Presepe in lana cardata tutorial – Maria, Giuseppe, Gesù bambino, i pastori e i Re Magi: eccoci al capitolo finale dei tutorial per realizzare il presepe in lana cardata.
La base per realizzare le statuine si trova qui: bamboline lana cardata
Consiglio di preparare prima un certo numero di statuine, poi di osservarle e decidere in base alle proporzioni tra loro ed alla riuscita, che personaggio assegnare ad ognuna.
Per caratterizzare i personaggi serve un assortimento di lana cardata e non in vari colori, qualche pezzetto di fil di ferro, aghetto da feltro, qualche filo dorato, e se volete infeltrire i mantelli acqua e sapone.
Le statuine che trovate qui sono piuttosto piccole, e per questo mi sarebbe stato molto difficile ricamare occhi e bocca, per cui ho rinunciato in favore di un effetto scenografico d’insieme. A scuola l’unico posto disponibile per il presepe era un piccolissimo caminetto. Se siete abbastanza abili, completate i visi con ago e filo da ricamo, e saranno molto più belli.
La lana cardata si trova, ad esempio, qui:
Presepe in lana cardata tutorial – Maria
Per la veste avvolgere la lana colorata prima sulle maniche, poi sul busto e infine intorno alla figura. Aiutarsi con l’aghetto da feltro. Se si desidera avere un aspetto più compatto, si può poi massaggiare la figura con movimenti circolari dei polpastrelli con acqua e sapone.
Con l’aghetto da feltro aggiungere i capelli e acconciarli. I capelli servono anche a disegnare i contorni del volto.
Per il mantello preparate a parte una falda di lana colorata, se volete fate in modo che da un lato di sia un tono di colore più chiaro, e dall’altro più scuro.
Poi se vi piace che la figura abbia un aspetto più soffice e fiabesco, usate la lana così com’è, se invece vi piace un aspetto più consistente, massaggiate anche il mantello con acqua e sapone prima di fissarlo alla figura:
Decorate con qualche filo dorato:
Presepe in lana cardata tutorial – Giuseppe
Come per Maria, per prima cosa la veste, avvolgendo con cura la lana così:
Poi capelli e barba:
Rivestendo del fil di ferro con la lana marrone realizzare il bastone:
Poi, come abbiamo visto per Maria, preparare il mantello e applicarlo drappeggiando. Decorare con qualche filo dorato.
Presepe in lana cardata tutorial – Gesù bambino
Per la mangiatoia ho prima avvolto della lana cardata intorno al fil di ferro, come ho fatto per la capanna, poi l’ho modellato e decorato con altra lana cardata e qualche filo dorato. Il bambino si realizza come le statuine, ma invece della veste si abbozzano le fasce.
Presepe in lana cardata tutorial – Pastori e pastorelle
Per i pastori e le pastorelle c’è solo da seguire il proprio gusto e la propria fantasia. Qui di seguito trovate qualche esempio:
Presepe in lana cardata tutorial – Re Magi
Se cerchi idee per attività in stile steineriano per il periodo dell’avvento, puoi trovarle raccolte qui:
E qui trovi le istruzioni per realizzare il tradizionale presepe in lana cardata:
Nativity scene in carded wool tutorial – Mary, Joseph, baby Jesus, the shepherds and the Wise Men: here we are at final chapter of tutorials to make the Nativity scene in carded wool.
The basis for achieving the dolls are here: dolls in carded wool
I would recommend to prepare before a certain number of dolls, then observe them and decide based the proportions between them and the aspect that, that character assign to each.
To characterize the dolls serves a range of carded wool and not in various colors, a few pieces of wire, needle felting, some golden thread, and if you want the felting capes, also soap and water.
The statues you find here are quite small, and for this I would have been very difficult to embroider eyes and mouth, so I gave up in favor of a dramatic effect overall. At school the only place available for the Nativity scene was a very small fireplace. If you are skilled enough, fill the faces with a needle and embroidery thread, and will be much more beautiful.
Nativity scene in carded wool tutorial – Mary, Joseph, baby Jesus, the shepherds and the Wise Men
Mary
For the robe wrap colored wool first on the sleeves, then on the chest and finally around the figure. Help ourself with the needle. If you want to give a more compact appearance, you can then massage the figure with circular motions of the finger pads with soap and water.
With the needle add the hair and make styling. The hair also serve to draw the contours of the face.
For the mantle separately preparing a layer of colored wool, if you want make it from one side of a tone lighter in color, and the other darker.
Then if you like that figure has appearance softer and fabulous, used wool as it is, but if you like appearance more consistent, massaged mantle also with soap and water before fixing it to the figure:
Decorate with gold thread:
Nativity scene in carded wool tutorial – Mary, Joseph, baby Jesus, the shepherds and the Wise Men
Joseph
Hair and beard:
Covering the wire with the brown wool realize the stick:
Then, as we have seen for Mary, prepare and apply mantle draping it. Decorate with golden thread.
Nativity scene in carded wool tutorial – Mary, Joseph, baby Jesus, the shepherds and the Wise Men
baby Jesus
For the manger before I wrapped of carded wool around the wire, as I did for the hut, then I modeled and decorated with other carded wool and some golden thread. The baby is realized as the dolls, but rather the robe I have done the bend.
Nativity scene in carded wool tutorial – Mary, Joseph, baby Jesus, the shepherds and the Wise Men
the shepherds
For shepherds just follow your own taste and your own imagination. Below are some examples:
Nativity scene in carded wool tutorial – Mary, Joseph, baby Jesus, the shepherds and the Wise Men
Racconti natalizi – una raccolta di racconti di autori vari sul Natale, per bambini del nido, della scuola d’infanzia e primaria.
Racconti natalizi La leggenda dell’abete (G. Benzoni) S’approssimava l’inverno di tanti e tanti anni fa. Un uccellino, che aveva un’ala spezzata, non sapeva dove ripararsi dal freddo e dalla neve. Si guardò intorno per cercare un asilo e vide i begli alberi di una grande foresta. A piccoli passi si portò faticosamente al limitare del bosco. Il primo albero che vide fu una betulla dal manto d’argento.
– Graziosa betulla, vuoi ospitarmi fra le tue fronde fino alla buona stagione?- – Che curiosa idea! Ne ho abbastanza di custodire le mie foglie!- L’uccelletto saltellò fino all’albero vicino. Era una quercia dalla fitta chioma. – Grande quercia, vuoi tenermi al riparo fino a primavera?- – Che domanda! Se io ti riparassi mi beccheresti tutte le ghiande!- L’uccellino volò alla meglio fino a un grosso salice che sorgeva sulla riva di un fiume. – Bel salice, mi dai ricovero fino a che dura il freddo?- – No davvero! Va’, va’ lontano da me!-
Il povero uccellino non sapeva più a chi rivolgersi, ma continuò a saltellare… Lo vide un abete e gli chiese: – Dove vai, uccellino?- – Non lo so. Nessuno mi vuole ospitare e io non posso volare tanto lontano, con questa ala spezzata.- – Vieni qui da me, poverino. Riparati sul ramo che più ri piace- – Oh, grazie. E potrò restare qui tutto l’inverno?- – Certamente, mi terrai compagnia.-
Una notte il vento gelido sferzò le foglie, che caddero a terra mulinando. La betulla, la quercia, il salice, in breve tempo si trovarono nudi e intirizziti. L’abete invece conservò le sue foglie, e le conserva tuttora. Sapete perchè? Perchè Dio volle premiarlo della sua bontà.
Racconti natalizi Storia del piccolo abete Era autunno e gli alberi del bosco perdevano le foglie. E non erano affatto contenti di rimanere nudi e spogli, coi rami stecchiti. Per questo non badavano al pianto di un uccellino che si trascinava per terra perchè aveva un’ala spezzata. L’uccellino si fermò al piede della quercia e le disse: “Oh quercia grande e potente, fammi rifugiare tra i tuoi rami! Ho un’ala spezzata e il freddo che sta per arrivare può farmi morire”.
“Non ho voglia di essere buona!” rispose la quercia. “Quando perdo le foglie sono di cattivo umore”. L’uccellino si trascinò allora ai piedi di un castagno: “Oh, signore del bosco” cinguettò “fammi rifugiare in un buco del tuo tronco! Ho un’ala spezzata e non so dove passare l’inverno”.
Il castagno fu scosso da un forte soffio di vento e molte foglie caddero. “Non sono il signore del bosco” disse “Se lo fossi, proibirei al vento di strapparmi le foglie, ma non ho tempo di occuparmi di una creaturina piccola come te!”. L’uccellino, sospirando, chiese aiuto a un altro albero, poi ad un altro ancora, ma tutti gli risposero di no, perchè perdevano le foglie e si sentivano cattivi. Allora, il povero uccellino si accucciò per terra e, se avesse saputo farlo, avrebbe pianto.
“Dove vai, povero uccellino dall’ala spezzata?” chiese un piccolo abete che ancora aveva tutti i suoi aghi verdi. “Non vado in nessun posto” rispose l’uccellino, “nessun albero ha voluto darmi rifugio per quest’inverno”. “Te lo darò io” disse il piccolo abete. “Quando avrò perdute le foglie, stringerò più forte i rami per ripararti. Speriamo di farcela”. In quel momento apparve un grande angelo bianco. Disse: “Il Signore ti ha benedetto, piccolo albero. Tu non perderai la tua veste verde nemmeno in inverno. Dio premia tutti gli atti di bontà”. Venne l’inverno, e il bosco era silenzioso e ammantato di neve. Gli alberi erano immobili e stecchiti come se fossero morti. Ma il piccolo abete non aveva perduto le foglie. Era rimasto col suo vestito verde ed era il solo in tutto il bosco.
Un giorno passò il vecchio Dicembre. Cercava un albero per appendervi i doni che ogni anno portava alle famiglie. Ma quegli alberi così spogli gli mettevano la la tristezza nel cuore. “Non posso attaccare i lumini e i doni a un albero dai rami stecchiti” diceva, e sospirava. Stava per andarsene, quando vide un alberello tutto verde. Era il piccolo abete che aveva dato rifugio all’uccellino. “Oh” esclamò gioiosamente il vecchio Dicembre “Ho trovato finalmente l’albero che ci vuole!” Da allora l’abete, che resta sempre verde, anche d’inverno, fu scelto per appendervi i lumini e i doni ed è accolto con gioia da tutte le famiglie. (M. Menicucci)
Racconti natalizi L’oste … Sì, ora ricordo, ma vi ripeto, non è facile tenere a mente i clienti. E poi, i clienti di quei giorni! Che trambusto! Che via vai! Augusto, il grande imperatore romano, aveva emanato un editto per il censimento. Voleva sapere quanti cittadini popolassero il suo grandissimo Impero. Anche la Palestina si trovava sotto il suo dominio. Noi Ebrei avevamo, è vero, un re nostro. Si chiamava Erode, e risiedeva a Gerusalemme, la capitale del Regno. Ma sopra di lui c’era l’imperatore romano, che contava più di lui. Bisognava obbedire. Perciò tutti tornavano al paese d’origine per farsi segnare sulle liste della propria tribù.
Ve l’ho detto, furono giorni di grande affluenza, di grande confusione, e devo ammetterlo, di grande guadagno. Il cortile era pieno di animali e di gente. I servi non ce la facevano a servire tutti. Si era giunti alle ultime forcate di fieno, e quanto alla paglia, lo dico con vergogna, molte volte fui costretto a ridistribuire quella già usata. Una sconvenienza, lo so, ma come volete che facessi?
Fu una sera, sull’ora della notte. I servi vennero a dirmi che alla porta si erano presentati due nuovi clienti. Detti in giro un’occhiata. Sotto il portico, la gente si pesticciava. Chiesi ai servi: “Che gente è? Persone di riguardo?” Scrollarono il capo.
“Poveri” mi dissero “un operaio e una donna sopra un asino”. “Se vogliono buttarsi in un canto…” dissi, indicando i portici affollati. “Chiedono una camera particolare” mi fu risposto. “Allora mandateli con Dio. Bella pretesa; una camera particolare in questi momenti, e per gente povera”. “La donna è stanca del viaggio” mi disse un vecchio servo. “E che cosa ci posso fare io? Anch’io sono stanco! Non ne posso più. Se fossero stati clienti buoni… ma con certa gente spesso ci si rimette anche la paglia”.
I servi erano incerti. Allora mi feci io sulla porta. “Mi dispiace” dissi col migliore dei modi, “mi dispiace, ma non c’è posto. Con questo benedetto censimento! Anche voi siete qui per l’editto?” “Sì” rispose l’uomo, un tipo di operaio. “Di che famiglia siete?” “Della famiglia di David”.
Lo guardai sorpreso. La famiglia dell’antico profeta era famiglia reale. “E non avete parenti in città?” L’uomo abbassò gli occhi. Guardai la donna raccolta sull’asino. Che viso pallido e bello! Sotto la coperta che le ricadeva sulle spalle, nella semioscurità, sembrava che facesse luce. “Sono dolente” dissi ancora “ma non c’è posto. Neppure nel cortile; una camera particolare mi è impossibile”. “Questa donna è stanca” disse sommessamente l’uomo. La riguardai. Ella abbassò le ciglia. “Sentite” dissi loro “se volete restare soli e passare una notte al coperto, vi consiglio una cosa. Sul fianco del colle ci sono alcune grotte che servono da stalla. In mancanza di meglio, possono servire come camere particolari. Non ve ne offendete. Così risparmierete anche quei pochi denari”. I due non fiatarono. L’uomo tirò la cavezza dell’asino che si mosse zoppicando. Il lume di quel volto di donna affaticata sparve nel buio.
Rimasi sulla porta, ascoltando lo zoccolo dell’asino che si allontanava. Mi invase una grande tristezza. Li avrei voluti richiamare. Ma come era possibile ospitarli? Vi assicuro che non c’era più posto sotto il portico, e di camere particolari, neppure parlarne. Con tutto ciò ero triste. Rientrai. Avevo una pietra sul cuore. (P. Bargellini)
Racconti natalizi Un mantello speciale (S. Lagerloff) C’era una volta un uomo che uscì fuori nella notte per cercare del fuoco. Andò di casa in casa e picchiava: -Oh, buona gente, apritemi! Ho un bambinello appena nato e cerco del fuoco per riscaldare il mio bambino e la sua mamma.-
Era una notte profonda: tutti dormivano. L’uomo camminò ancora finchè, lontano, scorse un chiarore: si avvicinò e vide nell’aperta campagna un bel fuoco che ardeva, e intorno molte pecore, che dormivano vigilate da un pastore e dai cani. Quando l’uomo si avvicinò alle pecore, tre grossi cani si destarono e spalancarono le bocche per abbaiare, ma non poterono; allora mostrarono i denti e fecero per slanciarsi su di lui, ma i loro denti non poterono morderlo. L’uomo voleva avvicinarsi al fuoco, ma le pecore erano così fitte che tra loro non si poteva passare e l’uomo passò sopra di loro, senza che nessuna si svegliasse o si muovesse, e giunse vicino al fuoco. Allora il pastore si svegliò; era un vecchio severo e violento.
