi, invece, durante il letargo mutano profondamente le condizioni del loro organismo: si dice che ibernano. L’ibernazione non consiste in un semplice sonno: la temperatura del sangue dell’animale si uniforma a quella dell’ambiente (come avviene, in ogni stagione, nei rettili), il cuore dà un battito ogni due o tre minuti, il respiro si fa impercettibile, cessa completamente la necessità di nutrirsi. Sono animali ibernanti la marmotta, il riccio, il ghiro, il pipistrello.

I pesci, i rettili, gli anfibi, durante il riposo invernale limitano anch’essi tutte le funzioni del loro organismo al minimo indispensabile per conservare la vita; questo stato si dice “vita latente”.

Il riccio

Quando giunge l’inverno il riccio comincia a trovarsi nei guai; il suo mantello spinoso è un ottimo strumento di difesa contro le zanne e gli artigli dei nemici, ma è un riparo assai scadente contro gli assalti del freddo. Per combattere la grande dispersione di calore a cui è sottoposto il suo corpo dovrebbe, in inverno, mangiare moltissimo, ma ha la sfortuna di essere un insettivoro e… di insetti in questa stagione, specialmente quando il terreno è gelato, è quasi impossibile trovarne. Per risolvere questa difficile situazione il riccio, appena la temperatura comincia a scendere sotto i 15°, si appallottola nella sua tana e cade in letargo; vi resterà finchè il clima non sia tornato più favorevole alla sua nutrizione. Durante la sua ibernazione il riccio regola continuamente la temperatura del proprio corpo, mantenendola sempre di un grado superiore a quella dell’ambiente. Facciamo un esempio: se la temperatura esterna è a +10° il riccio mantiene il suo corpo  solamente a +11°. E’ questo un ottimo sistema per risparmiare… combustibile, cioè i grassi accumulati nel corpo durante l’estate. Però, se la temperatura esterna si abbassa sotto i +5°, il riccio non si può permettere di seguirla nella sua discesa, perchè finirebbe col diventare congelato; allora il suo organismo comincia automaticamente a consumare una quantità maggiore di grassi, per mantenere nel corpo la temperatura minima sufficiente alla vita. Mentre avviene tutto ciò, il riccio seguita tranquillamente a dormire. Si direbbe che questo animale sia dotato di un perfetto termostato, l’apparecchio che c’è nei nostri frigoriferi, e che riaccende automaticamente il motore se la temperatura non è più al punto voluto.

La marmotta

Il luogo ove le marmotte trascorrono in letargo sei o sette mesi invernali è una vera camerata sotterranea: essa si trova a due o tre metri di profondità ed è larga una decina di metri; vi stanno a dormire una quindicina di marmotte. Durante l’estate questi animali hanno tagliato coi denti  molta erba e l’hanno fatta seccare al sole; poi, con la bocca hanno trasportato il fieno nella caverna, disponendolo ordinatamente a strati. Ora, su questo soffice materasso, dormono un profondissimo sonno: se ne stanno acciambellate col capo stretto fra le zampe posteriori. Nella marmotta, durante il letargo, le funzioni della vita sono ridotte al minimo: l’animale compie 36.000 respirazioni in quindici giorni, tante quante ne compiva in un sol giorno durante l’estate. La temperatura del corpo, che durante la veglia è di 36°, nel letargo si mantiene sui 10° e può eccezionalmente scendere anche a 5°, quando quella esterna si approssima allo zero. Anche per mantenere queste basse temperature occorre però un certo consumo di grassi; le marmotte, infatti, durante il letargo, perdono una buona parte del loro peso.

Il ghiro

I ghiri sono i più famosi dormiglioni del regno animale; tutti conosciamo il detto “dormire come un ghiro”; figuratevi infatti che quando dorme, e se ne sta tutto raggomitolato come una palla, possiamo prenderlo e farlo rotolare per terra senza che neanche si svegli. Alla fine dell’estate i ghiri cominciano a raccogliere in un vasto nido, nel cavo di un albero, una quantità di ghiande, noci, faggiole. Poi si radunano a dormire in parecchi nella stessa tana. Le provviste che hanno raccolto serviranno per la prima colazione nell’aprile dell’anno seguente, quando si ridesteranno.

Il pipistrello

Il pipistrello cade in letargo… ogni giorno. Questo animale esce in cerca di cibo soltanto la notte; di giorno se ne sta nascosto in una caverna, in una soffitta o in una fessura della roccia e cade in uno stato di sonno detto letargo diurno; infatti, in quelle ore, il suo sangue si raffredda, i respiri e i battiti del cuore si fanno più distanziati. Ma quando giunge l’inverno e la temperatura scende al di sotto dei 10°, il sonno si prolunga per settimane e mesi e la vita rallenta ancor più il suo ritmo. Il pipistrello resiste al sonno anche se la temperatura del suo sangue scende a -2°. E’ l’unico mammifero che possa sopportare temperature del corpo inferiori a zero gradi, senza pericolo per la sua vita. Si desta invece facilmente al calore, alla luce, al tatto, al rumore e si riscuote subito, a differenza degli altri animali.  Curioso è il suo modo di dormire, appeso a capo all’ingiù; ma non si stanca? Verrebbe voglia di chiedersi. Niente affatto, perchè le sue zampette si serrano automaticamente  sull’appiglio per azione del peso del corpo che fa contrarre i tendini delle dita.

Animali in letargo

E’ sopraggiunto l’inverno e tutto, intorno, è spoglio, triste, silenzioso. Lucertole, bisce, ghiri, tassi e marmotte dormono profondamente. Consumano il grasso accumulato nella buona stagione e così possono resistere senza mangiare per i lunghi giorni dell’inverno… Anche il loro respiro si è rallentato: è quasi impercettibile e il loro cuore batte pianissimo.

Le signore Grassone a convegno

Le signore Grassone  discutevano in cerchio, attente e serie. Ognuna diceva la sua, con calma e moderazione, ma la Strillona gridava più di tutte e poichè chi grida di più ha sempre ragione, le altre tacquero e la Strillona parlò.
“Bisogna affrettarci!” gridava. “L’acqua sa già di neve. Tra poco la terra sarà tutta gelata, le piante si spoglieranno e non di troverà più un frutto né un seme da mettere sotto i denti. Presto, presto, a scavare le tane per l’inverno, abbastanza grasse per sopportare il lungo digiuno, presto, presto, che il sonno arriva a chiudere gli occhi dei giovani e degli anziani!”.
“Ah, il sonno!” esclamò una marmotta anziana con espressione di grande beatitudine. “Quando penso che fra poco ci scaveremo la tana, profonda, molto profonda, fra i sassi e le rocce, che ne imbottiremo una stanza con fieno tritato e asciutto e che lì potremo rifugiarci con tutta la famiglia, abbracciati e dormire… mi sento felice. Ah, la vita è bella!”
Un sonno lungo, quello delle signore marmotte, che durerà molti mesi e, se potessero sognare… Montagne di frutta secca, colline di semi, pascoli di radici saporite… Una delizia! Purché l’uomo… Un brivido di terrore passa su quelle schiene grasse.
La marmotta anziana ricorda, purtroppo, la gran strage di quell’anno e racconta. Si erano tutte diligentemente purgate, come ogni volta, con acqua purissima di sorgente. E intanto si erano costruite la casa: una casa profonda e sicura, con un corridoio cieco che serviva da deposito di immondizie e una bella camera calda con un letto di fieno profumato.
Avevano chiuso l’ingresso con un muro di fango, di pietre e d’erba secca, un vero calcestruzzo. Si credevano sicure lì dentro e si erano abbandonate alla beatitudine del lunghissimo letargo invernale. Altrimenti, di che cosa si sarebbero potute nutrire le povere marmotte? Durante la brutta stagione non avrebbero trovato né un frutto né un seme, forse nemmeno una radice sepolta dalla neve. La natura provvida aveva loro concesso il gran sonno.
Appena un debole fiato d’aria per tenersi in vita, e così, quasi senza respiro e senza calore, ma con una grossa riserva di grasso sotto la folta pelliccia, le marmotte si erano addormentate profondamente.
Durante il sonno era avvenuto lo scempio. Decine di famiglie non si erano più svegliate. L’uomo era avido della bella pelliccia morbida e anche del grasso che secondo lui, spalmato sulla pelle, guariva ogni male. Scavando nel muro di calcestruzzo, anche alla profondità di otto o nove metri, le aveva raggiunte e catturate senza pietà.
Per questa ragione quell’anno avevano deciso di emigrare. Avrebbero cercato di sfuggire all’insidia degli uomini, recandosi in alto, ai confini delle grandi nevi, al di là del bosco e del torrente.
In quel luogo spirava un vento propizio, Era una zona sicura… L’aveva detto il camoscio, venuto a brucare il finocchio ai margini del bosco. Nemmeno il camoscio era amico dell’uomo e sapeva dove si poteva stare al sicuro da lui.
Le signore grassone, precedute dalla Strillona, che doveva eventualmente dare l’allarme, avanzavano caute, affacciandosi prima ai cigli delle rocce per perlustrare il terreno. Un grande silenzio sulla montagna. Non un colpo d’arma da fuoco, non un colpo di piccone, ma un’aria di pace completa. Solo il lieve stormire delle fronde mosse dal vento. Non c’era traccia d’uomo. Le marmotte durante il cammino, facevano grandi bevute d’acqua di fonte e non mangiavano nulla, non di facevano tentare nemmeno dalle ultime bacche cadute per terra. Dovevano andare verso il gran sonno col corpo purificato.
Finalmente arrivarono. Alzarono verso l’aria le narici umide e vibranti per aspirare gli odori, odori rassicuranti e amici, poi cominciarono a scavare le tane. Dovevano mettersi al sicuro dall’uomo e dal falco, anche lui ghiotto di marmotte.
Finalmente, il lavoro fu compiuto. Le famiglie di radunarono, si riconobbero sfiorandosi i baffi e finalmente giù nel profondo, dove, abbracciate in una tenera stretta, avrebbero aspettato il tepore della primavera che le avrebbe svegliate.
(Mimì Menicucci)

Gli scoiattoli

Gli scoiattoli, durante l’inverno, non dormono continuamente. Quasi ogni mattino escono dal loro nido, posto sulla sommità di un albero, per sgranchirsi un poco le gambe, inseguendosi e correndo a spirale lungo il tronco ed i rami. Vanno anche a prelevare un poco del cibo che durante l’estate avevano accumulato in piccoli magazzini nascosti nelle cavità dei tronchi. Nelle altre ore del giorno se ne stanno ben tappati nel loro nido ove alternano mangiatine a lunghe dormite.

Le vipere

Le vipere, quando avvertono i primi freddi, si radunano in gruppi numerosi (talvolta anche di venti o trenta) in una sola tana, fra le radici di un albero, o sotto una pietra. Così. aggrovigliate assieme, cadono in letargo.

La lucertola

Si nasconde in qualche buchetto, per cadere in letargo, soltanto nelle zone in cui l’inverno è rigido.

Le rane

Nelle zone dove l’inverno è rigido, si sprofondano nel fango del loro stagno e vi rimangono inerti fino alla primavera seguente.

La tinca

Quando le acque si raffreddano, si immerge nel fango del fondo e vi rimane a lungo immobile.

La chiocciola

Durante l’inverno,  si nasconde fra le pietre, chiude con una membrana l’apertura del suo guscio e s’addormenta.

E’ finito il letargo

La primavera è la stagione in cui la natura si sveglia.
I fiumi, che il ghiaccio ha resi prigionieri durante l’inverno, riprendono liberi il loro corso, gorgogliando e chioccolando. Negli alberi rifluisce la linfa. Essa risveglia i germogli addormentati, che si aprono, rivelando le foglie. I fiori incominciano a sbocciare. Su dall’arida terra morta spuntano i fili della verde erba. Il mondo, che pareva diventato inerte, ricomincia a mostrare i primi segni di vita.
Gli animali, che durante l’inverno hanno dormito, si destano. Gli uccelli ritornano dal Sud. I lavori dell’anno stanno per riprendere. Tutti sono affaccendati.
Per il castoro la primavera è la stagione in cui bisogna ricominciare a lavorare. Mamma castoro vuole un bel letto per i suoi piccoli. Il padre può dormire sulla nuda terra, ma i bambini devono avere un giaciglio più soffice; perciò babbo castoro deve preparare per loro un materasso di ramoscelli teneri e di fili d’erba.
Presto vi saranno le inondazioni primaverili. I ruscelli mormoranti si trasformeranno in torrenti impetuosi. Il castoro deve, presto presto, riassettare la sua diga, se non vuole che le acque tumultuose gliela spazzino via. Deve rafforzarla con rami e pietre; deve aggiungere tronchi e grossi sassi che tengano a posto i tronchi; deve ammucchiare rami e sterpi e zolle di terra che leghino insieme ogni cosa. Deve far sì che la sua diga diventi ogni anno più grossa e più bella.
A volte le dighe dei castori diventano talmente alte e forti, che anche i cavalli ci possono camminare sopra.
Spesso papà castoro non riesce, da solo, a far tanto lavoro. Invita allora i parenti ad aiutarlo. Fa un fischio ai suoi fratelli, agli zii, alle zie, i quali arrivano al chiaro di luna e lo aiutano finchè il lavoro è terminato. A sua volta esso aiuta i parenti quando hanno bisogno di lui.
A primavera anche la marmotta si sveglia: è magra, affamata e sola. Quando era andata a rintanarsi per l’inverno era coperta di spessi strati di grasso. Sotto la sua pelliccia non ce ne sarebbe stato un pezzettino di più. Non poteva neppure correre! Perciò tutti la chiamavano “grassona”.
Quando era caduta in letargo, era un animaletto incredibilmente assonnato, e sino a primavera aveva continuato a dormire senza mai svegliarsi, neppure per mangiare.
Ed ecco che adesso, all’arrivo della primavera, la marmotta è magra, affamata e sola. Annusa nervosamente le gallerie che la circondano: alcune sono state scavate da lei stessa; altre sono state scavate dai suoi fratelli, dalle sorelle e da altri parenti.
Poi la marmotta si mette in viaggio, di galleria in galleria, in cerca dei vecchi amici. A volte, entrando in una galleria, si imbatte in un opossum che vi si è insediato, oppure in un coniglio o in una moffetta. Allora scappa in un’altra galleria.
Nel suo giro di ricerca incontra molti animali, i quali, vedendo che la marmotta si è svegliata, capiscono che è primavera. (A. Webb)

Lo scoiattolo

Lo scoiattolino non riusciva più a dormire. Nella brezza del mattino che continuava a cullarlo, lassù sul cavo più alto del faggio, sotto il cumulo delle foglie, si sentiva pungere gli occhi da uno spino d’oro, che invano cercava di togliere con la zampina. Schiuse le palpebre, fece capolino di sotto la gran coda in cui era avvolto, sbirciò da uno spiraglio del tettuccio.
Il sole lo guardava.
Presto presto si strofinò gli occhietti, diede una scrollatina al pelliccione,  arruffò il letto, afferrò una noce e si pose a sedere.
Aveva molta fame, ma era anche ben provvisto: tutto il nido era foderato di noci. Ne vuotava una, gettava via il guscio e ne tirava fuori un’altra di sotto il letto.
Quando nel pancino non ce ne stettero più, si diede una gran lisciata di baffi e si mise a considerare l’inverno.
L’aria odorosa di resina scintillava fresca e pungente perchè c’era ancora un poco di neve all’ombra degli alberi e sulla montagna; ma il lago era sgelato.
Lo scoiattolino si agitò tutto per la gran festa.
(F. Tombari)

Animali in letargo…
Lo sapevate che se gli uomini potessero cadere in letargo vivrebbero fino a 2162 anni? Infatti durante il letargo i battiti del nostro cuore subirebbero un rallentamento, e ciò prolungherebbe di molto la nostra vita.
Che cos’è l’ibernazione? E’ un periodo felice che gli animali trascorrono in luoghi diversi (tronchi, buche, tane) durante il quale la loro temperatura diminuisce. E’ inesatto dire che certi animali, come rane, rettili o pesci hanno il sangue freddo: la loro temperatura dipende unicamente dall’ambiente in cui si trovano. Per esempio una serpe, sui sassi al sole, avrà sangue caldo, ma se la troverete sotto una pietra, toccandola la sentirete gelida.
I mammiferi e gli uccelli in generale hanno temperatura costante: sia che voi andiate a spasso con un gran freddo, sia che ve ne stiate ad arrostire sulla spiaggia, la vostra temperatura interna sarà sempre di 37 gradi. Tra gli animali che vanno in letargo, o ibernanti, ce ne sono di quelli che hanno temperatura variabile e di quelli che hanno temperatura costante; comunque sia, la temperatura di questi animali diminuisce d’inverno.
E fra questi mammiferi ci possono essere i roditori, gli insettivori, ed anche i carnivori che hanno la proprietà di diminuire moltissimo la temperatura.
Ci sono poi dei falsi ibernanti, come l’orso, che pur andando in letargo non subisce una diminuzione della temperatura.
La marmotta è un esempio tipico di roditori ibernanti. Quando il termometro scende dotto i 15 gradi, dolcemente il piccolo animale si addormenta e sembra cadere in letargo: ma ogni due o tre settimane la marmotta si risveglia per eliminare dalla sua tana tutta la sporcizia.
Un abbassamento troppo rapido della temperatura la ridesta ugualmente dal letargo: occorre perciò che essa si riscaldi per non morire di freddo. Si agiterà allora in tutti i modi e farà delle vere e proprie acrobazie. Durante il letargo la marmotta non mangia più e consuma le sue riserve di grasso.
Gli invertebrati dormono proprio tutto l’inverno; gli insetti trascorrono questa stagione sia come larve, sia come crisalidi. Mi è capitato una volta di osservare una farfalla attaccata a un muro alla fine dell’estate e di averla vista immobile ancora nella stessa posizione duasi alla fine dell’inverno.
(U. Gozzano)

Dettati ortografici IL LETARGO – Tutte le opere  contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. 

DETTATI ORTOGRAFICI l’albero in primavera

Dettati ortografici l’albero in primavera – Una collezione di dettati ortografici di vari autori sull’albero in primavera, per la scuola primaria, adatti alle classi dalla prima alla quinta.

Dettati ortografici l’albero in primavera

L’albero si sveglia e sgranchisce i rami; già è l’ora! Che sonno! Il primo sole di primavera ha destato il pigrone, col suo teporino. Ora scuote i rami e mette qualche gemma: così, tanto per cominciare. Oh, qualche gemma piccola, gommosa, fatta di tante foglioline serrate e di tessuti giovani: un abbozzo, insomma, dei nuovi rami e delle foglie. Non vede l’ora di averle, tutte verdi, tenere. (R. Tommaselli)

L’albero si risveglia e sgranchisce i rami a primavera. Ecco apparire qualche gemmetta piccola, gommosa, fatta di tante foglioline serrate disposte come le tegole dei tetti. In ogni gemma, c’è l’abbozzo dei nuovi rami, delle foglie, dei fiori. Ecco le gemme poste sui rami più alti divenire più grosse: hanno cominciato a godere, più delle sorelle, i primi raggi del sole. La vernice vischiosa trasuda dalle squame rosse. Finito il loro compito di impermeabili protettrici del cuore delle gemme, si trasformano, diventano sempre più tenere e verdastre. Incominciano ad allargarsi e lasciano intravvedere selle punte grigiastre: sono i sepali, mani amorose, trepide che difendono i bocci floreali. In seguito si curveranno all’esterno per lasciare liberi i fiori di crescere, distendersi e ricevere tanta luce. In seguito, da altre gemme, si libereranno le nuove foglie, dapprima timide e delicate e poi robuste e vivaci. Dalle gemme apicali, quelle poste sulle punte, spunteranno i nuovi rami che provvederanno a donare all’albero una chioma più abbondante. (A. Martinelli)

 Osserviamo le gemme del castagno: al centro, la bambagia avvolge le sue tenere foglioline; all’esterno una solida corazza di scaglie disposte come le tegole di un tetto, la chiude strettamente. Le parti dell’armatura scagliosa sono incatramate con un mastice che diventa molle, in primavera, per permettere alla gemma di schiudersi. Le scaglie, non più incollate fra loro, si allargano vischiose, e le prime foglie si spiegano al centro della loro culla socchiusa. (H. Fabre)

Il ciliegio fino a ieri era nudo. Cosa sarà accaduto perchè stamattina io abbia visto, invece dell’albero, una nube bianca, fatta tutta di fiori, non saprei dirvi. Mi avvicino al miracolo e vedo che la nube ha fremiti sulla superficie continua dei suoi piccoli fiori aperti, ed ascolto un ronzio di insetti alati che passano rapidamente da un fiore all’altro e mi colpisce il volo di farfalle bianche le cui ali sembrano petali che si siano distaccati dai fiori stessi. L’aria attorno alla nube è più chiara e vibra come uno strumento musicale con melodie di suoni che sono diventate melodie di profumi. (A. Anile)

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Creare libri per i bambini – libretti nella noce – LO SPOSALIZIO DEL TOPO

Creare libri per i bambini: questo libretto nella noce racconta la favola classica “Lo sposalizio del topo”. Per le illustrazioni ho usato la tecnica del collage con carta strappata (non tagliata con le forbici).

Materiale occorrente
due gusci di noce
trapano
filo di cotone
ago
carta bianca
colla a caldo (o da carta o legno)
un assortimento di carta colorata
un assortimento di fili di cotone colorati (vanno benissimo le trecce di filo da rammendo)
per la scatola due fogli di carta riciclata (io ho usato le Pagine Bianche)
per la topolina poca lana cardata grigia, filo rosa, azzurro e grigio, aghetto da feltro

Come si fa

Forate i gusci di noce e rilegateli tra loro aggiungendo i foglietti, come spiegato qui:

Nel guscio che fa da copertina anteriore io ho nascosto un campanellino, prima di chiudere con la prima pagina del libretto:

Ho invece ritagliato l’interno del foglietto che copre il guscio che fa da copertina posteriore del libro:

ho modellato un pezzetto di pannolenci rosso su un guscio di noce (basta tirare seguendo il guscio in tutte le direzioni):

e l’ho incollato:

Ho poi preparato con poca lana cardata grigia una topolina; è molto semplice: per la testa fate un nodino al centro di una faldina di lana e dividete in due parti uguali il ciuffo superiore:

con l’aghetto da feltro modellate le orecchie:

e con la lana che avanza sotto la testa modellate il corpo della topolina, lavorando sempre con l’aghetto da feltro:

aggiungete i baffi:

e la codina rosa; se fate uscire l’ago in corrispondenza del nasino, potete con lo stesso filo della coda ricamare il musetto:

ricamate infine gli occhietti:

e sistemate la topolina nel suo lettino rosso:

Lo sposalizio del topo

Questo è il testo della favola

In una fattoria viveva, molto tempo fa, una famiglia di topi: padre, madre e figlia. I due genitori volevano un gran bene alla figlia, tanto da giudicarla la più bella topolina del mondo, con quel suo morbido pelo bruno, quella codina rosa lunga lunga e quei baffi sottili.

Nella fattoria c’era un altro topo, che viveva nella stalla: era un attraente giovane scapolo, e voleva sposare la bella Signorina Topo. Ma i genitori non lo consideravano un buon partito: volevano che la loro figlia sposasse l’essere più potente del mondo, e perciò dissero al giovane Signor Topo di andarsene.

La Signorina Topo in cuor suo si rattristò molto, perchè si era innamorata del giovane topo della stalla: il manto bruno perdette la sua lucentezza e i baffi sottili cominciarono a pendere in giù.

“Il sole è sicuramente l’essere più potente del mondo” disse Papà Topo, “Spande i suoi raggi sulla terra e fa maturare il grano nei campi. Chiediamo a lui di sposare nostra figlia”.

Così i due genitori si misero in mezzo al campo di grano e chiesero al giallo sole fulgido se voleva in sposa la loro figliola. Quale fu la loro felicità quando il sole accettò! Ma non aveva ancora finito di dire “Sì”, che mamma topo fu colta da un dubbio ed esortò il marito: “Domandagli se è lui l’essere più potente del mondo”.

Papà topo chiese al sole: “Sei davvero tu l’essere più potente del mondo?” “No” rispose il sole “Il nembo tempestoso è più potente di me, perchè quando mi si para davanti ne sono completamente oscurato”.

In quello stesso momento infatti un nembo tempestoso si stese davanti alla faccia del sole, nascondendolo alla vista. “In tal caso sono spiacente, ma non puoi più sposare nostra figlia!” gridò papà topo prima che il sole sparisse.

Poi si rivolse al nembo tempestoso: “Dimmi, nembo tempestoso, sei tu l’essere più potente del mondo?” Il nembo tempestoso gettò uno sguardo corrucciato ai due topi nel campo. “No!” rispose, “Il vento è più potente di me: quando soffia, mi lacera in brandelli, che poi sparpaglia nel cielo”. “In tal caso sono spiacente, ma neanche tu puoi sposare nostra figlia”.

In quel momento il vento cominciò a soffiare e spazzò il cielo lacerando il nembo. “Oh vento”, gridò papà topo “E’ vero che tu sei l’essere più potente del mondo?” “Non io!” sibilò il vento, “Vedi quel grande masso grigio all’angolo del campo? Quello è più potente di me: per quanto soffi, non riesco a smuoverlo.”

Allora i due topi andarono dal grande masso grigio che stava nell’angolo del campo. “Sei tu l’essere più potente del mondo?” chiese papà topo. “No davvero” rispose il masso, “più potente è il toro rosso, che ogni giorno viene ad aguzzarsi le corna su di me, facendo schizzar via schegge di roccia.

“In tal caso sono spiacente,  ma neanche tu puoi sposare nostra figlia”, disse papà topo. E i due topi andarono a trovare il toro rosso, che stava impastoiato nella stalla. “Credo che tu sia l’essere più potente del mondo” disse papà topo “e sono venuto a offrirti in sposa nostra figlia”. “Ti sbagli!” muggì il toro, “Questo collare di corda che m’impastoia è più potente di me”.

“In tal caso sono spiacente, ma neanche tu puoi sposare nostra figlia” disse papà topo, e si rivolse al robusto collare. “Così sei tu  l’essere più potente del mondo!” squittì, “Vuoi sposare nostra figlia?” “Ne sarei molto onorato” rispose il collare di corda, “Ma devo ammettere che c’è un essere ancora più potente di  me, ed è il giovane topo che vive nella stalla. Ogni notte, quando il toro è impastoiato, il topo viene a rodermi coi suoi denti aguzzi: tra poco mi roderà del tutto e io mi spezzerò”.

“Senti, senti, senti!” disse mamma topo. E si guardarono l’un l’altra vergognandosi.

Poi cercarono l’attraente giovane scapolo che viveva nella stalla e gli chiesero di sposare la loro figliola. Il giovane Signor Topo si sentì invadere dallo stupore e naturalmente anche dalla gioia. Quanto alla Signorina Topo, non appena apprese la lieta notizia di essere stata promessa proprio allo sposo da lei scelto in cuor suo, riacquistò tutto il suo splendore: il pelo ridivenne lucido e i baffi si raddrizzarono.

Così  i due giovani topi si sposarono e vissero a lungo felici e contenti.

Questo è il libretto illustrato:

L’idea è di caratterizzare ogni personaggio della favola con una macchia di colore diverso:

mamma e papà topo sono una macchia grigia con due codini rosa

la Signorina Topo è una macchia rosa con un codino lilla

il Signor Topo è una macchia viola con un codino blu

il sole è una macchia gialla

il nembo tempestoso una macchia nera

il vento una macchia celeste

il masso una macchia verde scuro

il toro una macchia rossa

la corda una macchia blu.

Pagina per pagina

In una fattoria viveva, molto tempo fa, una famiglia di topi: padre, madre e figlia. I due genitori volevano un gran bene alla figlia, tanto da giudicarla la più bella topolina del mondo, con quel suo morbido pelo

bruno, quella codina rosa lunga lunga e quei baffi sottili.

Nella fattoria c’era un altro topo, che viveva nella stalla: era un attraente giovane scapolo, e voleva sposare la bella Signorina Topo. Ma i genitori non lo consideravano un buon partito: volevano che la loro figlia sposasse l’essere più potente

del mondo, e perciò dissero al giovane Signor Topo di andarsene. La Signorina Topo in cuor suo si rattristò molto, perchè si era innamorata del giovane topo della stalla: il manto bruno perdette la sua lucentezza e i baffi sottili cominciarono a pendere in giù.

“Il sole è sicuramente l’essere più potente del mondo” disse Papà Topo, “Spande i suoi raggi sulla terra e fa maturare il grano

nei campi. Chiediamo a lui di sposare nostra figlia”. Così i due genitori si misero in mezzo al campo di grano e chiesero al giallo sole fulgido se voleva in sposa la loro figliola. Quale fu la loro felicità quando il sole accettò! Ma non aveva ancora finito di dire “Sì”, che

mamma topo fu colta da un dubbio ed esortò il marito: “Domandagli se è lui l’essere più potente del mondo”. Papà topo chiese al sole:

“Sei davvero tu l’essere più potente del mondo?” “No” rispose il sole “Il nembo tempestoso è più potente di me, perchè quando mi si

para davanti ne sono completamente oscurato”. In quello stesso momento infatti un nembo tempestoso si stese davanti alla faccia del sole, nascondendolo alla vista. “In tal caso sono spiacente, ma non puoi più sposare nostra figlia!” gridò papà topo prima che il sole sparisse. Poi si

rivolse al nembo tempestoso: “Dimmi, nembo tempestoso, sei tu l’essere più potente del mondo?” Il nembo tempestoso gettò uno

sguardo corrucciato ai due topi nel campo. “No!” rispose, “Il vento è più potente di me: quando soffia, mi lacera in brandelli, che poi sparpaglia nel cielo”.

“In tal caso sono spiacente, ma neanche tu puoi sposare nostra figlia”. In quel momento il vento cominciò a soffiare e spazzò il cielo lacerando il nembo.