Vedendo quell’uomo vicino al suo gregge, prese un lungo bastone e glielo lanciò contro, ma il bastone cadde proprio ai suoi piedi senza toccarlo. Lo straniero si fece allora vicino al pastore e gli disse: -Dammi un po’ di fuoco che riscaldi il mio bambino appena nato e la sua mamma.- -Prendine quanto ne vuoi- rispose il pastore, ma intanto pensava “Costui non potrà prenderne nemmeno un poco, perchè non ha con sè una pala, nè un recipiente per portare i tizzi accesi”. Ma l’uomo si chinò, prese con le mani alcuni carboni accesi, e li mise nel mantello. Il pastore meravigliato pensava: “Che nottata è questa, che i cani non mordono, e il fuoco non brucia?”. E, pieno di curiosità, seguì l’uomo che aveva già preso la via del ritorno. Vide che lo straniero non aveva una casa: si era fermato davanti a una grotta, nella quale erano una donna e un bimbo. Il pastore allora ebbe pietà del bambino tremante nella notte fredda, e dal sacco che aveva sulle spalle trasse fuori una morbida e bianca pelle di pecora, e la offrì all’uomo per il bambino.
In quel momento, proprio quando il suo cuore diventava buono, vide intorno a sè una fitta schiera di angeli dalle grandi ali d’argento. Tutti insieme cantavano che nella notte era nato il Redentore. Allora il pastore capì perchè in quella notte tutto era così buono e nessuna cosa faceva del male.
Racconti natalizi Il pastorello povero (G. E. Nuccio) Quando gli angeli del cielo annunciarono per valli e per monti ch’era nato Gesù, tutti si misero in cammino per andarlo a visitare. E chi gli portava pane e frumento, chi cacio e ricotta, chi miele e latte, chi capretti o conigli. Venne anche un garzoncello di pastori; ma si sentiva umiliato, e quasi si vergognava, perchè non possedeva nulla da donare a Gesù Bambino. E come entrò, si stette in un angolo della grotta; e stringeva sul petto il suo zufolo, l’unica cosa che avesse.
Ma lo vide la Madonna, e venne a prenderlo per una mano, e gli fece coraggio col suo dolce sorriso. Allora il pastorello si fece animo e disse: -Non ho niente da donare a Gesù Bambino. Solo vorrei offrirgli una sonatina con questo mio zufolo-.
-Sì, figlio mio- disse la Madonna, sorridendogli amorosa. Ma proprio in quel momento, entrarono i tre Re Magi, tutti vestiti di porpora e d’oro, con largo seguito di servitori carichi di ricchissimi doni. Allora il pastorello tornò a mettersi in un angolo della grotta, ma la Madonna lo cercò con gli occhi amorosi, lo scorse e venne di nuovo a prenderlo per mano.
E, facendolo passare tra i magnifici Magi vestiti di porpora e d’oro, lo guidò fin presso la culla di Gesù. Allora il pastorello, voltosi dalla parte del bambino, intonò col suo zufolo la più dolce canzone. Nella grotta si fece un silenzio grande: tutti, Magi e pastori, cacciatori e contadini, donne e ragazzi, tacquero; e le pecore e i colombi e gli uccelli, che stavano dentro e fuori della grotta, tacquero anch’essi; e lo stesso il ruscello, che scorreva lì presso; e il mulino si fermò per non fare rumore. La voce dello zufolo era dolce e soave, come quella di tutte le madri della terra, messe ginocchioni per adorare il Figliolo divino. E Gesù Bambino stava ad ascoltare e guardava, con i suoi occhi dolci di luce, negli occhi del pastorello. E il pastorello si sentiva tanta dolcezza nel cuore; proprio gli pareva di essere tutto solo con Gesù e la Madonna.
Allorchè il suono dello zufolo si tacque, la santa Vergine venne accanto al pastorello, e gli fece una carezza sul capo. E Gesù Bambino, levando la sua bianca manina, lo benedisse. E quando il pastorello passò in mezzo alla folla, tra pastori e contadini, fra servi e Magi, tutti si chinarono al suo passaggio, quasi fosse il re più ricco. Perchè egli aveva offerto il dono più prezioso a Gesù: la musica sgorgata dal suo cuore.
Racconti natalizi Il pastorello Il bambino Gesù era nato nel presepe. Era un bambino piccolo e povero, avvolto in poche fasce e messo a giacere sulla paglia, ma era il Signore del mondo. Questo aveva detto l’angelo ai pastori meravigliati. Quando l’angelo ebbe annunciato la nascita di Gesù, i pastori si levarono, abbandonarono le greggi e si avviarono per visitare il piccolino che era nato.
Ma non si va a mani vuote da un bambino nato da poco, e ogni pastore prese qualche cosa, chi un agnello candido e ricciuto, chi una forma di formaggio, chi una fiasca di latte. Solo un povero pastorello non aveva niente, perchè era molto povero. Povero quasi come il bambino Gesù. Ma anche il pastorello volle andare a visitare quel piccino che era nato.
Si avviò insieme agli altri. La strada era lunga e faticosa, e il pastorello restò indietro. Mentre si affrettava, solo solo, sentì nel buio un lamento. “Chi è?” chiese, e aguzzò gli occhi nella notte. Seduto sul margine della strada, vide un bambino che si stringeva fra la mani un piedino, e piangeva. “Ti fa molto male?” chiese il pastorello. “Sì” rispose singhiozzando il bambino. “Mi sono punto con uno spino e ora non posso camminare” “Dove abiti?” “Lassù” e indicò la cima della montagna. “Io dovrei andare da tutt’altra parte” sospirò il pastorello “ma non posso lasciarti qui solo e ferito. Ti porterò fino a casa tua”.
Prese in braccio il bambino e cominciò a salire. Che fatica! Invece di un bambino, pareva che portasse un macigno! Finalmente, tutto sudato e trafelato, arrivò in vetta al monte e depose il bambino davanti all’uscio di una capanna, sopra un po’ di paglia. Ed ecco che una stella si staccò dal cielo e venne a posarsi sul tetto; e il povero giaciglio splendette come se la paglia fosse diventata d’oro. In mezzo a una gran luce, il pastorello vide, invece del piccolo ferito, un bambino di grande bellezza che dolcemente gli sorrideva.
“Io sono il bambino che è nato stanotte” disse “Il salvatore del mondo annunciato dagli angeli. Tu credevi di allontanarti da me e invece ti ero tanto vicino. Chi aiuta gli altri è vicino a Dio”. Il pastorello si inginocchiò guardando il bambino con occhi pieni di meraviglia e stupore. Poi si ricordò di qualcosa e, mortificato, disse: “Signore, non ho nulla da offrirti…”
“Mi hai già dato molto, perchè mi hai dato la tua bontà” rispose il bambino, e con la piccola mano raggiante, benedisse l’umile pastorello della montagna. (M. Menicucci)
Racconti natalizi Il pastore Che freddo quella notte! Le stelle bucavano il cielo come punte di diamante. Il gelo induriva la terra. Sulla collina di Betlemme tutte le luci erano spente, ma nella vallata ardevano, rossi, i nostri fuochi. Le pecore, ammassate dentro gli stazzi, si addossavano le une sulle altre col muso nascosto nei velli. Noi di guardia invidiavamo le bestie che potevano difendersi così bene dal freddo. Si stava attorno ai fuochi che ci cuocevano da una parte, mentre dall’altra si gelava.
Sulla mezzanotte il fuoco cominciò a crepitare come se qualcuno vi avesse gettato un fascio di pruni secchi. Nello stazzo, le pecore si misero a tremare. Levavano i musi in aria e belavano. “Sentono il lupo” pensai. Cercai a tastoni il bastone e mi alzai. I cani giravano su se stessi e uggiolavano. “Hanno paura anche loro”, pensai.
Intanto, anche i compagni si erano alzati da terra. Facevano gruppo scrutando la campagna. Non era più freddo. Il cuore, invece di battere per la paura, sussultava quasi di gioia. Era di notte e si vedeva luce come di giorno. Sembrava che l’aria fosse diventata polvere luminosa. E in quella polvere, a un tratto, prese figura una creatura così bella che ne provammo sgomento. “Non temete” disse l’apparizione “io vi annunzio una grande gioia destinata a tutto il popolo. Oggi vi è nato un salvatore, nella città di David. E questo sia per voi il segnale: troverete un bambino avvolto in fasce e coricato in una mangiatoia”.
Non aveva finito di parlare, e da ogni parte del cielo apparvero angeli luminosi, e cantavano “Gloria a Dio nel più alto dei cieli e pace in terra agli uomini di buona volontà”. Poi tornò la notte e noi restammo come ciechi nella valle piena di oscurità. I fuochi si erano spenti. Le pecore tacevano. I cani si erano acciambellati per terra.
“Abbiamo sognato!” pensammo. Ma eravamo stati in troppi a fare lo stesso sogno. Lì vicino, sulla costa della collina, erano scavate alcune grotte, che servivano da stalla. Avevano una mangiatoia formata di terra dura. Se il salvatore si trovava in una mangiatoia, voleva dire che era nato in una di quelle grotte. Infatti trovammo, come ci aveva detto l’angelo, un bambino fasciato, in mezzo a due animali, un bue ed un asino. Il bue era quello che dimorava nella stalla. L’asino vi era giunto coi genitori del bambino. Sul basto sedeva il padre, pensieroso; presso la mangiatoia si trovava inginocchiata la madre, in adorazione del suo nato. Guardai quel bambino e il mio cuore si intenerì. Sono un povero pastore, ma ogni volta che vedo un agnellino mi commuovo. E quel bambino mi parve il più tenero, il più innocente degli agnelli. Non so dire altro. Posso aggiungere che non ho più trovato in vita mia una dolcezza simile a quella provata davanti a quel bambino. Anche ora che ci ripenso, mi torna la tenerezza per quell’agnello innocente e gentile. Sono un povero pastore. Perdonatemi se lo chiamo così: è per me il nome più dolce e più caro. (P. Bargellini)
Racconti natalizi Dell’abete solitario
Nel Vosgi, molto vicino a Strasburgo, c’è lo Schneeberg. Fra la sua cima e quella del Donon vi sono diversi gruppi di rocce sugli altopiani o nelle gole delle valli, dove una volta stavano i sacerdoti dei celti e dove guardavano al di là di Stasburgo il levar del sole.
La leggenda contava dodici alte rocce che, nelle sante notti dopo la nascita di Gesù, si mettono in cammino e, ognuna per la sua strada ed ognuna nella sua notte particolare, si affretta ad andare sullo Schneeberg per inchinarsi, da lassù, al sole che sorge.
Su una si queste alte rocce stava, nella dodicesima notte al tempo del compimento dei tempi, un abete solitario sotto il cielo pieno di neve. Per tutta la notte aveva sognato della stalla di Betlemme. Sul far del giorno arrivarono tre carovane con i Re che avevano adorato il bambino a Betlemme ed ora con il loro seguito e con gli animali cercavano il centro del mondo per dirigersi verso oriente, occidente e sud.
Davanti all’abete solitario si fermarono, pensando che proprio qui fosse il centro del mondo. Mentre pensavano questo, divamparono dodici fiamme sopra alle cime ed alle rocce del circondario, fin giù nella pianura dell’Alsazia. I Re si abbracciarono e gli animali delle tre carovane parlarono ancora una volta gli uni con gli altri. Ma l’abete si inchinò profondamente davanti ai tre re venuti dall’Oriente e davanti ad ognuno degli animali, perchè nella sua nostalgia sapeva che questi avevano visto il Signore del mondo nella stalla e vedeva la luce che albergava ancora nei loro cuori. Allora i tre Re benedissero l’abete solitario ed ognuno di loro ne staccò un ramo, per portarlo con sè, finchè l’abete tremò di gioia.
Prima di separarsi i Re predissero solennemente all’abete che un giorno, in un lontano futuro, esso sarebbe sceso dall’altura del Vosgi verso Strasgurgo e poi, da qui, in tutte le valli ed i paesi e le città del mondo e che sarebbe diventato l’albero di Natale, un simbolo della luce nella stalla di Betlemme, che come un sole dei mondi guarda ancor oggi sulla terra addormentata. (Camille Schneider)
Leggenda dei pastori C’era una volta, in un fredda e gelida notte invernale, un povero pastore che svegliandosi spaventato contò le pecore del suo gregge. Mancava una mamma pecora: la pecora migliore che aveva. Il pastore si mise alla sua ricerca, camminava per prati e campi cercando ovunque, sui picchi e in fondo ai burroni. Ascoltava sperando di sentire qualche belato spaventato, ma tutto era silenzioso. Camminò a lungo senza trovare la pecora e si meravigliò del fatto che non era per niente stanco. Un morbido tappeto di fiori stava sotto ai suoi piedi e un soffio tiepido di primavera alitava sul suo viso, eppure si era nel mezzo dell’inverno…
Le gemme si schiusero e il suo cuore stesso fioriva come un bocciolo. Cosa c’era? Tutto era così trasformato! Solo quando pensava alla sua pecora lo riprendeva la tristezza. Mai più avrebbe avuto una simile bella mamma pecora nel suo gregge, con un vello così morbido e bianco! Egli l’amava molto, più di tutte le altre pecore. Oh, se potesse ritrovarla!
Mancava poco e gli avrebbe dato un agnellino, e lui durante la notte l’avrebbe scaldato avvolgendolo nel suo mantello, e di giorno l’avrebbe portato sulle spalle nel cammino verso i pascoli alti del monte, a primavera. Alzando lo sguardo verso i monti lontani vide salire una grande stella lucente come un brillante. “Che stella sarà mai?” si chiese. Non aveva mai visto una stella simile. La stella del mattino non poteva essere, era ancora notte piena. La stella saliva, saliva, e la sua luce era così potente che tutt’attorno cominciò a luccicare.
Il cuore del giovane pastore era pieno di meraviglia, e lui camminava proprio seguendo la direzione della stella. Da quanto tempo camminava, non lo sapeva. Andò avanti finchè arrivò ad una capanna bassa, una misera stalla irradiata dall’oro della stella. Alle sue orecchie arrivò un canto dolcissimo… e quando arrivò vicino dovette coprirsi con la mano gli occhi, tanto era lo splendore che irraggiava da un piccolo bimbo appena nato. Il bimbo giaceva sulla paglia dura e la madre lo cullava cantando dolcemente. Poi lei prese delicatamente un po’ di paglia d sotto ai suoi piedini e la diede al bue e all’asinello che stavano accanto alla greppia.
Il pastore non sapeva di stare davanti a Maria che in quella povera stalla aveva fatto nascere il bimbo celeste. Come si meravigliò il pastore quando il bambino Gesù allungò le sue manine verso una pecora bianca che fiduciosamente posò il muso sulla greppia. Come gioiva il bambino toccando la morbida lana bianca e quando lo sfiorò il tiepido alito dell’animale. Il giovane pastore riconobbe la pecora che aveva cercato tutta la notte.