“Oh vento”, gridò papà topo “E’ vero che tu sei l’essere più potente del mondo?” . “Non io!” sibilò il vento, “Vedi quel grande masso grigio all’angolo del campo? Quello è più potente di me: per quanto soffi, non riesco a smuoverlo.”

Allora i due topi andarono dal grande masso grigio che stava nell’angolo del campo. “Sei tu l’essere più potente

del mondo?” chiese papà topo. “No davvero” rispose il masso, “più potente è il toro rosso, che ogni giorno viene ad aguzzarsi le corna su di me, facendo schizzar via schegge di roccia. “In tal caso sono spiacente,  ma neanche tu puoi sposare nostra

figlia”, disse papà topo. E i due topi andarono a trovare il toro rosso, che stava impastoiato nella stalla. “Credo che tu sia l’essere

 più potente del mondo” disse papà topo “e sono venuto a offrirti in sposa nostra figlia”. “Ti sbagli!” muggì il toro, “Questo collare di corda che m’impastoia è più potente di me”. “In tal caso sono spiacente, ma neanche tu puoi sposare nostra figlia” disse papà

topo, e si rivolse al robusto collare. “Così sei tu  l’essere più potente del mondo!” squittì, “Vuoi sposare nostra figlia?”

“Ne sarei molto onorato” rispose il collare di corda, “Ma devo ammettere che c’è un essere ancora più potente di  me, ed è il giovane topo che vive nella stalla. Ogni notte, quando il toro è impastoiato,

il topo viene a rodermi coi suoi denti aguzzi: tra poco mi roderà del tutto e io mi spezzerò”. “Senti, senti, senti!” disse mamma topo. E si guardarono l’un l’altra vergognandosi.

Poi cercarono l’attraente giovane scapolo che viveva nella stalla

e gli chiesero di sposare la loro figliola.

Il giovane Signor Topo si sentì invadere dallo stupore e naturalmente anche dalla gioia.

Quanto alla Signorina Topo,

non appena apprese la lieta notizia di essere stata promessa proprio allo sposo da lei scelto in cuor suo, riacquistò tutto il suo splendore:

il pelo ridivenne lucido e i baffi si raddrizzarono.

Così  i due giovani topi si sposarono

e vissero a lungo felici e contenti.


Se volete realizzare la scatola origami con coperchio, trovate il tutorial qui:

Copioni per recite – La bambina con la lanterna

Copioni per recite – La bambina con la lanterna: si tratta della mia elaborazione di un testo molto usato nelle scuole Waldorf, adatto ai bambini della scuola d’infanzia e dei primi anni di scuola primaria. E’ indicato come recita natalizia, ma anche per celebrare la stagione invernale.

Copioni per recite – La bambina con la lanterna

Narratore: C’era una volta una bambina che possedeva una piccola chiara lanterna, e la portava sempre con sè lungo la via. Camminava la bambina, ed era sempre contenta…

Coro: Forte e freddo soffia il vento, la lanterna adesso ha spento!

Bambina con la lanterna: Oh, no! Ora chi mi aiuterà a riaccendere la mia bella lanterna?

Narratore: Si guardò attorno… ma non c’era nessuno.

Coro: Si sentono le fronde frusciare, chi sarà mai che sta per arrivare? Chi scivola sotto il castagno? Uno spinoso compagno!

Bambina con la lanterna: Oh, caro amico! Il vento ha spento la mia lanterna, chi accenderà di nuovo il mio lumino?

Riccio: Io proprio non so cosa fare, non è a me che devi domandare. Poi è tardi, non posso restare: dai miei piccoli devo tornare.

Coro: Ma chi borbotta, che non vediamo nessuno? Ah,  ma è l’orso bruno!

Bambina con la lanterna: Ciao caro orso, il vento ha spento la mia lanterna, guarda! Tu sai chi potrà accendere di nuovo il mio lume?

Narratore: scuote l’orso il grosso capo e il lungo pelo

Orso: Io proprio non so cosa fare, non è a me che devi domandare. Sonno ho, a dormire devo andare.

Coro: Chi striscia silenzioso dietro al pino e annusa l’aria con il suo musino?

Volpe: Ma che ci fai nel bosco tutta sola? Vattene, presto, corri a casa, vola! Io sto cacciando, e mi farai scappar la cena, se non la smetti con questa cantilena!

Narratore: La bambina sedette allora su una pietra, e comincio a piangere…

Bambina con la lanterna: Nessuno mi vuole aiutare?

Narratore: Le stelle sentirono il suo pianto…

Stelle: Il caro sole devi interrogare, lui certamente ti saprà aiutare…

Narratore: La bambina si fece nuovamente coraggio e proseguì il suo cammino. Finalmente giunse a una casetta. Dentro sedeva una vecchietta che filava la lana.

Bambina con la lanterna: Conosci la via che conduce al sole? Vorresti venire con me?

Vecchietta: Io la ruota devo dar girare, la lana bianca filare e filare. Ma riposati qui da me almeno un pochino, è ancora molto lungo il tuo cammino.

Narratore: La bambina entrò, e dopo che si fu riposata prese la sua lanterna e proseguì il suo viaggio. Di nuovo giunse ad una casetta. Dentro sedeva un vecchio calzolaio, che batteva il martello sul cuoio che stava lavorando.

Bambina con la lanterna: Buongiorno signor calzolaio, tu conosci la via che conduce al sole? Vorresti venire con me?

Calzolaio: Ho ancora molte scarpe non finite, che aspettano di esser ricucite. Ma riposati un po’ accanto al camino, è ancora molto lungo il tuo cammino.

Narratore: Dopo che si fu riposata, la bambina prese la sua lanterna e proseguì… Finalmente vide in lontananza un’alta montagna, e si mise a correre come un cerbiatto.

Bambina con la lanterna: Lassù di certo abita il sole!

Narratore: Incontrò salendo un bambino che giocava con la sua palla.

Bambina con la lanterna: Vieni con me! Andiamo alla casa del sole!

Narratore: Ma il bambino preferiva giocare con la sua palla, e corse via saltellando sui prati.

Bambino: Io mi diverto a stare qui a giocare, vacci da sola, ho altro da fare!

Narratore: La bambina con la lanterna proseguì così tutta sola, e salì, salì… sempre più in alto sulla montagna. E arrivata alla cima, però, si accorse che il sole non c’era.

Bambina con la lanterna: Lo aspetterò qui. Sono sicura che verrà…

Narratore: Sedette sulla cima della montagna, e siccome era molto stanca dopo aver camminato così a lungo, chiuse gli occhi e si addormentò…

… ma il sole si era accorto della bambina già da molto tempo. E quando calò la sera, prima di scomparire, si chinò sul monte ed accese la piccola lanterna.

Bambina con la lanterna: (si sveglia) La mia lanterna! Splende di nuovo!

Narratore: E con la sua lanterna finalmente accesa, discese il monte. Incontrò di nuovo il bambino, che piangeva…

Bambina con la lanterna: Perchè piangi?

Bambino: Ho perso la mia palla, non riesco più a trovarla!

Bambina con la lanterna: Ti farò luce io…

Bambino: Eccola qua!

Narratore: La bambina corse giù verso la valle, fino alla casa del calzolaio. L’uomo sedeva triste nella sua stanzina…

Calzolaio: Ieri si è spento il fuoco nel camino , non posso lavorare, me tapino! Dita ghiacciate, freddo, ed allo scuro, le scarpe non finisco di sicuro!

Bambina con la lanterna: Riaccenderò io il tuo fuoco!

Narratore: il calzolaio si riscaldò le mani e potè di nuovo martellare e cucire le sue scarpe, mentre la bambina proseguì il suo cammino, e si inoltrò nuovamente nel bosco. Giunse alla capanna della vecchietta, ma nella sua stanzina era buio pesto.

Vacchietta: il mio lume si è spento,  consumato; restano fermi la ruota ed il filato. Da quando il lume ha smesso di brillare, io non ho potuto più filare.

Bambina con la lanterna: Ti accenderò io un nuovo lume!

Narratore: La vecchietta sedette di nuovo al filatoio e si mise felice a far girare la ruota, mentre la bambina si rimise in cammino. Giunse ad un verde prato nel cuore del bosco, e tutti gli animali si svegliarono al chiarore della sua lanterna. La volpe fiutò l’aria col suo musetto e strizzò gli occhi davanti al lume. L’orso bruno si mise a brontolare e si ritirò in un punto ancora più profondo della sua caverna tornando al suo letargo invernale. Il riccio strisciò curioso tra l’erba, e da dietro un cespuglio ammirò lo spettacolo

Riccio: Credevo in vita mia di averne viste tante, ma da dove viene questa lucciola gigante?

Narratore: E la bambina, felice, tornò a casa.


La struttura circolare della trama rende il copione particolarmente adatto ai bambini più piccoli. Oltre che usarla per una recita, la possiamo leggere ai bambini in forma di racconto.


 Racconto

La bambina con la lanterna

 

C’era una volta una bambina che possedeva una piccola chiara lanterna, e la portava sempre con sè lungo la via. Camminava la bambina, ed era sempre contenta… Ma un giorno, mentre si trovava in un bel prato nel cuore del bosco, un vento forte e freddo, e dispettoso, soffiò tanto da spegnerla. La bambina si fece subito triste, ma non perse il suo coraggio.

Si guardò attorno nella speranza di trovare qualcuno che potesse aiutarla, quando sentì un fruscio di foglie sotto ad un castagno. Era un riccio, e subito gli chiese: “Puoi aiutarmi a riaccendere la mia lanterna che il vento ha spento?”. Ma il riccio non poteva fare nulla per lei, ed inoltre doveva correre al più presto nella tana, dai suoi cuccioli.

Il loro chiacchierare svegliò l’orso bruno, che si stava godendo il suo letargo invernale in una profonda caverna lì vicino. Uscì subito fuori brontolando, e anche a lui la bambina provò a chiedere aiuto, ma naturalmente l’orso non poteva fare nulla per lei, ed inoltre aveva sonno e non era per niente contento di essere stato svegliato.

E l’orso non era l’unico a non gradire la presenza della bambina nel prato; poco dopo anche una volpe uscì dal suo nascondiglio, e annusando l’aria si avvicinò alla bambina. Lei chiese aiuto anche alla volpe, ma quella non solo non poteva aiutarla, ma le chiese di andarsene via perchè stava disturbando la sua caccia.

E così la bambina, ancora senza perdere speranza nè coraggio, riprese a camminare inoltrandosi nel bosco. Camminò e camminò, finchè non si sentì davvero molto stanca. Vide una grossa pietra che sembrava proprio una seggiolina, sedette, e una piccola lacrima le scivolò sul viso. Allora le stelle videro quella lacrima e con una voce dolcissima, sussurrando, la consolarono e le dissero: “Cara bambina, vai dal sole… lui ti può aiutare…”

Così il suo viaggio riprese. Nel bosco vide una casetta. Spiò dalla finestrella e vide una vecchietta seduta accanto alla ruota, che filava la lana. La vecchietta fece entrare la bimba, e lei chiese: “Cara vecchina, conosci la strada che conduce al sole? Vorresti venire con me?”. Ma la vecchina non conosceva la strada, e inoltre aveva molto da fare e non poteva proprio accompagnarla. Però le offrì la sua ospitalità, e la bambina potè riposare un po’ nella casetta e ammirare la vecchietta che stava filando un filo di lana lunghissimo e sottile.

Riprese poi il suo viaggio, e giunse ad una valle.  C’era una casetta, e dentro sedeva un vecchio calzolaio che batteva con grande impegno il martello sul cuoio. La bambina chiese anche all’uomo indicazioni per arrivare al sole, ma anche lui rispose che non ne sapeva nulla, e che inoltre non poteva andare con lei perchè aveva molto lavoro da fare. Anche lui offrì alla bambina la sua ospitalità.

Dopo che si fu riposata, la bambina prese la sua lanterna e proseguì… Vide le montagne, e correndo felice come un cerbiatto si diresse verso la più alta, certa che fosse proprio quella la strada per il sole.

Salendo incontrò un bambino che giocava con la sua palla. “Vieni con me! Andiamo alla casa del sole!” disse felice la bambina, ma il bambino preferiva giocare con la sua palla, e corse via.

La bambina con la lanterna proseguì così tutta sola, e salì, salì… sempre più in alto. Arrivata alla vetta, però, si accorse che il sole non c’era. Per nulla scoraggiata, sedette sulla cima della montagna ad aspettarlo, e siccome era davvero molto stanca, presto gli occhi le si chiusero e si addormentò.

La bambina non poteva saperlo, ma il sole era da un po’ che si era accorto di lei e dall’alto la accompagnava nel suo viaggio. Così, quando calò la sera, prima di scomparire, si chinò sul monte ed accese la piccola lanterna.

Potete immaginare la gioia della bambina quando, svegliandosi, vide che la sua lanterna illuminata!

Scendendo incontrò di nuovo il bambino, che piangeva disperato perchè aveva perso la sua palla e non riusciva a ritovarla. “Ti farò luce io!” disse la bambina con la lanterna, e così la palla fu ritrovata.

Giunta a valle vide di nuovo la casa del calzolaio. L’uomo sedeva triste nella sua stanzina, senza fare nulla… Il giorno prima il fuoco del suo camino si era spento, e lui non poteva più lavorare perchè era troppo buio e faceva così freddo che le sue mani erano ghiacciate e non riusciva a muoverle. “Riaccenderò io il tuo fuoco!” disse la bambina con la lanterna. Presto il camino tornò a scaldare e illuminare la casa e il calzolaio potè di nuovo martellare e cucire le sue scarpe, mentre la bambina proseguì il suo cammino.

Si inoltrò nuovamente nel bosco e giunse alla capanna della vecchietta, ma nella sua stanzina era buio pesto. Il suo lume si era consumato e lei aveva dovuto smettere di filare. “Ti accenderò io un nuovo lume!” disse la bambina. Così la vecchietta potè sedere di nuovo al filatoio e si mise felice far girare la ruota.

Intanto la bambina si ritrovò di nuovo nel verde prato nel cuore del bosco, e tutti gli animali si svegliarono al chiarore della sua lanterna. La volpe fiutò l’aria col suo musetto e strizzò gli occhi davanti al lume. L’orso bruno si mise a brontolare e si ritirò in un punto ancora più profondo della sua caverna tornando al suo letargo invernale. Il riccio strisciò curioso tra l’erba, e da dietro un cespuglio ammirò incredulo lo spettacolo pensando: “Ma da dove viene questa lucciola gigante?”

E la bambina con la lanterna, felice, tornò a casa.

Materiale didattico scuola primaria geografia – IL MARE

Materiale didattico scuola primaria geografia – IL MARE – una raccolta di letture e dettati ortografici sul mare, per lo studio degli ambienti naturali in geografia e per perfezionare lettura e ortografia.

Il mare

Le acque dei fiumi raggiungono il mare. Il mare è una grande estensione di acqua salata, di colore verde – azzurro, che circonda le varie regioni della Terra.

La superficie del mare è mossa, di continuo, dal  vento che provoca le onde. Esse sono appena accennate quando il mare è tranquillo, in bonaccia; sono alte e pericolose, crestate di schiuma, quando c’è burrasca.

Il limite tra terra e mare è la costa. Essa si presenta ora alta e rocciosa sulle acque, ora bassa e coperta di sabbia o di ghiaia. Le onde urtano contro le coste, le scavano, le frastagliano in modo bizzarro.

Le coste basse e sabbiose (spiagge) e specialmente quelle alte e rocciose sono molto varie: formano le sporgenze di promontori e di capi e le rientranze di baie e di golfi.

Ci sono terre che si allungano per molti chilometri nel mare; si chiamano penisole. L’Italia è una grande penisola estesa nel mar Mediterraneo. Completamente circondate dal mare ci sono terre di estensione talvolta notevole: si chiamano isole. La Sicilia e la Sardegna sono grandi isole italiane.

I mari, che occupano gran parte della Terra, producono con la loro evaporazione l’umidità necessaria per le piogge; quindi i mari sono anche regolatori della temperatura. Nella buona stagione, le acque marine si riscaldano e conservano questo calore. Quando giunge l’inverno, esse lo cedono a poco a poco all’aria e la intiepidiscono. Durante l’estate, le acque marine sono fresche e donano all’aria un po’ della loro frescura. Le terre presso il mare hanno così inverni ed estati miti.

Chi si è divertito tra le onde si è sicuramente accorto che l’acqua del mare ha un sapore sgradevole. Ciò è causato dalle grandi quantità di sali trasportate dalle acque dei fiumi e depositate nel mare, le quali si concentrano per la forte evaporazione. Il sale è un elemento indispensabile per la vita dell’uomo: egli non potrebbe nutrirsi solo di cibi dolci, perciò l’uomo ricava il sale facendo evaporare l’acqua marina nelle vasche delle saline.

Il mare è popolato da una quantità enorme di pesci grossi e piccoli. Gli uomini si sono sempre nutriti di pesce, ed oggi hanno vere e proprie flotte di pescherecci capaci di affrontare l’alto mare e di preparare e conservare il pesce appena catturato.

Gli uomini, fin dall’antichità, hanno saputo dominare e solcare il mare con imbarcazioni sempre più veloci e sicure; oggi il mare è una via di comunicazione facile ed economica.

Le navi che solcano i mari hanno, lungo le coste, le loro stazioni: i porti. Nei porti esse sostano per caricare e scaricare merci, per imbarcare e sbarcare passeggeri.

L’uomo dell’antichità trovò, sulla sponda, luoghi adatti per riparare le navi dai venti e dalle onde: erano insenature profonde, protette da coste alte, i primi porti naturali. Ritroviamo, oggi, lungo le coste e alle foci dei fiumi, porti costruiti dall’uomo; essi sono bordati e difesi da lunghe muraglie di cemento o di pietra: i moli.

Oh, com’è grande e bello il mare! Quando è tranquillo sembra un’immensa distesa azzurra con tante bianche vele, immobili, come in attesa del messaggio di un angelo. Nelle giornate più chiare il mare si confonde col cielo e le onde mansuete, come piccoli agnelli, baciano la sponda. Ma guai se il vento si mette a soffiare! Allora il mare sembra un mosto scatenato. Che paura!

Doni del mare

Il sole è scivolato dalle nubi di fiamma fino al mare. A poco a poco scende la sera buia. Nel cielo brillano le stelle e la luna tonda tonda. I pescatori ritirano le reti che hanno lasciato cadere nell’acqua scintillante. Quanti pesci nella rete! Il pescatore è contento e, mentre ritorna, pensa al suo bimbo che può dormire tranquillo: il mare ha pensato anche a lui.

Al mare

Come è grande il mare! Così grande che, a vederlo laggiù, sulla riga dell’orizzonte, pare che non debba avere fine. Come è mutevole l’aspetto del mare! Ora, a cielo sereno e ad aria ferma, ci appare liscio come una tesa coltre di seta azzurra, se si leva una leggera brezza s’increspa appena; giocano a rincorrersi piccole onde irrequiete. Lasciate però che si levi forte il vento, che si faccia impetuoso e che il cielo prometta burrasca: ecco che le onde si fanno più alte, diventano cavalloni, si coronano di creste schiumose, vengono a frangersi con forza contro la riva, gettando nell’aria, tra gli alti spruzzi, il loro fragore. Allora il mare fa paura. Quando il mare si calma e ritorna sereno, non si sa più dove siano le furie della tempesta.

Civiltà del Mediterraneo

Mare Mediterraneo vuol dire “mare chiuso tra le terre”. Esso è circondato dalle coste dell’Europa, dell’Asia e dell’Africa. E’ un mare che non conosce le grandi tempeste ed i venti furiosi; i navigatori vi si possono avventurare in lunghi viaggi senza perdere di vista la costa. Proprio sulle sue sponde nacquero alcune tra le più grandi civiltà. Questo mare costituì la via rapida per il commercio e per le conquiste.

Quando gran parte degli uomini viveva ancora in capanne ed affilava armi e strumenti di pietra, Gli Egiziani in Africa, i Fenici, gli Assiro-Babilonesi e gli Ebrei in Asia e i Greci in Europa erano forti, ricchi, organizzati. Foggiavano con arte i metalli; costruivano navi sicure e palazzi meravigliosi; scrivevano, dipingevano, scolpivano con gusto raffinato.

L’acqua sulla Terra

Se osservassimo il nostro pianeta stando su un altro corpo celeste, vedremmo un globo ricoperto per la maggior parte di acqua e senza dubbio verrebbe da dargli il nome di Mare e non di Terra. La Terra è infatti il pianeta delle acque: su 510 milioni di chilometri quadrati della sua superficie totale, quasi i tre quarti sono occupati dai mari e solo per 149 milioni si estendono terre. Nessun altro mondo, fra quelli osservati dagli scienziati finora, possiede una distesa d’acqua e in tutto l’Universo l’acqua, allo stato liquido, costituisce una vera rarità.

Le vie del mare

Il mare, così vario, non impedisce le comunicazioni tra i vari paesi. Immagina che sul mare siano tracciate centinaia di grandi strade che portano in ogni parte del mondo: sono le rotte, cioè i percorsi seguiti dalle navi. Sul mare si svolge un continuo traffico di merci e di passeggeri: i punti di partenza e di arrivo sono i porti.

All’ingresso dei porti c’è il faro; una torre sulla cui cima è posta una luce potentissima, che si scorge dal mare anche da lontano e serve di indicazione alle navi.

Il porto è generalmente protetto da un molo, che lo ripara dalla violenza delle onde. I grandi porti hanno più moli, i quali servono anche come banchine per l’attracco delle navi.

Sulla riva sorgono le attrezzature portuali: gru per il carico e lo scarico, magazzini di deposito per le merci. Vi sono anche gli uffici della Dogana, dove si controllano i passaporti dei viaggiatori che partono o arrivano da Paesi stranieri e si esaminano i bagagli e le merci.

Il porto

Il porto è la stazione delle navi che, cariche di uomini, di merci,  di petrolio, arrivano e salpano per tutte le parti del mondo. E’ una vasta estensione d’acqua separata dal mare aperto per mezzo di lunghissime dighe chiamate moli, costruite dagli uomini per impedire che le onde del mare in tempesta portino danno alle imbarcazioni ferme.

Nel porto le navi riposano tranquille una accanto all’altra, attraccate ai piloni piantati nei ponti di approdo.

Gli sportivi del mare

Con poderose bracciate, il nuotatore avanza sicuro, muovendo ritmicamente il capo fasciato dalla lucida cuffia di gomma. Il nuoto è uno degli sport più antichi e più completi, perchè permette di tenere in esercizio tutti i muscoli del corpo. Perfino nell’antica Roma, per indicare una persona da poco, si diceva “non imparò nè a leggere nè a nuotare”.

Munito di  maschera respiratoria, di pinne palmate ai piedi, il cacciatore subacqueo scende nelle profondità marine. E’ armato di uno speciale fucile che lancia una lunga e appuntita freccia, alla quale è agganciata la sottile gomena che serve per il recupero dei pesci colpiti. A questo sport si dedicano specialmente abili e coraggiosi nuotatori.

In fondo al mare

Forse voi credete che il fondo del mare sia formato soltanto da sassolini o da sabbia o da rocce. Invece gli abissi marini presentano gli aspetti più vari.

Scendendo in fondo al mare si scoprono alberi strani di rosso corallo e alghe multicolori che disegnano fantastici arabeschi. Si incontrano animaletti che sembrano fiori e pesci simili a farfalle.

La nostra vista è attirata da agili e trasparenti meduse o da spugne enormi fisse alle rocce del fondo.

Più scendiamo e più animali e piante diventano strani per forma e colore. A migliaia di metri di profondità troveremmo un mondo di tenebre e di freddo. Qui abitano esseri mostruosi e voraci che certamente ci incuterebbero grande spavento.

I prodotti del mare

Il pesce è certo, con il sale, il più importante dono del mare. Tutti conoscono il gusto prelibato delle sogliole e delle orate.

A volte i pescherecci si spingono fuori dal Mediterraneo per affrontare l’oceano ove la preda è abbondante e preziosa. Stoccafissi e baccalà sono appunto i merluzzi catturati in mari lontani. I primi vengono conservati facendoli essiccare, i secondi mediante un processo di salatura.

Celebri in Sicilia e in Sardegna sono la pesca del tonno e del pesce spada, e la raccolta delle spugne.

Tipica è la coltivazione di certi molluschi marini, come i mitili, e diffusa è la raccolta di altri frutti di mare, come i tartufi, le ostriche, le arselle e i datteri.

Sale e salgemma

La maggior parte del sale terrestre è contenuta nel mare e negli oceani. Milioni di anni fa le acque di molti golfi marini rimasti separati dal mare e quelle di laghi salati evaporarono e il sale si depositò sul fondo in colossali ammassi. Questi strati di sale furono, poi, ricoperti da sedimenti impermeabili trasportati dai fiumi e rimasero sepolti a varie profondità. Questo sale si chiama salgemma e viene scavato come un minerale nei giacimenti.

Le saline

Il mare è una miniera inesauribile di sale, un minerale prezioso che l’uomo estrae dalle saline. Esse sono grandi vasche, poco profonde, con il fondo di cemento, costruite sui tratti di costa pianeggiante. Per mezzo di un canale di immissione, che comunica con il mare, vengono riempite di acqua marina che, per il calore del sole, evapora, depositando uno strato di sale.

Pescatori al lavoro

Laggiù, in alto mare, nel buio della notte, appaiono all’orizzonte lunghe file di luci: sono le lampare. Le hanno accese i pescatori che al tramonto sono usciti dai porti con le loro barche da pesca e hanno gettato in mare le reti. La luce di quelle lampade è forte, accecante. Attrae i pesci curiosi e li abbaglia. Quando essi si accorgeranno dell’insidia tesa dagli uomini sarà ormai troppo tardi: saranno già prigionieri della rete.

Prima dell’alba i pescatori prendono la via del ritorno; se la pesca è stata buona scaricano sulla banchina del porto cassette piene di pesci d’ogni sorta: cefali, sardine, triglie, sogliole, aguglie, e un’infinità di granchietti incappati nella rete, che cercano ora di ributtarsi in acqua correndo.

La marea

Chi abita sulla costa conosce lo strano fenomeno della marea. Durante le ore di una giornata l’acqua non conserva sempre lo stesso livello: vi sono periodi di bassa e periodi di alta marea.

In Italia la differenza tra i due livelli è trascurabile. Ma vi sono coste dove si raggiungono vari metri di dislivello. Questo fenomeno è dovuto all’attrazione esercitata dalla Luna sulle acque del globo terrestre.

Il mare distrugge e costruisce

Quando un’onda infuriata si abbatte su uno scoglio, questo riceve un colpo da gigante. Lo scoglio resiste, anzi sembra che neppure lo avverta. Ma col passare dei secoli, le onde vincono: formano grotte e archi meravigliosi. Poi lo stesso scoglio viene staccato dalla costa e infine distrutto. Ma il mare restituisce tutto. Dopo aver sbriciolato e spezzato le rocce, le rende alla costa sotto forma di ghiaia e di sabbia. Così nasce una spiaggia.

Come nascono le isole

Ci sono isole sorte dal mare, proprio come funghi. Si tratta di vulcani che hanno trovato il loro sfogo nel fondo marino. La lava, accumulandosi rapidamente, giunge un bel giorno alla superficie formando, talora in pochi giorni, isolotti di forma conica.

Certe isole vicino alla costa, invece, erano un tempo saldate ad essa. Poi, a causa di un lento sprofondamento del suolo, se ne sono distaccate. Talora questo distacco avviene in seguito all’inesorabile lavoro di lima del mare.

I guardiani del faro

Il faro è una torre di pietra che, all’ultimo piano, ha una lampada molto luminosa che guida nella notte i naviganti. Di notte, le strade del mare sono buie; le navi, perciò, non possono vedere gli scogli o il porto. Il faro, con la sua luce amica, sembra dire: “Attenzione!”, oppure: “Vieni, qui c’è la casa che ti aspetta!”.

I fari sono sparsi un po’ da per tutto sulle coste, ma i più interessanti sono quelli sperduti su qualche scoglio, in mezzo al mare tempestoso. Ogni faro aveva due guardiani, che pensavano ad accendere la lampada e, di notte, a turno, facevano la veglia. Ogni settimana, e talvolta ogni mese, arrivava una nave che li riforniva di viveri.

Al mare

E’ tanto bello tuffarsi nell’acqua tiepida e salmastra, oppure restare sdraiati sulla sabbia calda ad ammirare l’immensa distesa azzurra, che si stende lontano, fino a confondersi col cielo.

Quando c’è bonaccia le onde increspano appena la superficie tranquilla. Ma basta che soffi il vento perchè i flutti si mutino in cavalloni bianchi di spuma che si avventano mugghiando contro la spiaggia, gli scogli, le insenature della costa. Allora è pericoloso avventurarsi in mare e anche i pescatori sono costretti a interrompere il lavoro.

Il mare

Guardiamo il mare: un’onda incalza l’altra e questa è incalzata da mille, e tutte, ad una ad una, con eguale misura, con monotona cadenza, giungono al lido, vi strisciano, coprendolo di spuma e si perdono sotto le onde che seguono. Davanti al mare l’uomo si sente prendere da un sentimento grande come il mare. E’ il sentimento di stupore e meraviglia che ci invade ogni volta che la natura ci presenta quanto ha di più grande nel cielo o sulla terra. (A. Stoppani)

Il bimbo e il mare

Giocavano così lui e il mare, soli soli. Il mare a lambirgli i piedi, e il bambino scalzo, a non farseli bagnare. E ridevano. Se il mare avanzava il bambino indietreggiava, se il mare indietreggiava il bambino avanzava. Finchè il mare, cingendogli di schiuma le gambette, era riuscito ad attirarlo a sè, e il bambino prese a saltare fra gli schizzi. E giù calci. (F. Tombari)

Le conchiglie

Le conchiglie che trovi sulla spiaggia sono le case di molluschi che vivevano nel mare, presso le coste, e che un giorno ebbero la disgrazia di essere colti di sorpresa e divorati dai loro nemici. Moltissimi animaletti marini, senza scheletro e dotati di un corpo molle, hanno imparato a fabbricarsi un guscio duro per proteggersi, utilizzando la sostanza calcarea che si trova disciolta nell’acqua. Alcuni se ne costruiscono come la chiocciola terrestre, altri preparano la loro casetta formando una cavità con due valve a forma di ventaglio, attaccate tra loro nel lato più breve, che si aprono quando il mollusco deve mangiare, mentre si chiudono di scatto non appena si presenta qualche pericolo.

Il sale

Questo prezioso minerale entra in tutti i cibi dell’uomo, persino nei dolci. Una minestra, una bistecca, una qualsiasi vivanda senza sale, non potresti gustarla. Peggio, anzi: ti ripugnerebbe.

Poi il sale è necessario al nostro organismo, come l’acqua, lo zucchero e altre sostanze.

Fortunatamente il mare è straricco di sale. Ne contiene tanto che, se l’acqua evaporasse, potremmo, col sale rimasto in secco, ricoprire completamente tutta la terra con uno strato alto dieci centimetri.

Il sale del mare ci fa conoscere l’età della Terra

In principio, i mari non erano salati. Come i nostri fiumi e i nostri torrenti d’adesso, anche gli oceani di quel tempo così lontano erano formati di acque dolci, cioè delle acque che il cielo aveva versato sotto forma di immense piogge. Chi ha recato al mare tutta la grande ricchezza di sale che ora contiene?

I torrenti e i fiumi, che dalle catene dei monti scendono al piano, scorrendo sulle rocce e portando con sè tutti i materiali che possono sciogliersi nelle acque o da queste essere strappati con la forza del corso.

Certo, si tratta di minime quantità, tanto che noi troviamo dolci, cioè prive di sale, le acque dei torrenti e dei fiumi. Ma in tanto lungo periodo d’anni, il poco accumulandosi è diventato il molto ed ha costituito la forte riserva salina dei mari.

Ora gli scienziati hanno fatto un calcolo. Hanno stabilito quanto sale si trova disciolto nelle acque di tutti gli oceani esistenti. Poi hanno calcolato quanto sale portano in un anno al mare tutti i corsi d’acqua, grandi e piccoli, che scorrono sulla Terra. Dividendo il primo numero per il secondo, si viene a conoscere da quanti anni dura questo continuo dono di sale che le acque viaggianti sopra il suolo portano alle infinite distese marine.

Quanti anni? Tanti, tanti: nientemeno che cento milioni. Un milione di secoli, dunque, è lontano da noi quel periodo in cui dalla nera fascia di nubi che circondava la Terra è sgorgato il grande flutto d’acqua che ha formato gli oceani.

Queste cifre sono molto approssimative. Nessuno viveva in quel tempo, nessuno ha potuto raccontare quello che allora è avvenuto.

I guardiani del faro

 Il faro è una torre di pietra, che, all’ultimo piano, ha una lanterna molto luminosa che guida nella notte i naviganti. Di notte, le strade del mare sono buie; le navi, perciò, non possono vedere gli scogli o il porto. Il faro, con la sua luce amica, sembra dire: “Attenzione!” oppure “Vieni, qui c’è la casa che ti aspetta!”.

I fari sono sparsi un  po’ da per tutto sulle coste, ma i più interessanti sono quelli sperduti su qualche scoglio, in mezzo al mare tempestoso. Ogni faro ha due guardiani. Essi pensano ad accendere la lanterna e, di notte, a turno, fanno la veglia. Ogni settimana, e talvolta ogni mese, arriva una nave che li rifornisce di viveri.

Il mare e Aki – leggenda finlandese

Il mare, quando nacque, era placido e gaio. Cantava, accarezzava le terre che gli stavano vicine, voleva che le onde fossero educate, le mandava a passeggio con un leggiadro cappuccio di pizzo bianco e, prima che uscissero dalla verde casa di vetro, diceva loro: – Mi raccomando, niente chiasso per la strada, nessun gesto scomposto. –

Milker, il padrone del mondo, condusse nella casa di vetro una donna bellissima, Aki, e disse al Mare: – Ecco tua moglie -.

Il Mare sulle prime fu contento. Gli piaceva avere una compagna che lo aiutasse a tenere la disciplina tra le onde e tra i pesci e che, nelle ore di riposo, gli raccontasse qualche storia bella e strana. Ma si accorse subito che Aki era bisbetica. Pretendeva che, nel liquido regno, tutti, dalle meduse pallide ai salmoni di roseo argentato, assecondassero tutti i capricci più pazzi che le passavano per la testa.

Investiva il marito con parolacce volgari,  dava calci alle piccole onde  e canzonava le balene, tirando fuori due metri di lingua.

Il mare, carattere dolce e animo generoso, sopportò, per un poco, l’arpia. Ma anche lui, poveraccio, aveva il suo orgoglio, o almeno il suo amor proprio.

Visto che Aki non si placava con la dolcezza, cambiò sistema e adotto misure severissime. Scoppiarono scenate d’inferno. Urlava la moglie, urlava il marito, e le onde, pazze di terrore, cercarono inutilmente di fuggirsene dalla liquida loro patria, di raggiungere l’alto paese degli astri, arrampicandosi l’una sull’altra, facendo balzi paurosi, chiedendo soccorso, ma invano, allo zio Vento e alla nonna Pioggia.

Si scatenarono così le prime terribili tempeste. La maschia volontà del Mare trionfava sulla sciocca petulanza della donna e per un poco nella casa di vetro, nella gran patria oceanica, ritornava la calma. Le onde, con le leggiadre cuffie di pizzo, andavano, gentiline e gaie, a passeggio. Il Mare accarezzava con dolcezza le rive amiche, cantando qualche canzone patetica, e i pesci ricominciavano i giochi, guizzando lieti, dai giardini delle alghe alle selve dei coralli. Ma la gran pace, la pace perfetta della sua giovinezza, babbo Mare, per colpa della moglie bisbetica, non potè più goderla.

Da quel tempo, nell’oceano, ai periodi di bonaccia si alternano i periodi di tempesta, e chi tenta sulle navi le avventure dei lunghi viaggi, conosce il carattere collerico della terribile Aki.

E le vittime innocenti delle bufere, scatenate dai capricci della volubile Aki, non si contano più.

Una famiglia di marinai

Un tale si imbatte, sulla banchina di un porto, in un marinaio e gli domanda, tra una boccata e l’altra  di funo, se ha dei marinai tra i suoi ascendenti (genitori, nonni, ecc…).

Il marinaio risponde che in casa sua sono stati marinai di padre in figlio. E allora l’altro gli domanda in che modo morì suo padre.

– In mare, naufrago –

– E vostro nonno? –

– Anch’egli in mare –

– E il bisnonno? –

– Signor sì, anche lui in mare –

– E allora, come mai voi che sapete questo vi ostinate ad andare in mare? –

– Ecco; ora ve lo spiego, ma prima voglio anch’io rivolgervi una domanda. Come morì vostro padre? –

– Oh, a letto, circondato dalla sua famiglia –

– E vostro nonno? –

– Egli pure nel suo letto –

– E il bisnonno? –

– Per quanto mi fu detto, perchè io non lo conobbi, anch’egli morì nel suo letto. –

– E allora, signore, come mai ve ne andate a letto? Mi pare che vuoi siate molto più imprudente di me -. (Jack La Bolina)

Materiale didattico scuola primaria geografia – IL MARE tutte le opere contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.

Le stelle marine carte delle nomenclature Montessori

Le stelle marine

Le stelle marine – materiale didattico e curiosità sulle stelle marine, un racconto adatto anche ai bambini più piccoli, e le carte delle nomenclature, utili dopo la presentazione della linea del tempo per la comparsa dei viventi 

( seconda lezione cosmica montessoriana)

e per la Biologia, pronte per il download e la stampa… 

pdf qui:

Le stelle marine sono tra gli organismi acquatici più conosciuti. Il loro aspetto così caratteristico, la loro simmetria, il numero e la disposizione dei loro organi sono legati in modo indissolubile al numero cinque, come del resto avviene in tutti gli echinodermi.

Il rispetto di questa regola ha avuto come conseguenza la trasformazione di certi esemplari in perfetti pentagoni, e spiega come mai le più comune stelle marine abbiano cinque braccia o almeno cinque punte. Ma ogni regola ha le sue eccezioni, e così, viaggiando di stella in stella, è possibile imbattersi in specie con quattro braccia (come la Culcita tetragona) o dodici , come la stella sole europea. Altre ne posseggono 15, 20, 25, fino ad arrivare alle 45 e più della stella antartica (Labidiaster annalatus); inoltre esistono stelle marine che si presentano con un numero di braccia diverso da esemplare ad esemplare, come avviene per la stella rossa del Mediterraneo (Echinaster sepositus) che può avere da cinque a sette braccia.

Nelle stelle marine non è possibile distinguere una destra e una sinistra, ma è possibile riconoscere un lato ventrale e un lato dorsale, che vengono chiamati lato orale e lato aborale. Lungo le braccia, in posizione ventrale, troviamo infiniti pedicelli simili a ventose che permettono alle stelle marine di camminare  e di aprire i molluschi bivalvi di cui si nutre. Un numero così elevato di pedicelli sembrerebbe poco adatto a movimenti rapidi, e infatti la maggior parte delle stelle marine ha abitudini sedentarie: alcune si muovono di non più di dieci metri in un anno, ma ci sono anche specie che raggiungono l’incredibile velocità di due metri al minuto.

Sempre dal lato ventrale, al centro del disco da cui si dipartono le braccia si trova la bocca: una stretta fessura da cui al momento del pasto viene estroflesso lo stomaco.

Il lato rivolto verso l’alto appare più uniforme, anche se sotto la sottile epidermide sono spesso visibili le placche calcaree che formano lo scheletro delle stelle marine (asteroidei). Questo scheletro è molto flessibile, perchè i tessuti che lo circondano possono essere contratti e rilasciati. Questo sistema è molto vantaggioso per le stelle marine perchè da un lato possono irrigidirsi in caso di necessità o di pericolo, e dall’altro possono deformare ed adattare il loro corpo alle irregolarità del terreno e rivoltarsi quando si rovesciano accidentalmente. Questo genere di incidente è molto comune tra le stelle marine, e sono frequenti anche le cadute: basta un’onda un po’ più impetuosa per perdere l’appiglio e ritrovarsi “a pancia in su”.

Le diverse specie hanno messo a punto tecniche diverse per rimettersi in posizione. Alcune piegano tutte le braccia verso l’altro, assumendo l’aspetto di un tulipano; in questo modo riescono a spostare il baricentro di quel tanto che serve a perdere l’equilibrio e portare una o più braccia vicino al fondale: i pedicelli allora fanno presa sul terreno e l’animale passo a passo riprende la sua posizione normale. Altre specie usano la tecnica del “tulipano rovesciato”, cioè si sollevano sulle punte delle braccia per poi ricadere su un fianco e quindi compiere le manovre spiegate prima.  Ci sono anche stelle in grado di ruotare le braccia di 180 gradi, in modo da riportare i pedicelli a contatto col terreno; una volta che si sono assicurate l’appoggio di almeno due braccia, queste stelle scivolano sotto se stesse fino a girarsi completamente. Alcune stelle impiegano per rigirarsi meno di un minuto, mentre altre possono aver bisogno di parecchie ore per riacquistare la loro posizione normale.

Ogni braccio della stella marina non è soltanto un organo locomotore, ma anche un efficiente organo di senso, capace di riconoscere il cibo al tatto e di captare la più sottile traccia odorosa lasciata da una preda. E più braccia ci sono, maggiore è la superficie che può essere esplorata.

Alimenti preferiti delle stelle marine sono i molluschi bivalvi, come mitili, telline, vongole, ecc…, con una predilezione per le ostriche. Gli allevatori di ostriche, per i quali gli asteroidei sono da sempre un vero flagello, erano convinti che le stelle marine avessero la diabolica capacità di sorprendere i loro pregiati molluschi e di essere addirittura capaci di ipnotizzarli, ma questo è impossibile perchè anche se è vero che le stelle marine hanno degli occhi molto rudimentali posti sulla punta delle braccia, che si presentano come macchioline di colore rosso vivo, le ostriche sono completamente cieche.

In realtà le stelle marine si procurano il pasto ricorrendo ad una tecnica molto faticosa e per nulla misteriosa. Una volta individuata la preda, la stella la avvolge con le sue braccia facendo aderire i pedicelli alle valve chiuse, che cominciano ad essere sottoposte ad una forza  di trazione che raggiunge anche i 4 chili. Con questa tecnica una comune stella rossa riesce ad aprire e mangiare una vongola in poco meno di 30 minuti; il termine “aprire” però non è del tutto esatto: alla stella infatti non serve divaricare di molto le valve del mollusco, ma bastano pochi millimetri perchè il suo stomaco estroflesso venga fatto scivolare all’interno della conchiglia e cominci a digerire la saporita polpa del mollusco.

Il processo di digestione richiede otto ore, ma alcune specie hanno una digestione che può durare anche quindici giorni.

Ci sono anche stelle marine che si accontentano di succhiare i polipi dei coralli o di filtrare il plancton, ed altre ancora che inghiottono il cibo con la bocca: alcune sono in grado di mangiare i ricci di mare interi senza preoccuparsi delle spine, e in alcuni casi la preda ingerita intera forma una protuberanza visibile attraverso l’epidermide, e può anche succedere che qualche pasto possa risultare fatale alla stella, che finisce con l’essere perforata da cibi troppo appuntiti.

Tra i nemici naturali delle stelle marine c’è il tritone di mare. E meno male, altrimenti le stelle marine rischierebbero di diventare infestanti, anche grazie alla loro straordinaria capacità rigenerativa. Se una stella perde un braccio o si rompe a metà, non c’è da preoccuparsi: dopo qualche tempo avrete di fronte a voi una stella identica all’originale,  e forse anche più di una, visto che questo sistema viene usato, da alcune specie, per riprodursi.

Anche se la riproduzione può avvenire in questo modo, normalmente avviene con l’incontro tra uova e spermatozoi che femmine e maschi emettono contemporaneamente, per far sì che la fecondazione abbia la massima possibilità di successo.  Ci sono però specie che depongono le uova in luoghi riparati sotto le pietre, e altre che addirittura covano le uova ospitandole in cavità particolari del loro corpo, o anche del proprio stomaco, rimanendo nascoste fino alla schiusa e portando poi i cuccioli appena nati con sè per un certo periodo di tempo.

L’autotomia, cioè l’amputazione volontaria di un arto (come accade ad esempio per la coda della lucertola), può essere provocata da una forte eccitazione, da una ferita, dall’esposizione all’aria (molte stelle portate in superficie perdono in breve le braccia), o dalla necessità di sfuggire a un assalitore. La rottura avviene in un punto preciso, detto di minima resistenza, e comporta la fuoriuscita di parte degli organi interni e dei liquidi organici che viene subito arrestata dalla rapida chiusura dei lembi della ferita.

La stella, inchiodato al substrato con i pedicelli l’arto di cui si vuole separare, si muove in direzione opposta fino a quando l’arto si stacca. Può sembrare orribile, ma non dimentichiamo che per l’animale spesso significa la salvezza. La ricostruzione del braccio mancante inizia dopo pochi giorni, in alcune specie dopo sei – sette settimane. La prima parte che viene ricostruita è la punta dell’arto, con le cellule visive, cui fanno seguito i primi pedicelli.

Internamente le parti mancanti si formano a partire dai residui degli organi strappati; così l’apparato digerente ricostruirà se stesso e l’apparato acquifero non sarà da meno. In questo modo, piano piano, (può occorrere più di un anno perchè un arto raggiunga le dimensioni originarie) il nuovo braccio germoglierà esattamente come accade tra le piante.

Si conoscono circa 1600 specie diverse di stella marina, suddivise in 300 generi, sparpagliate in tutti i mari e in tutti gli oceani, dalle acque fredde dell’Artide e dell’Antartide a quelle calde dei mari tropicali. Esistono anche stelle marine che vivono a grande profondità (anche 7000 metri), ed anche se le condizioni che si trovano in questo ambiente richiedono particolari adattamenti, queste stelle marine non cambiano di molto nel loro aspetto in cui compare sempre la simmetria e il numero cinque.


RACCONTO

Quando le stelle caddero dal cielo

All’inizio dei tempi, quando non tutto era come adesso, le stelle marine non esistevano. Esistevano soltanto delle piccole stelle in cielo, ma molto vicine alla terra.

Tutti sanno che con il sorgere dell’alba gli astri scompaiono e si ritirano nei loro appartamenti, ma una mattina le piccole stelline, abbagliate da un sole più radioso del solito, si sbagliarono e finirono in mare.

Il mare era quel giorno blu come il cielo dei giorni più belli: qui le stelline incontrarono un re buonissimo, Nettuno, re del mare appunto che, accettando la loro supplica le trasformò in esseri viventi.

Da allora si chiamano stelle marine, perchè rappresentano l’immenso cielo nel grande mare.


Fonte consultata: rivista AQVA numero 46 – maggio 1990

Racconti e recite sulla Preistoria per la scuola primaria

Racconti e recite sulla Preistoria per la scuola primaria: una raccolta di racconti, dialoghi e piccole recite sulla Preistoria, di autori vari, per la scuola primaria.

Racconti e recite sulla Preistoria per la scuola primaria
Dialogo

– E’ permesso? Posso entrare? Sono venuto ad ammirare le tue nuove armi. Desidero molto vederle?-

– Entra, entra pure! Ti farò vedere anche alcuni monili che ho perfezionato ieri! Intanto, vedi questo? E’ un pugnale di ferro, ti piace?-

– Oh, com’è appuntito! Questa sì che è un’arma!-

– Non siamo più nell’età della pietra, mio caro! Con la scoperta dei metalli, è finita! –

– Osserva, ti prego, queste frecce con la punta di ferro.

– Come sono acuminate! E questi monili sono di rame? –

-No, sono di bronzo. Ho impiegato un po’ di tempo a fondere insieme rame e stagno. Ma guarda, che bel lavoro ho fatto! –

-Sei bravo davvero! Ti ringrazio di avermi mostrato i tuoi lavoretti e ti attendo presto a vedere l’imbarcazione che ho costruito. E’ molto più comoda e più solida di quella che avevo prima. –


Racconti e recite sulla Preistoria per la scuola primaria
Il primo amore per gli animali

Al tempo dei tempi, quando gli uomini abitavano le caverne e si vestivano di pelli, un uomo, Grog, ebbe l’idea geniale di scavare il primo trabocchetto per gli animali.

Che barriti lanciava il grosso mammut quando vi cadeva dentro! Come grugniva il cinghiale! Grog, tutto contento, accorreva al trabocchetto con gli altri uomini della tribù, e tutti insieme, servendosi di sassi, di pali appuntiti e di accette di pietra, uccidevano la bestia.

Grog aveva un bambino e una bambina. Un giorno i due fratelli ebbero l’idea di fare come il babbo. Dove la terra era più tenera, scavarono una buca coprendola di rami e frasche. La mattina dopo vi trovarono una pecorella che belava pietosamente. Anche le pecore, si intende, erano allora animali selvaggi. Tutti e due si dettero a raccogliere pietre per ucciderla, ma quando il bambino fu pronto per scagliarle, la sorella gli fermò il braccio: “Sarek, fermati!”, gli gridò.

“Che c’è, Mughi?” chiese il bambino.

Mughi fissò la pecora che chiedeva pietà. “Non voglio ucciderla!” gridò, e con un salto si calò nel trabocchetto, andando a finire accanto alla pecorella.

Sarek, a salti, come un cerbiatto, tornò alla caverna dai suoi genitori.

“Papà!” disse Sarek, “Mughi ed io abbiamo preso in trappola un animale bianco, ma Mughi non vuole ucciderlo!”

Il padre si alzò. “Andiamo”, disse a Sarek.

Quando padre e figlio giunsero al luogo del trabocchetto, non vi trovarono più nessuno. Ma, più in là, lungo un ruscello, Mughi stava accarezzando la pecorella. All’arrivo dell’uomo, l’animale fece un balzo e tentò di fuggire, ma Mughi lo calmò accarezzandolo.

“Papà”, disse Sarek, “ecco l’animale che Mughi non vuole uccidere”.

L’uomo osservò con meraviglia la pecorella che si lasciava accarezzare. Allora, dentro di sè, fece questa riflessione: “Se esistono degli animali che si lasciano ammansire dalle carezze, perchè non catturarli ed allevarli? Così a nessun uomo mancherà mai più il cibo, neppure nei periodi più tristi dell’inverno, quando la neve  rende pericolosa la caccia”.

Grog, allora, suscitando la sorpresa di suo figlio, gridò: “Non  si deve uccidere un animale così buono!”

R. Botticelli

Racconti e recite sulla Preistoria per la scuola primaria
Come il cane divenne domestico

Quel che vi racconto accadde quando gli animali domestici erano ancora selvatici.

Naturalmente era selvatico anche l’uomo, e soltanto quando la donna gli fece capire che così non le piaceva, cominciò a perdere la sua selvaticità. Ella preparò una graziosa caverna asciutta; per non dormire su un mucchio di foglie umide, sparse sul suolo un po’ di sabbia chiara e fine e accese un bel fuoco di legna, poi mise una pelle di cavallo all’ingresso della caverna e disse all’uomo: “Quando entri, asciugati i piedi”.

La sera, a cena, mangiavano un po’ di montone cotto su pietre calde e condito con aglio e pepe selvatici, dell’anatra selvatica ripiena di riso, del midollo di ossa di toro e delle ciliegie di bosco.

Mentre l’uomo si addormentava contento vicino al fuoco, laggiù, nel bosco umido,  tutti gli animali selvatici si riunirono in un luogo da cui potevano vedere la luce della fiamma e si domandarono che cosa stesse succedendo.

Il cavallo scalpitò e disse: “Animali amici e nemici, mi sapete dire perchè l’uomo e la donna hanno fatto nella caverna quella gran luce? Che ci preparino qualche tranello?”

Il cane alzò il muso, fiutò l’odore di montone cotto e dichiarò: “Andrò io a vedere. Credo però che non preparino niente di male”.

E il cane se ne andò di buon passo. Quando giunse sulla soglia della caverna, alzò il muso e annusò l’odore del montone cotto; la donna lo sentì, rise e domandò: “Selvatico figlio dei boschi, che vuoi?”

Il cane rispose: “Mia nemica e moglie del mio nemico, che cos’è questo buon odore che si spande per i boschi?”

La donna prese un osso di  montone e glielo gettò, dicendo: “Assaggialo e lo saprai”.

Il cane rosicchiò l’osso, lo trovò migliore di tutte le cose che aveva fino ad allora mangiato e dichiarò: “Dammene un altro”.

Disse la donna: “Se tu aiuterai l’uomo durante il giorno nella caccia e se custodirai di notte questa caverna, io ti darò tutti gli ossi che vuoi”.

Il cane entrò strisciando nella caverna, mise la testa sulle ginocchia della donna e disse: “Amica e moglie del mio amico, io aiuterò l’uomo nella caccia e custodirò la caverna”.

Quando l’uomo si svegliò e vide il cane, disse: “Che fa qui il cane?”

La donna rispose: “Non si chiama più cane selvatico, ma Primo Amico. Egli sarà nostro amico per sempre e ti aiuterà nella caccia.

R. Kipling

Racconti e recite sulla Preistoria per la scuola primaria
Il gatto

Migliaia e migliaia di anni fa, quando l’uomo abitava nelle caverne, il gatto era il più selvatico degli animali. Un giorno si avvicinò alla caverna dell’uomo. Sentì il buon calore del fuoco, il buon odore del latte che la donna aveva appena munto dalla mucca.

“Che vuoi?” gli chiese la donna, “Tu non sei ne un’amico ne un aiuto per l’uomo. Vattene!”

“Lasciami entrare nella tua casa, la sera, perchè mi riscaldi al tuo fianco e beva un po’ di latte”.

“Potrei entrare solo quando dirò una parola in tua lode; se ne dirò due ti riscalderai al fuoco; se ne dirò tre berrai il latte”.

“Va bene!” disse il gatto e si accovacciò al sole, fuori della caverna.

La donna mise fuori il suo bambino. Il bambino a star da solo di annoiava e si mise a piangere.  Il gatto gli si accovacciò, strofinò il suo pelo morbido contro le gambette del bimbo e gli fece il solletico sotto il mento, con la coda. Il bimbo rise.

“Bravo micio!” disse la donna che preparava il pranzo. Pronto il gatto entrò nella caverna: la donna aveva detto una parola di lode. Il bimbo, fuori, si mise di nuovo a piangere e a strillare. Il gatto tornò vicino a lui e si mise a fare mille moine. Il bimbo cominciò a ridere forte, poi si addormentò.

“Caro gatto, sei molto abile!” disse la donna. Subito il gatto si accovacciò vicino al fuoco e fece le fusa. Tutto era tranquillo, quando un topolino attraversò la caverna.

“Aiuto! Aiuto!” gridò la donna, saltando qua e là. Il gatto, con un balzo, afferrò il topolino.

“Grazie, grazie! Sei più bravo del cane!” disse la donna.

“Questa è la terza volta che tu mi lodi. Ora posso bere il latte ogni giorno”, disse il gatto.

Così il gatto rimase nella caverna.

R. Kipling

Racconti e recite sulla Preistoria per la scuola primaria
Una lotta mortale nella preistoria

I terribili tori selvaggi detti uri, dalla testa crespa e barbuta, dalle corna arcuate e fangose, stavano avvicinandosi alla riva del fiume, quando un alto clamore si levò dalla foresta: arrivavano i mammut.

La schiera dei mammut sbucò dalla foresta e si precipitò verso la riva del fiume, arrivandovi contemporaneamente alla schiera degli uri.  I mammut, secondo le loro abitudini, pretesero di passare per primi: qualcuno tra gli uri si irritò. Gli otto tori giganteschi che guidavano il branco, vedendo che i mammut volevano passare avanti, emisero un lungo grido di guerra, col muso in alto e la gola gonfia.

 I mammut barrirono.

Gli uri scossero le criniere grasse: il più forte, il capo dei capi, abbassò la fronte grave, le corna lucenti, e, slanciandosi come un enorme proiettile, balzò addosso al mammut più vicino. Ferito alla spalla, benchè  avesse attutito il colpo sferzando con la proboscide l’avversario, il colosso cadde sulle ginocchia. L’uro proseguì il combattimento con l’ostinazione della sua razza. Ebbe la meglio.

Da principio, il combattimento aveva sorpreso gli altri maschi. I quattro mammut e i sette tori stavano faccia a faccia, in una formidabile attesa. Nessuno fece l’atto di intervenire; ma tutti si sentivano minacciati. I mammut furono i primi a dar segni di impazienza. Il più alto, soffiando, agitò le orecchie membranose, simili a giganteschi pipistrelli, e avanzò.

Si scagliavano gli uni contro gli altri in un combattimento cieco; il ruggito profondo dei tori cozzava col barrito stridente dei mammut.

I capi maschi incarnavano la guerra; i loro corpi si mescolavano in un groviglio informe, in un immenso stritolio di ossa e di carne. Al primo urto i mammut avevano avuto la peggio; ma poi, avventatisi insieme sugli avversari, li avevano colpiti, soffocati, feriti. Infine un toro incominciò ad arretrare, poi si volse e fuggì, e la sua fuga provocò quella dei tori che combattevano ancora e che conobbero l’infinito contagio del terrore. Allora la colonna dei giganti color d’argilla si schierò sulla riva e si mise a bere in pace.

J. H. Rosny Aine

Racconti e recite sulla Preistoria per la scuola primaria
La scoperta del fuoco

Al piccolo coro parlato possono partecipare diversi bambini, anche tutta la classe. E’ consigliabile preparare piccoli gruppetti. Potete far osservare ai bambini che il linguaggio degli uomini primitivi doveva essere probabilmente molto povero, e che essi comunicavano più a gesti e a monosillabi, che non con un vero e proprio linguaggio.

Personaggi: Narratore, Primo uomo preistorico, Secondo uomo preistorico, Terzo uomo preistorico,  Uomini,  Bambini.

Narratore: Gli uomini preistorici abitavano nelle grotte e nelle caverne, cacciavano gli animali, si coprivano con le pelli degli animali uccisi e ne mangiavano le carni crude. Per armi avevano soltanto pietre. Ma infine conobbero il fuoco e la loro vita cambiò. Era una serata tremenda. L’immensa foresta era scossa da un terribile temporale…

Primo uomo preistorico: Ah!… Ah!… Là!

Secondo uomo preistorico: Cosa dire?

Primo uomo preistorico: Là! Luce alta! Muovere! Vivere!

Altri uomini: Oh, oh, spavento! Spavento!

Parecchi uomini: Terribile!

Terzo uomo preistorico: Io vedere! Luce cadere da cielo, poi luce salire da terra!

Bambini: Paura!

Uomini: Morire! Finito! Morire tutti!

Narratore: Sì, la prima impressione del fuoco fu di gran terrore,  finchè, dopo un altro temporale…

Primo uomo preistorico: Fuoco fare giorno notte!

Secondo uomo preistorico: Fuoco fare caldo!

Parecchi uomini: Fuoco fare bene noi!

Primo uomo preistorico: Ma Fuoco lasciare noi. Fuoco lasciare! Diventare piccolo!

Parecchi uomini: Fuoco abbandonare noi!

Alcuni uomini: Andare chiedere luce a Fuoco, andare a chiedere calore noi!

Altri uomini: No! No! Morire!

Bambini: Oh, oh,  freddo noi morire! Freddo morire!

Narratore: Fu l’amore per i bambini che spinse l’uomo a vincere la paura.

Primo uomo preistorico: Io andare Fuoco: no paura bestie, no paura grande luce. Fuoco salvare bambini!

Narratore: E l’uomo andò nella foresta e tornò con un ramo infuocato. Alla sua vista, gli altri si spaventarono nuovamente.

Uomini: Fuggire! Noi morire!