Maria sorrise, accennò con la testa al pastore e lui potè vedere un po’ dello splendore della stella nei suoi occhi. La madre gli disse, passando le dita tra i morbidi fiocchi della pecora: “La stella l’ha guidata, essa ci ha dato da bere, grazie buon pastore!”.
Il pastore si inchinò davanti al bambino. Nella sua povertà non sapeva cosa donargli. Tagliò un angolo della pelliccia che portava sulle spalle e la stese sulle delicate gambine del bimbo, così che nessun soffio gelido di vento lo sfiorasse. Dalla sua borsa prese l’ultimo pezzetto di pane e lo offrì a Maria.
Un uccellino volò leggero sul palmo della mano di Maria a beccare alcune briciole e trillò. Dal bambino irraggiò una luce che arrivò sul petto dell’uccellino e le sue piume si colorarono d’oro. L’uccellino col petto d’oro passò sopra la greppia e volò via gioioso.
S’era silenzio nella stalla, gli animali respiravano calmi. La pecora si avvicinò al pastore e si inginocchiò accanto a lui, che la accarezzò. Com’era bianca e morbida la sua lana, poteva essere un morbido e caldo lettino per il bambinello.
“Caro bambinello, io ti ringrazio e ti voglio regalare la mia pecora. La lana morbida ti riscalderà nella notte, e il suo latte ti darà forza e farà bene anche a tua madre!” Come in sogno il pastore camminò per prati e campi per raggiungere il suo gregge, il cielo sopra di lui era pieno di migliaia di stelle che illuminavano la sua via. Dopo un pezzetto di strada incontrò Giuseppe, che come Maria aveva negli occhi lo splendore della stella. Giuseppe gli disse: “Il mio bambino ti dona la pace”. Come campane risuonarono queste parole nel cuore del pastore. Oh, notte meravigliosa!
Il pastore contò le sue pecore. Si sbagliava? Si stropicciò gli occhi e ricontò di nuovo. Ma per quanto ricontasse il numero era sempre lo stesso: le pecore erano tre volte di più. I suoi occhi increduli guardarono il gregge diventato così numeroso e grande. Un raggio della stella toccò il suo cuore e il pastore andò con il pensiero al cammino appena fatto, e rivide il bambino giacere nella greppia, pieno di luce celeste. La madre lo cullava e da così lontano sorrise al pastore: “Molte meraviglie accadono in questa notte, tutti saranno benedetti!”. Vicino a lui sentì un lieve belare. Un agnellino appena nato, con la pelliccia candida come la neve, giaceva sulla tera. Egli lo raccolse e l’agnellino si strinse a lui. Il cuore del giovane pastore voleva saltare dalla gioia. Vide il cielo aprirsi sopra di lui e un fermento riempì l’aria, tutte le stelle brillavano e in file lucenti apparvero le schiere celesti. Gli Angeli cantavano, volarono in basso e benedissero la terra e tutto ciò che c’era su di essa.
Racconti natalizi La leggenda del Re segreto Non tanto tempo fa c’era un paese che era il più grande del mondo perchè aveva sottomesso quasi tutti gli altri paesi. Aveva raggiunto non soltanto grande fama, ma anche ricchezze straordinari e i suoi abitanti dovevano confessarsi che alla loro fortuna non mancava quasi nulla.
Un giorno scoppiò in questo paese una strana malattia. Essa colpì dapprima poche persone, poi sempre di più, ed infine divenne un’epidemia. Si manifestò dapprima con strane forme di paralisi, non solo esterne ma anche interne. Le persone colpite non potevano più muoversi, dopo un po’ non riuscivano più a parlare, e infine nemmeno a pensare.
Gli abitanti del paese si disperarono per questa calamità, scoppiata proprio nel loro periodo più felice. Quando la malattia si dilatò e colpì anche le persone più importanti, il re convocò i suoi consiglieri e li interrogò sul da farsi in questa situazione di emergenza. Ma i consiglieri non sapevo dire nulla di più di quanto i medici avevano stabilito. L’unica cosa che consigliavano al re era di far spargere la voce nel regno che chiunque conoscesse un rimedio si presentasse senza indugio. Così fece il re, e dopo un po’ di tempo si presentò al castello un anziano pastore. Esso diede al re un consiglio inaspettato. Disse: “In questa emergenza ti può aiutare una sola cosa. Manda tua figlia al re segreto. Esso ti darà ciò di cui hai bisogno”.
Sentendo queste parole, il re non fu molto felice. Mandare sua figlia, da sola, presso un re sconosciuto, che inoltre era anche segreto: questo non gli garbò per nulla. Ma quando poco dopo fu lui stesso colpito dalla malattia, si decise a seguire il consiglio.
Così la giovane figlia del re se ne andò e cominciò a cercare il re segreto. Non sapeva in quale luogo abitasse, non conosceva nemmeno la strada per arrivarci, era solo piena di un desiderio profondo di trovarlo e di aiutare gli uomini. Camminò dal mattino alla sera e non trovò niente. E quando alla fine della giornata non aveva ancora concluso nulla, decise di non entrare nell’osteria, ma di passare la notte all’aria aperta, per cogliere eventualmente un segno. Così scalò una collina e lì si fermò. Un cielo infinito, di un blu profondo, si stendeva sopra di lei. Mai prima aveva visto un cielo così. A lungo contemplò quella vista e si lasciò trasportare dallo sguardo in quelle lontananze. Si sentì sempre più libera e le sembrava di comprendere molti segreti del mondo. Poi si addormentò profondamente. Quando la mattina dopo si destò, si accorse con grande meraviglia di essere avvolta in un mantello stupendo, blu scuro. Il giorno dopo proseguì la sua marcia. Incontrò numerose persone che le chiedevano aiuto, certe volte anche con malagrazia, con parole sgarbate e cattive.
La figlia del re li ascoltò tutti senza protestare nè arrabbiarsi, e li aiutò tutti, come potè. Infine le venne incontro un uom o che era ormai quasi nudo. Egli le domandò di dargli qualche indumento caldo. Allora lei gli donò il suo vestito perchè, si disse, in fondo lei aveva il mantello. Appena ebbe dato il suo vestito si accorse di indossare un nuovo abito che brillava del rosso più meraviglioso.
Quando il giorno seguente proseguì per la sua strada, le si presentarono molti ostacoli. I sentieri diventavano sempre più difficili e le sue forze stavano per abbandonarla. Solo la sua volontà di raggiungere la meta restò ferma.
Arrivò su un prato che era ornato da splendidi alberi con molto fogliame e frutti luminosi. Si sedette sotto l’albero più grande; le sue forze erano finite. Seduta così, pensò tra sè: “Se solo avessi oltre alla volontà anche la forza!”. In quel momento l’albero potente cominciò a muoversi. Si scosse, si spostò, e un paio di splendide scarpine caddero a terra: erano fatte di oro lucido e caldo. Quando la figlia del re indossò le scarpine, le sue membra furono pervase da una forza che mai aveva sentito prima. Ora poteva riprendere il cammino.
Il quarto giorno il sentiero si inabissò piano verso l’interno della terra. Dapprima la principessa fu circondata da un buio angosciante, poi divenne sempre più chiaro, ed infine arrivò una luce di un’incredibile morbidezza. Le sembrò di entrare nella camera più intima della terra. Nel centro della sala si trovava un trono sul quale era seduto un giovane re che era illuminato come da un sole dolce. Era circondato dagli spiriti della natura, dalle guide degli uomini e dai capi degli angeli. Ora la figlia del re seppe di essere arrivata alla meta.
Il giovane sul trono guardò la principessa e vide ciò che indossava: il mantello blu che aveva sulle spalle, l’abito rosso e le scarpine dorate. Allora disse: “Meriti di ricevere il bene per aiutare gli uomini”, e le porse una coppa d’oro, riempita di acqua limpidissima. La invitò a bere. Poi le diede l’incarico di portare quest’acqua agli uomini e di dare loro la notizia dell’esistenza del re segreto. Quelli che avrebbero creduto al suo messaggio, avrebbero potuto bere e sarebbero stati salvati dalla loro malattia.
In questo modo molti già hanno ricevuto una nuova vita, ma ci saranno ancora molti altri che apriranno i loro cuori al messaggio che esiste un re segreto che è il guardiano e il donatore dell’acqua della vita. Egli abita tra noi e protegge gli uomini. (Eberhard Kurras)
Racconti natalizi Il pastore Giona nella stalla Giona il pastore giaceva avvolto stretto nella sua coperta nella paglia, e dormiva. L’estate era passata da un bel po’. I pascoli erano brulli; già nell’autunno, quando le tempeste spazzavano sopra i campi arati, aveva raccolto le sue pecore e trovato un rifugio insieme a loro dall’oste dell’osteria Corona. Esso aveva dietro l’osteria una grotta stretta dove teneva la sua mucca e d’inverno potevano alloggiare lì tutti quanti, Giona, la mucca e le pecore. Spazio non ne aveva più nessuno, ma il pastore non ci faceva caso e non aveva niente in contrario a dormire con le sue care pecore.
La mucca era mite, sognava forse della primavera prossima, quando avrebbe avuto di nuovo tutta la grotta per sè. Ma nel frattempo godeva del calore che emanava dai lanosi coinquilini.
Il vento d’inverno soffiava rigido attraverso le aperture tra le travi, ma perdeva quasi subito la sua potenza fredda in questo povero rifugio abitato da uomo e animali.
Improvvisamente il pastore si destò, si strofinò gli occhi e si guardò intorno tutto stranito. Osservò con cura ogni dettaglio del vano che già conosceva tanto bene, come se durante il sonno esso gli fosse diventato estraneo. Le mura di roccia, irregolari, che limitavano la grotta su tre lati e formavano anche il soffitto, erano neri dei fuochi che si accendevano lì un tempo. La porta era di legno grezzo, attaccata su dei cardini poco stabili, e aveva delle fessure così larghe che anche senza finestra si poteva osservare tutto ciò che si svolgeva nel cortile.
Giona tastò la paglia che copriva appena la terra nuda, toccò la mangiatoia che conteneva il fieno per la mucca e per le pecore come se la volesse esaminare: “Sì, sì…” mormorò finalmente, “si tratta solo della nostra stalla!”. Però nel frattempo scosse la testa, ancora incredulo.
Dove credeva di essersi svegliato? Il pastore pose una mano sul capo di una pecora e cominciò a raccontare… alcuni pensano che sia stupido parlare agli animali, perchè non capiscono una parola, ma Giona ne sapeva di più, e naturalmente anche le sue pecore ne sapevano di più! Girarono tranquillamente le teste verso di lui e ascoltarono il suono della sua voce calda e profonda che diede loro una sensazione di sicurezza e di protezione.
– Pensate un po’…” raccontò Giona, “ero in un castello, in un palazzo dorato, lì c’era una sala così meravigliosa, che non ho mai visto nulla di simile prima. I muri erano d’oro puro e il soffitto era come un cielo stellato, il tappeto come un giardino fiorito di rose e di gigli. Inoltre lì veniva suonata la musica più deliziosa da musicisti ineguagliabili. Nel bel mezzo della sala si trovava un letto a baldacchino con dei cuscini di piuma soffice. E pensate un po’, in questo letto di piume dormivo io, così morbidamente come sulle ali di un angelo.
Ma improvvisamente si sentì un richiamo forte: “Il re viene, fate posto per il re!”. Un servitore venne correndo e mi disse, anzi mi pregò di far posto nel castello per il re. “Vero che lo fai per il re?” mi disse. Allora io mi alzai, ma quando i miei piedi toccarono terra mi svegliai, ed ora il castello è scomparso e mi trovo di nuovo qui da voi nella stalla-.
Le pecore continuarono a guardare il pastore con i loro occhi tranquilli e scuri. Avevano capito, potevano immaginarsi la bella sala nel castello dorato. Ancora una volta Giona si strofinò con mani forti gli occhi, ma il sogno non si lasciò cacciare. Restò lì e questa era anche la sua intenzione, perchè era stato un angelo a far sognare così il pastore, con una buona ragione.
Fuori il vento soffiò la sua canzone gelata. Giona tirò su la coperta più stretta intorno alle spalle. “No… di sicuro questa è una grotta e non un castello… ma fa un bel calduccio qui, vicino alle pecore dal folto vello! Siamo proprio fortunati!”, constatò Giona “Siamo proprio fortunati a poter essere qui, tutti insieme. L’inverno è un pastore crudele, è meglio evitarlo!”.
Poi sbirciò curioso attraverso le fessure della porta, perchè dal cortile si sentivano delle voci. La voce dell’oste un po’ tonante ma non sgradevole, e la stanca voce di un uomo. Giona non poteva vedere i due, perchè il sole era già tramontato e il mondo era grigio e senza contorni. Improvvisamente però vide avvicinarsi una luce: era l’oste che bussava alla porta tenendo una lanterna: “Giona… Ehi, Giona… sei sveglio?, disse l’oste a voce bassa. “Ma sì, certo” rispose il pastore, ed aprì la porta.
L’aria fredda che entrò lo fece rabbrividire. “Ah, Giona, mio buon amico,” disse l’oste “pensa un po’… è venuta ancora gente, non riescono a trovare un alloggio perchè tutte le case sono piene. Sono talmente stanchi e deboli che proprio non riesco a mandarli via. Giona, per una notte sola, conduci le tue pecore di nuovo sul pascolo. Hanno in fondo una pelliccia calda e non patiranno il freddo. Fai posto per questa brava gente…”
Il pastore non sentì nemmeno più l’aria fredda dell’inverno. Aveva ascoltato l’oste con meraviglia. Il sogno che aveva avuto si ripresentò di nuovo luminoso davanti a lui. “Oste” disse finalmente in tono mite “è il re che cerca alloggio?”
L’oste lo guardò meravigliato, scosse la testa e disse: “Che strane cose dici certe volte, Giona. Il re nella mia stalla? No, no, è gente poverissima. Un uomo e una giovane donna che porta un bambino sotto il cuore. Vero Giona che lo fai, per questa povera gente?”
Così, esattamente così, aveva chiesto anche il servitore nel sogno, pensò improvvisamente il pastore. Ma all’oste disse semplicemente: “Lo faccio”. Poi andò verso le sue pecore e chiamò: “Venite, venite mie care, dobbiamo uscire, il nostro palazzo viene usato da gente povera!”
Senza nessuna fretta, ma senza opporre alcuna resistenza, le pecore lo seguirono: Giona prese il lungo bastone da pastore e si mise davanti al gregge. Guardò gli stranieri molto intensamente quando passò accanto a loro. “Ma no, l’oste aveva ragione, non si trattava di un re che chiedeva alloggio…” Giona vide un uomo con la barba arruffata dal vento, le guance magre arrossate dal vento, e un po’ più in là, su un asino magrissimo, era seduta una giovane donna avvolta in un mantello blu col cappuccio, gli occhi stanchi e tristi, il viso pallido. “No, è semplicemente povera gente che ha bisogno d’urgenza di un tetto…”
“Su… su… mie care… venite al pascolo” disse Giona alle sue pecore, e si incamminò con passo deciso. Il freddo non avrebbe avuto la meglio su di lui. Fuori dalla porta della città erano accesi dei fuochi: uno, due, tre, e lì erano seduti altri pastori che per far posto a tutta la gente che cercava alloggio avevano dovuto abbandonare stalle molto migliori di quella di Giona.
Si scaldarono accanto al fuoco, di buonumore e con qualche buon boccone portato dall’uno o dall’altro. Giona fu salutato cordialmente e tra canti e conversazioni presto dimenticò il suo sogno, la stalla e la povera gente.
Si fece tardi, e un profondo sonno si impadronì dei pastori, che non si accorsero della quiete infinita e piena di pace che improvvisamente scese sulla terra. Solo le pecore alzarono la testa per guardare il cielo, nel quale le stelle brillavano della loro luce più bella. Non c’era nulla in quella notte, in quel cielo, se non quella tranquillità meravigliosa e limpida.
Improvvisamente, poi, il cielo sembrò aprirsi e una luce dorata precipitò sulla terra. A questa luce dovette cedere ogni buio. Allo stesso tempo l’aria si era riempita delle melodie più dolci. I pastori ormai svegli, ma ancora intontiti dal sonno, guardarono la luce, ascoltarono il messaggio della nascita del bambino divino sulla terra e il canto “Osanna nell’alto dei cieli e pace in terra agli uomini di buona volontà”.
Balzarono su, senza sentire freddo nè stanchezza. Volevano vedere il bambino al quale era dedicato tutto questo. La musica celeste indicò loro la strada verso la città, li accompagnò alla stalla.
Credete che Giona abbia riconosciuto la sua stalla, quella grotta dalle pareti nere e con la porticina di legno? Ma no, tutto sembrava così diverso, perchè tutto era stato trasformato dalla nascita del bambino divino. Non più nere erano le pareti della grotta, ma luminose d’oro, e il soffitto si era inarcato come un cielo stellato, il pavimento era un tappeto di rose e gigli, e lì in mezzo stava seduta la regina in un abito pieno di stelle, accanto ad una culla dorata; nella culla, su cuscini d’oro, un piccolo bambino che era così bello che i pastori sentirono una fitta di gioia nel cuore, forte quasi da sembrare un dolore.
Restarono inginocchiati a lungo davanti alla mangiatoia. All’inizio in silenzio, poi pregando e cantando le loro canzoni da pastori. Donarono al bambino celeste ciò che avevano con sè, e quando infine si alzarono e si congedarono, Giona non potè fare a meno di prendere la mano del bambino e baciarla. E allora sentì chiaramente che il bambino gli diceva: “Grazie caro Giona per avermi fatto posto”.
Confuso l’uomo si guardò intorno: aveva veramente sentito quelle parole, o aveva soltanto sognato? Non riusciva a rispondere a questa domanda, e non c’è nulla di cui meravigliarsi: quando i cieli scendono sulla terra e noi possiamo vederli con i nostri occhi, non siamo in grado di dire se siamo svegli o se si tratta di un sogno.
Alcuni giorni dopo l’oste mandò a chiamarlo per dirgli che la grotta era di nuovo libera, e Giona vi fece ritorno con le sue pecore. Benchè le pareti fossero nere come sempre, e la porta di legno sgangherata, nella mangiatoia il pastore vide un cuscino dorato. Confuso si strofinò gli occhi: un cuscino dorato… ma no… non era un cuscino… era la paglia che luccicava come oro, come se il bambino celeste avesse dormito proprio lì. Giona non parlò mai di questo evento a nessuno, e nessuno al di fuori di lui aveva visto l’oro: solo lui e forse le pecore. Ma esse conservarono il segreto proprio come fece il loro pastore. Qualche volta però, quando Giona avvolto nelle sue coperte dormiva sulla paglia, vedeva di nuovo il bambino e sentiva di nuovo la voce che gli diceva: “Grazie caro Giona per avermi fatto posto”. (George Deissig)
Racconti natalizi L’ultima visitatrice Si era a Betlemme, allo spuntar del giorno. La stella stava sparendo e l’ultimo pellegrino aveva lasciato la stalla, Maria aveva rassettato la paglia ed il bimbo si era addormentato. Ma si dorme, il giorno di Natale? Dolcemente la porta si aprì, spinta, si direbbe, da un soffio di vento più che da una mano, e una donna apparve sulla soglia, coperta di stracci, così vecchia e rugosa che nel suo viso color della terra la bocca sembrava soltanto una ruga in più.
Vedendola Maria si spaventò, quasi fosse entrata una fata cattiva. Fortunatamente il bambino dormiva! L’asino e il bue masticavano pacificamente la loro paglia e guardavano avvicinarsi la donna senza alcuna meraviglia, quasi la conoscessero da sempre.
Maria, invece, non scattava gli occhi da lei.
Ogni passo che la donna faceva, sembrava lento come un secolo. La vecchia arrivò vicino alla mangiatoia, mentre il bambino continuava a dormire. Ma si dorme, il giorno di Natale?
Improvvisamente il bambino aprì gli occhi, e sua madre fu molto meravigliata, vedendo che gli occhi della vecchia e quelli del suo bambino, erano esattamente uguali, e brillavano della stessa luce di speranza. La vecchia si chinò sulla paglia, mentre la sua mano cercava tra le pieghe dei suoi stracci qualcosa, che pareva ci volessero secoli a trovare.
Maria la guardava con la stessa inquietudine, le bestie la guardavano invece senza sorpresa, come se sapessero cosa stava succedendo. Infine, dopo lungo tempo, la vecchia tirò fuori dai suoi panni un oggetto che, nascosto nella mano, diede al bambino. Dopo i tesori dei Magi e i doni dei pastori, cos’era anche questo regalo? Da dove si trovava, Maria non poteva vederlo. Vedeva solamente la schiena della vecchia curva per l’età, che si piegava ancora di più per chinarsi sulla mangiatoia. Ma l’asino ed il bue la vedevano, e non si meravigliarono affatto.
Questo durò a lungo. Poi la donna si rialzò, come alleggerita da un peso così gravoso che la tirava verso la terra. Le sue spalle non erano più arcuate come prima, la sua testa toccava quasi il tetto di paglia, e il suo viso aveva ritrovato miracolosamente la sua giovinezza. Quando si allontanò dalla culla per tornare verso la porta e sparire nella notte da dove era venuta, Maria potè finalmente vedere che cos’era quel misterioso dono.
Eva (poichè era lei) aveva appena dato al bambino una piccola mela. E questa piccola mela rossa brillava nelle mani del bambino come il globo del mondo nuovo che stava per nascere con lui. (Jerome e Jean Tharaud)
Racconti natalizi – tutte le opere contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere.
Libretti di auguri natalizi “Buon Natale!” – Le foto sono di un “prototipo” che ho usato a scuola. L’idea, semplicissima, è di ricavare delle finestrelle (palline e una stella) attraverso le quali si legge “Buon Natale”, mentre gli avanzi diventano nell’ultima pagina le palline e la stella dell’albero.
Per questi auguri natalizi si possono utilizzare dei cartoncini colorati, oppure riciclare la carta da regalo o vecchie prove di pittura, o naturalmente dipingere i quadretti appositamente per realizzare il libretto.
Utilizzare tutti gli avanzi è molto importante per i bambini, soprattutto se le pitture sono le loro… Coi bambini piccoli è un modo interessante per esercitare il riconoscimento del suono delle lettere.
Questo articolo fa parte dell’Album di Vita pratica:
Christmas greetings “Merry Christmas!” booklet. The photos are of a “prototype” which I used in school. The idea, very simple, is to obtain the windows (balls and a star) through which reads “Merry Christmas” (in Italian “Buon Natale), while the leftovers become on the last page the balls and tree star .
For these Christmas greetings you can use colored cardboards, or recycle wrapping paper or old paintings, or of course paint the squares specially to make the booklet.
Use all the leftovers is very important for children, especially if the paints are their… With small children is an interesting way to exercise sound recognition of letters.
Animali in lana cardata – volpe. Tutorial per realizzare una volpe in lana cardata per il presepe, il gioco o per allestire un teatrino steineriano.
Animali in lana cardata – volpe – Materiale occorrente
lana cardata marrone rossiccio, qualche ciuffetto di grigio chiaro, bianco e marrone scuro per le rifiniture, forbici, fil di ferro abbastanza sottile, aghetto da feltro.
Animali in lana cardata – volpe – Come si fa
preparare una striscia di lana cardata rossiccia, fare un nodo al centro, poi dividere in due falde il ciuffo che avanza ad una delle estremità del nodo, e con queste rivestire il nodo, che sarà la testa della volpe; con poca lana cardata girare intorno al nodo per fermarlo bene:
aggiungere poca lana cardata in alto, e modellarla con l’aghetto da feltro per formare le orecchie, così:
poi inserire l’aghetto da feltro sul davanti del nodo e tirare, per ottenere il musetto a punta, così:
ora, in base alla grandezza della testa, immaginare le dimensioni del corpo, e piegare la falda di lana a misura, poi con dell’altra lana cardata formare un primo abbozzo di corpo, girando attorno:
Poi inserire il fil di ferro per le zampe, mettere la volpe in piedi sul tavolo e deciderne l’altezza, accorciandole ripiegando il fil di ferro su se stesso, e fare delle prove di stabilità, quindi rivestirle avvolgendo la lana intorno al fil di ferro:
Ora modellare il corpo della volpe aggiungendo altra lana cardata e lavorando con l’aghetto da feltro, aggiungere anche della lana rossiccia in più per la coda, se serve, ed alla sua estremità una puntina di bianco:
Dare forma con l’aghetto da feltro, e avvolgere alle estremità delle zampe un po’ di lana marrone scuro. Ora inserire il naso, i baffi e gli occhi, così:
Se cerchi idee per attività in stile steineriano per il periodo dell’avvento, puoi trovarle raccolte qui:
E qui trovi le istruzioni per realizzare il tradizionale presepe in lana cardata:
Animals in carded wool – fox. Tutorial to make a fox in carded wool for the Nativity scene, for play or set up a puppet theater.
Animals in carded wool – fox What do you need?
carded wool reddish brown, some tuft of gray, white and dark brown for the finish, scissors, wire thin enough, felting needle.
Animals in carded wool – fox Howis it done?
Prepare a strip of reddish carded wool, make a knot at the center, then divide into two flaps the tuft that advances at one end of the knot, and with these coat the knot, which will be the fox head; with little carded wool turn around the knot to stop it well:
add little carded wool at the top, and shape it with the needle to form the ears, in this way:
then insert the needle at the front of the knot and pull, to get the the snout, like this:
Now, depending on the size of the head, imagine the size of the body, and bend the flap of wool to size, then with other carded wool form a first outline of the body, turning the wool around:
Then insert the wire for the paws, put the fox standing on the table and decide their height, shorten them by folding the wire back on itself, and do the stability tests, then coat them wrapping the wool around the wire:
Now shape the body of the fox adding other carded wool and working with the needle, also add more reddish wool for the tail, if needed, and at its end a pinch of white:
Give shape with the needle, and wrap the ends of the paws a little dark brown wool. Now enter the nose, mustache and eyes, as well:
Dettati ortografici sul Natale e l’Avvento – una raccolta di dettati ortografici per la scuola primaria, difficoltà miste, di autori vari.
L’ambiente natalizio Il Natale si festeggia in dicembre, all’inizio dell’inverno astronomico. Tutta l’atmosfera è pervasa dall’incanto di questa ricorrenza. Il Natale si associa al freddo, alla neve, al rovaio e quindi alla casa riscaldata, intima, festosa, all’amore rinnovato per la propria famiglia anche perchè questa festa è attesa e desiderata in particolar modo dai bambini. Il nuovo nato è un bambino come loro ed essi lo sentono vicino, hanno confidenza con lui, gli chiedono grazie e doni. Osserviamo l’ambiente natalizio. Dell’inverno abbiamo già parlato, ma cercheremo di rinnovare le nostre impressioni naturalistiche. Elementi del paesaggio natalizio sono il freddo, la nebbia, la neve, il ghiaccio, gli alberi spogli. Ed ecco questo ambiente vivificato da una stella luminosa, ecco i cieli azzurri del presepe, le palme dei paesi caldi, il contrasto fra gli smorti colori dell’inverno e i vivi colori del presepe, che eccita i bambini e li dispone all’attesa. Anche la casa acquista grande importanza. Oltre all’ambiente naturale, osserviamo le vetrine cariche. Vetrine di negozi alimentari con salumi, pollame, cibi d’ogni genere, sempre invitanti ed eccezionali, vetrine di giocattoli, vetrine di pasticceri dove fanno mostra di sé i dolci caratteristici del Natale, panettoni, torroni e quanto la tradizione locale offre.
Dettati ortografici sul Natale e l’Avvento Notizie storiche Il Natale, che oggi si festeggia il 25 dicembre, non fu solennizzato sempre nello stesso giorno. Pare che nel secolo III si festeggiasse il Natale insieme all’Epifania il 6 gennaio, specie in Oriente; ma verso la metà del IV secolo la Chiesa romana fissò tale solennità al 25 dicembre, forse sotto Papa Liberio. Ciò per sovrapporre la festa cristiana a quella pagana del sole. Tra i costumi natalizi, comuni a tutti i paesi cattolici, sono la messa si mezzanotte e il presepe. Il primo presepe viene attribuito a San Francesco, il quale ricostruì la scena della natività a Greccio, un piccolo paese dell’Appennino umbro. La parola presepe vuol dire stalla e, anche, mangiatoia che si pone nella stalla. L’uso del presepe, dapprima limitata alle chiese, si estese in seguito fra i privati e molti scultori e pittori vi si ispirarono per produrre pregevolissime opere. Altro uso natalizio, che ha auto origine nei paesi del Nord, è l’albero di Natale.