Primo uomo preistorico: Fermare! Fuoco di noi! Fuoco dare luce! Fuoco dare caldo!

(R. Botticelli, adattamento Lapappadolce)

Racconti e recite sulla Preistoria per la scuola primaria
L’uomo impara a domare il fuoco

Personaggi: Narratore, Mig (guardiano del fuoco), Zug (secondo uomo preistorico), Grog (capo tribù), Slug (bambino), Uomini.

Narratore: Una volta scoperto il fuoco, gli uomini preistorici furono presi dalla preoccupazione di conservarlo. C’era sempre chi lo vegliava e lo alimentava, perchè non si spegnesse. Ma un giorno, in una tribù…

Mig: (disperato) Ah!… Ah!,,, Fuoco spegnere! Fuoco morire! Fuoco più! Tornare Fuoco, tornare! Io dorme, io colpa! Fuggire! Fuggire! (Fa l’atto di scappare)

Zug: Mig! Mig! Dove andare?

Mig: Guardare. Fuoco più…

Zug: Ah! Tu colpa! Tu dormire, tu no cura Fuoco. Tu morire fuoco. Oh… oh… oh… Venire! Venire! Fuoco noi no! (Accorrono tutti)

Grog: Cosa essere?

Zug: Vedere Grog. Mig morire Fuoco, dormire, Fuoco andare via noi!

Uomini: Noi notte no luce!

Altri uomini: Noi no caldo!

Tutti: Mig colpa!

Grog: Mig andare foresta! Più torna! Mig via! (Mig viene preso a forza)

Uomini: Mig morire. Noi più fuoco colpa Mig!

Grog: Tu solo foresta. Tu di bestie. Tu di cielo nero. Fuoco torna e te uccide. Fuoco te uccide e noi torna!

Slug: Grog, no!

Grog: Chi osare?

Slug: io, figlio Mig…

Grog: tu zitto, figlio Mig. Mig dormire, noi più fuoco!

Slug: Grog, no! Vedere Grog, vedere! Legni secchi qui, io chiamare Fuoco

Grog: Chiamare fuoco? No! Fuoco foresta!

Slug: Grog, Grog, sentire me! Io vedere caverna di uomo nemico, io vedere Fuoco morire loro, io  vedere loro fare Fuoco no foresta!

Uomini: No! Mentire! Fuoco foresta!

Slug: Grog no! Sentire! Io vedere loro! Io fare!

Grog: Tu fare!

Slug: Vedere Grog, vedere! (Strofina le pietre per far sprizzare la scintilla, ma gli arbusti non si accendono)

Uomini: Fuoco foresta! Fuoco foresta! Slug bugiardo!

Slug: (Strofina ancora le pietre e finalmente il fuoco si accende). Vedere Grog! Fuoco Grog!

Uomini: Fuoco! Fuoco! Fuoco tornare noi!

Slug: (Si muove verso il suo papà, che viene lasciato libero) Papà! Papà!

Mig: Slug!

(R. Botticelli, adattamento Lapappadolce)

Racconti e recite sulla Preistoria per la scuola primaria
Le palafitte

Personaggi: Narratore, Sarik (giovane uomo preistorico). Zala (sua moglie), Bambini, Grog (capo tribù)

Narratore: L’uomo aveva il fuoco. Ora non viveva più nelle caverne, ma all’interno di capanne. Tuttavia non si sentiva affatto al sicuro. Una grande paura lo assillava continuamente. Ed ecco che da tribù a tribù passò la voce di una geniale idea….

Grog: Sarik, tu cercavi me?

Sarik: Sì, Grog. Cosa importante! Cosa importante!

Grog: Ah ah ah ah! Fai ridere! Zala con te, bambini con te, vuoi anche mia compagnia?

Sarik: Grande Grog, cosa importante! Cosa importante!

Grog: Grog ha orecchie. Non ripetere. Parla.

Sarik: Dietro montagna qui c’è lago. Lago è calmo come faccia di luna.

Grog: Grog sa questo.

Sarik: Grog sa anche che tribù di stranieri conficcato grandi pali su fondo di lago? Poi steso legni, tanti legni  e su legni su lago stranieri costruito loro capanne! Capanne come nostre!

Grog: Stranieri sono pericolo per noi come bestie?

Sarik: No, Grog

Grog: allora perchè Sarik dice questo a Grog?

Sarik: Grog… capanne straniere sono su acqua!

Grog: Sarik ha già detto. Grog ha sentito.

Sarik: Oh, grande Grog! Scendi anche noi su lago, anche noi capanne su lago!

Grog: No!

Sarik: Noi più forti con capanne su acqua…

Grog: Noi essere forti! Nostre pietre uccidono bestie! No. Grog dice no!

Zala: Oh grande Grog…

Grog: Basta!

Sarik: Grog senti Zala, Sarik  prega Grog…

Grog: Zala parlare.

Zala: mio piccolo bimbo aveva pelle chiara come ruscello, occhi di luce come stelle, e belve sbranato di notte. Con capanna su lago, niente bestie! Pietà Grog per Zala… pietà Grog… Zala altri bimbi, loro diventare forti e aiutare sempre Grog!

Grog: Grog andare a vedere con Sarik e Zala. Grog vuole vedere tribù stranieri e capanne su lago.

Narratore: Andarono infatti al lago: e anche la tribù di Grog decise di costruire abitazioni su palafitte.

(R. Botticelli adattamento Lapappadolce)


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Racconti e recite sulla Preistoria per la scuola primaria

Dettati ortografici sugli ANIMALI

Dettati ortografici sugli ANIMALI – Una raccolta di dettati ortografici e letture per la scuola primaria sugli animali:  i mammiferi, i ruminanti, i mammiferi marini, ecc..

Dettati ortografici sugli ANIMALI
I mammiferi

Si chiamano mammiferi gli animali vertebrati che da piccoli si nutrono con il latte materno. Il loro corpo è generalmente ricoperto di peli, il loro sangue è rosso e caldo; respirano con i polmoni. La grande classe dei mammiferi comprende animali che vivono sulla terra, nell’aria e nell’acqua. Sono mammiferi i cani, i gatti, i topi, i cavalli, i buoi, le mucche, le pecore, le capre, i maiali, le volpi, i lupi, i leoni, le tigri, i leopardi, gli elefanti, le zebre, le giraffe, i conigli, le lepri, i canguri, gli scoiattoli, le scimmie, le balene, i delfini, i pipistrelli e tanti altri animali.

Dettati ortografici sugli ANIMALI
I suini

Fra gli animali che l’uomo ha tolto dallo stato di selvatichezza per servirsene, magari trasformato in salsicce, è il maiale. Della stessa famiglia è il cinghiale, che preferisce la vita libera della macchia alle grasse brodaglie con cui l’uomo nutre il maiale. Ai suini appartiene anche l’ippopotamo, che non si trova nei nostri paesi e che noi ci accontentiamo di ammirare allo zoo.

Dettati ortografici sugli ANIMALI
I ruminanti

Gli animali ruminanti hanno uno stomaco diviso in quattro sacche che si chiamano rumine, reticolo, omaso ed abomaso. L’erba, inghiottita senza essere stata masticata, va dapprima nel rumine, poi, quando l’animale è in riposo, il reticolo la rimanda in bocca; da qui, dopo che i denti l’hanno ben masticata, l’erba scende nell’omaso e nell’abomaso, dove è digerita. Oltre ai bovini, sono animali ruminanti: la pecora, la capra, il bisonte, il cammello, il dromedario, il cervo, il camoscio, lo stambecco, il caribù, la renna, l’antilope, e tanti altri.

Dettati ortografici sugli ANIMALI
I roditori

E’ roditore il topo, il vispo topolino a cui piace moltissimo il formaggio chiuso nella nostra credenza; e, con lui, sono roditori i numerosi esemplari di topi che tanto danno possono recare all’agricoltura e quindi all’uomo.
Roditori sono anche il coniglio, la lepre, lo scoiattolo, l’istrice, il criceto. A tutti sarà capitato di sentire rosicchiare uno di questi animali, e se qualcuno avesse pensato che, a forza di rosicchiare, gli si sarebbero consumati i denti, ha pensato giusto. Infatti, i denti dei roditori si consumano, ma ricrescono sempre, così per questi animali rodere è anche una necessità per mantenere la dentatura in perfetta efficienza.
A causa di questi denti, i roditori non sono affatto graditi all’uomo, il quale cerca di rifarsi come può, utilizzando di alcuni la carne e la pelliccia, distruggendo gli altri.

Dettati ortografici sugli ANIMALI
Gli equini

Fra i migliori amici dell’uomo, sono il cavallo, l’asino e il mulo. Essi lo aiutano nel suo lavoro e si lasciano cavalcare.
Hanno lo zoccolo formato di un solo pezzo e l’uomo vi applica un ferro per renderlo più robusto.
Agli equini appartiene anche la zebra, che vive allo stato selvaggio.
Sono tutti erbivori.

Dettati ortografici sugli ANIMALI
Mammiferi in libertà

Numerosi mammiferi vivono allo stato selvatico. Tra essi sono le scimmie, animali che, più degli altri, assomigliano all’uomo; alcuni insettivori come la talpa e il riccio, che si nutrono di insetti e che, quindi, noi dovremmo tenere molto cari. Ci sono gli elefanti, gli orsi, i canguri; questi ultimi hanno sul ventre una tasca dove tengono i piccoli finché questi non sono in grado di badare a sé stessi, e ci sono perfino animali che l’uomo ha faticato a classificare, perchè volano come gli uccelli e non sono uccelli, allattano i piccoli e sono ricoperti di peli. Vogliamo alludere ai pipistrelli, anch’essi mammiferi, che, anche se poco piacevoli a vedersi, sono utili all’uomo perchè si nutrono di insetti.

Dettati ortografici sugli ANIMALI
Mammiferi che non sembrano mammiferi

Sono grossi animali che vivono nell’acqua come i pesci, ma non sono pesci. Sono la balena, il delfino, il capodoglio, cioè i cetacei. Sono la foca, il tricheco e cioè i pinnipedi. Anche questi depongono piccoli vivi che allattano e hanno i polmoni per respirare. Se non potessero venire ogni tanto alla superficie per fare provvista d’aria, morirebbero asfissiati proprio in quell’acqua dove sembrano trovarsi perfettamente a loro agio.
La balena è il più grande degli esseri viventi.

Mammiferi marini

La balena è il più grosso dei mammiferi. Vive nei mari polari, ove è cacciata per la carne, il grasso e i fanoni. Il delfino è un cetaceo molto comune nei mari temperati: è mammifero e carnivoro. La foca è un mammifero marino delle zone glaciali. Si ciba di pesci.  Il tricheco è un mammifero che vive nei mari freddi.

Animali insettivori

Essi si dividono il campo di caccia; chi va nei prati, chi nei giardini, altri nei boschi e negli orti. Fanno una guerra continua ai bruchi che distruggerebbero i nostri raccolti. Essi sono più abili di noi, di vista più acuta, più pazienti e senza alta occupazione che quella. Fanno un lavoro che per noi sarebbe assolutamente impossibile.
(Fabre)

I pinnipedi

Si chiamano così certi grossi animali che passano la vita sulle spiagge e nel mare. Essendo carnivori hanno, anch’essi, una buona dentatura, ma non hanno il dente ferino come i carnivori terrestri. Il loro corpo, che ha la forma di un fuso, è ricoperto di un pelo corto, fittissimo ed è quindi adatto alla vita acquatica. Gli arti sono ridotti a guisa di pinne atte al nuoto, con le dita unite da una membrana.

Dettati ortografici sugli ANIMALI
Gli animali e l’uomo

Fin dalla più remota antichità, l’uomo cercò di sottomettere gli animali per farsi aiutare nel suo lavoro ed avere carni ed abiti. Sembra che il primo animale ad essere addomesticato sia stato il cane. L’uomo viveva ancora nelle caverne, aveva intanto scoperto la maniera di procurarsi il fuoco.

Non si sa precisamente quale sia stato l’antico progenitore di questo fedele amico dell’uomo. Data la diversità di razze esistenti, così profondamente differenziate le une dalle altre, si può dedurre che il cane provenga da animali diversi. Tra questi è certamente lo sciacallo che rassomiglia al tipo più comune di cane. Lo sciacallo ulula lugubremente di notte e anche la voce primitiva del cane è l’ululato. E’ soltanto nella dimestichezza che egli ha imparato ad abbaiare, cosa che dimentica se ritorna allo stato selvatico.

Naturalmente, oggi il cane ha perso diversi caratteri della sua antica origine; i tipi da noi conosciuti sono il risultato di una lunga successione di generazioni, tutte sottomesse dall’uomo ed educate da lui.
Quando il cibo carneo cominciò a scarseggiare, sia per la mancanza di selvaggina sia per il sopravvenire dei grandi freddi, l’uomo primitivo soffrì la fame e, allora, pensò di allevare degli animali. Si ebbero così gli armenti di pecore e di capre. L’uomo ebbe la carne e il latte e in seguito imparò anche a filare e a tessere il vello di cui questi animali erano forniti. Successivamente, alcune popolazioni si dedicarono esclusivamente all’allevamento. Ed ecco l’uomo pastore. Egli è, però, ancora nomade. Spinge davanti a sé i suoi greggi alla ricerca di nuovi pascoli; conosce così nuove contrade dove porta quel poco di civiltà che è venuto conquistando, seguito da quegli animali che si sono ormai definitivamente sottomessi.

Prima di conseguire la domesticità attuale, pecore e capre erano ben diverse dal tipo che oggi conosciamo. Forse, erano anche in grado di difendersi. La pecora, oggi così mansueta paurosa e assolutamente incapace di una vita indipendente, doveva possedere mezzi di difesa, altrimenti sarebbe scomparsa dalla terra prima che l’uomo avesse potuto addomesticarla. Era, per lo meno, in grado di salvarsi con la fuga, così come facevano tutti i ruminanti e come fanno ancor oggi quelli rimasti allo stato selvatico.

L’uomo conosceva una varietà di spiga di cui mangiava i granelli che, abbrustoliti e ridotti in farina, intrideva con l’acqua e cuoceva fra due pietre arroventate. Questa focaccia gli piaceva e egli la mangiava insieme alla carne della selvaggina di cui temperava il gusto e il forte sapore. Fu così che l’uomo imparò a coltivare egli stesso questa spiga e fu lieto quando vide biondeggiare il campo di messi, seminate e coltivate da lui. Divenne agricoltore, ma rimase nomade perchè quando il campo, ormai sfruttato, non dava che un raccolto misero e scarso, egli si trovava costretto a cercare terreni più fertili e pingui.

Ma il lavoro della terra era faticoso: quella specie di aratro che egli si era fabbricato con un tronco appuntito, era duro a trascinarsi sul terreno dove a stento riusciva ad aprire un solco superficiale.
Fu così che l’uomo cercò di domare un animale forte e robusto che lo aiutasse nel lavoro dei campi.
L’animale forte e robusto fu il toro e il sottometterlo non fu facile nè privo di pericoli.

La storia non ci dice nulla dei primi domatori di tori, ma questa conquista fu così preziosa che l’Oriente ne serbò memoria per lungo tempo,  e ne fanno prova gli onori che l’antico Egitto attribuiva al bue Api, considerato un dio e al quale si offrivano sacrifici e si dedicavano templi. Anche ai nostri giorni, in India, la vacca è considerata sacra e perfino nei nostri paesi i buoni vengono ornati con fiocchi e nappe. Naturalmente, molto cammino si è fatto dal bestione furioso e ribelle dei tempi preistorici al docile e mansueto bue dei nostri giorni.

L’uomo è dunque diventato pastore ed agricoltore. Ormai sono molti gli animali che ha addomesticato e di cui si serve: il cane, che gli è diventato fedele compagno nella caccia e che custodisce il suoi armenti; la pecora, che gli fornisce cibo e vesti; il bue che lo aiuta nel lavoro dei campi.

Ma egli ha ormai bisogno di spostarsi velocemente da un luogo all’altro, le sue esigenze sono aumentate, lo spinge la curiosità invincibile che lo porta ad esplorare regioni lontane e ancora sconosciute. E’ spesso in guerra con gli altri uomini che gli insidiano il gregge e i raccolti. La guerra! Un fattore decisivo nella storia della civiltà umana. L’uomo deve utilizzare un animale veloce che gli permetta non solo di spostarsi rapidamente da una regione all’altra, ma che sia anche un animale coraggioso, capace di sostenerlo e di aiutarlo nel combattimento. E’ così che l’uomo utilizza il cavallo che poi avrebbe addomesticato ed allevato come animale da tiro e da carne. Lo chiamò pittorescamente il “figlio del vento”, e questa fu certo  la più nobile conquista che egli abbia fatto nei tempi dei tempi.

Pare che questo animale provenga dalle pianure della Mongolia, dove esistono ancora branchi di cavalli selvatici. Anche in America si trovano branchi che vivono in libertà, allo stato brado, nelle sterminate pianure erbose, ma essi sono soltanto i discendenti rinselvatichiti dei cavalli domestici.

Per catturarli, gli uomini usano il lazo, una specie di correggia terminante con palle,  la quale si attorciglia al collo e alle zampe del cavallo e lo atterra. Forse, non molto dissimile fu la cattura del cavallo nell’antichità. Non fu facile domare questo fiero animale, ma quando l’uomo vi riuscì, il cavallo gli fu prezioso in pace e in guerra.

Il mite e paziente asinello non è un cavallo degenerato come alcuni vorrebbero: anch’esso vanta le sue antiche origini e anzi, l’asino sembra aver preceduto il cavallo nella domesticità. L’uomo nomade che trasmigrava con tutti i suoi armenti, aveva bisogno di un animale da poter caricare con le masserizie e gli strumenti di lavoro. L’asino gli fu utilissimo perchè era forte, paziente, di poche esigenze e resistente ai disagi. Oggi, gli asinelli delle razze montane hanno un aspetto dimesso perchè vengono anche trattati male, ma in Oriente, dove questa cavalcatura è tenuta molto in onore, l’asino è un animale dall’aspetto robusto, che trotterella vivacemente.

Gli animali domestici crescevano di numero e l’uomo ne traeva cibo e aiuto per il suo lavoro, ma la serie non doveva finire tanto presto. Ecco il gatto, che l’uomo forse in principio tollerò, quando attratto dall’odore dei cibi e dell’abbondanza di piccoli animali, questo felino grazioso ed agile si avvicinò alla sua capanna. Pare che il gatto domestico derivi dal gatto selvatico che ancora vive in Abissinia e che gli assomiglia molto. Infatti, per quanto il nostro gatto sia pieno di smorfiette e di grazie, esso rivela la sua origine felina nelle improvvise rivalse fatte con denti e unghie. Il gatto fu ospite dell’uomo fin dalla più remota antichità. L’Oriente, dal quale l’abbiano ricevuto, lo possiede da tempo immemorabile. In Egitto, il gatto era ritenuto sacro e gli venivano attribuiti onori divini.

Fra gli animali addomesticati ed allevati soprattutto per le loro carni, vi fu il maiale, derivato certamente anche dall’irsuto e selvatico cinghiale, che ancora popola le nostre macchie. Ed ecco, infine, le numerose varietà di polli che oggi schiamazzano nei nostri cortili e che l’uomo, attraverso selezioni lunghe e pazienti, ha modificato a suo vantaggio: galline grasse e feconde, galli pettoruti e arditi, tacchini e palmipedi. Mentre il gallo e la gallina ci sono pervenuti dall’Asia, il tacchino proviene dall’America del Nord. Per tale ragione viene chiamato anche dindo, cioè proveniente dalle Indie (occidentali).
L’oca e l’anatra esistono ancora allo stato selvatico, e sono note le lunghissime migrazioni che esse compiono da un capo all’altro del mondo per andare a deporre le uova nei paesi d’origine, situati entro il Circolo Polare.
Altri pennuti preziosi sono i piccioni, allevati in domesticità anche se numerose specie vivono ancora libere nei buchi delle vecchie torri o sui tetti.
(Mimì Menicucci)

Dettati ortografici sugli ANIMALI
L’uomo e gli animali nella preistoria

I nostri lontanissimi antenati ben presto dovettero osservare tutto ciò che li circondava e in modo speciale gli altri viventi, soprattutto gli animali, alcuni dei quali rappresentavano un pericolo da evitare e altri una fonte di vita di cui occorreva impadronirsi. Il risultato di queste osservazioni è giunto fino a noi negli stupendi disegni graffiti sulle pareti delle caverne dove l’uomo, allora, abitava.

Dettati ortografici sugli ANIMALI
Tanti animali, tanti record!

Lo sapevate che, in una giornata, un topolino mangia la stessa quantità di cibo che mangiate voi? Lo sapevate che se nel salto in alto fossimo bravi come la pulce, potremmo superare d’un balzo una collina? Vi diciamo quali sono gli straordinari primati sportivi di animali piccoli e grandi.

E la forza? Voi penserete subito all’elefante, immagino, che può trainare un intero treno merci. Ciò può anche non stupirci troppo, se pensiamo alle dimensioni del bestione. Assai più eccezionale è una simile forza, fatte le debite proporzioni, in una bestiolina come lo scarabeo stercorario, uno dei nostri più comuni coleotteri, che può sostenere e trainare un peso 850 volte superiore a quello del suo corpo. Ma c’è dell’altro! Una formica riesce a trascinare dietro di sé il corpo di un’ape, su una distanza che, rapportata alla misura umana, è superiore a molte decine di chilometri. Forse queste eccezionali qualità degli insetti dipendono dal fatto che essendo dotati di vita assai breve, riescono a concentrare in uno spazio di tempo ristretto tutta l’energia che un uomo sviluppa in una durata di circa settant’anni. Ci sono poi gli animali golosi, o più semplicemente mangioni. Il primatista in questo senso è senz’altro il topo, che in un giorno riesce a mandar giù tanto cibo quanto un ragazzo di dieci anni! C’è poi un caso di golosità che torna assai utile nell’agricoltura. E’ il caso della civetta che, per nutrire la sua nidiata, sacrifica fino a 6.000 topi campagnoli in un anno, salvando così i nostri raccolti.

Gli animali non finiscono mai di stupirci: incredibile è ancora la potenza dei loro sensi. Si dice occhio di lince per indicare la vista acuta per eccellenza, ma è una fama un pochino usurpata. La civetta ci vede assai meglio. Gli occhi della civetta, infatti, sono dotati di cellule che distinguono non i colori ma la luce, e contengono una sostanza che permette al rapace di percepire anche la luce più tenue, e di trasformarla in una vera e propria impressione visiva, là dove noi non scorgeremmo probabilmente un bel nulla. Così la civetta anche nella notte più fonda può andare a caccia di topolini e scorgerli tra le erbe.

Questi occhi peraltro eccezionali hanno un difetto: sono fissi come i fari di un’auto. Ma neanche a farlo apposta, questo difetto dà all’uccello la possibilità di conquistare un altro record: quello della mobilità della testa. Infatti la civetta riesce quasi a far ruotare la testa intorno al collo, senza cambiare di posizione e senza perdere di vista quel che le interessa. Non è certo un caso unico di vista eccezionale, la civetta: c’è un pesce tropicale che, navigando in superficie, riesce a vedere nello stesso tempo il pelo dell’acqua e le profondità del mare, e può captare e distinguere due immagini alla volta. Numerosi insetti, inoltre, grazie ai loro enormi globi oculari, hanno una vista che copre un’angolazione assai maggiore della nostra.

E per finire vi parleremo di una… lingua, che detiene il primato della stranezza. E’ la lingua della lumaca: una lingua con i denti. Sulla sua superficie di sono qualcosa come quattromila piccolissimi denti con cui la lumaca riesce ad attaccare le piante di ogni tipo e più tranquillamente rosicchiarle. Sulle foglie, nelle verdure degli orti avrete di certo notato il suo passaggio.

Se facciamo un confronto fra le possibilità fisiche nostre e quelle degli animali, non siamo certo noi a fare… la parte del leone. Pensate: un uomo può correre solo per alcuni secondi alla velocità di 36 chilometri all’ora, ma ci sono delle antilopi che toccano tranquillamente i cento chilometri all’ora, e il ghepardo supera addirittura i 110! C’è poi una specie di rondine asiatica che, dicono, vola addirittura a 320 km/h! La gazzella del deserto è il canguro superano con un salto addirittura i dieci metri.

Ma le vere primatiste di salto sono la rana e la pulce! Pensate: se un uomo fosse tanto bravo come la pulce, riuscirebbe a saltare trecento metri a piedi giunti, un salto pari alla torre Eiffel, insomma! Il topo del deserto, dal canto suo, che è lungo poco più di due centimetri, salta in lunghezza oltre quattro metri: in proporzione voi dovreste saltare 100 metri!

Lo sapevate che esistono alberi con più di duemila anni, che hanno visto tutta la storia dai tempi antichi ad oggi? In Francia c’è un’enorme quercia, il cui tronco a stento tre uomini potrebbero abbracciare, e che nel nel XVI secolo era il centro di riunione dei cospiratori contro gli spagnoli del Duca d’Alba.

Nel mondo degli animali non esistono casi così clamorosi di longevità. Si parlò un tempo di piovre vissute per secoli, il che spiegava la loro enorme mole dovuta a una lentissima crescita. E si è anche detto che il pappagallo e il corvo raggiungono la rispettabile età di 200 anni! La verità è però assai diversa: difficilmente un grosso corvo supera i sessanta anni. Non si sa molto sulla longevità dei pesci, ma si ricordano pesci rossi vissuti  oltre dieci anni nel loro acquario, senza peraltro aumentare molto di dimensioni. Una carpa può vivere circa 25 anni. Una grande tartaruga vive circa 200 anni. Un coccodrillo vive a lungo anche lui: la vipera invece non vive più di sette o otto anni. E direi che è anche troppo per un animale così. Vita relativamente breve hanno i nostri più cari amici, il cane e il gatto. E’ un vero peccato che queste bestiole non possano accompagnare per tutta la vita il loro

(da “Il Corriere dei Piccoli”)

Dettati ortografici sugli ANIMALI
Animali che giocano

I loro giochi non sono molto complicati. Le lontre, per esempio, si divertono con una specie di toboga. Cercano la riva liscia e bene in pendio di un fiume, la puliscono dagli arbusti e dai sassi, e quando l’hanno resa sdrucciolevole si lasciano scivolare in basso, fino a piombare nell’acqua, ventre a terra e muso in alto.

Qualcosa di simile fanno i camosci sulle Alpi. Nell’estate saltano di cima in cima tra le solitudini dell’alta montagna, inseguendosi in una giostra vorticosamente pericolosa. Ma anche per i camosci il toboga è lo svago maggiore: scelgono alcuni declivi coperti di neve, si acquattano, poi agitando le zampe come se remassero, si lasciano sdrucciolare e scendono a precipizio anche per centinaia di metri. E’ uno spettacolo. Tanto che i camosci anziani fanno da spettatori.
Ed è gioco, proprio gioco.
Infatti l’esercizio si ripete continuamente, per due o tre volte, dallo stesso soggetto, escludendo così possa trattarsi di un mezzo di locomozione rapida per superare le distanze.
Anche i più grossi animali, come gli elefanti e i rinoceronti, amano, in giovinezza, i giochi.
I tassi hanno un loro gioco speciale: fanno le capriole e i salti mortali. Gli orsi, invece, ballano: e non solo gli orsacchiotti ma anche gli adulti.

Dettati ortografici sugli ANIMALI
Cominciamo a distinguere

C’è differenza tra il leone e la viscida lumaca? C’è differenza tra l’uccello e il ragno? Ci sono tante differenze che, a volerle trovare tutte, si impiegherebbe moltissimo tempo.
Ma cominciamo da una differenza fondamentale: il leone ha lo scheletro, cioè una solida impalcatura che ne sostiene il corpo, la lumaca invece non lo possiede. Anche l’uccello ha lo scheletro e il ragno no.
Gli animali quindi, si possono dividere in due grandi gruppi: quelli che hanno lo scheletro e quelli che non lo hanno. E poichè lo scheletro si regge soprattutto sulla colonna vertebrale, cono stati chiamati, i primi, animali vertebrati, i secondi animali invertebrati.
(Mimì Menicucci)

Dettati ortografici sugli ANIMALI
Animali vertebrati

Anche fra gli animali vertebrati ci sono grandi e profonde differenze. Ed ecco l’uomo procedere ancora nella distinzione. Volle distinguere, innanzitutto, gli animali che mettevano al mondo i figlioletti vivi e li nutrivano col loro latte. Li chiamò mammiferi. Erano animali che respiravano per mezzo di polmoni e avevano sangue sempre alla stessa temperatura, indipendente dalla temperatura esterna. Erano cani, bovini, ovini, leoni, tigri, ecc.
Chiamò uccelli quegli i cui piccoli nascevano da uova e che avevano ali fornite di penne che permettevano loro di alzarsi a volo nell’aria. Erano rondini, aquile, galline e passerotti.
Molto diversi dai mammiferi e dagli uccelli, alcuni animali non solo non volavano, ma non avevano nemmeno le zampe o, se queste c’erano, erano corte. Fra essi, i coccodrilli, i serpenti, le lucertole, le tartarughe. Il loro sangue non aveva sempre la stessa temperatura, ma assumeva quella dell’ambiente: caldo se faceva caldo, freddo se faceva freddo. Furono chiamati rettili.
Anche le rane, i rospi, le salamandre, avevano il sangue alla temperatura ambientale, ma l’uomo non potè collocare questi animali tra i rettili perchè essi potevano vivere tanto nell’aria che nell’acqua ed avevano bizzarre caratteristiche. Quando nascevano, per esempio, non rassomigliavano affatto ai loro genitori. La rana non avrebbe certo riconosciuto come suoi figlioli, i girini che sembravano pesciolini e potevano vivere solo nell’acqua. Soltanto in seguito, subita una metamorfosi completa, i girini si sarebbero trasformati in rane.
L’uomo chiamò gli animali aventi queste caratteristiche anfibi, che vuol dire aventi due vite.
Non li confuse, certo, con i pesci che, se vivevano anch’essi nell’acqua, non potevano però respirare nell’aria. Infatti, non avevano polmoni, bensì branchie. Erano tonni, sardine, merluzzi e sogliole.
Studiando la vita e le abitudini dei pesci, l’uomo si accorse che non tutti gli esseri che vivevano nell’acqua potevano essere considerati soltanto pesci. Certi bestioni giganti, balene, capodogli, delfini, foche, respiravano l’ossigeno dell’aria, avevano sangue caldo e mettevano al mondo i loro piccoli vivi. Erano mammiferi, anche se avevano abitudini differenti da quelle degli altri mammiferi. Li chiamò cetacei.
(Mimì Menicucci)

Dettati ortografici sugli ANIMALI
Animali invertebrati

Anche tra gli animali invertebrati l’uomo trovò profonde differenze.
Chiamò molluschi quegli animali che avevano il corpo molle come la chiocciola, la lumaca che strisciavano sul terreno; la seppia, il calamaro, il polpo, le ostriche che vivevano nell’acqua di mare.
Classificò poi insetti tutti gli animaletti che avevano sei zampe e il corpo diviso in tre parti distinte: capo, torace, addome. Nella più parte della specie, i figli non rassomigliano, appena nati, ai genitori. In genere, si trattava di piccoli bruchi, di larve, che soltanto dopo aver subito una metamorfosi, diventavano insetti perfetti.
E i ragni? Non si potevano mettere insieme agli insetti anche se avevano, con questi, una vaga rassomiglianza. C’era una differenza importante: avevano otto zampe, non sei come gli insetti, e l’uomo classificò i ragni insieme agli scorpioni, alle tarantole e li chiamò, tutti, aracnidi. Non fu un nome dato a caso. Aracne era una bella fanciulla greca che sapeva tessere meravigliosamente. Minerva, la dea della sapienza, gelosa della sua abilità, la sfidò a fabbricare la tela più bella. Aracne vinse la gara, ma non potè rallegrarsene perchè la dea, indignatissima, la trasformò in un ragno. Anche così trasformata, la fanciulla continuò a tessere ma ahimè, la sua fu una tela che, pur tessuta mirabilmente, non serviva più a nulla: la ragnatela.
Nell’acqua, oltre i pesci, i molluschi e i cetacei, (i grossi mammiferi di cui abbiamo parlato), vivevano altri animali che non potevano essere classificati né con gli uni né con gli altri. Erano aragoste, erano gamberi, erano granchi… L’uomo li chiamò crostacei forse a motivo della loro corazza resistente che li ricopriva.
Con questo, credette di aver finito nelle sue classificazioni, ma si accorse ben presto che qualcosa, o meglio, qualcuno, era sfuggito. Si trattava di umili esseri che non camminavano, non volavano, non nuotavano. Si contentavano di strisciare, modesti, tranquilli; spesso non si riusciva a distinguere dove avessero la testa. Si trattava di lombrichi, rosei, snodati, molli, di sanguisughe, che si attaccavano voracemente alle gambe di chi si immergeva nell’acqua degli stagni e persino di alcuni disgustosi individui che l’uomo si accorse di ospitare nel suo intestino: la tenia e l’ascaride. Furono chiamati vermi.
Soltanto allora l’uomo pensò di aver finito le sue classificazioni del mondo animale, per lo meno di quelle fondamentali e si sentì soddisfatto. Non per nulla se ne considerava il re.
(Mimì Menicucci)

Dettati ortografici sugli ANIMALI
Decalogo zoofilo

  1. Rispetta ogni essere vivente.
  2. Ricorda che gli animali sono esseri viventi, sensibili al piacere e al dolore. Comprendili ed evita loro, per quanto ti è possibile, fastidi e sofferenze.
  3. Non usare gli animali per il tuo diletto, non produrre strazio o danno alla loro salute, non far soffrire loro la fame o la sete.
  4. Non devastare le tane degli animali; non depredare i nidi degli uccelli, armoniose creature dell’aria.
  5. Non tormentare rospi, lucertole, insetti, talvolta utilissimi all’agricoltura.
  6. Rifuggi da spettacoli barbari e ripugnanti, vittime dei quali sono innocenti animali: impediscili, se puoi.
  7. Pensa agli svariatissimi vantaggi che l’uomo trae dagli animali e dimostra verso di essi la tua simpatia con il rispetto e la benevolenza.
  8. Ricordati che mostrarsi generoso con gli animali e rispettarli è indizio di anime nobile e gentile.
  9. Ogni animale è una creatura sensibile: non tiranneggiarla, ma accoglila sempre con tenerezza, proteggila, amala.
  10. Ricordati che dai sentimenti di giustizia e di carità scaturiscono tutte le virtù e che se le colpe talvolta vengono perdonate, la crudeltà non lo sarà mai.

Dettati ortografici sugli ANIMALI
Amici e nemici

Tra tutti gli animali che popolano la terra l’uomo ha scoperto che alcuni gli sono nemici, come le bestie feroci, i serpenti e alcuni insetti; altri vivono lontano da lui  senza fargli né bene né male, come tutti gli animali selvatici in generale; altri infine, gli diventano facilmente amici, vivono volentieri nella sua casa o nel suo cortile, lo aiutano nei viaggi trasportandolo rapidamente, nella caccia, nei lavori dei campi; gli danno il latte, le uova, il pelo, la pelle, la carne; questi sono gli amici domestici i quali, fin dai tempi antichissimi hanno accettato il dominio dell’uomo.
(C. Lorett)

Dettati ortografici sugli ANIMALI
Gli animali

Gli animali possono vivere senza l’uomo, mentre è difficile pensare che l’uomo avrebbe potuto sopravvivere senza gli animali. Per necessità, ma talvolta anche senza necessità, l’uomo ha turbato profondamente l’esistenza degli animali; talune specie per opera dell’uomo sono state cancellate dalla Terra, altre ridotte a pochissimi esemplari, alcune non esistono più allo stato selvatico, ma solo domestico. Soltanto in tempi recenti l’uomo saggiamente protegge quello che nei secoli passati è sfuggito alla totale distruzione.

Dettati ortografici sugli ANIMALI
Guardatevi intorno

Guardatevi intorno: vedrete piccoli insetti, quali alati, quali striscianti, quali saltellanti, muoversi incessantemente in mezzo alle piante. Vedrete, nelle limpide acque del lago, guizzare rapidi pesci argentei; noterete le grosse anguille verdastre, i gamberi nei fossati. Udrete il gracidare delle rane vicino agli stagni, vedrete i granchietti, le arselle attaccate agli scogli marini e quei pesciolini minutissimi che nuotano dove l’acqua è bassa.

Dettati ortografici sugli ANIMALI
Un grande albero

Il regno animale si può paragonare a un grande albero, da cui si dipartono parecchi rami. In basso, sulle radici, vi sarebbero gli animali più semplici; in alto, sulla vetta estrema, che non può essere superata da nessun altro ramo, starebbe l’uomo. In mezzo, fra le radici e il vertice dell’albero, stanno gli animali che collegano l’uomo alle forme più semplici degli esseri viventi.

Dettati ortografici sugli ANIMALI
Ricerche e relazioni sugli animali:
– Scrivi il nome di alcuni animali e distingui quelli che appartengono al tipo dei vertebrati.
– Fai lo stesso per gli invertebrati.
– Ricopia i seguenti nomi, facendo due colonnine, una per gli animali vertebrati, una per gli invertebrati: ragno, lumaca, vipera, toro, seppia, ostrica, scorpione, gatto, sogliola, cavallo, zanzara, sardina, passero, asino, lombrico, coccodrillo, leone, chiocciola, tonno, balena, tenia, foca, vitello, moscerino, cane.
– Ricopia i seguenti nomi raggruppandoli a seconda che si tratti di mammiferi, uccelli, rettili, anfibi, pesci: pulcino, pipistrello, rana, salamandra, passero, gatto, coccodrillo, sogliola, triglia, rospo, canarino, cane, tigre, vipera, balena, squalo, biscia, delfino, usignolo, foca, merluzzo, lucertola, raganella, carpa, ippopotamo, rinoceronte, cavallo.
– Ricopia i seguenti nomi raggruppandoli a seconda che si tratti di crostacei, molluschi, insetti, aracnidi, vermi: gambero, chiocciola, mosca, zanzara, sanguisuga, lombrico, bruco, granchio, ascaride, seppia, ragno.
– Scrivi il nome di alcuni animali vertebrati e scrivi accanto a ciascun nome se si tratta di un mammifero, o di un uccello, di un rettile, di un anfibio, di un pesce.
– Scrivi il nome di alcuni animali invertebrati e scrivi accanto a ciascun nome se si tratta di un crostaceo o di un mollusco, di un insetto, di un aracnide o di un verme.

Amici e nemici
Tra tutti gli animali che popolano la terra l’uomo ha scoperto che alcuni gli sono nemici, come le bestie feroci, i serpenti e alcuni insetti; altri vivono lontano da lui senza fargli né bene né male, come tutti gli animali selvatici in generale; altri infine, gli diventano facilmente amici, vivono volentieri nella sua casa o nel suo cortile, lo aiutano nei viaggi trasportandolo rapidamente, nella caccia, nei lavori dei campi; gli danno il latte, le uova, il pelo, la pelle, la carne; questi sono gli amici domestici i quali, fin dai tempi antichissimi hanno accettato il dominio dell’uomo.
(C. Lorett)

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Dettati ortografici sugli ANIMALI

Poesie e filastrocche CRISTOFORO COLOMBO

Poesie e filastrocche CRISTOFORO COLOMBO – Una collezione di poesie e filastrocche sul tema “Cristoforo Colombo e la scoperta dell’America” (12 ottobre 1492), per la scuola primaria.

Colombo
Va, sotto il cielo di piombo,
va la fragile caravella
che la Regina Isabella
t’ha regalato, Colombo…
Quand’ecco su dal suo cuore
che più l’angoscia non serra
prorompe un grido: “La terra!”La prima! San Salvatore!
Ora il gran cielo di piombo
tutto s’irradia di luce…
è sempre il sole: Colombo!          (Zietta Liù)

Tre caravelle
Sul mare azzurro
tre caravelle
filano lente
sotto le stelle.
Vengon da un porto
molto lontano:
le guida intrepido
un italiano.
Cercano terra
di là dal mare
da tanto tempo
e nulla appare.
Nulla si vede
la ciurma è stanca.
Nulla si vede
la lena manca.
Sopra la tolda
sol l’italiano,
solo Colombo
guarda lontano.
“Terra!” si grida.
Eccola, appare
sul far del giorno
bruna sul mare.
Quel dì la terra
nuova toccò
Colombo, e a Dio
la consacrò.        (G. Fanciulli)

Colombo
C’era una volta, sì, c’era…
Sembra la favola bella
della Regina Isabella…
Pure è una favola vera.
Oh, lunghe notti! Di piombo
il cielo, ostile ed infido.
Tu chiudi in cuore il tuo grido
e speri, e speri, Colombo.
Talvolta, l’angoscia che serra
e soffoca il cuore è sì forte,
che quasi tu pensi alla morte…
Ed ecco la terra, la terra!
Hai vinto. La terra lontana
s’ammanta di fulgido sole,
s’ammanta di gloria italiana.
C’era una volta, sì, c’era…
Sembra una favola bella,
pure è una favola vera. (Zietta Liù)

La scoperta dell’America
Colombo, il tuo ardire fu tanto,
ardire di fede e coraggio,
che te rassomiglia ad un santo
nell’aspro e lunghissimo viaggio.
Partisti con tre caravelle,
tre fragili navi spagnole,
passavano notti di stelle,
passavano giorni di sole,
di flutti pacati e procelle
e mai alla meta arrivavi;
la ciurma gridava ribelle:
tu solo credevi e speravi.
Ed ecco un mattino apparire
il lido da tanto sognato:
che cosa importava il patire,
se infine sei stato premiato?
Scendesti la terra a baciare
e colmo di gioia nel cuore
volesti quel suolo chiamare
col nome di San Salvatore. (T. Romei Correggi)

Terra!
Terra!… notturna, d’un tratto,
bandì dalle coffe una voce.
Vesti il mantello scarlatto,
solleva il vessillo e la croce,
tu che mettesti la prora
nel pallido occaso, e l’aurora seguì la tua scia!
Guarda: fu ieri: una canna
nuotava sul mare profondo;
oggi si cullano in panna
le navi sull’orlo del mondo.
Sorgi, Colombo: l’aurora
nel grande vestibolo indora la Santa Maria. (G. Pascoli)

Tutte le opere contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.

Poesie e filastrocche su SAN FRANCESCO

Poesie e filastrocche su SAN FRANCESCO – una collezione di poesie e filastrocche su San Francesco, di autori vari, per bambini della scuola d’infanzia e primaria.

San Francesco
A quei che avean sol cenci, ai poverelli
parlava come a teneri fratelli:
Dicea: “Se fame vi rimorde e sete,
vostro è il mio pan, vostro è il mio vin, prendete”.
E il bianco pan, l’alfore colme, i vari
panni, le fibbie, i nitidi calzoni,
la morbida e sottil giubba di seta,
tutto ei donava con faccia lieta,
fin la cintura pallida d’argento…
E più donava e più vivea contento! (A. S. Novaro)

San Francesco
Parlava alle cicale,
predicava agli uccelli,
e l’albero e l’arbusto
erano suoi fratelli.
Le agnelle al suo passare
accorrevano liete,
le tortore selvagge
rendeva mansuete.
Ai lupi furiosi
donava la dolcezza,
tanta virtù gentile
avea nella carezza. (G. Salvatori)

L’amore di San Francesco per le creature
Agli uomini con elmo e con corazza,
con la spada al fianco e la ferrata mazza,
diceva: “Il cielo nessuna guerra vuole,
vuol che vi amiate sotto il dolce sole.
La tortorella mai non piange sola:
presso ha il compagno che la racconsola;
le piccole api fanno le cellette
concordi, e ognuna un po’ di miele mette,
le rondinelle vanno per miglia e miglia,
concordi, e ognuna un chicco solo piglia.
Amatevi anche voi, dunque! Lasciate
il ferro e l’ira! Amatevi e cantate!”
E a quei che aveano solo cenci, ai poverelli,
parlava come a teneri fratelli.
Diceva: “Se fame vi morde, o sete,
vostro è il mio pane, vostro il mio vin: prendete!”
E il bianco pan, l’anfore colme, i rari
panni, le fibbie, i nitidi calzari,
la morbida e sottil giubba di seta;
tutto donava egli con faccia lieta:
fin la cintura di forbito argento:
e più donava, e più ridea, contento.
Ma quando nulla gli rimase addosso
fuor che un bigello assai ruvido e grosso,
a mo’ d’uccel che frulla, in un giocondo
impeto, uscì cantando in mezzo al mondo:
Lodato sia il Signore
a tutte l’ore!
Lodato sia che alzò i turchini cieli,
che dai notturni veli
delle tenebre oscure
cavò le palpitanti creature.
Cavò dal buio il sole,
il mio fratello sole!
Grande lo fe’, magnifico, raggiante,
a sè somigliante.
Lodato sia con mia sorella luna.
Bianca la fece il mio signor come una
perla del mare,
e di gemmette rare
la volle incoronare!
Lodato sia col mio fratello fuoco.
Egli è robusto, allegro, ardimentoso:
veglia nell’ombra e non ha mai riposo;
monta ostinato e non si stanca al gioco.
Lodato sia con mia sorella acqua.
Pura la volle Iddio, semplice e casta;
serve all’uomo preziosa,
bacia i fioretti, e fugge vergognosa.
Lodato sia col mio fratello vento,
col nuvolo e il sereno ad ogni tempo
onde ha ogni vita il suo sostentamento.
Lodato sia con la mia madre terra:
assai tesori ella nel grembo serra,
e porta i frutti e la foresta acerba,
i fior, gli uccelli coloriti, e l’erba.
Mettete le ali al cuore
e lodate il Signore.
Così cantava; e su gli eretti steli
rideano i fiori, e gli uomini crudeli
sentiano il cuor puro e leggero farsi;
e i ruscelletti alla campagna sparsi
muovevan lesti ad abbracciargli il piede
come un fanciul che a un tratto il babbo vede:
e le irrequiete rondini dai tetti
facean silenzio; e più, pe’ chiari e schietti
azzurri, a volo discendevano calme
a passeggiargli su le aperte palme.
Così cantava da mattina a sera;
e quando il buio intorno al capo gli era,
sul nudo suol che gli facea da cuna
dormia sognando la sorella luna.

(A. S. Novaro)

La predica agli uccelli
Francesco, andando con la compagnia,
alberi vide ai lati della via
ed una moltitudine di uccelli
che piegavano col peso i ramoscelli.
“Fratelli miei, voi grati esser dovete
a chi vi fece creature liete”.
Mentre Francesco così stava a dire,
loro battevan l’ali quasi ad applaudire,
e abbassavano le brune testoline
e allegrezza mostravan senza fine.
Poi disse loro “Andate!”
e a quella dolce voce
in aria si levarono festanti
e si sentivano meravigliosi canti. (F. Salvatori)

San Francesco e il lupo

Viveva un dì, narra un’antica voce,
intorno a Gubbio un lupo assai feroce
che aveva denti più acuti dei mastini
e divorava uomini e bambini.
Dentro le mura piccole di Gubbio
stavan chiusi i cittadini e in dubbio
ciascuno della vita. La paura
non li faceva uscire dalle mura.
E San Francesco venne a Gubbio e intese
del lupo, delle stragi, delle offese;
ed ebbe un riso luminoso e fresco,
e disse: “O frati, incontro al lupo io esco!”
Le donne aveano lacrime così
grosse, ma il santo ilare e ardito uscì.
E a mezzo il bosco ritrovò il feroce
ispido lupo, e con amica voce
gli disse: “o lupo, o mio fratello lupo,
perchè mi guardi così ombroso e cupo?
Perchè mi mostri quegli aguzzi denti?
Vieni un po’ qua, siedimi accanto, senti:
io so che tu fai molto male a Gubbio
e tieni ogni della vita in dubbio,
e so che rubi e uccidi e non perdoni
nemmeno ai bimbi, e mangi i tristi e i buoni;
orbene, ascolta: com’è vero il sole
cioè che tu fai è male. Il ciel non vuole.
Ma tu sei buono, e forse ti ha costretto
a ciò la fame. Ebbene, io ti prometto
che in Gubbio avrai d’ora in avanti il vitto:
ma tu prometti essere onesto e dritto
e non dare la minima molestia:
essere, insomma, una tranquilla bestia.
Prometti, dunque tutto questo, di’?”
E il lupo abbassò il capo, e fece: “Sì”
“Davanti a Dio tu lo prometti?” E in fede
il lupo alzò molto umilmente il piede.
Allora il santo volse allegro il passo
a Gubbio; e il lupo dietro, a capo basso.
Il Gubbio fu grande festa, immensi evviva:
scoppiò la gioia e fino al ciel saliva.
E domestico il lupo entro rimase
le chiuse mura e andava per le case
in mezzo ai bimbi come un vero agnello
e leccava la gota a questo e a quello.
E poi morì. E fu da tutti pianto
e seppellito presso il camposanto.

(A. S. Novaro)

 La leggenda di Fra Cipresso

Per il cielo, pianametne
(era un tuo mattino, aprile),
ascendea benedicente
San Franscesco tutto umile
ne la dolce chiarità.
Lunga ed aspra era la via
in fra i rovi e fra le spine.
Quante spine! Egli via via
le mutava in roselline
che spiccavano qua e là.
Pianamente il Santo andava,
ch’era a fin del suo viaggio:
ogni arbusto si inchinava
reverente al suo passaggio,
domandando: “Chi sarà?”
Proseguiva il Santo, ed ecco
s’impigliò la veste un poco:
c’era un ramo rotto, secco.
Pensò allora “Frate fuoco
per sua preda oggi l’avrà”.
Era un ramo di cipresso:
lo raccolse il poverello,
si servì, contento, d’esso
qual di forte bastoncello,
fido amico per chi va.
Ma su fuoco del convento
no, non arse il vecchio ramo;
si contorse, quasi il vento
gli fischiasse un suo richiamo
da le azzurre immensità.
E le foglie gialle e trite
non s’accesero, no, d’oro:
si piegarono, stecchite,
scricchiolando, quasi in coro,
domandassero pietà…
Passò allora ne gli azzurri
occhi del santo una visione:
udì canti, udì sussurri,
vide tante cose buone
per un atto di bontà,
e da fuoco trasse il ramo.
Disse: “Vuol vivere, e anch’esso
vegetare, il ramo gramo!
crescerai, frate cipresso,
ne la mia comunità!”.
E, ne l’orto mite e breve,
lo piantò con le sue mani;
ed il ramo secco, lieve,
mise rami, rami, rami…
fu un colosso: e ancora è là.
Là si culla ne l’azzurro;
ogni ramo ci ha il suo nido,
ogni ramo ha il suo sussurro,
ogni nido ci ha il suo grido
di bellezza e di bontà.
Là, nel quieto orto dimesso
dolce e vigile cantore,
vive ancor, frate cipresso;
ed è il frate che non muore
nella pia comunità. (Giuseppe Nanni)

San Francesco
Dolce era l’aria e limpido il mattino
e passava nel ciel più d’un uccello,
e allegramente si mise in cammino
per la Marca d’Ancona un fraticello.
Egli cantava una canzon gioconda,
quella che aveva fatto da se stesso
mentre, nascosto in una verde fronda,
qualche usignol gli rispondea sommesso.
E il venticello gli girava attorno
e gli portava il buon profumo fresco
tolto un po’ prima che facesse giorno
al bosco e all’orticello, al pino e al pesco.
E le cincie calando alla campagna,
seguendo i raggi rapidi del sole;
“Non sei per caso quello che a Bevagna
ci disse tante tenere parole?”
E i fiorellini si volgeano verso
i piedi suoi che non facean già male,
quasi essi pure ad ascoltare il verso
che uscia dai labbri armonioso e uguale.
E il sole che avea il santo odor del cielo,
e il sol che avea il buon odor del bosco,
gli facea dire da un suo raggio anelo:
“Sei tu quel di San Damiano, ti conosco”.
L’altro diceva: “Sì, sono quello”,
con un accento semplicetto e gaio,
e palpitava il cuor del fraticello,
il dolce cuore dentro il rozzo saio.
Tutte le cose dal buon Dio create
cantava con inchini e con sorrisi
il fraticello che avea nome Frate
Francesco, ed era di lassù, d’Assisi. (M. Moretti)

Il cantico delle creature
Laudato sii, mio Signore, con tutte le tue creature,
specialmente il fratello Sole,
che reca il giorno: Tu per suo mezzo ci illumini
ed egli è bello e raggiante con grande splendore,
di Te Altissimo porta significazione.
Laudato sìì, mio Signore, per sora Luna e le stelle:
Tu le hai formate in cielo, chiare preziose e belle.
Laudato sii mio Signore, per frate Vento
e per l’aria e il nuvolo e il sereno ed ogni tempo
col quale alle tue creature dai sostentamento.
Laudato sii, mio Signore, per frate Foco
con il quale tu illumini la notte:
egli è bello, e giocondo e robusto e forte.
Laudato sii per nostra madre Terra,
la quale ne sostenta e ne governa,
e produce diversi frutti con coloriti fiori ed erba.
Laudato sii per quelli che perdonano pel tuo amore
e sostengono infermità e tribolazione.
Beati quelli che le sosterranno in pace,
che da Te, Altissimo, saranno incoronati. (San Francesco)

Poesie e filastrocche su San Francesco – Tutte le opere contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.

Dettati ortografici sul sistema solare

Dettati ortografici sul sistema solare : una collezione di dettati ortografici per la scuola primaria, di autori vari, sul sistema solare. Difficoltà ortografiche varie.

Il sistema solare

Il cielo, di notte, offre ai nostri occhi uno spettacolo meraviglioso. Chi non si è fermato ad ammirare le migliaia di luci che brillano nel buio? Sono mondi come il nostro, quasi tutti immensamente più grandi.

Essi sono ordinati in famiglie: la famiglia delle stelle, caldissime e luminose; la famiglia dei pianeti e dei satelliti.

I Pianeti sono corpi celesti freddi, perciò oscuri, che non hanno luce propria, ma la ricevono da una stella attorno alla quale girano.

Anche il Sole è una stella. Attorno ad essa girano nove pianeti: Mercurio, Venere, Terra, Marte, Giove, Saturno, Urano, Nettuno, Plutone; tutti ricevono luce e calore dal Sole.

Naturalmente, più ne sono lontani meno intensi giungono loro i raggi solari. Anche i satelliti ricevono luce e calore da una stella attorno alla quale girano.  Essi però devono girare anche attorno ad un pianeta. La Luna è il satellite della Terra.

Tutti i pianeti ed i satelliti formano la grande famiglia del Sistema Solare di cui fanno parte anche le comete ed i bolidi che qualche volta vediamo comparire fugacemente nel firmamento con una scia luminosa.

Ognuno di questi mondi compie sempre lo stesso percorso, alla stessa velocità e trova nell’immensità (Universo) la sua strada, senza urtare altri mondi.

Essi ci appaiono molto piccoli; ci sembra di poterne raccogliere a decine in una mano. Tutt’altro: sono enormi, talvolta assai più grandi del Sole, ma sono lontanissimi.

Immaginiamo che sia possibile viaggiare in treno dalla Terra agli altri mondi. In 260 giorni giungeremmo sulla Luna; in 300 anni toccheremmo il Sole; per arrivare al pianeta Nettuno impiegheremmo 8.300 anni. E questo è niente! Scenderemmo sulla Stella Polare dopo 700 milioni di anni!

Il sistema solare

Per l’uomo dei tempi antichi la Terra era il centro dell’universo: attorno ad essa, ferma, ruotavano tutti i mondi celesti; per l’uomo moderno il nostro pianeta non è che uno degli innumerevoli pianeti che si muovono nello spazio secondo leggi ferree ed immutabili. Noi oggi sappiamo che anche il Sole non è che una delle tante stelle, e non certo il maggiore, sebbene per noi la più importante. Esso è il centro del sistema solare formato dal Sole e dalla Terra, dagli altri pianeti e dai loro satelliti, dalle comete, tutti gravitanti attorno al grande astro fulgente. Ogni pianeta ruota attorno al Sole seguendo un cammino definito a forma più o meno allungata detto orbita. La forza che impedisce ai pianeti di cadere l’uno sull’altro, reggendosi in mirabile equilibrio, è la forza di gravità, che fu scoperta dal grande fisico inglese Newton, verso la fine del 1600.

La legge dell’universo

Un giorno, circa trecento anni fa, mentre lo scienziato inglese Newton se ne stava tranquillo seduto sotto un melo del suo giardino, gli cadde accanto un frutto maturo. Acuto osservatore qual era, pensò: “La mela è caduta; se l’albero fosse stato più alto, di mille metri, di mille chilometri, sarebbe caduta ugualmente. Come mai allora la Luna non cade e così le stelle?”

Rifletti e rifletti, Newton scoprì che gli astri non cadono perchè si attraggono l’un l’altro. La forza di attrazione, combinata con quella che li avrebbe fatti andare dritti, li obbliga a percorrere una linea curva e chiusa chiamata orbita, sempre uguale.

Il Sole

Il Sole è la stella più vicina alla Terra: per questo ci appare tanto più grande e luminoso di tutte le altre. Fra le stelle che vediamo nella notte scintillare nella volta celeste, ve ne sono molte anche più grandi del Sole, ma sono così lontane…

La Terra ha anch’essa la forma di un globo, ma è molto meno grande del Sole e mentre questo è formato di materia incandescente, la crosta della Terra è fredda e compatta e riceve luce e calore dal Sole. Al Sole devono la vita le piante e gli animali che popolano la Terra.

Il sole è grandissimo. Se un uomo potesse farne il giro, percorrendo 4 Km all’ora e camminando 10 ore al giorno, impiegherebbe più di trecento anni.

Se un bambino si mettesse in mente di fare il giro della Terra e camminasse otto o dieci ore al giorno, arriverebbe al punto di partenza otto anni dopo. Un uomo impiegherebbe circa 3 anni; un ciclista capace potrebbe cavarsela in sei mesi; per circondare il mondo con le braccia ci vorrebbe un girotondo di quaranta milioni di bambini!

La Luna

La Luna è l’unico satellite della Terra. Essa non risplende di luce propria, ma, come uno specchio, ci riflette la luce del Sole, così come la parete bianca della casa di fronte, illuminata dal Sole, rischiara la nostra stanzetta che è nell’ombra. Naturalmente se noi fossimo sulla Luna vedremmo, per la medesima ragione, la Terra illuminata. La luna ha la forma rotonda come la Terra. E’ l’astro più vicino a noi, che noi conosciamo meglio. E’ quarantanove volte più piccola della Terra. La Luna è un astro morto, cioè non possiede nè aria nè acqua; non vi possono quindi vivere nè le piante, nè gli animali, nè gli uomini.

Come sappiamo, i satelliti girano attorno ad un pianeta. La Luna gira infatti attorno al nostro pianeta, la Terra, impiegando circa 30 giorni, cioè un mese.

Il movimento di rotazione della Terra

Il Sole, al mattino, illumina le case, le strade, la campagna; è il momento del risveglio. Trascorrono le ore, fino a quando si stendono le ombre della sera e il Sole sembra scomparire. Poi si fa buio e, in cielo, rivediamo le stelle. Nello spazio di un giorno, passano ore di luce e ore di buio. Questo accade perchè la Terra, illuminata dal Sole, non gli presenta sempre la stessa faccia,  ma gira su se stessa (movimento di rotazione) e si fa, a poco a poco, rischiarare. Una faccia, quella rivolta al Sole, è chiara; l’altra faccia, quella che non riceve i suoi raggi, è oscura. Il movimento di rotazione si compie in 24 ore circa; dura cioè un giorno. Il giorno si divide in sue parti: le ore chiare formano il giorno; le ore buie formano la notte.