La terra di Gesù Palestina si chiamava anticamente la sola parte costiera della regione a cui più tardi fu esteso questo nome; il nome deriva dall’ebraico Pelistin con cui veniva indicato il popolo dei Filistei. Questo paese è formato da tre zone parallele: la zona costiera, l’altopiano e la valle del Giordano. Il Giordano è un piccolo fiume che scorre nel fondo di una stretta valle, forma alcuni laghi, dei quali il più celebre è quello di Genezareth o Tiberiade, e finisce nel Mar Morto, un mare interno che è posto a 400 m sotto il livello del Mediterraneo e le cui acque sono salmastre e contengono bitume, cosicchè le sue rive sono desolate e deserte. L’altopiano è monto accidentato, ed è il prolungamento della catena del Libano; oggi è nudo e roccioso, ma nei tempi antichi aveva ampie foreste e vi crescevano viti, olivi e buoni pascoli, tanto che agli occhi degli Ebrei, quando vi si stabilirono cacciandone i Filistei, sembrò un paese incantevole e lo chiamarono la “Terra Promessa”. La parte settentrionale dell’altopiano si chiama Galilea, la centrale Samaria, le due meridionali Giudea e Idumea. (P. Silva)
Il Natale di Gesù La data della nascita di Gesù fu parecchio controversa. Per parecchio tempo, le chiese orientali festeggiarono il Natale il 6 gennaio. La chiesa romana, invece, adottò la data attuale fin dal IV secolo dC. Alla scelta di tale data contribuì anche la considerazione di un fatto religioso pagano: il 25 dicembre veniva celebrato dai pagani il giorno natalizio del Sole vittorioso, la cui nascita coincide appunto col solstizio d’inverno. Dopo il 21 dicembre, infatti, il sole ricomincia a percorrere nell’azzurro del cielo archi sempre maggiori e le giornate si allungano. Contrapporre la nascita di Gesù a quella del sole invitto significava poter distogliere dalla celebrazione della festa pagana molte persone. E come, poi, non pensare a Gesù, sole delle genti, via e luce, quando il sole ricomincia ad annunciare la sua vittoria sulle brume della stagione inclemente? (R. Lesage)
Tre messe Quel che caratterizza la festa di Natale è la celebrazione delle tre messe solenni a mezzanotte, all’aurora e alla mattina. La messa di mezzanotte risale a pappa Sisto III (432-440) che, a seguito del Concilio di Efeso, aveva fatto grandi restauri alla Basilica Liberiana, dedicata alla Madonna, costruendovi in una piccola cripta una riproduzione della grotta di Betlemme, che diede poi il nome alla Basilica stessa, facendola chiamare Santa Maria del Presepe. Qui infatti, forse ad imitazione della celebrazione notturna che si faceva alla Basilica della Natività a Betlemme, Sisto III ordinò un’ufficiatura notturna, che si concludeva poi con la messa. (R. Lesage)
Dettati ortografici sul Natale e l’Avvento Natale, cenni storici Il Natale si celebra il 25 dicembre. Anticamente questa festa non si celebrava sempre nello stesso giorno; fu il papa Giulio II che, nel secolo IV, fissò la data del 25 dicembre, dopo aver fatto eseguire diligenti ricerche negli archivi. Dal secolo VI fu permesso ai sacerdoti di celebrare tre messe in questo giorno: la prima è detta “messa di mezzanotte”, la seconda “messa dell’aurora” e la terza “messa del giorno”. Nel Medioevo si celebravano i “Misteri”, cioè scene della vita e della passione di Gesù. Oggi si celebrano ancora in alcuni paesi. Fra gli usi natalizi più comuni è il presepe, il quale dapprima si faceva solamente in chiesa, poi si diffuse nelle case. Verso il Settecento ebbe la massima diffusione. (C. Bucci)
Dettati ortografici sul Natale e l’Avvento Regione che vai, Natale che trovi
Cominciamo il nostro itinerario dalle regioni settentrionali, seguendo solo il filo della fantasia e citando in ordine alfabetico le località dove si possono trovare tracce originali di storie curiose ed abitudini antiche, legate alla mistica suggestione della Santa Notte.
Ad Andalo, in Valtellina, la vigilia di Natale, in segno di promessa, gli innamorati depongono sul davanzale delle loro amate, usando un lungo bastone, uno zoccolo dipinto, arricchito da nastri e nappe. L’usanza ricorda lo sfortunato amore di un mago dal “pie’ bisulco” che, recandosi a trovare la sua bella, perse uno zoccolo a doppia unghia e con esso il suo magico potere, tramutandosi in un povero pastore.
A Bergamo è diffusa la credenza che nella Notte Santa tutti gli animali, e specialmente i gatti, acquistino poteri divinatori e con il loro atteggiamento suggeriscano l’esito delle future vicende familiari.
In Brianza, a Porto d’Adda, all’avvicinarsi del Natale gruppi di giovani confezionano dei fischietti con canne di bambù e girano per le vie del paese suonando nenie natalizie, formando una banda che la gente chiama degli “organini”.
A Como quasi tutti, a Natale, fanno un presepe molto grande e bruciano il ginepro. Alla sera, tutte le famiglie si riuniscono nelle cucine accanto ai grandi camini e intonano cori natalizi accompagnati dai caratteristici strumenti musicali del luogo: gli zufoli, chiamati in dialetto fifuc.
A Mantova la sera della vigilia il più anziano della casa benedice i tortelli con l’acqua santa e tutti recitano le preghiere prima di iniziare la cena.
Si racconta che il Monte Bernina ed il suo celebre ghiacciaio, sorto dove un giorno si stendeva un florido pascolo, siano opera del diavolo che, nella notte di Natale, volle punire un pastore il quale, rifiutando asilo a un mendicante, gli concesse soltanto di accostarsi al truogolo del maiale. Immediatamente prese a nevicare e l’indomani, al dissolversi di una pesante nuvola nera, al posto del pascolo e della malga apparve l’immenso ghiacciaio.
A Boca (Novara) nel 1600, a breve distanza da un miracoloso crocefisso, il 24 dicembre a tarda sera, due ladri attendevano il passaggio di un giovane che tornava al paese dopo un anno di lavoro, con in tasca un discreto gruzzolo. A passo lesto per giungere in tempo alla Messa di mezzanotte, il viandante attraversa il bosco recitando il rosario quando, giunto in vista dei due ladri, li vide fuggire a gambe levate. Il giorno seguente seppe che a mettere in fuga i malfattori era stata l’apparizione di due aitanti gendarmi alle sue spalle. Inutile dire che dei due misteriosi protettori non si ebbe più notizia. Sul luogo dell’incontro il giovane fece erigere una chiesetta, oggi diventata un celebre santuario.
Sul monte Cesarino, il cui nome ricorda il passaggio di Giulio Cesare, è credenza popolare che viva un cane feroce il quale sputa fiamme dalla bocca e azzanna e divora i bambini che di notte si avventurino per boschi o sentieri. Soltanto la sera della vigilia il cane fantasma si ammansisce; e anzi, se incontra un fanciullo lo accompagna per tutta la strada, difendendolo e lambendogli le mani.
A Deiva Marina (La Spezia) all’interno della chiesa di Santa Maria Assunta si legge su una lapide del settimo secolo una strana iscrizione che riporterebbe fedelmente il testo di una lettera di Cristo, caduta dal cielo per ammonire i fedeli. Nel messaggio è detto, tra l’altro, che dalla mezzanotte della vigilia all’alba di Santo Stefano persino i diavoli fanno festa, perchè neppure loro possono sottrarsi alla suggestione ed al misticismo della divina notte.
Secondo la credenza popolare, al Pian di strì (Piano delle Streghe), sotto il monte Gridone,verso la Val Vigezzo, streghe, maghi e folletti si riuniscono da tempo immemorabile in base a un ben prestabilito calendario settimanale. Solo nella settimana di Natale il “Pian di strì rimane deserto ed ognuno può passarvi anche in piena notte senza timore di cattivi quanto ultraterreni incontri.
Il nome di Frassinoro, una località vicino a Modena, deriverebbe secondo un’antica leggenda da un prodigioso fatto accaduto durante una processione natalizia e che viene ancor oggi celebrato nella ricorrenza. Un simulacro della Vergine, appeso al ramo di un grande frassino, avrebbe preso a brillare intensamente facendo diventare tutta d’oro la chioma dell’albero, fra la commossa esultanza dei fedeli.
A Genova, come è d’uso da secoli, a Natale si accende un ciocco di legno in mezzo alle piazze e tutti vanno a prendere un tizzone di brace per il proprio camino. Chi non ha il camino lo mette ad ardere negli scaldini di ferro.
A Graines (Aosta) in ricordo di una vecchia usanza per cui i contadini del luogo erano costretti, all’inizio dell’inverno, a coprire di terriccio i risplendenti ghiacciai della Becca di Torchè, affinchè il loro riverbero non bruciasse la delicata carnagione delle signore del castello, la vigilia di Natale, durante una fastosa luminaria, i giovani vanno a buttare ai margini del ghiacciaio sacchetti di terra e fiori di carta in segno augurale e in atto di omaggio verso le ragazze del paese.
A Pieve di Cadore la sera del 24 dicembre, prima che giungano gli ospiti per il cenone di mezzanotte, si pone in ogni casa una scopa attraverso la soglia della cucina. Secondo la leggenda, se una delle ospiti fosse una strega travestita, alla vista della scopa, sua tradizionale cavalcatura, non saprebbe resistere al desiderio di inforcarla, facendosi così riconoscere. A Treviso per la vigilia di Natale è tradizione accendere al tramonto grandi falò, intonando una filastrocca propiziatrice per un raccolto abbondante: “Pan e vin, la laganega soto el camin, la farina soto la panera…” e così via. Poi, spento il fuoco propiziatorio, si fruga nella cenere con lunghi bastoni e dalla direzione che prendono le faville si traggono auspici per la prossima annata: se esse prendono il vento verso il Friuli conviene rassegnarsi ad un raccolto misero, mentre se vanno verso occidente tutto andrà nel migliore dei modi. La beata Stefania Quinzani, oggi venerata in tutto il cremonese, durante la sua gioventù era giunta a Zappello, da Brescia, col proposito di fare la domestica in un pio istituto. La notte di Natale, per far sì che i bambini affidatile attendessero tranquillamente i dodici rintocchi per assistere alla santa messa, miracolosamente ottenne che un grande melo dell’orto del convento fruttificasse d’improvviso, in modo da permettere ai piccini di cogliere e mangiare quei saporitissimi pomi.
In provincia di Piacenza si usa preparare il pranzo due giorni prima. Alla vigilia si fa il pranzo serale: è composto di un bel piatto di tortelli alla piacentina, cioè col ripieno a base di spinaci, ricotta, formaggio e uova.
A Benevento nella notte natalizia si usa sempre, in tutto il territorio di questa provincia, porre una scopa fuori della porta d’ingresso nella credenza che le eventuali streghe, prima di entrare, debbano strappare i fili di saggina, ad uno ad uno, finchè l’alba, sorprendendole ancora affaccendate in questo lavoro, le costringe a fuggire. Ed effettivamente, per quanto ciò possa destare incredulità, le scope lasciate sulla soglia la sera, al mattino vengono sempre ritrovate rotte o sciupate.
Nelle Marche in occasione del Natale, i fidanzati si scambiano fazzoletti di lino ripieni di castagne, di noci e di mandorle.
A Nereto (Teramo) alle due di notte dell’antivigilia di Natale a campana maggiore della parrocchia viene puntualmente messa in moto ed i suoi rintocchi risuonano a lungo, in ricordo del prodigioso intervento della Madonna che, anticamente, mise in fuga una colonna di Francesi incamminata verso il paese con il proposito di metterlo a ferro e fuoco.
In Puglia anche sei il progresso ha sostituito ai vecchi camini più moderni sistemi di riscaldamento, la tradizione del ceppo natalizio sopravvive tuttora tenace nelle campagne e nelle borgate. In Puglia il ceppo viene circondato da dodici pezzi di legno diversi, che rappresentano i dodici apostoli; attorno alla tavola siede la famiglia che ospita tanti poveri quanti sono i suoi defunti. Analoga è l’usanza che vige in Calabria, dove però si usa adornare il ceppo con tralci di edera.
A Bari a mezzanotte si vedono tutte le strade illuminate di stelle filanti e di fuochi d’artificio sotto forma di topi che vanno dietro alle persone. Poi, il topo va in aria e scoppia, illuminandosi. Con queste luminarie si sta alzati fino alla mattina del Natale. I dolciumi che si fanno a Natale sono cartellate, torrone, castanielle, panzerotti, taralli con il pepe e con lo zucchero.
Nel Santuario de La Verna (Arezzo) per tradizione i frati devono recarsi in processione due volte nel pomeriggio e di notte lungo il corridoio delle Stimmate. Si racconta che una vigilia di Natale, non potendo i frati raggiungere, per la troppa neve caduta, il porticato che si snoda sino alla cappella dove San Francesco ricevette i sacri segni, il mattino seguente si scorsero sulla bianca coltre le impronte degli animali della foresta che avevano compiuto, invece dei monaci, il mistico percorso.
In molti paesi della Sardegna a Natale si usa confezionare dolci speciali a forma di nuraghi, che si chiamano passalinas e che vengono offerti a chiunque bussi alla porta perchè la leggenda vuole che Gesù e San Pietro scendano sulla terra vestiti da mendichi e bussino alla porta di tutti per provare il cuore degli uomini.
In Toscana la festa del ceppo è una tradizione natalizia che consacra il dovere dell’ospitalità: il 24 dicembre, al tramonto, il capofamiglia pone sugli alari una grossa radice di ulivo o di quercia e vi dà fuoco; fintanto che il ciocco continua ad ardere la porta di casa resta aperta e chiunque entri ha diritto ad un piatto di arrosto e, se vuole, anche ad un letto per la notte. In altre regioni il compito di accendere il gaio fuoco natalizio non spetta al capofamiglia ma alla persona più anziana, la quale chiama poi attorno a sè i giovani, invitandoli a percuotere con un bastone il ciocco per farne sprizzare le scintille allo scopo di trarne auspicio. Altrove sono i fidanzati a ricavare l’oroscopo dal ceppo acceso nella santa notte, sulla cui brace vengono gettate alcune noci a seconda che esse scoppino o brucino lentamente.
In Calabria finita la messa di mezzanotte le persone baciano Gesù bambino ed escono dalla chiesa. I pastori con le loro zampogne suonano per le strade principali ed annunciano la nascita del redentore. Nelle vie sparano i mortaretti. In altri paesi dell’Italia meridionale c’è l’abitudine di tenere, la notte di Natale, la porta aperta e la tavola imbandita fino al ritorno dalla chiesa dopo aver ascoltato la messa di mezzanotte. Una vecchia leggenda dice che la Madonna e il Bambinello hanno modo di scaldarsi e di nutrirsi e benedire così la casa. In certi paesi gruppi di ragazzi si riuniscono nel pomeriggio di Natale e poi passano di casa in casa a cantare una canzone natalizia, ricevendo così vari doni.
In Sicilia sul piazzale della chiesa, sempre nella notte della vigilia, brucia un fuoco di legna che vuole significare che il popolo intende riscaldare il santo bambino. Un’altra usanza, che fa sembrare sempre più bella la giornata del Natale, è di scegliere un bambino povero e di vestirlo come Gesù, e poi deporlo presso l’altare. Ogni abitante del luogo porta a quel piccino un piccolo dono. Terminata la messa, il bimbo trionfante ritorna alla propria casa. Ciò che mangiano alcuni Siciliani alla vigilia è pesce e olive, il loto cibo preferito, e nello stesso giorno preparano dei buonissimi dolci.