Per capire meglio infiliamo un ferro da calza in un’arancia. Poniamola davanti ad una candela accesa ed immaginiamo che l’arancia rappresenti la Terra, e la candela il Sole. Vedremo il frutto rischiarato a metà dalla piccola fiamma, mentre l’altra metà rimane in ombra. Facendo ruotare l’arancia come ruota la Terra, tutta la sua buccia passerà, a poco a poco, dalla luce all’ombra e dall’ombra alla luce.

Il movimento di rivoluzione della Terra

Ricordiamo con nostalgia i giorni dell’estate, quando si poteva giocare all’aperto nei lunghi pomeriggi e il sole rimaneva alto fino a tardi e l’aria era calda attorno a noi. Ci viene da pensare che le ore chiare e le ore buie non sono sempre uguali nei giorni dell’anno. In inverno il giorno è breve, la notte lunga, l’aria fredda. In estate il giorno è lungo, a notte breve, l’aria calda.

Questo avviene perchè la Terra compie un largo giro intorno al Sole (movimento di rivoluzione) mantenendosi inclinata rispetto al fascio di raggi che il Sole li invia. Quindi, i raggi del sole, arrivano, durante l’anno, più o meno inclinati, riscaldando di meno e il Sole appare basso sull’orizzonte (giorni brevi). Per questo giro della Terra intorno al sole e per questa sua inclinazione si ha l’alternarsi delle quattro stagioni: inverno, primavera, estate, autunno.

Per capire meglio facciamo l’esperimento della lampada. I raggi solari scaldano più o meno la Terra secondo che siano dritti o inclinati. Ciò si può dimostrare con l’esperimento della lampada. Appoggia sul tavolo una lampada con paralume mobile e dà al paralume inclinazioni diverse. Quando esso è diritto rispetto al piano del tavolo, illumina un cerchio stretto e i raggi della lampada scaldano di più la piccola zona. Quando esso è inclinato, illumina un cerchio più ampio e i raggi della lampada scaldano di meno la zona larga.

Dettati ortografici sul sistema solare – Tutte le opere contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.

I punti cardinali – dettati ortografici

I punti cardinali – dettati ortografici: una raccolta di dettati ortografici sui punti cardinali e l’orientamento, di autori vari, per la scuola primaria.

I punti cardinali 

All’alba, in un punto dell’orizzonte, sempre dalla stessa parte, vedi apparire il sole, che da prima sale lentamente nel cielo, raggiunge a mezzogiorno la massima altezza e subito dopo comincia lentamente a scendere, finchè al tramonto scompare dietro l’orizzonte, nella parte opposta a quella da cui era sorto.

La parte dove sorge il sole si chiama Levante, Est oppure Oriente; dalla parte opposta troviamo il punto chiamato Occidente oppure Ovest. Se ci mettiamo col braccio destro teso verso Est e il sinistro verso Ovest, avremo davanti a noi un terzo punto chiamato Nord, Tramontana o Mezzanotte e alle nostre spalle un quarto punto, che è chiamato Sud, Meridione o Mezzogiorno. Questi quattro punti dell’orizzonte si chiamano punti cardinali ed è bene che tu sappia riconoscerli sul tuo orizzonte.

Sapersi orientare

Come facciamo a camminare senza smarrirci, quando siamo in mezzo a un bosco? Per trovare la via del ritorno, cerchiamo di vedere fra gli alberi qualcosa che ci serva da punto di riferimento per dirigerci: una fonte, una capanna di boscaioli, la forma di un monte lontano. Possiamo trovare il Nord guardando la corteccia degli alberi; dalla parte del Nord il sole non batte mai e perciò la corteccia è più umida, più scura, e spesso coperta di muschio.

Ma supponiamo di trovarci in una pianura vasta, senza alberi, senza capanne, senza montagne visibili all’orizzonte, senza quindi alcun punto di riferimento: allora dobbiamo ricorrere a qualche altro mezzo per orientarci, cioè per trovare la direzione giusta. I popoli antichi, che viaggiavano fra i monti e attraverso boschi e deserti e che solcavano il mare con le navi, sapevano in che direzione andare  perchè sapevano orientarsi guardando il cielo. Essi avevano appunto notato che al mattino il sole sorge sempre dalla stessa parte dell’orizzonte: a oriente.

La parola orientarsi significa riconoscere l’oriente, cioè la parte dalla quale vediamo sorgere il sole al mattino. In pratica, però, per orientarsi basta trovare uno qualsiasi dei punti cardinali. Infatti, stabilita la posizione di uno, si può facilmente stabilire la posizione degli altri.

Di notte il sole non c’è, ma guardando le stelle i viaggiatori antichi si accorsero che una di esse, la stella polare, si trova sempre nello stesso punto del cielo, a Nord.

I punti cardinali – L’orientamento

Il sole sorge da Est: io mi volgo, faccia al sole nascente. Di fronte ho l’Est, alle spalle l’Ovest, alla mia destra il Sud, alla sinistra il Nord.

Mi rivolgo, faccia al Sole calante: di fronte avrò l’Ovest, alle spalle l’Est, alla mia destra il Nord, alla sinistra il Sud.

Ho osservato il punto verso cui volgono le ombre all’ora di mezzogiorno. Mi volgo verso quel punto: di fronte avrò il Nord, alle spalle il Sud, a destra l’Est, a sinistra l’Ovest.

Ho osservato il punto in cui si trova il sole a mezzogiorno. Mi volgo verso quel punto: di fronte avrò il Sud, alle spalle il Nord, a destra l’Ovest, a sinistra l’Est.

Come orientarsi di notte

Di notte ci si orienta con la Stella Polare, che indica sempre il Nord. Ma come riconoscerla? Vi sono nel cielo due costellazioni, che hanno quattro stelle disposte come le ruote di un carro e altre tre come un timone. La costellazione più grande si chiama Orsa Maggiore, l’altra Orsa Minore; l’ultima stella del timone dell’Orsa Minore è la Stella Polare.

La bussola

La bussola è come un piccolo orologio, ma sul quadrante invece delle ore sono segnati i quattro punti cardinali e quelli intermedi. Al centro su un perno c’è l’ago calamitato, libero di girare. Orbene, quest’ago ha la proprietà di volgere la sua punta calamitata sempre verso Nord.

La bussola è stata inventata dai Cinesi molti e molti secoli or sono. E’ stata poi perfezionata da Flavio Gioia, un geniale navigatore di Amalfi.

La bussola è uno strumento indispensabile non solo per chi sfida il mare, ma anche per chi deve pilotare un aereo o per chi deve affrontare viaggi in regioni desertiche.

La rosa dei venti

Ogni vento ha un nome ben preciso, secondo la direzione in cui spira. Si tratta di nomi antichissimi, quasi tutti di origine marinara.

I più importanti sono: Tramontana, vento freddo e secco che soffia da Nord; Greco o Grecale, da Nord-Est; Levante da Est; Scirocco, piuttosto umido e tiepido, che spira da Sud-Est; Mezzogiorno, da sud; Libeccio, spesso violento, da Sud-Ovest; Ponente, da Ovest (detto Ponentino quando è debole); Maestro o Maestrale, da Nord-Ovest.

Il movimento del cielo stellato è solo apparente: mentre noi vediamo girare il cielo da oriente ad occidente, siamo invece noi a girare da occidente ad oriente. Ma questo movimento apparente ci ha dato modo di fissare vari punti: EST dove il sole sembra levarsi, OVEST dove tramonta.

Se ci volgiamo verso est e apriamo il braccio destro di ha il punto dove il sole, che è ormai a metà cammino, batterà i suoi raggi a picco sulla terra (mezzogiorno, sud, austro). La parte opposta è il nord (settentrione, tramontana).

I punti sud e nord possono essere determinati tutti i giorni esattamente con la luce del sole. Ciò non avviene per est ed ovest, se non negli equinozi, cioè il 23 settembre e il 21 marzo. Solo agli equinozi il sole segnerà esattamente est ed ovest, spostandosi poi verso nord o verso sud, a seconda delle stagioni.

Fra i 4 punti cardinali, a metà distanza da ciascuno di essi, si segnano altri quattro punti secondari:

– greco, o nordest

– scirocco, o sudest

– libeccio, o sudovest

– maestro, o nordovest.

Ogni vento ha un nome ben preciso, secondo la direzione in cui spira. Si tratta di nomi antichissimi, quasi tutti di origine marinara. I più importanti sono:

– tramontana: vento freddo e secco che soffia da nord

– greco o grecale: da nordest

– levante: da est

– scirocco: piuttosto umido e tiepido, che spira da sudest

– mezzogiorno, da sud

– libeccio: spesso violento, da sudovest

– ponente: da ovest, detto ponentino quando è debole

– maestro o maestrale: da nordovest.

Dettati ortografici I punti cardinali

Dettati ortografici I punti cardinali – una raccolta di dettati ortografici, di autori vari, per bambini della scuola primaria. Difficoltà ortografiche miste.

Sono due pulcini usciti ieri dall’uovo. Sono già nel prato a godersi la primavera. Guardano intorno, beccano in terra e si bisticciano. Bisticciano per una crostina di pane trovata fra l’erba. Tira uno, tira l’altro… nessuno vince. Il pulcino più scuro dà una beccata alla crostina; il pulcino più chiaro dà una beccata al compagno; l’altro scappa via contento col boccone. Non è passato che un momento; ecco i pulcini già in pace. Beccano contenti l’uno quasi contro l’ala dell’altro.

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Dettati ortografici PREISTORIA

Dettati ortografici PREISTORIA – Una collezione di dettati ortografici sulla preistoria, di autori vari, per la scuola primaria.

L’uomo  antico. L’uomo più antico era un mammifero molto brutto e piccolissimo; il calore del sole ed il vento ne avevano colorito la pelle di un bruno scuro. La testa, la maggior parte del tronco e le estremità erano coperte di peli ispidi e lunghi. La fronte era bassa e la mandibola era come quella di un animale che usi i denti  come coltello e forchetta insieme. Non portava indumenti e non aveva mai visto il fuoco. Quando aveva fame mangiava le foglie crude e le radici delle piante e rubava le uova agli uccelli per procurare cibo ai suoi piccoli. Passava le ore del giorno in cerca di nutrimento.

I ragazzi della preistoria. I ragazzi vivevano accanto ai grandi. Aiutavano la mamma nei lavori di casa, attingevano acqua, accendevano il fuoco, imparavano i riti e le poche parole dello scarso vocabolario. Imparavano a lanciare il giavellotto contro le belve, ma un solo sbaglio era la morte; imparavano a distinguere le erbe buone da quelle velenose, ma un solo sbaglio era la morte. In quella vita non erano ammessi sbagli: la loro scuola era quindi più difficile della tua. C. Negro

Una capanna nel villaggio. La capanna del capo è nel centro del villaggio. In essa vi sono molte cose interessanti: armi e grande quantità di attrezzi di legno o di osso. C’è, per esempio, una serie di aghi appuntiti, con una cruna perfetta, ricavati da ossa di cervo. Assai belli sono alcuni vasi e ciotole di terracotta. Il capo li ha foggiati con le sue mani, li ha dipinti, ne ha rassodato la forma e fissato il colore con il fuoco. E c’è dell’altro nella capanna: un telaio quadrato, con una trama di fibre vegetali tenute ben tese dal peso di una dozzina di sassi. Stuoie, mantelli e tuniche nascono sul telaio, sotto le agili dita delle donne. Il capo, domani, al mercato del villaggio, cambierà una stuoia con una collana di conchiglie raccolte sulla riva lontana del mare e ne farà dono alla sposa.

Lungo la strada dei secoli: l’uomo e il lavoro. Quando l’uomo apparve nel mondo, viveva nelle caverne; nudo, coperto di ispidi peli, correva per le foreste in cerca di cibo, non aveva armi per difendersi, non conosceva il fuoco, tramava di terrore quando udiva scoppiare il tuono fra le nubi, e si nutriva di carne cruda e di frutta selvatica. Ebbene, l’uomo così debole, vinse il leone e la tigre, conquistò il fuoco, trasse dalle viscere della terra i metalli, si fabbricò le armi, costruì le case e le città, addomesticò gli animali e li piegò alla sua volontà, tracciò le strade, navigò sui mari; e tutte queste meraviglie compì appunto col lavoro, grazie a quel suo senso di irrequietezza che lo spinge a non essere mai pago, a fare sempre, a studiare, cercare… F. Perri

L’uomo è smarrito in un mondo misterioso. I primi uomini che comparvero sulla terra vivevano in un mondo che appariva loro misterioso ed ostile. Sotto i ripari delle rocce, nel fondo delle caverne, essi ascoltavano, smarriti, il brontolio del tuono, il fragore delle cascate, l’urlo degli animali selvaggi; e per le loro menti ignare tutto era motivo di stupore e di incontrollato terrore. Mille pericoli li circondavano ovunque: il freddo, il caldo, la siccità, le alluvioni, i movimenti della terra ancora in fase di assestamento. Se cercavano scampo sulle montagne, per sfuggire alle inondazioni e ai torrenti impetuosi, spesso dovevano abbandonarle perchè da esse scaturiva il fuoco dei vulcani. Il suolo dove posavano i piedi talvolta tremava, scosso dai terremoti. In questa natura selvaggia ed insidiosa, essi, per nutrirsi, dovevano andare in cerca di acqua, di erbe, di semi commestibili, di frutta, di cacciagione. E questo significava dover affrontare le fiere che popolavano le pianure e le foreste, dai mammut, grandi più di  qualunque elefante,agli orsi e alle tigri; e anche correre il rischio di smarrirsi o di trovarsi separati dai compagni. Sembra quasi impossibile che l’uomo primitivo abbia potuto sopravvivere, nella disperata lotta per l’esistenza, a tante insidie. Eppure vi riuscì proprio perchè non era quell’essere indifeso e disarmato che sembrava a prima vista: aveva la forza dei muscoli, l’abilità delle mani, la potenza dei sensi. Aveva soprattutto l’aiuto inestimabile dell’intelligenza. M. Confalonieri

L’uomo  primitivo. L’uomo primitivo viveva nell’oscura umidità delle selve. Quando sentiva lo stimolo della fame, mangiava le foglie crude e le radici delle piante e rubava le uova agli uccelli per procurare cibo ai propri piccoli. Alle volte gli capitava, dopo una caccia lunga e paziente, un uccello o un cagnolino selvatico, magari un coniglio. E li mangiava crudi, perchè non aveva ancora scoperto che la carne è più saporita quando è cotta. Quando scendeva la notte, nascondeva la moglie e i bambini nel  cavo di un tronco o dietro qualche riparo naturale, perchè era circondato da belve che sceglievano la notte per andare in cerca di vitto e gradivano il sapore delle carni umane. Era un mondo nel quale bisognava o mangiare o essere mangiati. Al pari di molti animali che riempiono l’aria di grida, anche l’uomo primitivo amava ciarlare. O meglio, ripeteva senza posa lo stesso vociare incomprensibile, solo perchè gli piaceva udire il suono della propria voce. Col tempo imparò che poteva usare quei suoni gutturali per mettere in guardia il compagno contro la minaccia di un pericolo: ed emetteva certi strilli che, col tempo, vennero a significare “Una tigre”, oppure “Degli elefanti”, e gli altri rigrugnivano di ritorno qualche cosa che significava “Ho visto” oppure “Scappiamo a nasconderci”. Fu probabilmente questa, l’origine del linguaggio. Van Loon

I primi abitatori dell’Italia. I primi abitatori dell’Italia per difendersi dalle fiere e dai nemici usarono la clava, un grosso bastone, simile a quello che nelle statue e nelle pitture vedete in mano ad Ercole. Gli uomini primitivi impararono ad usare la pietra,  non solo per scagliarla contro i nemici, ma per foggiare quegli utensili e quelle armi che potete vedere allineati nelle sale dei Musei preistorici delle principali città italiane. E’ assai probabile che, passando in quelle sale, davanti a quei rozzi avanzi preistorici non vi siate neppure fermati, trovandoli privi di interesse.  Li guarderete invece con stupore, se penserete che quegli oggetti furono foggiati parecchie migliaia di anni fa, da uomini che non conoscevano i metalli e che con quei pezzi di pietra triangolari ed ovali cacciavano le fiere, combattevano, tagliavano il legno. Gli uomini che modellarono ed usarono quegli strumenti abitavano nelle caverne, vivevano di pesca e di caccia, lottavano con gli ultimi mammut e con altri spaventosi animali. Una volta uccisi, ne lavoravano, con i rozzi coltelli di pietra, le ossa e le corna, e ne facevano utensili. Si coprivano con le pelli degli stessi animali, e quando volevano ornarsi, si facevano monili di vertebre di pesce e di conchiglie o si tingevano il corpo di rosso. Avevano gran cura dei morti e li seppellivano, con tutti i loro ornamenti, entro le caverne nelle quali erano vissuti. A poco a poco questi uomini impararono a levigare la pietra, a far vasi con l’argilla, a coltivare il lino e il frumento; ebbero animali domestici ed impararono a costruirsi capanne. Se vi recate in visita al grazioso laghetto di Varese in una giornata in cui l’acqua sia molto bassa e trasparente, potrete vedere dei pali conficcati nel fondo del lago: sono gli avanzi di un villaggio costruito 4000 anni fa. Gli abitanti (che non erano forse della stessa razza degli uomini che vivevano nelle caverne, ma erano venuti da noi attraverso le Alpi) conficcavano tronchi di pini, di betulle e di altri alberi, nel fondo del lago, e su queste palafitte costruivano le lor capanne, nelle quali vivevano tra il cielo e l’acqua che li difendeva dal pericolo degli animali feroci. Nei musei preistorici, insieme agli oggetti di pietra, di terra, di osso su cui è scritto “proveniente da abitazioni lacustri”, troverete anche i primi oggetti e strumenti di bronzo.

Aspetto dell’Italia antica
La scienza ha cercato di ricostruire l’aspetto dell’Italia preistorica e di scoprire chi furono i suoi antichissimi abitatori e come vivevano.
La pianura padana era in gran parte coperta d’acqua: i fiumi che confusamente scendevano dalle Alpi e dagli Appennini, non frenati dall’opera dell’uomo, impaludavano. Vaste foreste coprivano gran parte dei suoi monti e delle sue valli; le coste, spesso invase dalle acque, avevano clima malsano.

I primi abitatori della nostra penisola
Gli scavi hanno rivelato l’esistenza di nuclei di popolazione dell’età della pietra grezza. Poco o nulla sappiamo di quelle antichissime genti. Abitavano in caverne, vivevano di caccia e di pesca, ignare quasi della pastorizia e dell’agricoltura.
Liguri furono chiamati questi antichi abitatori della penisola, sparsi non solo nella Liguria propriamente detta, ma in gran parte dell’odierno Piemonte e nelle valli delle Alpi occidentali.
Anche zone del Veneto erano abitate fin dall’età paleolitica dagli Euganei, che lasciarono il nome colli vicini a Padova: provenivano forse dall’Illiria.
I Sicani e i Siculi della Sicilia, come pure i Sardi ed i Corsi, pare fossero affini agli Iberi o addirittura Iberi.
Verso il 2000 aC le popolazioni più antiche della valle del Po furono sopraffatte sa altre popolazioni indoeuropee più numerose e forti, scese dalle Alpi, che avevano un grado superiore di civiltà (pare conoscessero l’uso del bronzo).
Queste invasioni avvennero a ondate successive al principio dell’età del bronzo, e i nuovi venuti spinsero di mano in mano sempre più a sud, lungo la penisola, quelli che li avevano preceduti.
Frattanto, dalle caverne si passò alle palafitte, raggruppate in villaggi lacustri.
Un po’ più tardi villaggi simili sorsero anche in zone non lacustri, su terrazzi sopraelevati trattenuti e sostenuti da pali infilati saldamente nel suolo e circondati da un fossato che difendeva dall’assalto delle belve e dei nemici. Terramara è chiamata questa speciale costruzione.
Gli abitanti delle terramare conoscevano l’uso del bronzo, allevavano animali addomesticati, coltivavano la terra, tessevano il lino e la lana.

Come gli uomini primitivi trovavano riparo. Per migliaia di anni, gli uomini primitivi, muniti soltanto di rozzi bastoni e di pietre dovettero accontentarsi di ripari naturali: caverne, strette valli riparate dagli alberi, rocce sporgenti costituirono i loro unici rifugi. In ogni caso, dimore fisse e ben costruite sarebbero state di scarsa utilità a uomini obbligati a trascorrere la loro vita vagando da un luogo all’altro in cerca di cibo. Alcune popolazioni che vivono tuttora di caccia e di raccolto, come gli Waddis dell’Australia settentrionale, non si costruiscono dimore fisse. Ma col tempo, gli antichi uomini cominciarono a costruirsi dei ripari mobili, che potessero trasportare con sè. Talvolta, come gli Waddis, essi usavano semplicemente delle pelli animali, che, tese fra i rami degli alberi, potevano formare una specie di tetto. Talvolta, come gli Indiani d’America, essi si costruirono delle vere e proprie tende. Più tardi, quando gli uomini divennero proprietari di greggi e cominciarono a coltivare la terra, sentirono la necessità di un posto riparato dove tenere i loro attrezzi, dove cucinare i cibi e dove dormire al sicuro la notte, per molti anni. Queste prime case erano talvolta costruite col fango seccato e indurito al sole. Quando gli uomini ebbero a disposizione scuri robuste per abbattere alberi e tagliare grossi rami, le case furono costruite con tronchi. Un altro materiale da costruzione conosciuto dai tempi antichi è la pietra; ma poichè essa era pesante ed era difficile darle forma, non fu impiegata subito nella costruzione di abitazioni comuni. L’impiego della pietra presentava molte difficoltà: tra le altre, quella di lasciare delle aperture per le porte e per far entrare la luce; i primi architetti, infatti, non conoscevano l’arco con cui più tardi i Romani costruirono i loro ponti di pietra. Talvolta si risolveva il problema appoggiando su due o più pietre verticali una pietra orizzontale. Oppure si scavava in una collinetta una specie di vasta camera sotterranea; le pietre servivano poi a puntellare il soffitto e le pareti e a rinforzare l’entrata.

Si costruiscono templi.  Gli antichissimi architetti dell’età della pietra costruivano i loro templi con grossi e rozzi macigni. Per il trasporto venivano usate rudimentali slitte. Per sovrapporre ai due o tre massi verticali una di queste enormi pietre, veniva probabilmente costruito un terrapieno a piano inclinao che raggiungesse la sommità dei pilastri. Resti di questi grandiosi monumenti si vedono ancor oggi in alcune zone dell’Inghilterra e della Francia.

L’uomo impara a usare il fuoco. Nevicò per mesi e mesi. Tutte le piante morirono e gli animali fuggirono in cerca di sole. L’uomo prese i piccoli sul dorso e si unì agli animali. Ma non potendo viaggiare con la stessa rapidità delle creature più veloci di lui o era condannato a morire oppure doveva ingegnarsi a sopravvivere. Anzitutto trovò modo di coprirsi per non morire congelato. Imparò a scavare buche, nascondendole sotto ramaglie frondose, e in esse intrappolò orsi e iene che poi uccise con macigni e scorticò per usarne le pelli come indumento per sè e la famiglia. Poi c’era il problema della casa: più semplice. Molti animali avevano l’usanza di dormire in caverne; l’uomo li imitò. Cacciò le bestie dai loro ricoveri, e si impadronì delle loro case calde. Ma, anche così, il clima era troppo freddo. Allora un genio ideò l’uso del fuoco. Una volta che era fuori a caccia s’era trovato in mezzo a una foresta incendiata. Ricordava solo di aver rischiato di arrostirsi; e da allora in poi aveva considerato il fuoco come un nemico. Ma ora se lo fece amico. Portò nella caverna un tronco secco e vi appiccò il fuoco usando i tizzoni ardenti raccolti in una selva in fiamme. Con questo mezzo convertì la caverna in una stanzetta deliziosamente riscaldata. E poi, una sera, un pollastro cadde nel fuoco. Nessuno ve lo tolse finchè non fosse diventato arrosto. L’uomo scoprì che la carne cotta aveva un sapore più buono, e senz’altro smise una delle abitudini che aveva fin allora condiviso con gli altri animali, e da quel giorno in poi cominciò  a cucinarsi il cibo. Van Loon

L’illuminazione. Com’erano buie le caverne! Dalla piccola apertura, nelle notti di luna, s’intravedeva un incerto chiarore, ma quando il cielo era coperto da nubi, ai poveri abitanti non restava che raggomitolarsi, stretti l’uno contro l’altro, nei caldi giacigli imbottiti di erba e rivestiti di soffici pellicce d’orso. E i loro occhi, inutilmente spalancati nel buio, finivano per chiudersi nel sonno. Ma un giorno l’uomo fece una grande scoperta:  riuscì ad imprigionare il fuoco, e la sua caverna conobbe la prima forma di illuminazione notturna. Per molto tempo il ramo infuocato dell’albero fu il solo mezzo di illuminazione conosciuto. Poi l’uomo si accorse che certi rami impiegavano più tempo a spegnersi perchè erano ricchi di una gomma profumata: la resina. Ci fu chi raccolse questa resina e la fece liquefare in recipienti di terra. Bastava immergere un ramo in questo liquido e lasciarlo asciugare per avere una torcia dalla fiamma brillante e duratura. Finalmente ci fu chi trovò l’olio. E l’uomo inventò la lanterna. Le prime erano in terracotta, simili a tazze, chiuse sopra, con un foro e un beccuccio da cui usciva il lucignolo che, acceso, bruciava lentamente. Risale al tempo delle persecuzioni cristiane l’apparizione delle prime candele di cera.

La famiglia al tempo dei tempi. Sì, era molto diversa dalla nostra la vita degli uomini primitivi, ma qualcosa di uguale c’era: una famiglia stretta da un sentimento di amore. Senza l’amore, senza l’affetto familiare, l’uomo sarebbe rimasto selvatico. Ecco perchè si dice che la famiglia è la base della società, il fondamento, il piedistallo della grande famiglia umana. I papà e le mamme, in ogni tempo, hanno fatto il loro dovere. Hanno dato nutrimento, protezione e affetto ai loro piccoli. Ma questo non bastava. C’era da insegnar loro tante cose, tante e poi tante: come si accende il fuoco, come si mantiene e come si custodisce; quali frutti ed erbe si possono mangiare; come si imita il grido degli animali per richiamarli, quali sono le grida delle tribù; come si rende aguzza una pietra; come si fa stagionare un ramo per ricavarne un arco; come si segue, si affronta, si colpisce, si scuoia un animale; come si lavora una pelle; come si costruiscono i cesti di giunchi; come si conservano i frutti… E poi quegli antichi genitori insegnavano a leggere nel cielo i segni della prossima pioggia, nelle acque del fiume il preannuncio della piena, e nella terra le orme degli animali. Insegnavano a mettere delle pietre bianche sul sentiero in modo che esse indicassero “qui sono passato io inseguendo un branco di cervi”. Oppure a incidere la corteccia di un albero in modo da far comprendere che quelle intorno erano terre nemiche.  G. Valle

Negli anni più lontani la nostra terra non è sempre stata così, come oggi noi la vediamo. Appena nata, negli anni più lontani, la terra era infuocata, ribollente. Era avvolta da una nube fittissima di vapori scuri. Molto lentamente essa si andò raffreddando, prese forma e si rivestì di una crosta dura di roccia. La nube di vapori che avvolgeva la terra si trasformò in acqua e precipitò sotto forma di piogge torrenziali; tutto ne fu inondato, ogni valle ne fu riempita. Nacquero fiumi, laghi, mari. E, dentro, la terra ancora ribolliva. Tale sua forza scuoteva la crosta di roccia con terremoti violenti; la spezzava, la deformava, vi apriva le bocche infuocate dei vulcani. Sulla terra, intanto, trascorrevano periodi lunghissimi in cui, di volta in volta, il clima era mite o estremamente rigido. Quando il freddo avvolgeva ampie zone della terra si formavano ghiacciai immensi, dalla cima delle montagne fino alla pianura. Poi i ghiacci si ritiravano, si scioglievano, lasciando dietro di sè un paesaggio nuovo. Dopo un lunghissimo periodo di sconvolgimenti, la terra si riposò.  Sulla sua superficie si formarono foreste immense; le acque furono popolate di alghe. Animali mostruosi e terribili, molto simili ai draghi, vagavano per foreste e montagne, combattendosi ferocemente per il possesso della preda ed emettendo gridi terribili. Un giorno essi scomparvero ed altri animali, di grandezza smisurata, come ad esempio il mammut, abitarono la terra. L’uomo comparve molto più tardi; per poter sopravvivere dovette combattere questi mastodontici animali, difendendosi unicamente con armi offerte dalla natura: pietre, rami, ossa… Egli non aveva casa, non conosceva il fuoco per scaldarsi e cuocere i cibi, non conosceva i metalli, non sapeva coltivare i campi, nè navigare o servirsi delle infinite cose che erano attorno a lui. Per sua fortuna, aveva con sè un tesoro inestimabile: l’intelligenza.

La caverna fu la scomoda abitazione degli uomini primitivi. In essa vi era ben poco: alcune grosse pietre e, nell’angolo più riparato, un mucchio di ramoscelli e foglie secche su cui poter dormire. La caverna riceveva luce soltanto dall’imboccatura. L’uomo primitivo si copriva il corpo con le pelli degli animali che uccideva.

La vita dell’uomo incominciò quando già da migliaia e migliaia di anni sulla terra verdeggiavano le foreste e si muovevano gli animali. Usando l’intelligenza, dono che egli solo possedeva, seppe ben presto distinguersi dalle altre creature; imparò a difendersi dai pericoli e a migliorare le sue condizioni di vita.

Era un uomo muscoloso, scuro di pelle, aveva la fronte bassa e la mascella robusta, munita di denti che gli servivano da forchetta e da coltello. Durante il giorno era continuamente alla ricerca di cibo per sè e per la sua famiglia. Di notte metteva al riparo la moglie ed i piccoli nel cavo di un albero o tra le rocce, ed era pronto a difenderli dagli assalti degli animali feroci.

I primi uomini vivevano in un mondo nemico, nel quale si uccideva o si era uccisi. Essi non sapevano ancora parlare ed esprimevano con grida la paura, il dolore, la gioia.

L’uomo si spostava continuamente. Quando nella zona non vi erano più frutti da raccogliere e animali da cacciare, era costretto ad andare a cercarli altrove. Se si fermava nelle località montuose poteva ancora rifugiarsi nelle caverne, ma nelle località pianeggianti doveva pensare a costruirsi un riparo dal freddo e dalle fiere. Nacquero  così le prime capanne che, secondo i luoghi, erano ora di fango, ora di tronchi d’albero, ora di rami. Per difendersi meglio dagli animali, gli uomini le costruirono sugli alberi oppure le recinsero con siepi e con pali.

Vicino ai laghi, i villaggi erano ancora più sicuri. Le capanne costruite su pali infitti nella melma (palafitte), avevano un ponte che li univa alla riva. Di notte gli uomini lo ritiravano in modo che gli animali non potessero penetrare nelle capanne. Per costruire le palafitte furono tagliati e lavorati migliaia di pali con rozze accette di pietra.

Come si scoprì il fuoco? Tante volte l’uomo, durante furiosi temporali, aveva visto gli alberi della foresta incendiarsi, colpiti da misteriose “lingue” che venivano dal cielo. Egli era sempre fuggito terrorizzato, come gli animali. Poi, a poco a poco. cominciò ad avere meno paura: quella luce rischiarava la notte e diffondeva intorno un piacevole chiarore. Un giorno, un coraggioso prese un ramo in fiamme e lo portò con sè a rischiarare la caverna… Come era utile quella fiamma! Con essa l’uomo imparò a cucinare il cibo, a riscaldare il proprio corpo e a difendersi dagli assalti degli animali. Bisognava però aver cura che il fuoco non si spegnesse; perciò dapprima, l’uomo dovette custodirlo e alimentarlo continuamente. In seguito, riuscì ad accenderlo quando voleva, strofinando tra loro due pietre e facendo scoccare la scintilla vicino a foglie secche.

Le armi preistoriche

Per difendersi dagli animali e per cacciarli, l’uomo usò, dapprima, un ramo o un sasso. Rami e sassi furono le prime armi. L’uomo primitivo usò specialmente le pietre, per la loro durezza e per il loro peso. Egli seppe renderle armi pericolose: le appuntì, le lisciò, ne assottigliò i bordi. Preparò così pugnali, asce, punte di lancia e di freccia legate a bastoni, ottenendo armi per la lotta da vicino e da lontano. Con il legno e con la pietra, l’uomo foggiò oggetti di uso comune: raschiatoi, macine, ornamenti.

La prima arma

Il cacciatore cadde, senza forze, davanti alla caverna: il sangue gli usciva da ferite profonde sulle braccia, sulle gambe, sul volto. Quel giorno era stato sfortunato: aveva tentato di uccidere un orso per averne la calda pelliccia; era balzato impugnando un sasso appuntito, ma l’orso era stato più svelto di lui, si era alzato sulle zampe posteriori e gli aveva piantato gli unghioni nelle carni. Il cacciatore era riuscito a stento a liberarsi della belva ed era fuggito, urlando di dolore.

Ecco: era troppo pericoloso assalire gli orsi da vicino… occorreva trovare il modo di colpirli a distanza.

Il cacciatore, mentre lavava le sue ferite con l’acqua e le fasciava con lunghe foglie, pensò: “Legherò una punta di selce ad un bastone, lo scaglierò sull’orso da lontano, all’improvviso, e l’orso cadrà  e non potrà ferirmi”. Si mise subito al lavoro; scelse la pietra più aguzza ed il ramo più dritto, poi li unì saldamente; il cacciatore aveva nelle sue mani la prima lancia.

I metalli

Il focolare primitivo era composto di pietre sovrapposte. Alcune di queste pietre contenevano metalli. Un giorno, per il gran calore, il metallo contenuto nelle pietre si liquefece e colò sul basamento irregolare del focolare. Raffreddandosi, indurì, mantenendo inalterata la forma delle asperità del focolare sulle quali era colato. L’uomo preparò degli stampi, vi fece colare il metallo e ottenne nuove armi e nuovi utensili, molto più resistenti delle antiche armi di pietra scheggiata. Il primo metallo che l’uomo seppe fondere e lavorare fu il rame. In seguito, l’uomo imparò a fondere altri metalli, a lavorarli e a ricavarne armi, utensili e monili sempre più perfezionati. L’età della pietra era finita e la vita dell’uomo divenne più facile.

Verso la civiltà

Lottando con gli animali e vivendo tra essi, l’uomo imparò a riconoscere i più mansueti, quelli che si lasciavano accostare. Pensò all’utilità di avere sempre vicino, per la carne, per il latte, per le pelli, un buon numero di pecore o di buoi o di cavalli. Imparò a servirsene ed a proteggerli. L’uomo diventò così pastore. L’uomo affamato si cibava di molti frutti e di molte erbe. Alcuni particolarmente gli piacquero. Egli osservò che le pianticelle rinascevano dai loro semi. Provò a deporli in quantità nella terra ed ebbe la grande gioia di vedere il primo campicello verdeggiante. L’uomo rimase fedele alle sue pianticelle e divenne agricoltore.

Qualcuno osservò che gli oggetti rotondi rotolano, e inventò la ruota; più tardi costruì il carro. Un altro si accorse che il legno galleggia sull’acqua e si ingegnò a navigare sopra tavole di legno oppure dentro un tronco d’albero scavato. L’uomo dei paesi freddi costruì la slitta, vi attaccò un animale addomesticato e si fece trascinare sulle ampie distese di neve e di ghiaccio.

Gli uomini avevano ormai i loro mezzi di trasporto. Si spostarono più volentieri, si incontrarono con altri uomini , cominciarono a scambiare tra loro gli oggetti che sapevano far meglio o che possedevano in abbondanza: una manciata di grano per una ciotola di latte, bei frutti maturi per una pelle di pecora.

L’uomo imparò a contrattare. Molti prodotti nuovi arricchirono la sua tavola e la sua casa. Nacquero così i primi commerci.

A piccoli passi, gli uomini si avviarono verso nuove civiltà, godendo di maggior benessere.

Poi essi inventarono la scrittura e ci lasciarono notizie scritte. Da quel momento termina il lungo periodo della preistoria, e ha inizio la storia.

Madre terra

L’uomo preistorico fece un passo decisivo sulla via della civiltà quando scoprì che la terra si poteva coltivare. L’uomo delle caverne è diventato, oggi, l’uomo dei grattacieli, ma non ha ancora inventato qualche cosa che gli permetta di sfamarsi senza ricorrere, direttamente o indirettamente, alla terra. E la coltiva diligentemente perchè produca sempre di più.

Dettati ortografici BUONE MANIERE E GENTILEZZA

Dettati ortografici BUONE MANIERE E GENTILEZZA

Dettati ortografici BUONE MANIERE E GENTILEZZA – Una collezione di dettati ortografici su argomenti vari:  gentilezza, buone maniere, amicizia, famiglia, ecc…, per la scuola primaria

La nostra piccola società: siamo veramente uguali?
Scegliamo tre bambini di uguale statura, ad esempio Massimo, Antonio e Carlo, e facciamo loro eseguire una semplice gara di corsa, dal fondo dell’aula alla cattedra. Vince Carlo. E’ giusto che riceva un premio o una lode? Sì, perchè i tre concorrenti erano uguali per capacità,  e uguale era la distanza da percorrere.
Ripetiamo la gara, ma ora disponiamo Carlo in fondo all’aula, Antonio a quattro metri e Massimo a due metri dalla cattedra. Naturalmente vince Massimo. Ma è giusta la sua vittoria?
Disponiamo ancora i tre bambini: uno libero e sciolto, uno con una gamba legata, il terzo con un grosso peso sulle spalle. Chi vincerà? Sarà giusta la sua vittoria?
Chiamiamo ora i bambini a riflettere: anche nella vita accade come in queste gare. Non siamo tutti uguali: ogni uomo è diverso dall’altro per le sue capacità fisiche e intellettuali, per l’educazione che ha ricevuto, per l’ambiente sociale in cui vive, per i mezzi di cui può disporre.
Pensiamo alla piccola società della nostra classe, anche se siete tutti bambini della stessa età alcuni di voi sono alti e robusti, altri piccoli e mingherlini; ci sono tra voi bambini che riescono facilmente nello studio, altri che riescono meno ma volenterosi; ci sono bambini attivi e bambini facili alla pigrizia; bambini loquaci e bambini taciturni.
L’insegnante a volte, nel giudicare uno stesso compito, ad uno stesso risultato assegna voti diversi. Perchè? E’ forse ingiusto il suo comportamento? No, se ha considerato le difficoltà che ogni bambino ha dovuto superare, lo sforzo che ha saputo compiere, e se ha giudicato ciascuno in modo imparziale.
Educhiamo i bambini a giudicare con serenità i successi o gli insuccessi dei compagni; ad essere imparziali nel valutare il proprio lavoro e quello degli altri; esortiamoli ad aiutarsi a vicenda.

Le tre cose difficili 

Ad un sapiente dell’antica Roma fu chiesto quali fossero per un uomo le cose più difficili. Il sapiente pensò un poco, poi disse: “Le cose più difficili sono: tenere un segreto, dimenticare un’offesa, spendere bene il proprio tempo”.

Fratelli

Se vuoi  essere un buon fratello, guardati dall’egoismo; proponiti ogni giorno di mostrarti generoso. Rallegrati delle virtù delle sorelle e dei fratelli tuoi e imitale; rallegrati delle gioie loro, condividi i loro piccoli crucci e fa che essi abbiano a benedire la sorte di averti fratello. (S. Pellico)

Il prossimo

 Vecchi e giovani, ricchi e poveri, disgraziati e felici, tutti sono il nostro prossimo. Noi abbiamo tanti bisogni che non sappiamo soddisfare da soli: ecco che ci aiuta il prossimo nostro. Ama il tuo prossimo: soccorri il bisognoso, sii pietoso con chi soffre, sappi difendere il debole, pratica il bene, proteggi il derelitto, consola chi piange. Queste sono tutte opere d’amore per il prossimo. G. Mazzini

Roba d’altri

Che quiete si godrebbe nel mondo se tutti rispettassero la roba altrui! Non più ladri, non più vandali. L’uomo che non offende nessuno e non teme vendette, starebbe tranquillo; le mura di cinta, i muretti, gli steccati, i cancelli, le siepi vi sarebbero solo per ornamento. I giardini, gli orti, i viali sarebbero aperti al pubblico sempre e senza bisogno di sorveglianza. Verrà quest’ora felice? Speriamolo. P. Pasquali

Attenti ai fiammiferi

In tutte le case esistono dei piccoli oggetti molto pericolosi che si chiamano fiammiferi. Il loro compito è di accendere i fornelli, le candele, i caminetti… Ma quei personaggi, in apparenza così innocenti, sono pronti a dar fuoco a intere case! Essi sono vere armi da fuoco!   A. Rubino

Quel che è di tutti

Dire che una cosa è di tutti, non vuol dire certo  che è di chi se la prende, nè che tutti possono farne quello che vogliono. Vuol dire che tutti possono goderne senza danneggiarla. Così sono di tutti i fiori dei giardini pubblici, ma devono restare di tutti. Nessuno ha diritto di portarsene a casa un mazzo, ma tutti di goderne la bellezza, il profumo. Sono di tutti le panchine dei viali, dei giardini. Chi si siede ha diritto di trovarle pulite; quando se ne va, ha il dovere di lasciarle in modo che altri si possano sedere, senza trovarvi terra, sassolini o sudicerie. Sono di tutti gli alberi che danno ombra e frescura lungo le vie, le siepi, i cespugli, le fontanelle. E’ di tutti la strada. Tutti vi devono poter camminare sicuri. Nessuno ha diritto di disturbare gli altri, di ingombrare il marciapiede, di farvi delle file per traverso, di passarvi a corsa sfrenata. Hanno diritto di camminarvi anche i vecchi, i bambini, i deboli. E per rispetto degli altri non si devono gettare per la strada rifiuti, cartacce, scatolette o peggio; e tanto meno, si deve far piovere questa roba dalle finestre. Dove tutti capiscono queste cose si vive meglio.

Vivere insieme.

Nella città dove migliaia di persone vivono senza mai conoscersi, si sfiorano senza incontrarsi, il quartiere è luogo dove la gente si conosce, si capisce, si riunisce negli stessi luoghi, si  ritrova nei medesimi negozi. E’ il luogo dove i ragazzi frequentano la stessa scuola, i genitori stringono amicizie, e tutti si aiutano scambievolmente. Ma, vivere vicini, specialmente dove lo spazio è limitato, dove i servizi spesso sono in comune e talvolta insufficienti, significa imporre a se stessi delle limitazioni e dei sacrifici, per rispettare il riposo, le attività, lo spazio, le esigenze degli altri; significa sapersi scusare con  garbo, trattare con cortesia, offrire aiuto, giocare senza far chiasso, con moderazione, non insudiciare scale, soglie, marciapiedi, ecc…

Rispettiamo chi soffre.

Se misuri i tuoi passi ed i tuoi gesti in una casa privata, perchè non dovresti fare lo stesso nella strada che è la casa di tutti? Tutte le volte che incontri un vecchio, un povero, un malato, un uomo che sta lavorando, una famiglia vestita a lutto, cedi il passo con rispetto. Noi dobbiamo rispettare la vecchiaia, la miseria, l’infermità, la fatica, il dolore e la morte. (E. De Amicis)

Il prossimo

Vecchi e giovani, ricchi e poveri, disgraziati e felici, tutti sono il nostro prossimo. Noi abbiamo tanti bisogni che non sappiamo soddisfare da soli: ecco che ci aiuta il nostro prossimo.
Il medico, l’operaio, l’insegnante, l’agricoltore, tutti sono il nostro prossimo.
Ama il tuo prossimo: soccorri il bisognoso, dà un pane all’affamato, sii pietoso con chi soffre. (G. Mazzini)

La sincerità

Non vi è miglior dote in un bambino della sincerità.
Hai commesso un fallo? Non nasconderlo, abbi il coraggio di confessarlo, ti sarà perdonato facilmente e la coscienza non ti rimprovererà.
E’ tanto bello lo sguardo franco e sereno del bambino che non conosce la menzogna!
Il bambino che ha il coraggio di confessare le sue mancanze è un bimbo coraggioso che non indietreggia davanti al pericolo. E’ leale e merita per questo di essere perdonato e stimato.

La giornata

Ogni ora è come una moneta da spendere. C’è chi la spende bene, sempre pensando a ciò che fa, sempre pensando, che passata, quell’ora non torna più.
C’è chi butta via le sue monete e alla sera sente di essere povero povero. Poi il sole tramonta, l’aria si fa scura, il mondo silenzioso. E nel silenzio si sente una voce che domanda: “Come hai speso la tua giornata?” (G. Vaj Pedotti)

La verità

La verità è come una scintilla di fuoco nascosta in un cumulo di paglia. Voi credete che sia spenta ed essa brucia. Voi la coprite di bugie. Sperate così di nasconderla e soffocarla. Ma la verità non si spegne. Cova lentamente. Si fa strada a poco a poco. E a un tratto, ecco spunta una linguetta di fuoco. E’ la sorpresa. E’ la verità che si fa luce. Allora il mucchio di bugie messo sopra la verità arde e si consuma. E la bella fiammata della verità crepita e sorride. (G. Capo)

 I giochi

Anche nel gioco si distingue il bambino gentile e bene educato. Il bambino d’animo buono si preoccupa che anche gli altri si divertano come si diverte lui. Non impone la sua volontà, non è arrogante. Non bisticcia per piccole sciocchezze. Si diverte con misura. Non è egoista fino al punto di negare che un compagno più povero giochi con la sua palla. Gioisce anzi della sua gioia. Chiamato dalla mamma, lascia prontamente  il gioco, senza rimpianti.

Comportiamoci bene

Gli uomini non sono amati per la loro ricchezza; non sono amati per la loro sapienza; ma sono amati per la loro bontà. Dobbiamo essere gentili coi nostri superiori, con i genitori, con gli amici, ma anche con quelli più umili di noi. La scuola è una grande famiglia; sii studioso, attento, generoso verso i compagni, per esserne degno.

Dare

Tutti siamo  nati uguali , tutti dobbiamo morire, nulla resta delle ricchezze, della gloria, del potere: tutto è transitorio. Perchè allora la gente si aggrappa tanto disperatamente a questi beni terreni? E perchè coloro che hanno molto di più di quello che ad essi abbisogna, non danno il superfluo ai loro fratelli? Perchè per qualcuno la vita deve essere così dura?
Che soddisfazione pensare che non abbiamo alcun bisogno di aspettare, che tutti possiamo subito cominciare a cercare di cambiare il mondo, un pochino per volta!… che ciascuno di noi, grande o piccolo, può contribuire immediatamente a diffondere un po’ di giustizia.
Date e riceverete: molto di più di quello che possiate immaginare. Nessuno è mai diventato povero per aver dato. Se lo farete, fra qualche generazione nessuno dovrà provar compassione per i bimbi poveri, perchè di gente povera non ce ne sarà più. C’è posto per tutti a questo mondo, c’è denaro per tutti, ricchezza per tutti, cose belle per tutti. Siamo noi che dobbiamo cominciare a dividercelo con giustizia. (Anna Frank)

Dettati ortografici  BUONE MANIERE E GENTILEZZA – Tutte le opere  contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.

ABC: 40 e più attività legate all’alfabeto

Durante il periodo di presentazione delle lettere dell’alfabeto (mentre si propone l’alfabeto tattile montessoriano, ad esempio, oppure durante il lungo racconto che accompagna le lettere dell’alfabeto nella pedagogia steineriana), ci sono davvero tantissime attività artistiche e ludiche che possono essere proposte ai bambini. Di seguito ne trovate molti esempi.

1. Iniziamo con due semplici “trucchi” che possono aiutare a correggere eventuali problemi di impugnatura della matita. Questo consiste nel legare un oggetto tipo gommina da cancellare alla matita, di http://therapyfunzone.com

 

2. Il secondo si avvale di una piccola pallina di feltro, di http://jensotforkids.blogspot.com/

3. alfabeto realizzato con capi di vestiario: si possono creare delle carte illustrate, oppure si può riprodurre un proprio alfabeto di vestiti coi bambini, di http://www.behance.net/

 

4. alfabeto realizzato con una sedia e dei grandi fogli bianchi di cartone, può essere riprodotto in forma di gioco coi bambini, di http://www.designformankind.com/

 

5. bellissime illustrazioni: il riconoscimento delle lettere può non essere immediato per i bambini, quindi potrebbe essere un bel gioco trovarle all’interno dei disegni… Si potrebbe anche creare una storia. Via http://www.apartmenttherapy.com/

 

6. alfabeto da mangiare, di http://www.kitchencorners.com/

 

7. alfabeto di libri, di http://www.amandinealessandra.com/

8. alfabeto di dita, di http://neumannbelieve.deviantart.com/

9. questo in realtà è un progetto d’arte un po’ difficile: si tratta di dividere il foglio in 25 parti e disegnare le finestre con un pennarello. Poi con acquarelli liquidi si deve colorare ogni finestra con un colore diverso, evitando troppe sbavature da una finestra all’altra. Coi bambini più piccoli si potrebbe fare come pittura “sociale” usando un foglio molto grande, già suddiviso dall’insegnante, e far dipingere ai bambini insieme. Quando asciutto si disegnano le lettere . Di http://www.artprojectsforkids.org/

 

10. memory realizzato coi coperchi dei vasetti di vetro, di http://www.notimeforflashcards.com/

 

11. alfabeto mobile realizzato con le perle di vetro decorative, di http://www.bubblynaturecreations.com/

 

12. alfabeto mobile realizzato coi sassi. Scegliendo sassi piatti si può scrivere la mauscola da un lato, e la minuscola dall’altro: in questo modo i bambini posso scrivere correttamente il loro nome. Di http://www.growinginprek.com/

 

13. Gioco per la corrispondenza maiuscole – minuscole. Le maiuscole si scrivono sulle mollette, mentre le minuscole su una tabella. Di http://www.growinginprek.com/

 

14. Alfabeto realizzato dai bambini, di http://www.notimeforflashcards.com/ (via http://theattachedmama.blogspot.com). L’alfabeto è quello inglese, quindi non tutte le lettere trovano la giusta corrispondenza con la parola in italiano, ma l’idea è facilmente modificabile (ad esempio A apple può diventare A amarena…)

 

15. di http://www.confessionsofahomeschooler.com/ questo bel gioco per imparare la corrispondenza tra maiuscole e minuscole. Si preparano le strisce contenenti le lettere dell’alfabeto illustrate e con le maiuscole in nero e le minuscole in rosso. poi si prendono i cucchiaini di plastica bianca e si scrivono in nero le maiuscole, e quelli di plastica trasparente scrivendo le minuscole in rosso.

 

16. alfabeto mobile coi cappuccetti delle ghiande. Può essere usato sia per comporre parole, sia come memory, di  http://hsbapost.com/

 

17. Gioco per imparare a riconoscere il suono iniziale delle parole. Si ritagliano delle immagini circolari e si prepara una tabella dell’alfabeto (lettere inserite in caselle circolari). Il bambino deve distribuire correttamente le immagini sulla tabella in base al suono iniziale. Per il controllo autonomo dell’errore si può scrivere la lettera sul retro dell’immagine. Di http://theadventuresofbear.blogspot.com/

 

18. gioco di corrispondenza maiuscole – maiuscole. Si scrivono le lettere su una tabella, e si preparano i tappi di plastica segnando su ognuno una lettera. Di http://crayonfreckles.blogspot.com. Il gioco può essere anche fatto con minuscole – minuscole o con minuscole – maiuscole.

 

19. Gioco del messaggio segreto, di http://www.flaxandtwine.com/. Si tratta di preparare un bel sacchettino che contiene le lettere che serviranno al bambino a formare le parole mancanti nel messaggio. E’ una bellissima attività e anche un’idea regalo… Una scheda contiene le istruzioni da una parte, e il messaggio dall’altra. Le istruzioni diranno: “C’è un messaggio speciale per te, riuscirai a risolvere il rompicapo? Istruzioni: 1.ordina per colore; 2. trova la parola nascosta per colore; 3. leggi il messaggio.” Se il bambino non riesce ancora a leggere da solo, un adulto potrà aiutarlo lasciando al bambino il divertimento di dividere le lettere per colore e di comporre le parole.
Se il messaggio è “Cara Giulia, c’è una sorpresa per te in cucina nel forno”, scriveremo:
“Cara …………………..(verde), c’è una …………………(blu) per te in ………………..(marrone) nel …………… (giallo)”

 

20. Imparare l’ordine alfabetico, di http://www.childcareland.com/. Si preparano le strisce di carta, ognuna con una lettera dell’alfabeto, si mescolano, e il bambino deve comporre il festone dalla A alla Z.

 

21. Imparare l’ordine alfabetico col gioco delle frittelle, di http://swampfrogfirstgraders Servono una padella, un piatto, dei dischi di cartone e una paletta da cucina. Sui dischi scriveremo A___C, D___F, G___I, L___N, O___Q, R___T, U___Z, e li metteremo nella padella. Nel piatto disegneremo 7 cerchi, e in ognuno scriveremo le lettere mancanti, cioè B, E, H, M, P, S, V. Il bambino dovrà mettere le frittelle nel piatto, dove c’è la lettera che manca. Naturalmente si possono far mancare altre lettere, preparando le frittelle anche con B___D ecc… Sul retro delle frittelle può essere scritta la sequenza esatta per il controllo autonomo dell’errore.

 

22. Composizione delle prime parole utilizzando i mattoncini da costruzione, di  http://tonsoffunpreschoolactivities. Si scrivono le parole (ad esempio oca, bue, ago, ala, ape, tre, due, uno, sei, bue, blu, gru, oro, uva, via per le parole di tre lettere se si usa un blocco da tre) sul blocco grande. Sul retro si può mettere l’immagine del nome scelto, così il bambino può comporre per autodettatura guardando l’immagine e poi controllare, oppure comporre copiando. Sui blocchi da uno si scrivono le lettere singole che servono a comporre i nomi scelti.

 

23. Composizione di parole con le mollette da bucato, di http://creatingandteaching. Si preparano le schede con illustrazione e parola corrispondente, e le mollette con le lettere singole che compongono ogni parola scelta. Oltre ad essere un esercizio di scrittura e lettura, la gestione delle mollette prepara la mano all’impugnatura corretta della matita.

 

24. Gioco delle macchinine per il riconoscimento delle lettere dell’alfabeto, di http://learningandteachingwithpreschoolers. Ottimo per l’abbinamento maiuscole – minuscole, ma anche per aiutare i bambini con difficoltà ad esercitarsi a riconoscere le lettere a specchio come b-d, q-p o le lettere simili come t-l s-r ecc… Si prepara un dado scegliendo chiaramente sei lettere (ad esempio R T A r t a, oppure b d q p r s) e si prepara una pista contenente caselle che contengano queste lettere. Si lancia il dado per andare avanti (se c’è la lettera più avanti) oppure indietro, fino a che qualcuno o tutti arrivano al via.

 

25. Altra attività con le mollette, di http://1plus1plus1equals1. Si tratta di preparare delle carte che hanno all’inizio una lettera maiuscola, se volete l’immagine di una cosa il cui nome comincia con quella lettera, e di seguito quattro lettere minuscole a scelta, di cui una sola è quella corrispondente alla maiuscola.

 

26. una versione stampabile dell’alfabeto mobile montessoriano con attività di composizione delle parole, di montessoriprintshop

 

27. Il cerchio dell’alfabeto, di http://totallytots.blogspot.com. Si tratta di un cerchio fatto col nastro adesivo, che si presta a molti giochi diversi per il riconoscimento delle lettere e l’abbinamento grafema – fonema. Si possono dare al bambino delle lettere (in forma di scheda, sacchetto di fagioli, cubo ecc…) ed il bambino deve girare alla ricerca della lettera corrispondente, oppure un oggetto e chiedergli di posizionarla in corrispondenza della lettera iniziale (o di una lettera che è contenuta nel nome della cosa in qualsiasi posizione), ecc…

 

28. Altra attività di riconoscimento uguale – diverso, di http://tonsoffunpreschoolactivities, disponibile anche il download. Si preparano due serie di cartellini contenti ognuno una coppia di lettere: una serie con lettere uguali fra loro (rr pp ff…) e una serie con coppie diverse (pd qd qb as…), e due contenitori. Si mescolano le serie e il bambino deve dividere i cartellini nei due contenitori: in uno i cartellini con lettere uguali, nell’altro i cartellini con lettere diverse. Ottimo per bambini con difficoltà.

 

29. in vendita qui http://www.lakeshorelearning.com strisce elastiche e lettere con retro in feltro. Composta la parola sulla striscia, il bambino può tirarla ed essendo elastica le lettere si distanzieranno tra loro facilitando il riconoscimento dei suoni singoli.

 

30. Gioco dei messaggi segreti. Si preparano dei cartellini di carta bianca, e con un pastello a cera o ad olio bianco si scrive una lettera segreta, o una parola segreta, o un messaggio segreto. Il bambino dipingerà i cartellini con acquarelli e vedrà comparire la lettera – parola – frase segreta da leggere. Di http://strongstart.blogspot.com

 

31. altro gioco per l’abbinamento immagine – maiuscola – minuscola, di http://growingkinders.blogspot.com.

 

32. Il bambino compone il suo nome, di http://funinecse.blogspot.com

 

33. L’idea originale prevede di preparare due dischi di cartoncino (anche disponibili per la stampa gratuita) che contengono come mostra l’immagine ognuno una coppia difficile: d – b e p – q. Sotto i foglietti flap colorati ci sono immagini di cose che hanno quell’iniziale (però c’è dog per cane ecc…). Di http://www.icanteachmychild.com. Io ho  preparato, a partire da questa idea, due tabelle separate, una per db e una per pq, perchè credo che metterle tutte insieme generi più confusione. Poi ho usato dei vecchi cd e dei post it alcuni con immagini ed altri con parole scritte.

 

34. L’alfabeto mobile de “Il corvo”. E’ una bella attività collezionare lettere dell’alfabeto ritagliandole da confezioni e giornali, e poi è bellissimo comporre parole… di http://playtalklearn.com/

 

35. ABC yoga, per mamme ispirate, ma in inglese… di http://www.abcyogaforkids.com/

 

36. La collezione di lettere ritagliate da riviste e confezioni può essere usata per questa attività di abbinamento di lettere stampate e lettere ritagliate di http://delightfullearning.

 

37. L’insegnante scrive le lettere alla lavagna col gesso, il bambino “ripassa” con un pennello bagnato, di http://homeschoolmama3.

 

38. altro gioco di “caccia alla lettera” con alfabetieri artistici d’autore o autoprodotti, di http://familyfun.go.com/

 

39. pesca di lettere con tappi metallici e canna da pesca con “amo” calamita, di http://familyfun.go.com/

 

40. Letterology: un blog intero di alfabeti di ogni genere curato da un professore di design, http://letterology.blogspot.com. Potete sbizzarrirvi per la creazione delle vostre collezioni di caccia alla lettera.

 

41. Una caccia alla lettera già pronta… ABC d’arte. Lettere nascoste nei quadri. Un libro che  è anche un divertente nascondino con le lettere dell’alfabeto da cercare all’interno di 26 opere da Giotto a Piero della Francesca, da Picasso a Mirò. A volte ben nascoste altre più evidenti, le lettere interagiscono con il lettore e questo libro diventa un’opportunità di gioco per conoscere l’arte e l’alfabeto attraverso l’incontro di una lettera e un quadro. Alla fine del libro ci sono le soluzioni accompagnate da un breve testo che svela curiosità sul quadro e l’artista.