In Campania alla vigilia di Natale si spara il mortaretto e, giusto alla mezzanotte della vigilia, si lancia nel cielo una stella tutta illuminata a ricordo della nascita del redentore. Concludiamo questa nostra rapida carrellata ricordando un’altra simbolica consuetudine profondamente radicata in tutte le regioni italiane: quella del pungitopo, la pianta sempreverde che in occasione delle festività natalizie e di Capodanno fa la sua comparsa in migliaia e migliaia di case. Essa ha origine da una delicata e commovente leggenda che risale all’alto Medioevo e che può essere così riassunta: molti secoli fa, nella notte del 24 dicembre, un arbusto disadorno, dalle foglie dure e aguzze come aculei, se ne stava tutto solo in mezzo alla radura di un bosco, schivato da ogni essere vivente, quando si accorse che un grosso lupo si teneva nascosto dietro a un cespuglio, pronto ad assalire due leprotti; la pianticella allora cercò di attirare l’attenzione di un topolino di passaggio, si chinò e lo punse leggermente e gli sussurrò di far sì che le piccole lepri minacciate di morte corressero a mettersi sotto la sua protezione. Così infatti avvenne: l’arbusto diede asilo alle tre bestiole disponendo i rami in modo da formare una specie di gabbia con gli aculei rivolti verso l’esterno; il lupo tentò invano, per tutta la notte, di ghermire la sua preda, finchè fu costretto a rinunciare e dovette allontanarsi ferito e scornato. Al mattino, molte delle foglie aguzze erano spezzate o divelte, e in loro vece delle bellissime bacche rosse, nate all’improvviso, adornavano la pianta, che da allora in poi si sarebbe chiamata “pungitopo”. Così, tra streghe e folletti messi in fuga, tradizioni serene ed altre un po’ meno, continua ancora oggi e si perpetua in Italia, come in ogni altro Paese del mondo, il lunghissimo racconto di Natale, questa favolosa storia punteggiata di comete e di prodigi, ovattata dal candore della neve: la storia di una Notte in cui l’impossibile diventa realtà e la realtà, quanche volta, sfiora l’incredibile: la notte santa, che vide la nascita del redentore di tutte le genti che vivono su questa terra.
Natale nel mondo Dettati ortografici sul Natale e l’Avvento
Tra i Lapponi, insieme con i pastori di renne che vivono vagabondi lungo le giogaie di questa sterminata landa, sono disceso per la notte di Natale a Karasjok, villaggio formato da una trentina di capanne sparse attorno alla chiesetta. Per la celebrazione natalizia più di seicento Lapponi sogliono adunarsi a questa volta. Alcuni sono giunti a cavallo dalle regioni della Finlandia, dai clivi settentrionali della Svezia, dai mardi del Fiord di Tana che sfocia sulle coste del Mare di Barents. Altri su slitte trainate da renne hanno risalito le anse tortuose dei fiumi trasformati in lastre di cristallo. Altri ancora, i poverissimi, i derelitti, sono venuti a piedi, armati di canna e di bisaccia, dalle impervie montagne del Capo Nord aprendosi a forza il varco tra gli arbusti congelati della tundra, come la gente di dio al tempo dei miracoli. Su tutti i pellegrini si stende la notte: questa ininterrotta, spietata notte polare, che solo nell’intervallo di due ora meridiane sembra elevare all’orizzonte una promessa ingannevole e fugacissima. La piccola chiesa di Karasjok, unico tempio cristiano in tutta questa regione, è eretta al centro di un piazzale sopraelevato a cui fanno barriera due rozze cancellate. E’ una costruzione di legno verniciato di bianco, sormontata da un tetto a punta aguzza, da un campanile corto e sottile come l’orecchio di un coniglio. A un richiamo della campana il sagrato si affolla; sta per cominciare la messa. (V. B. Brocchieri)
Tra gli Eschimesi passare il Natale in una capanna di ghiaccio, su un paesaggio di neve, è un’emozione che solo il Polo può donare. Per giunta il 25 dicembre è il punto culminante della notte polare, e le stelle brillano fin quasi a mezzogiorno. Nonostante il freddo e il buio, i cristiani vogliono passare bene le feste. Alcuni giorni prima, si riuniscono a consiglio, caricano le slitte con montagne di roba: pelli, letti, carne gelata di caribù, orso, foca e salmone; gli uomini a piedi, le donne col più piccino le cappuccio dietro il dorso, e gli altri bambini sopra la slitta, e si parte in carovana verso la chiesa. Vi arrivano da lontano, talvolta da trecento chilometri, dopo tre, otto, dieci giorni di corsa sul ghiaccio. Il Natale, insieme alla Pasqua, è forse l’unica solennità in cui si può contare l’entità numerica di un distretto cattolico del nord: trenta slitte con più di centocinquanta Eschimesi e trecento cani. E poichè è una festa comune, oltre che l’igloo di famiglia, se ne costruisce un altro molto grande dove i pellegrini si raccolgono per passare il tempo in allegria. E’ la migliore occasione per il cantastorie di farsi onore.
Nelle distese bianche della Norvegia, il Natale reca naturalmente la gioia a tutti; ma è nata qui una gentile e specifica tradizione secondo cui devono gioire non soltanto gli uomini, ma anche le bestie. E quindi, già nei giorni della vigilia, i bimbetti norvegesi, imbacuccati nelle pellicce, corrono nei campi coperti di neve e vi spargono a piene mani il grano. Così gli uccelli, almeno a Natale, troveranno di che sfamarsi anche sul bianco e nemico lenzuolo gelido che ricopre per tanto tempo la terra norvegese. Questo atto gentile vuol essere una specie di simbolico atto di gratitudine al bue e all’asino che riscaldarono Gesù. In Inghilterra le feste natalizie, pur tra freddo, pioggia e bruma, durano più di una settimana ed hanno un carattere del tutto familiare. La sera della vigilia i bambini, con un palo a cui è sovrapposta una lanterna con due corna di bue, girano per le strade nebbiose, e di tratto in tratto gridano: “Buon Natale!”. Le sere del 24 e del 25 dicembre quel grande alveare umano che è Londra assume quasi l’aspetto di una città abbandonata , perchè tutti rimangono in casa, nella dolce intimità familiare.
In Svezia la notte di Natale in ogni casa uno dei figli entra, seguito da quattro bambini vestiti di bianco con fasce rosse attorno alla vita e porta appeso ad un bastone una lanterna di carta come una grande stella. La gioia esplode da tutti i cuori a quella vista e i genitori porgono ai bambini dolci e doni.
In Norvegia, sempre nella notte natalizia, i pastori e i contadini riuniti a frotte, si recano nelle vecchie foreste e abbattuto un albero, gli danno fuoco tra la più grande allegria generale.
Nella vecchia Russia si usava invece innalzare un mucchio di grano sulla tavola con un grande dolce in mezzo. Il padre si sedeva ad un capo della tavola e chiedeva ai figlioli che erano dal lato opposto, se lo vedevano. I figli rispondevano che non lo vedevano. L’ingenua risposta era un segno d’augurio che nell’annata il grano sarebbe cresciuto così alto nei campi, da nascondere una persona.
Dettati ortografici sul Natale e l’Avvento Il primo presepe
San Francesco, nel 1223, era tornato da poco dalla Palestina. Qui era riuscito a visitare i luoghi santi grazie a un salvacondotto concessogli miracolosamente dal sultano, ed ancora aveva nel cuore le commoventi visioni di quella terra.
Pensava certamente a Betlemme quando, essendo ormai vicino il Natale, chiamò l’amico Giovanni Vellita e gli disse: “Vorrei celebrare la messa di Natale nel bosco di Greccio, di fronte a una grotta che è sulla collinetta che tu hai donato ai frati. E vorrei che in quella grotta ci fossero una mangiatoia, un bue e un asinello come quando nacque Gesù. Puoi, amico mio, procurarmi tutto questo?” Giovanni Vellita, che era un generoso proprietario terriero benefattore dell’Ordine dei Frati Minori fondato da San Francesco, si adoperò per far trovare al santo quanto desiderava.
La notte di Natale, con grande devozione, i contadini, i pastori e gli artigiani del luogo, gente di ogni età e condizione, si avviarono alla grotta in pellegrinaggio. Un sacerdote celebrò la messa di mezzanotte sopra una mangiatoia. San Francesco, non essendo sacerdote ma soltanto diacono, cantò il vangelo della nascita e lo spiegò al popolo, accorso nel bosco con le fiaccole accese. Giovanni Vellita ebbe il premio della sua bontà e tutti quello della loro fede: nella mangiatoia, fra il bue e l’asinello, apparve il Bambin Gesù, luminoso e sorridente. Questa fu l’origine del presepe: riprodurre la scena della natività, prima con quadri viventi, con sacre rappresentazioni, con personaggi reali, e poi con statuine e plastici.
Presepi artistici La più antica raffigurazione del presepe di cui si abbia documentazione sicura è quella che si conserva a Roma nella Basilica di Santa Maria Maggiore; si tratta di una grandissima opera d’arte, scolpita verso la fine del 1200 da Arnolfo di Cambio. Fin dal V secolo, però, la basilica possedeva una rozza scultura in legno della natività, e dal VII secolo custodisce quella che, secondo la tradizione, è la culla di Gesù bambino, costruita da san Giuseppe durante la fuga in Egitto per adagiarvi il bimbo, e formata da cinque assicelle di legno scuro.
Per venire alle vere e proprie statuine e alle raffigurazioni del presepe in Europa, ecco alcune notizie delle origini e dei primi secoli di questa arte minore.
Pare sia stata la regina Sancia, moglie di Roberto d’Angiò re francese di Napoli, che fece allestire il primo presepe artistico a statuette. Da allora i presepi napoletani hanno avuto una grande tradizione. Celebre fu quello di S. Domenico Maggiore, nel 1400: le pietre della grotta furono portate da Betlemme fra difficoltà enormi, come è facile immaginare.
Nel 1375 le suore domenicane di Lucca donarono a santa Caterina da Siena che le visitava una statuina di Gesù bambino in stucco dipinto. Queste statuine venivano fatte nei conventi della città. Due secoli dopo suor Costanza Micheli si adoperò per spedire le statuine in tutte le capitali europee, al prezzo di 50 scudi. La Repubblica Lucchese le inviava come omaggio tipico della città agli altri Governi.
Ai primi del 1700 si ha notizia di figurinai (cioè fabbricanti di statuine) lucchesi in Germania. Alla fine del settecento i figurinai, esperti nella lavorazione del gesso, erano organizzati in compagnie sui mercati di Spagna, Francia e Inghilterra.
Diversa la tecnica dei Napoletani, più elaborata ed artistica. A san Giovanni a Carbonara si può ammirare il primo presepe dell’Italia meridionale, in legno intagliato: realizzato nel 1484, segna l’inizio di un modo particolare di realizzare la scena natalizia che si diffuse anch’esso in tutta Europa: profondità di spazio, moltiplicarsi di figure secondarie, e l’adottare lo stile e i costumi del popolo e del luogo in cui l’opera viene realizzata, quasi a dire che il presepe ha un significato eterno e può essere raffigurato in costumi popolari napoletani invece che in quelli storici. Il più bel presepio del mondo di questo tipo si trova nella Reggia di Caserta, nella Sala degli Specchi.
Gli altri popoli adattarono dunque, sull’esempio napoletano, la raffigurazione del presepe all’ambiente e ai costumi nazionali.
In Spagna i presepi artistici del passato ed anche le presenti realizzazioni mostrano, sull’esempio di un celebre modello di Granada, un patio dell’architettura andalusa, con archi moreschi, e persino gon gitani che ballano le tipiche danze iberiche. Inutilmente cerchereste un asinello nella grotta: vi troverete invece accanto al bue la mula, il paziente animale cui il popolo spagnolo tanto ha dovuto sui campi e per i sentieri, per secoli.
In Olanda i personaggi trovano collocazione non in una grotta, ma in una graziosa casetta (è noto l’amore che gli Olandesi hanno per la casa!) e, sullo sfondo, un mulino a vento. Non pastori, ma mugnai infarinati e contadini, pescatori, marinai.
I Finlandesi, e specialmente i Lapponi e altri popoli nordici, costruiscono il presepe in un igloo o in una capanna lappone, con pastori di renne e non di pecore, e cacciatori in abiti di pelliccia e di lane multicolore. Risulta evidente così si comporta come se la natività fosse avvenuta sul suo territorio.
In Inghilterra il presepe non era molto conosciuto; i cattolici sono solo una piccola percentuale della popolazione, e l’usanza prevalente era quella dell’albero. Oggi l’uso del presepe si diffonde ovunque, anche presso gli Anglicani, ed è diventata una tradizione dei grandi magazzini che allestiscono una vetrina apposta.
I materiali usati sono i più rari: legno o maiolica nelle opere di maggior impegno, legno nel Tirolo, gesso dalla Lucchesia in tutta Europa, argilla per terrecotte a Roma( famosissimi i figurinai romani!), in Umbria e nelle Marche (celebri i figurinai di Ascoli), di cartapesta con teste di creta (a Napoli), di corallo, rame dorato, cera, avorio, madreperla, alabastro, sughero, conchiglie marine, tela incollata in Sicilia e Sardegna, tanto per restare in Italia.
In Provenza c’è un fiorente artigianato di statuine (“santos”) in argilla, o anche ceramica. Vengono esposte e vendute in una fiera annuale nella principale via di Marsiglia.
Presepi viventi Da quel primo di Greccio, molti altri presepi viventi sono derivati. In Inghilterra, a Leeds, per tutte le sere del periodo natalizio un corteo sfila per le vie della città: c’è la sacra famiglia, ci sono i re magi e i pastori; il gruppo si ferma sempre sulla scala del Municipio, dove viene accolto a turno dalla popolazione e dai rappresentanti di varie organizzazioni che cantano melodie natalizie.
In Francia, nella Provenza, la messa di mezzanotte è l’occasione per una sorta di sacra rappresentazione detta del “Pastrage”. Dietro l’altare, una voce che rappresenta un angelo annuncia la natività; allora entra in chiesa, al suono di pifferi e tamburi, un corteo di pastori e pastorelle nei costumi della regione; li segue un carretto trainato da un montone ben infiocchettato, che trasporta un belante agnellino. Il pastore più anziano prende l’agnello e lo offre inginocchiato al bambino Gesù.
In Svizzera, a Rappenswill (Cantone di San Gallo), il presepe vivente inizia con un solenne e pittoresco corteo che si dirige verso la piazza principale, gremita di folla. Lo precedono bambini e bambine vestiti di tuniche bianche fluttuanti, seguono i personaggi della sacra famiglia, poi i re magi e i pastori con le loro greggi.
L’albero di Natale Accanto all’italianissima tradizione del presepe, si è diffusa sempre più anche da noi la consuetudine dell’albero di Natale. Come è nata questa tradizione? Molti sono propensi a credere che l’albero di Natale sia un residuo del culto pagano adottato dai cristiani e da essi rivolto alla propria fede.
I Romani usavano portare in giro, durante i Saturnali, un giovane abete quale segno della fine dell’inverno e dell’avvento della primavera, e migliaia di alberi sempreverdi in tutta la città erano adornati con lumi e festoni colorati, per indicare il fervore della vita che caratterizza l’inizio della primavera. Questa pratica fu estesa alla Germania e ad altri Paesi dell’Europa centrale, quando i Romani occuparono questi luoghi verso il 15 aC.
Un tardo mito germanico narra di San Vilfredo, come di colui che per primo vide nell’albero di Natale un simbolo della nascita di Gesù. Il santo aveva tagliato una grossa quercia, che era stata oggetto di venerazione da parte dei Druidi; appena la quercia fu abbattuta, si scatenò un furioso temporale che distrusse completamente l’albero, mentre un giovane abete che stava lì vicino rimase intatto. San Vilfredo ne trasse argomento per una predica, nella quale chiamò l’abete albero della pace, poichè dal suo legno si fanno le abitazioni degli uomini, e emblema della vita infinita perchè le sue foglie sono sempre verdi, e terminò con l’esortazione di chiamare l’abete anche albero del bambin Gesù.
La Germania è il Paese che più entra nella storia dell’albero di Natale. Leggiamo che Martin Lutero fu tanto impressionato, una sera di Natale, dal miracolo del cielo trapunto di stelle, che preparò per i suoi figli un albero illuminato da candele, quasi a rappresentare con esso il cielo stellato, da dove scendeva Gesù. Più tardi l’albero di Natale fece la sua comparsa in Inghilterra. Nel 1840 la regina Vittoria collocò un albero di Natale tra i suoi ornamenti natalizi, e sembra che questo fatto abbia dato il segnale dell’adozione generale dell’usanza. In alcuni Paesi il significato religioso dell’albero è così sentito che non è permesso appendere ai suoi rami altro che candele e ornamenti, mentre i doni vengono collocati davanti o intorno alla pianta. Che l’albero di Natale sia o non sia un residuo del culto pagano, è certo che esso è diventato col cristianesimo un emblema della natività e un elemento essenziale di tutte le feste che riguardano l’infanzia.
Il primo Babbo Natale Babbo Natale, personaggio di fiaba che si inserisce nella realtà della tradizione natalizia dei nostri giorni, è una figura molto cara all’infanzia. Il buon vecchio incappucciato, con la lunga barba bianca, il rosso vestito, il bastone in mano e la gerla in spalla, è il mago benefico che tuttora si può incontrare anche nel frastuono delle affollate vie cittadine, animate per la ricorrenza natalizia.
Eppure questo personaggio un po’ burlesco e di fiaba ha la sua vera storia che risale, nientemeno, a San Nicola di Bari, vescovo di Mira (Venezia), santo dei giovani, dei bambini, degli studenti e che quasi tutti i paesi del mondo elessero a loro patrono, tanto la fama del santo era diffusa.
Il santo fu infatti assunto a patrono dei giuristi, avvocati e studenti in Francia; dei mercanti in Germania; dei marinai in Grecia; dei viaggiatori e dei bambini in Belgio; dei bottegai in Inghilterra; degli scolari in Olanda. Ovunque egli fu sempre raffigurato con la mitria in testa, il rosso pallio sulle spalle, il pastorale in mano e la lunga barba bianca.
Narra la storia che a Parigi, verso la fine del XII secolo, era invalsa l’usanza presso un collegio di quella città, che nella ricorrenza della festa del santo, il 6 dicembre, uno studente travestito da San Nicola distribuisse doni ai bimbi bisognosi.
Questa simpatica usanza si diffuse presto anche in Germania ed in Olanda, paesi prevalentemente protestanti, e qui il San Nicola perse i caratteri sacerdotali e divenne il buon vecchio che porta i doni ai bambini; il pastorale fu sostituito da un comune bastone, la mitria vescovile da un rosso cappuccio orlato di bianca pelliccia, ed il pallio da una tunica, pure rossa.
Ecco come nacque il personaggio del Babbo Natale che, qualche secolo più tardi, attraversò anche l’oceano ad opera degli emigranti olandesi; così il Sint Klaes olandese si tramutò nel Santa Claus degli americani, che è poi ritornato a noi come Babbo Natale, ma in definitiva altri non è se non il San Nicola laicizzato.
Natale si avvicina. La nebbia sale dalla valle e si confonde col fumo lento delle case. E’ una lentezza pacata che si distende sulle fatiche ultimate degli uomini; è una carezza, un premio. Cominciano le veglie nelle case, che sono tutte una lunga veglia di Natale. La natura è spenta e la terra svapora. I suoni sono spogliati e si perdono in un’aria vuota, dove sembrano morire. S’odono voci di bimbi, versi di tacchini, campane che si sciolgono l’una dietro l’altra, come lo snodarsi di una catena sonora. (B. Sanminiatelli)
Presto sarà Natale: la più dolce, la più attesa festa dell’anno. Si comincia ad attenderla sin dal primo venire del freddo, sin dal primo giorno di cielo buio. E i giorni passano. Le ultime foglie secche fuggono crepitando davanti al vento gonfio di neve. Il sole e l’azzurro non sono più che un lontano ricordo. Sembra che la primavera non debba venire più, che gli alberi non avranno più fiori, che il cielo non avrà più luce. Allora tutte le speranze si rifugiano nel Natale, questo giorno tiepido e risplendente, questo spuntar miracoloso di frutti d’oro e d’argento e di candeline accese sui rami degli alberi, questo palpitante accendersi di stelle, nel purissimo azzurro del cielo del presepe. Ai primi di dicembre il Natale si annuncia con la vista e l’odore dei mandarini, quei mandarini ravvolti nella carta velina colorata che, a bruciarla, vola sin quasi al soffitto e, se giunge a toccarlo, è di buonissimo augurio. Poi i dolci nelle vetrine, le botteghe adorne di foglie di alloro, di stagnola, di striscioline di carta, le mostre di giocattoli in tutte le strade; ed ogni giorno che passa è un passo in più verso la sempre più grande, sempre più risplendente luce del Natale. (G. Mosca)
Dettati ortografici sul Natale e l’Avvento
Il Natale arriva ogni anno, eppure ogni volta ci sembra un Natale nuovo e la festa ci riempie il cuore di rinnovata dolcezza. Possiamo dire veramente che il Natale è la festa di un bambino e di tutti i bambini, che più degli adulti sentono la gioia della nascita di un bambino simile a loro.
Fuori fa freddo. Le cose posano tacite, immobili, nella notte invernale. Lenta ed uguale cade la neve. Dan! Dan! Dan! All’improvviso il suono largo e festoso della campane rompe il grande silenzio della notte tranquilla. Questa è la notte santa. Din, don, dan! Venite. E’ nato. (A. Colombo)
Fra nebbie grigie e candori di neve, trascorrono i giorni più brevi dell’anno. E’ tornato dicembre a portarci le feste serene, a ricondurre a casa coloro che erano lontani, a riunire le famiglie attorno al presepe. Grande o piccino, ogni casa conosce la gioia del presepe, preparato nei giorni dell’attesa. A poco a poco s’innalzano e si allungano sullo sfondo verdi colline incoronate di palmeti e di castelli. Ruscelli d’argento scendono giù, dai brevi pendii, ad abbeverare i bianchi greggi in cammino verso la capanna. I pastori riposano all’ombra delle palme: seduti, sdraiati, alcuni davanti al fuoco acceso. Bianche stradine di ghiaia conducono donne e uomini, bimbi e piccoli branchi di animali domestici ad incontrare Gesù. Lento e silenzioso è il loro andare. Non c’è fretta: non è ancora il giorno della vigilia! Ma la mangiatoia della capanna è già colma di bionda paglia. L’asino e il bue aspettano pazienti. Maria e Giuseppe stanno per giungere. Quando suoneranno le campane di mezzanotte, il bimbo più piccolo di casa poserà il piccolo Gesù nella fredda stalla, e al chiarore delle candeline, la cometa brillerà di grande splendore. (R. Lageder)
La notte era senza luna, ma tutta la campagna risplendeva di una luce bianca ed uguale come nel plenilunio, poichè il bambino era nato: dalla capanna lontana i raggi si diffondevano nella solitudine. Il bambino Gesù rideva teneramente, tendendo le braccia aperte verso l’alto; e l’asino e il bue lo riscaldavano col loro fiato, che fumava nell’aria gelida come un aroma sulla fiamma. Maria e Giuseppe di tratto in tratto di scuotevano dalla contemplazione estatica e si chinavano per baciare il figliolo. Vennero i pastori, dal piano e dal monte, portando i doni, e vennero anche i re magi. Erano tre. (G. D’Annunzio)
Il Natale si celebra il 25 dicembre in tutto il mondo, ma specialmente nei paesi cattolici questa è una festa della massima importanza. In questo giorno le famiglie si riuniscono, e anche chi si è dovuto allontanare da casa per ragioni di lavoro, fa tutto il possibile per tornare a trascorrere la festa natalizia con la propria famiglia. (F. Monelli)
Nel presepe dalle valli sbucano fiumi; le montagne sono ripide e selvagge. Sembra un paese vero. C’è quello che porta la ricottina. C’è il cacciatore col fucile, c’è quello che porta l’agnello e fuma una lunga pipa; c’è il mendicante. C’è la gente che balla fra il tamburino, il piffero e la zampogna davanti al presepe. C’è l’osteria dove si mangia il maiale e la gente beve, accanto alla fontana dove la donnina lava i panni. I re magi spuntano dall’alto della montagna con i servitori che guidano i cammelli. La stella splende sulla grotta e gli angeli vi danzano sopra leggeri e celesti come i pensieri dei bambini e degli uomini, in questi giorni. (C. Alvaro)
S’avvicina il momento della nascita di Gesù bambino. La notte è tranquilla. La luna è nascosta. All’improvviso le campane si svegliano e, da collina a collina, si rispondono in mezzo alla nebbia. Da vicino e da lontano, su prati e su boscaglie, si innalzano e si abbassano e sembrano ripetere sonore e chiare: “Pace”.
San Francesco d’Assisi trovandosi, nella notte di Natale, in un paesello di montagna, si recò in una grotta e, per raffigurarsi meglio la scena della natività, vi depose una mangiatoia e, ai lati di questa, mise un asino e un bue. Mentre era immerso in profondi pensieri, vide apparire sulla paglia Gesù bambino che lo benediceva sorridendo. Questo fu il primo presepe.
A Natale, la tavola è imbandita festosamente e sopra vi compaiono saporite pietanze e dolci squisiti. Ma il pranzo più prelibato è quello che si celebra in pace e allegria e soprattutto quello che lascia il posto agli ospiti che possono bussare alla porta.
Natale è la festa più bella di tutte, perchè con la nascita di Gesù, l’innocenza tornò nel mondo. Da allora, questa è la festa della speranza e della pace. Tutto sembra fatto per la gioia dei ragazzi che sono la speranza del mondo. Nei paesi s’è lavorato tutta la settimana per fare il presepe. Nel fondo si tendono rami di aranci carichi di frutta. Si lanciano ponti coperti di muschio da un punto all’altro, si costruiscono montagne ripide e selvagge, steccati per le mandrie, e laghetti. (C. Alvaro)
Che cosa c’è, nell’anno, di più soave, bello, gioioso? Nel Natale è la festa luminosa della natura, della vita, dell’incanto e della grazia. Il Natale è la gioia delle nostre case, anche dove esistono preoccupazioni e tristezze. (Breviario di Papa Giovanni)
I pastori vegliavano nella notte quando furono sorpresi dalla luce e dalle parole di un angelo. E appena videro, nella poca luce della stalla, una donna giovane e bella, che contemplava in silenzio il figliolo, e videro il bambino con gli occhi aperti allora, quel corpicino roseo e delicato, quella bocca che non aveva ancor mangiato, il loro cuore s’intenerì. Offrirono quel poco che avevano, quel poco che è tanto se è dato con amore: il latte, il formaggio, la lana, l’agnello. (G. Papini)
Una felice tradizione racconta che San Francesco d’Assisi, tre anni prima di morire, fece apparecchiare il primo presepe a Greccio, nella selva, fra la mangiatoia e il fieno, con l’asinello e il bue. Era limpidissima la notte di Natale: la selva splendeva di lumi e risonava di canti. Da ogni parte il santo aveva chiamato i suo i fratelli e la gente devota. Fu celebrata anche la messa, e san Francesco, come inebriato di allegria, cantò il Vangelo. (F. Flora)
Il presepe sorge di sughero e di muschio a creare una regione di piccole valli, ove qua l’argento crea un fiumicello e là uno specchio, cinto di terra, forma il lago, e variamente le casette e i pastori e gli animali formano gruppo, e una fontana con un piccolo vero zampillo fluisce: e nella grotta Maria e Giuseppe, l’asino e il bue, aspettano Gesù bambino. All’ora della nascita, tra i lumi delle candele, spente le altre luci in ogni stanza, lo porta nella bambagia il più piccolo della casa. Ed è la festa più cara, dove gli adulti e i vecchi ritrovano per poco l’infanzia e odono il canto degli angeli che dice gloria e pace sulla terra agli uomini di buona volontà. (F. Flora)
E il gallo cantò: “Cuccurucù, è nato Gesù!”. “Do?”, chiedevano i buoi dalle stalle. “Betlem, betlem!” belavano le pecore. Passava il vento: “Ave, ave, ave!”. Come fuori al transitar della notte, la luce si faceva strada da oriente, si profilava l’oro dell’aurora in cammino. I pastori, trasognati, si levarono abbagliati dalla gran luce. E il cielo era pieno di incanti. “Che c’è, che c’è, che c’è?”, diceva una cincia. “Dio, dio, dio!” garrivano tutti gli uccelli. E l’intero firmamento di astri cedeva il posto a uno solo. (F. Tombari)
Anticamente con la parola “avvento” si indicava soltanto il giorno della nascita di Gesù. Ora invece si intende indicare anche un periodo precedente il Natale e che esattamente comprende le quattro domeniche prima della festa. In principio, durante l’avvento, si osservava il digiuno, ma col tempo questa regola severa fu abbandonata ed attualmente viene rispettata solo dagli ordini religiosi. L’avvento è un periodo di meditazione e di attesa. Il ciclo dell’anno liturgico inizia proprio con l’avvento.
Il Natale si celebra in tutto il mondo cattolico il 25 dicembre e ricorda la nascita di Gesù a Betlemme. Questo avvenimento segna una data fondamentale anche nella Storia che, da questo momento, si divide in due grandi periodi: quello che comprende gli anni prima della nascita di Cristo, e quello degli anni trascorsi dopo. Tutti gli avvenimenti della Storia perciò vengono considerati come avvenuti “avanti Cristo” e “dopo Cristo”.