 

42. sacchetti per raccolte tematiche di oggetti, immagini, carte ecc… di http://inchmark.squarespace.com

 

43. “Lavagna” realizzata fissando mollette da bucato a dei bastoni, ed appendendo i bastoni al muro. Alle mollette i bambini possono appendere lettere dell’alfabeto per comporre parole, di http://sistersguild.blogspot.com/

 

44. Altra caccia alla lettera, ma all’interno di fotografie naturalistiche d’autore, http://joerossiphotography.com

 

45. alfabeto mobile realizzato con gli scovolini, di http://aestheticoutburst.blogspot.com

 

46. Classificatore di oggetti in base alla lettera iniziale del nome, utile anche per l’autodettatura di parole. Di http://pinkandgreenmama.blogspot.com

 

47. Alfabeto puzzle (download gratis qui http://www.scribd.com/) di http://tiredneedsleep.blogspot.com (immagine di http://www.activity-mom.com)

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La collezione continua qui:

http://pinterest.com/melassa/14-abc-123-activities/

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Guest post: La festa di Tanabata e l’albero dei desideri

Ho letto della festa di Tanabata e mi ha molto colpita, così ho chiesto a Junko di raccontarcela…

 … anche se il 7 luglio è già passato, come leggerete poi in alcune regioni del Giappone Tanabata si festeggia anche durante il mese di agosto, e così spero che molti bambini possano realizzare coi loro genitori un “albero dei desideri”, magari ascoltando la leggenda e avendo un’occasione in più per ammirare il cielo stellato dell’estate…

La leggenda di Orihime e Hikoboshi

Ogni anno, la notte del 7 luglio, si scrivono i propri desideri su delle strisce di carta di vari colori (tanzaku), che si appendono a un ramoscello di bambù (L’albero dei desideri). Poi si pregano le stelle affinchè questi desideri possano realizzarsi.

Ci sono diverse teorie sull’origine di questa tradizione, ma una delle teorie popolari e’ quella che la lega alla leggenda cinese delle due stelle Orihime (Vega) e  Hikoboshi (Altair).

Grazie a questa leggenda ogni anno molti giapponesi alzano gli occhi al cielo nella speranza di poter vedere Altair e Vega abbracciarsi ancora una volta. La leggenda del loro amore eterno narra così:

Prima versione:

“Un tempo il dio dell’universo scelse Hikoboshi (la stella dell’agricoltura) come marito di sua figlia Orihime (la stella del cucito). Hikoboshi ed Orihime si sposarono e insieme furono molto felici. Giocavano sempre tra loro, ma purtroppo così facendo dimenticarono il loro lavoro…

Il dio dell’universo si arrabbiò e decise di separarli ponendoli uno ad est e l’altra ad ovest della galassia. Ora Orihime si trovava ad ovest e Hikoboshi si trovava a est. Non potevano incontrarsi e neanche vedersi perche’ la galassia vastissima esisteva tra loro.

Questo li rese tristissimi, e di nuovo non furono in grado di svolgere il loro lavoro, perchè non potevano far altro che piangere e piangere.

Vedendo questa situazione, il dio dell’universo permise loro di incontrarsi di nuovo, ma soltanto una volta all’anno e soltanto a condizione che ogni giorno lavorassero seriamente.

Orihime e Hikoboshi obbedirono. Da allora tutti i giorni svolgono i loro compiti nell’attesa del loro incontro, il 7 di luglio.

E la notte di Tanabata, notte del 7 luglio (Tanabata Matsuri o Festa delle stelle innamorate), queste due stelle brillano di piu’ perche’ sorridono di gioia e felicita”

In  forma estesa:

“Anticamente, sulle sponde del Fiume Celeste (la Via Lattea) viveva Tentei, l’imperatore del Cielo. Tentei aveva  una figlia, Orihime (Vega). 

Orihime era un’abile sarta e tessitrice, e lavorava senza sosta per confezionare stoffe e vestiti per le divinità, realizzando abiti sempre più splendidi. Lavorava talmente tanto che non aveva neppure il tempo di pensare a sè stessa e ai propri interessi.

Così, giunta all’età adulta, il padre le scelse un marito: un giovane mandriano di nome Hikoboshi (Altair). L’occupazione di Hikoboshi era quella di far pascolare i buoi e far attraversare loro le sponde del Fiume Celeste. Era un grande lavoratore e anche lui non pensava ad altro che a svolgere il suo lavoro.

Trattandosi di un matrimonio combinato, i due si conobbero solo il giorno delle nozze, ma questo non fu un male   perchè non appena si incontrarono si innamorarono follemente l’uno dell’altro.

Furono talmente presi dal profondo sentimento che provavano, che dimenticarono completamente i loro doveri, il loro lavoro e gli altri Dei. La loro unica ragione di vita era il loro amore e la loro passione. Così la mandria di buoi finì per essere abbandonata a se stessa e agli dei cominciarono a mancare gli abiti fino ad ora confezionati da Orihime.

A questo punto il sovrano degli dei non potè trattenere la rabbia e li punì severamente: i due innamorati, che fino a quel momento erano inseparabili, avrebbero dovuto vivere le loro vite separatamente. Per evitare che i due potessero incontrarsi, rischiando così di abbandonare nuovamente i loro doveri, l’Imperatore del Cielo creò due sponde separate dal fiume Ama no Gawa (la Via Lattea), e rendendolo impetuoso e privo di ponti, fece si che i due non potessero mai più incontrarsi.

Il risultato non fu però quello sperato: il pastore sognando e pensando sempre alla sua innamorata non accudiva ugualmente le bestie e neppure la dolce fanciulla, pensando continuamente al suo amore cuciva più i vestiti agli dei.

Il sovrano allora, disperato e mosso da pietà e commozione, con il consenso anche degli altri dei altrettanto commossi, emise questa sentenza: “Se deciderete di ritornare ad occuparvi delle vostre attività come un tempo rispettando i vostri doveri, rimarrete divisi dalle sponde del Fiume Celeste per un anno intero però, vi sarà consentito di potervi incontrare una volta soltanto nella notte del settimo giorno del settimo mese dell’anno.”

A queste parole, i due giovani innamorati, pensando all’idea di potersi incontrare di nuovo ripresero di buona lena a lavorare sodo con la speranza di potersi presto riabbracciare. Da quel momento in poi infatti, dopo un anno di lavoro e fatica i due ogni 7 luglio attraversano il Fiume Celeste e nel cielo stellato si incontrano.”

Seconda versione:

“Un tempo nel cielo vivevano a Ovest gli uomini, e a Est le divinità.

Il pastore Hikoboshi (la stella Altair) e la dea Orihime (la stella Vega) si innamorarono e si sposarono in gran segreto, contro la volontà del padre della dea. Andarono a vivere ad Ovest, ed ebbero anche due figli, un maschio e una femmina.

Quando il padre lo venne a sapere, però, saparò i due sposi, riconducendo la figlia nella terra degli dei, e per evitare il  suo ricongiungimento con Hikoboshi, mise tra loro un fiume, la Via Lattea.

I due ne soffrirono moltissimo e alla fine il padre di Orihime finì col commuoversi per le tante lacrime versate dai due sposi; così acconsentì a che potessero incontrarsi di  nuovo, ma solamente una volta l’anno: la settima notte del settimo mese.”

Terza versione:

“C’era una volta in Cina, una bella tessitrice di nome Shokujo. La ragazza era la figlia di un re, e suo padre era molto orgoglioso di lei.

Giunta ad una certa età, il padre cominciò a pensare che per lei fosse giunto il momento di sposarsi, e scelse per lei un giovane agricoltore di nome Kengyu. Dopo essersi sposata, però,  Shokujo cominciò a trascurare il suo lavoro di tessitura.

Suo padre reagì cacciando il marito e decise che d’ora in avanti le sarebbe stato consentito incontrarlo soltanto una volta l’anno,  il 7 luglio. 
Quando il tempo per incontrare Shokujo si avvicina, gli uccelli vanno da Kengyu e costruiscono un  ponte, in modo che lui possa andare da sua moglie.”

Quarta versione

“C’era una volta una stella eccezionalmente bella e saggia, la Principessa Shokujo (Vega) , che oltre ad essere  la figlia del re, era anche un’abilissima tessitrice, ed era responsabile di tutti i tessuti reali. Un giorno Kengyu (Altair), il pastore celeste, si trovò a passare col suo gregge sulla collina vicina al palazzo, proprio mentre Shokujo era affacciata alla finestra.  I loro sguardi si incrociarono e fu amore a prima vista. Si corsero incontro e, dopo un breve fidanzamento, Shokujo e Kengyu chiesero al re la sua benedizione, che lui concesse senza problemi.

Sfortunatamente, però,  i problemi arrivarono presto. I due erano così follemente innamorati che lei trascurò la tessitura, e lui il gregge. Il re intervenne e ordinò che i due sposi fossero separati per sempre da un fiume di stelle (la Via Lattea), fatta eccezione per un solo giorno all’anno,  in cui possono ancor oggi far visita l’uno all’altro.

Quel giorno è il giorno di Tanabata, il giorno in cui Shokujo la principessa e Kengyu il pastore si incontrano, attraversando la Via Lattea con l’aiuto di un ponte formato da uno stormo di passeri, loro fedeli amici.”

Non dimenticarti della leggenda che potra’ darti un grande sogno. (Questa foto e ‘ stata fatta la notte del 7 luglio all’asilo di Ginga).

Questa è la foto di una via del centro di Marugame. Come vi ho detto, per la festa di Tanabata si appendono tante strisce di carta che portano scritte i desideri di ognuno. In questa foto, le decorazioni di bambu che vedete sono state realizzate da una ventina di scuole materne di Marugame.

Quando ero piccola, il giorno seguente , cioe’ l’8 luglio, di mattina molto presto, noi bambini andavamo al fiume con i nostri genitori facendo strisciare per terra i grandi rami di bambu decorati. Al fiume li mettevamo sulla corrente e loro scorrevano fino al mare, con i nostri desideri.
Adesso non si puo’ più fare perche’ si teme che sporchino i fiumi e il mare. Quindi, i rami di bambù decorati ora rimangono appesi per tutto il mese di luglio.

In Giappone, in quasi tutti gli ospedali, si festeggiano tutte le feste annuali per consolare i pazienti. All’ingresso dell’ospedale dove vado, c’è in questi giorni un ramo di  bambu di Tanabata. Un giorno ho letto quello che c’e’ scritto sulle strisce di carta. Tante frasi mi hanno commossa. Ricordo la frase che ha scritto una donna:  ” Spero di poter scrivere per Tanabata anche l’anno prossimo”… 

Nell’epoca Heian (dal 794 AD~al 1192 AD) solo le persone nella corte imperiale festeggiavano Tanabata. Facevano offerte di frutta, verdure e pesci alle stelle e le guardavano, bruciando incenso, e suonando il Koto (la  lira orizzontale giapponese con 13 corde) o il Biwa (il liuto giapponese) e componendo delle poesie. Consideravano la rugiada della notte precedente una goccia di Amanogawa ( il fiume del cielo, la Via Lattea) e la mattina del 7 luglio raccoglievano la rugiada sulle foglie del taro d’Egitto, ci preparavano l’inchiostro e scrivevano i  loro desideri sulle foglie di un albero speciale che si chiama Kaji, un albero sacro usato nei templi.

Dopo l’epoca Heian, questa festa si diffuse tra il popolo e si iniziarono ad usare le strisce di carta al posto delle foglie di Kaji, e i rami di bambù per appenderle.

Fortunatamente ho avuto un’occasione di festeggiare Tanabata come se fossi una persona nell’epoca di Heian, quando ho ballato la danza classica giapponese in un parco a Takamatsu ( la capitale della provincia di Kagawa). Era uno spettacolo molto elegante, che si è tenuto la mattina del 7 luglio nel 2007. Questa foto e’ stata fatta in quel momento.

Junko  N.

 

Tanabata (Settima notte) è una tradizionale festa giapponese, che cade il 7 luglio di ogni anno, quando le stelle Vega e Altair si incrociano nel cielo. In qualche località si festeggia invece il 7 agosto.

La più famosa festa di Tanabata del Giappone si tiene a Sendai dal 6 all’8 agosto. Nel Kanto, la più grande festa di Tanabata si tiene a Hiratsuka, Kanagawa, il 7 luglio. Un’importante festa di Tanabata si svolge anche a São Paulo, in Brasile, alla fine della prima settimana di luglio.

La data originale di Tanabata si basa sul calendario lunisolare giapponese, che è circa un mese indietro rispetto al calendario gregoriano. Come risultato di ciò, la maggior parte delle feste di Tanabata si svolgono il 7 luglio, mentre in alcune località si tengono il 7 agosto, e in alcune altre vengono invece organizzate ancora  il settimo giorno del settimo mese lunare del calendario giapponese tradizionale lunisolare, che di solito cade nel mese di agosto del Calendario Gregoriano.
Le date del calendario gregoriano corrispondenti al settimo giorno del settimo mese lunare del calendario lunisolare giapponese per i prossimi anni sono:
6 agosto 2011
24 agosto 2012
13 agosto 2013
2 agosto 2014
20 agosto 2015
9 agosto 2016
28 agosto 2017
17 agosto 2018
7 agosto 2019
25 agosto 2020

La fanciulla tessitrice della leggenda viene identificata con Vega perchè secondo i popoli orientali Vega, appartenente per noi alla costellazione della Lira, è, secondo gli orientali appartenente alla costellazione della Tessitrice. Allo stesso modo il giovane mandriano viene identificato con Altair della costellazione dell’Aquila, perchè per gli orientali la costellazione di Altair equivale a quella del Mandriano.

La scelta del settimo giorno del settimo mese dell’anno, oltre ad avere una valenza sacra in quanto è un ripetersi del numero 7, dipende dal fatto che, secondo gli studiosi, è questo il periodo di massima luminosità delle stelle e soprattutto nei primi giorni del mese di luglio si nota anche una grande vicinanza tra Altair e Vega rispetto a tutti gli altri giorni.

Sebbene le feste di Tanabata varino da regione a regione, l’usanza è quella di rivolgere preghiere ai due astri, e soprattutto i giovani chiedono protezione per i loro sentimenti e aiuto per poter migliorare le loro abilità e lo studio. Tanabata oggi è una grande festa popolare caratterizzata da vistose e colorate decorazioni, foglietti di carta con preghiere e desideri appesi ai rami degli alberi, sfilate, parate e cibi tipici.

Tanabata è anche un’importante festa per i bambini, e gli alberi dei desideri vengono preparati in tutte le scuole giapponesi, decorati dai bambini con poesie, preghiere e desideri che si vogliono vedere avverati e che possono andare dal miglioramento negli studi a desideri più frivoli…  In ogni caso, desideri e poesie sono ancora oggi le offerte chiave per questa festa, e le famiglie  si riuniscono per scriverle su strisce di carta colorata e per legarle ai rami di bambù. Oltre che in famiglia, alberi dei desideri “pubblici” con pennarelli e strisce di carta pronte si trovano ovunque, anche nelle stazioni ferroviarie, ed ognuno è libero di esprimere i propri desideri e legarli all’albero.

Tradizionalmente sono previsti sette diversi tipi di decorazioni per l’albero dei desideri, ognuna delle quali ha significati diversi:

photo credit: http://en.wikipedia.org

Tanzaku: sono le strisce di carta colorata delle quali abbiamo già parlato,  dove scrivere poesie e desideri da appendere sugli alberi.

fonte: http://en.wikipedia.org/wiki/File:Kamigoromo.jpg

Kamigoromo: in passato servivano per chiedere di migliorare nell’arte del cucito, ora hanno il significato di scongiurare incidenti e malattie.

fonte: http://en.wikipedia.org/wiki/File:TanabataOrizuru.jpg

 Senbazuru: file di origami (soprattutto gru), per chiedere salute alla famiglia e lunga vita. Per ogni persona anziana della famiglia si piega una gru da appendere all’albero dei desideri.  

fonte: http://en.wikipedia.org/wiki/File:Kinchaku.jpg

Kinchaku: borsettine di carta, per chiedere lavoro, prosperità, e per mettere in guardia contro lo spreco di denaro .

fonte: http://en.wikipedia.org/wiki/File:Toami.jpg

Toami: reti da pesca per varie decorazioni, per chiedere buona pesca e buoni raccolti.

 http://en.wikipedia.org/wiki/File:Kuzukago.jpg

Kuzukago: la carta avanzata dalla preparazione delle altre decorazioni viene raccolta e messa in un “sacco della spazzatura” di carta, a simboleggiare il risparmio e  l’importanza di risparmiare.

fonte: http://en.wikipedia.org/wiki/File:TanabataStreamer.jpg

Fukinagashi: strisce decorative di carta colorata, che simboleggiano le fibre che Orihime  utilizza per tessere.

Altre fonti:
http://it.wikipedia.org/wiki/Tanabata

http://en.wikipedia.org/wiki/Tanabata

http://sakuramagazine.com/tanabata-matsuri-festa-delle-stelle-innamorate/

http://www.psychicsophia.com/aion/chap7.html

http://gojapan.about.com/cs/japanesefestivals/a/tanabata.htm

http://web.mit.edu/jpnet/holidays/Jul/song-tanabata.shtml

http://web-jpn.org/kidsweb/explore/calendar/july/tanabata.html

http://www.astroarts.co.jp/special/2012tanabata/legend-j.shtml

http://www.sendaitanabata.com/en/rekisi.html

Geometria Waldorf: Le due forme – racconto per quadrato e cerchio

…introduzione alla geometria Waldorf, attraverso un racconto che fa fare ai bambini l’esperienza artistica delle diverse qualità del cerchio e del quadrato…

C’erano una volta due forme a questo mondo, che erano diverse da ogni altra. Un giorno si incontrarono, divennero amiche, e cominciarono a raccontarsi i loro guai.

La prima disse: “Quando mi metto in piedi, non posso mai stare tranquilla. Devo subito muovermi, e mi arrabbio tanto perchè non riesco mai a stare ferma, nemmeno un attimo”.

L’altra rispose: “Ah, questo non è niente. Quando mi alzo in piedi io,  non posso mai andare da nessuna parte. Io provo con tutte le mie forze, ma non appena ci provo resto incollata lì, e non ci riesco!”

“Bene” disse allora la prima, “Sarebbe bello per me essere capace di stare in piedi ferma, almeno per un momento. Sarebbe un bel cambiamento per me!”

La seconda rispose: “Io darei qualunque cosa per essere capace di alzarmi e fare un giretto!”

Come credete che fossero queste due forme? Provate ad immaginarvele.

(Diamo ai bambini carta  e colori).

Molti di voi hanno avuto l’idea giusta!

(Alcuni bambini possono aver disegnato il triangolo invece del quadrato, quindi l’insegnante mostra un cerchio di cartoncino rosso che rotola, e un quadrato di cartoncino verde che non può correre e rotolare, e non riuscendoci si arrabbia).

Bene, sapete come va a finire la storia?

Il cerchio invita il quadrato ad entrare nella sua forma a fare una passeggiata.

(Mostriamo un cerchio con un quadrato incollato all’interno)

“Oh!”, disse il cerchio, dopo aver rotolato per un bel po’ “Ora sono stanco di girare, e vorrei tanto potermi fermare, almeno un momento!”

“Ma è facile, ti aiuterò io!” disse il quadrato, “Mi farò più grande, così tu potrai starmi dentro”.

Così il quadrato si allargò abbastanza da poter contenere in sè il cerchio, che finalmente potè stare un po’ fermo, senza dover sempre rotolare.

“Che bello!” disse il cerchio “Chiamami ogni volta che vorrai andare a fare un giretto!”

“Grazie!” disse il quadrato “Chiamami ogni volta che ti vorrai riposare!”

Waldorf geometry: The two forms (story for square and circle). Introduction to Waldorf geometry, through a story making do children the artistic experience of the different qualities of the circle and square.

Once there were two forms in this world, which were different from each other. One day they met, became friends, and they began to tell about their troubles.

The first said: “When I am standing, I can never be calm. I have to move right away, and so I get angry because I can never sit still, even for a moment.”

The other replied: “Ah, this is nothing. When I stand up I, I can not ever go anywhere. I try with all my strength, but as soon as I try rest glued there, and I can not! “

“Well,” said then the first form, “It would be nice for me to be able to stand up and not moving, at least for a time. It would be a nice change for me!”

The second replied, “I’d give anything to be able to get up and take a ride!”

How do you think they were these two forms? Try to imagine them.

(We give the children paper and colors).

In Waldorf schools we use the Stockmar beeswax crayons, but they are not essential:

Many of you have had the right idea!

(Some children may have drawn the triangle instead of a square, then the teacher shows a circle of red construction paper which rolls, and a square of green construction paper that can not run and roll, and failing gets angry).

Well, you know how it ends the history?

The circle invites the square to enter in its form for a walk.

(We show a circle with a square inside)

“Oh!” Said the circle, after  It rolled for a while ” Now I’m tired of turn, and I would stop, at least for a moment!”

“But it’s easy, I’ll help you!” the square said, “I’ll do bigger, so you can stay inside of me.”

So the square widened enough to contain within itself the circle, which eventually could be a bit quiet, without always having to roll.

“How beautiful!” said circle “Call me any time you want to go for a ride!”

“Thank you!” said the square “Call me whenever you want to rest!”

I laghi: dettato e disegno

I laghi: dettato e disegno –  una breve descrizione e l’esempio di un disegno alla lavagna per introdurre i bambini di seconda e terza classe allo studio degli ambienti naturali.

Geografia I LAGHI

Qualche volta il fiume, lungo il suo corso, si è trovato sbarrata la strada da qualche grande frana che gli ha impedito di proseguire il viaggio. L’acqua si è fermata, ha riempito la conca naturale che si è formata, e poi lentamente ha scavato per aprirsi un nuovo varco. Ma la conca è rimasta.

Altri laghi, invece, sono stati formati dall’acqua piovana che si è raccolta nelle grandi conche naturali di vulcani spenti. Questi sono i laghi vulcanici.

Altri ancora sono nati dallo scioglimento delle nevi e dall’opera esercitata dai ghiacciai sulle montagne. Questi sono i laghi glaciali.

I laghi alpini, sparsi in tutta la catena alpina, abbelliscono il paesaggio di alta montagna. Nelle loro acque fredde e limpide si specchiano spesso le alte cime rocciose, il verde cupo degli abeti, e il cielo azzurro. I più pittoreschi sono i laghi di Ledro, di Carezza, di Caldonazzo, di Braies, di Misurina.

I laghi artificiali sono sorti in questo modo: gli uomini hanno sbarrato il corso di un fiume con una robusta diga, e l’acqua ha riempito la valle. Alcuni di questi laghi, e precisamente quelli che si trovano numerosi sulle Alpi, servono solo per alimentare le centrali elettriche; altri invece, come quello del Tirso in Sardegna, servono anche per l’irrigazione dei campi. In questi casi il lago artificiale raccoglie nei mesi piovosi l’acqua, che restituisce nei mesi di siccità. Prima, nei periodi di  piena, il fiume straripava ed era perciò causa di distruzione e di rovina; ora invece il suo corso viene regolato e le sue acque sono fonte di prosperità per il paese, perchè rendono più fertili i campi. Inoltre l’acqua mette in moto le turbine e queste azionano i generatori di energia elettrica, che viene distribuita agli stabilimenti ed alle abitazioni.

Il lago

Gli stessi ghiacciai che, in anni lontanissimi, segnarono il corso delle valli e innalzarono barriere di colline, scavarono conche profonde, riempite poi dalle acque dei torrenti e dei fiumi: si formarono così molti laghi.

Allo sbocco delle nostre valli prealpine, incontriamo grandi laghi, circondati dai monti che li riparano dai venti freddi. Lungo le rive, dove sorgono cittadine e paesi pittoreschi, la vegetazione è molto simile a quella che alligna sulle coste del mare.

Il clima, eccezionalmente mite, favorisce le colture di viti, ulivi, cedri, limoni. Nei giardini fioriscono le azalee, le magnolie, le acacie, le palme. Le popolazioni rivierasche solcano con le loro barche le acque tranquille del lago, ricche di lucci, di trote, di anguille.

Sulle Alpi, piccoli laghi dalle acque fredde e limpide rispecchiano le cime dei monti e gli scuri abeti che fanno loro corona.

Infine, alcuni laghi dell’Italia centrale occupano con le loro acque il cratere di antichi vulcani spenti. La loro forma è quasi sempre circolare.

I laghi alpini

Come sono belli i nostri laghi alpini!

Sembrano specchi azzurri che si stendono nel fondo delle valli a riflettere le cime candide delle Alpi e le verdi foreste. In ognuno di essi si va a perdere un fiume turchino che scende dal monte; un altro fiume esce dalle loro acque incantate e riprende il suo corso verso il mare lontano.

Le rive sono pittoresche: alcune si gettano a picco nelle acque, dando al lago un aspetto selvaggio e imponente; altre digradano dolcemente verso le spiagge, ricche di vegetazione. (G. Giacosa)

Sul lago di notte

Non tirava un alito di vento; il lago giaceva liscio e piano, e sarebbe parso immobile, se non fosse stato il tremore e l’ondeggiare leggero della luna, che si specchiava da mezzo il cielo. Si udiva soltanto il fiotto morto e lento frangersi sulle ghiaie del lido; il gorgoglio più lontano dell’acqua rotta tra le pile del ponte, e il tonfo misurato di quei due remi, che tagliavano la superficie azzurra del lago, uscivano a un colpo grondanti e si rituffavano.

L’onda segata dalla barca, riunendosi dietro la poppa, segnava una striscia increspata , che si andava allontanando dal lido. I passeggeri silenziosi, con la testa voltata indietro guardavano i monti e il paese, rischiarato dalla luna, e variato qua e là di grandi ombre. Si distinguevano i villaggi, le case, le capanne. (A. Manzoni)

Visione del lago

Com’è tranquillo il lago! Raramente le onde si agitano, i battelli e perfino le barche tracciano nell’attraversarlo una lieve scia bianca che subito scompare.

Le sue rive hanno olivi e viti, qualche volta anche aranci e limoni, anche se sulle montagne vicine brillano le nevi. Infatti il lago conserva a lungo il calore del sole e lo diffonde attorno. Per questo si vedono intorno al lago, oltre che ridenti cittadine e paesini di pescatori, anche alberghi e ville con magnifici parchi colmi di fiori. Ogni anno vi sono persone che dalla città vengono sulle rive dei laghi a trascorrere un periodo di riposo e di svago.

Anche d’inverno la temperatura non è mai troppo bassa e il paesaggio è sempre meraviglioso.

Come si formano i laghi

Qualche volta il fiume, lungo il suo corso, si è trovato sbarrata la strada  da una grande frana che gli ha impedito di proseguire il viaggio. L’acqua si è fermata, e poi, lentamente ha scavato per aprirsi un nuovo varco. Ma la conca è rimasta. Altri laghi invece sono stati formati dall’acqua piovana che si è raccolta nelle grandi conche naturali di vulcani spenti. Altri ancora sono nati dallo scioglimento delle nevi e dall’opera esercitata dai ghiacciai delle montagne.

I laghi alpini

Questi piccoli laghi, sparsi in tutta la catena alpina, abbelliscono il paesaggio d’alta montagna. Nelle loro acque fredde e limpide si specchiano spesso le alte cime rocciose, il verde cupo degli abeti e il cielo azzurro. I più pittoreschi sono il laghi di Ledro, di Carezza, di Caldonazzo, di Braies, di Misurina.

I laghi vulcanici

Questi laghi riempiono con le loro acque il cratere di antichi vulcani spenti. Perciò la loro forma è generalmente circolare. I principali sono i laghi di Bolsena, di Bracciano, di Albano e di Nemi, nel Lazio; il lago d’Averno in Campania; i laghi di Monticchio, in Basilicata.

I laghi prealpini

Il lago Maggiore o Verbano ha per immissario ed emissario il fiume Ticino. Il lago di Como o Lario è formato dall’Adda che di biforca in due rami: di Como e di Lecco. E’ il più profondo tra i laghi prealpini (410m).

Il lago d’Iseo o Sebino riceve le acque del fiume Oglio.

Il lago di Garda o Benaco è il più esteso d’Italia. E’ formato dal fiume Sarca il quale, uscendone, prende il nome di Mincio.

A cosa servono i laghi artificiali

I laghi artificiali sono sorti in questo modo: gli uomini hanno sbarrato il corso di un fiume con una robusta diga, e l’acqua ha riempito la valle.

Alcuni di questi laghi, e precisamente quelli che si trovano numerosi sulle Alpi, servono solo per alimentare le centrali elettriche; altri invece, come quello del Tirso in Sardegna, servono anche per l’irrigazione dei campi. In questi casi il lago artificiale raccoglie nei mesi piovosi l’acqua, che restituisce nei periodi di siccità. Prima, nei periodi di pena, il fiume straripava ed era perciò causa di distruzione e di rovina; ora invece il suo corso viene regolato e le sue acque sono fonte di prosperità per il paese perchè rendono più fertili i campi.

Inoltre l’acqua mette in moto le turbine, e queste azionano i generatori di energia elettrica che viene distribuita agli stabilimenti ed alle abitazioni.

Dice il lago

“Io rifletto nelle mie acque il cielo, i monti, i colli, i piccoli fiori, le cose grandi e le umili cose. Io accolgo sulla mia superficie i battelli che trasportano gli uomini e le cose necessarie alla vita. Accolgo le barchette dei pescatori che trovano, frugando nel mio grembo, piccoli tesori vivi. Accolgo sulle mie rive incantevoli mille e mille persone malate alle quali ridono la salute e la gioia.” A. Rovetta

Laghetti alpini

Talvolta appare un tranquillo laghetto solitario dalle acque limpide e fresche che riflettono l’azzurro intenso del cielo. Spesso, se guardi intorno a quel solitario laghetto, gli trovi a lato un lago gemello; poi altri attorno, ed altri ancora: una intera famiglia di laghetti, che da buoni fratelli si dividono l’acqua delle nevi e dei ghiacciai. A. Stoppani

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