Nell’aria di Natale si entrava decisamente solo con l’arrivo degli zampognari. Giungevano all’improvviso, si fermavano alle porte del paese, e cominciavano subito a suonare. Erano di solito due. Non guardavano in faccia nessuno mentre suonavano, i loro occhi pareva non vedessero, come quelli delle statue. E il loro viso era immobile, fisso, non diceva nulla. Il più giovane, finita la suonata, faceva il giro della cerca, ignorando il folto cerchio dei ragazzi. Raccolto qualche soldo, la zampogna ripigliava come prima. Gli zampognari entravano anche nelle case dove c’era il presepe, e in quelle suonavano anche la “pastorella” come si sarebbe cantata in chiesa la notte di Natale. Poi ripartivano, nevicasse o piovesse. Passati gli zampognari, il Natale pareva più vicino. L’aria della festa restava nel paese come un’attesa fiduciosa, una buona notizia, un’allegria comune. (G. Titta Rosa)
Ad un tratto cominciai a udire un suono di campane, lontano, lontano, d’una dolcezza infinita. Erano cinque campane che sonavano a concerto: prima la più piccina, poi la grandicella, poi ancora la piccina, e così via: la mezzana, la grande… intrecciandosi strettamente via via, fino alla maggiore che chiudeva la cantata con il suo vocione, e dicevano: – Sai bene, sai bene che domani è Natale.- (F. Chiesa)
E’ festa grande il giorno di Natale! Ogni bambino nel lettino sogna una cesta di dolci e di balocchi, e appena sveglio, con i piedi scalzi, corre a guardare l’albero, felice.
L’albero è pieno di luci e di fuochi che fan sembrare d’oro e di cristallo ogni ninnolo appeso. Ed anche l’albero, anche l’abete è felice. Egli pensa: “Quand’ero nel bosco, sognavo d’avere la vela un giorno, e condurre col vento una nave lontana! E tutto allora io mi beavo di questo mio sogno e ne fremevo impaziente d’attesa.
Ora che più non odo l’usignolo, che nel mio verde teneva dimora, pur sono felice perchè qui ricolmo di luci e di doni, mi beo delle voci di tanti bimbi, che sì, non conosco, ma sono buoni, e trillano sereni come i miei passerotti. Questa casa se non è quieta come il verde bosco dove sono nato, tuttavia rispetta il giorno santo che Gesù nasceva. E qui mi sento come in Paradiso.” (G. Serafini)
A mezzanotte, ben coperti, chiudevano la porta e s’avventuravano nell’ombra, sulla strada piena di neve, per recarsi alla messa di Natale. Ai rintocchi della campana, la montagna si popolava di lumi, di fiaccole. Quando i rintocchi tacevano, si distingueva lontano la nenia di una zampogna, rispondeva più vicino il gaio ritornello di uno zufolo, che si intrecciava a una sinfonia di pifferi e di viole: erano i pastori che lasciavano nell’ovile le pecore e scendevano a messa. E lungo la via si affratellavano coi contadini che portavano manciate di grano da far benedire, con i montanari dalle grosse scarpe ferrate e dai cappelli ornati di vischio. (O. Visentini)
Felice giorno di Natale, quando i piccoli con le gambine si agitano per l’impazienza, e gli occhi accesi, spiano davanti alle porte chiuse, dietro alle quali di preparano luminose e fragranti meraviglie, e stanno a guardare con visi intenti la mamma che cuoce il pesce per la cena! Con vecchie canzoni sulle fresche labbra, trotterellano verso la nonna, che sogna nell’alta poltrona davanti al fuoco, per baciarle le mani piene di rughe. Poi arriva anche il babbo. Racconta di Gesù bambino: che gli è venuto incontro coi i capelli che sembravano d’oro e le mani piene di meravigliose cose variopinte. Fuori urla la bufera, una slitta si ode tintinnare lontano e tutto ciò è così pieno di mistero e così grande e così gioioso che non lo si può mai dimenticare. (M. R. Rilke)
La sera della vigilia di Natale la luce dei negozi pioveva sulle merci esposte fuori, e i riflessi si stendevano sul selciato appiccicaticcio della via. Il cielo era nascosto da una nebbiolina che tremava intorno agli aloni dei fanali. Per le vie strette e irregolari non passavano nè automobili, nè tram. Ceste colme di arance fra le arance di carta velina. Mele rosse e lucenti.
A passarci accanto scorgevo l’interno illuminato di una bottega. Continuando la via, mi restava negli occhi l’immagine di quell’interno: lo splendore della lampada sospesa nel mezzo sotto il piattello bianco, la luce che pioveva in basso, dolce, sulle persone che parlavano, sul cranio lucido del bottegaio e sui suoi gesti silenziosi. Seguitavo a camminare. Senza scosse passavo sul selciato umido e sconnesso, sui ricami di fanghiglia iridati dai riflessi incerti delle luci, sui rifiuti, sui detriti, sull’umidore in ombra.
L’indomani era festa! Un sorriso mi saliva dall’anima agli occhi e alle labbra. Camminavo nella città, fra la gente, i passi suonavano quieti sul selciato. Accanto, altri rumori di passi. L’attesa colava nella via come un liquido impalpabile. Tutti si muovevano come me, attenti a evitare ogni stridore che rompesse l’incanto. (M. Cancogni)
Erano venuti per fare raccolta di muschio e di fronde verdi, essendo l’antivigilia di Natale, vale a dire il momento di costruire in una delle cappelle della chiesa il presepe. Chi portava un sacco, chi un cesto, chi un falcetto, chi semplicemente le proprie mani, le quali pure bastavano a strappar via dai tronchi lunghi strascichi di edera ed a svellere alla terra e ai ceppi quelle belle zolle pelose, d’un verde forte e dorato, morbide e pulite, che anche gli angeli potevano essere contenti di farvi due passi sopra. Il maestro sceglieva qua e là nel bosco i più bei rami d’agrifoglio, di tasso e di pino silvestre. (F. Chiesa)
Dettati ortografici sul Natale e l’Avvento L’attesa
Presto sarà Natale: la più dolce, la più attesa festa dell’anno. Si comincia ad attenderla sin dal primo venire del freddo, sin dal primo giorno di cielo buio. E i giorni passano. Le ultime foglie secche fuggono crepitando dinanzi al vento gonfio di neve. Il sole e l’azzurro non sono più che un lontano ricordo. Sembra che la primavera non debba venire più, che gli alberi non avranno più fiori, che il cielo non avrà più luce. Allora tutte le speranze si rifugiano nel Natale, questo giorno tiepido e risplendente, questo spuntare miracoloso di frutti d’oro e d’argento e di candeline accese sui rami degli alberi, questo palpitante accendersi di stelle, nel purissimo azzurro del cielo del presepe. Ai primi di dicembre il Natale si annuncia con la vista e l’odore dei mandarini, quei mandarini avvolti nella carta velina colorata che, a bruciarla, vola sin quasi al soffitto, e se giunge a toccarlo è di buonissimo augurio. Poi i dolci nelle vetrine, le botteghe adorne di foglie di alloro, di stagnola, di striscioline di carta, le mostre di giocattoli in tutte le strade; ed ogni giorno che passa è un passo di più verso la sempre più grande, sempre più risplendente luce del Natale. (G. Mosca)
Dettati ortografici sul Natale e l’Avvento – tutte le opere contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere.
Candele di cera d’api – tecnica ad immersione – Santa Lucia – tutorial e consigli per preparare le candele con la cera d’api coi bambini.
Candele di cera d’api – tecnica ad immersione – Prima di lavorare coi bambini
Preparare due pentole che possano stare una nell’altra, in quella più grande mettere dell’acqua, in quella più piccola i blocchi di cera d’api (si acquistano dagli apicoltori). A fuoco bassissimo e lentamente far sciogliere la cera.
Preparare con del cordoncino di cotone gli stoppini. Tagliare tante strisce di cordoncino, un po’ più lunghe di quanto si vogliono fare le candele (considerata anche la profondità della pentola) e fare su ogni cordoncino un cappio.
I bambini piccoli possono infilarlo al dito come un anello, per i più grandi facilita la presa.
Poi rende anche più comodo appenderle per farle raffreddare.
Per irrigidire gli stoppini, fare un primo bagno di cera e raddrizzarli bene tirando ai due estremi, prima di appenderli
Mettere un fornelletto da campeggio elettrico su uno sgabello basso, impostare la temperatura minima, e predisporre le due pentole una nell’altra.
Per preservare il pavimento sistemare del cartone o delle stoffe intorno.
Poi consegnare ad ogni bambino uno stoppino, e chiedere ai bambini di mettersi in fila.
Poi mettetevi seduti accanto al fornelletto.
Candele di cera d’api – tecnica ad immersione
La fila non serve a tenere ordine nella stanza, ma a permettere ad ogni strato di cera che via via si deposita intorno allo stoppino di rapprendersi tra un’immersione e l’altra.
Infatti il bambino che ha immerso lo stoppino nella pentola, cioè il primo della fila, si mette poi per ultimo, ed ora che è di nuovo il suo turno la candela si è rappresa.
Man mano che i bambini arrivano, spiegare loro, ad uno ad uno, come immergere lo stoppino, e chiedere di non agitare la candela mentre aspettano il turno successivo per evitare di romperla.
Bisogna dire che le immersioni devono essere veloci, altrimenti invece di creare un nuovo strato intorno allo stoppino, si sciolgono quelli precedenti, e la candela invece di crescere si assottiglia.
E’ bene che anche noi facciamo una candela insieme a loro, così possono vedere bene i gesti.
Nella fila i bambini più grandi possono essere accoppiati a quelli più piccoli.
Raggiunto un certo diametro, mettere le candele a raffreddare appese a dei chiodi o infilate ad un bastone.
Quando sono fredde e la cera si è ben solidificata, passare alle rifiniture, tagliando la base in modo tale che la candela possa stare bene in piedi, e il cappio, lasciando naturalmente almeno 1cm di stoppino.
Tutorial: beeswax candles. Step by step directions and tips for preparing candles with beeswax with children.
Tutorial: beeswax candles
Before working with children
Prepare two saucepans that can be one in the other, in the bigger one put water, in the smaller one put the blocks of beeswax (they can be purchased by beekeepers). A very low heat to melt the wax slowly.
Prepare with cotton string the wicks. Cut many strips of string, a little longer than you want to make candles (also considering the depth of the pan) and make a loop on each string.
Young children can insert it to their finger like a ring, then also it makes it more comfortable to hang candles for cool them.
to stiffen the wicks, do a first bath in wax and straighten well pulling at both ends, before hanging
Put a electric stove on a low stool, set the minimum temperature, and set up the two pans one in the other.
To protect the floor placing cardboard or cloth around.
Then hand each child a wick, and ask the children to get in line.
You put yourself seated next to the stove.
Tutorial: beeswax candles
How is it done?
The line is not needed to keep order in the room, but to allow each layer of wax that gradually settles around the wick to congeal between a dive and another.
In fact the child who has dipped his wick in the pot, that is the first in line, going for last, and when it’s his turn again the candle will be congealed.
As the children arrive, explain to them, one by one, like dip the wick, and ask not to shake the candle while waiting for the next round to avoid breaking it.
It must be said that diving must be fast, otherwise, instead of creating a new layer around the wick, melt the previous ones, and the candle instead of growing, it thins.
It is good that we also do a candle with them, so they can see well the gestures.
In line older children can be coupled to the smaller ones.
Reached a certain diameter, put the candles to cool hanging from nails or strung at a stick.
When they are cold and the wax is well solidified, go to the finish, cutting the base so that the candle can be comfortable standing, and the loop, of course leaving at least 1cm of wick.
Santa Claus di George Albert Smith – straordinario corto del 1898 di George Albert Smith, è un piccolo gioiello, molto ambizioso dal punto di vista della realizzazione tecnica se si considera la sua età. In poco più di un minuto, il regista ci racconta la storia di una vigilia di Natale di due bambini. E’ un film delizioso e poetico, affascinante anche da un punto di vista storico.
Santa Claus di George Albert Smith
Smith, fotografo ritrattista, ex mago e ipnotizzatore, fu uno dei primi cineasti a livello mondiale ad utilizzare così ampiamente effetti speciali per creare scene fantastiche. Insieme al suo più noto omologo francese Georges Méliès, Smith lavorò ai temi dell’immaginario e del fantastico, utilizzando effetti speciali incredibilmente sofisticati per l’epoca.
Il film si apre con un’unica sequenza nella quale una balia si affretta a mettere a letto i bambini. Poi l’immagine in primo piano resta fissa, mentre le luci si abbassano e compare sullo sfondo uno spazio nero. Su questo spazio si inserisce un’immagine circolare nella quale compare Santa Claus mentre atterra sul tetto della casa con un albero di Natale e si cala per il camino.
Ciò che rende interessante questa elaborazione è il modo in cui i cambi di scena si susseguono sia in termini di spazio sia di tempo: la nuova immagine si sostituisce a quella del camino, mentre continuano ad esseri presenti nella scena, a sinistra, i bambini che dormono. Santa Claus allora esce dal camino, distribuisce i regali, e scompare.
Questo corto è il primo esempio conosciuto di pellicola realizzata con la tecnica della doppia esposizione, e rappresenta la pellicola più sofisticata dal punto di vista visuale e concettuale che sia mai apparsa prima nel panorama cinematografico britannico.
L’immagine di Babbo Natale che ci restituisce la visione di questo film, è interessante anche perchè ci permette di vedere come questa figura si è evoluta dai primi del XX secolo ad oggi.
Presepe in lana cardata – ebook. Per caratterizzare i personaggi, gli animali, le piante, la capanna e tutti gli altri elementi del presepe serve un assortimento di lana cardata e non in vari colori, qualche pezzetto di fil di ferro, aghetto da feltro, qualche filo dorato, e se volete infeltrire acqua e sapone.
La lana cardata si trova, ad esempio, qui:
Le statuine che trovate qui sono piuttosto piccole, e per questo mi sarebbe stato molto difficile ricamare occhi e bocca, per cui ho rinunciato in favore di un effetto scenografico d’insieme.
A scuola l’unico posto disponibile per il presepe era un piccolissimo caminetto. Se siete abbastanza abili, completate i visi con ago e filo da ricamo, e saranno molto più belli.
La prima settimana di avvento – Natale si avvicina, però i giorni e le notti sono gli stessi di prima.
Ai bambini si può raccontare che la prima domenica d’avvento succede una cosa molto importante: un grande angelo discende dal cielo, ed invita tutti gli uomini a preparare il loro cuore al Natale.
E’ vestito con un grande mantello blu fatto di pace e di silenzio.
Nella corona dell’avvento si accende la candela blu, magari accompagnandola da una piccola poesia.
Affidare ad ogni settimana un colore aiuta tantissimo i bambini più piccoli a percepire lo scorrere del tempo, percezione che si rafforza riproponendo la sequenza di anno in anno.
Per la prima settimana di avvento a me piace scegliere qualcosa sulla neve, ad esempio:
Sopra i tetti, sulle strade piano piano, lieve lieve cade giù la bianca neve. Danza, scherza, su nell’aria, si rincorre, si riprende e poi lenta lenta scende come candida farfalla che è già stanca del suo volo si riposa sopra il suolo ed in breve lo ricopre d’un uguale bianco manto: sembra tutto un dolce incanto. (P. Guarnieri)
Si comincia anche ad allestire il presepe: prepariamo un tavolo appoggiato al muro e vestiamolo con un telo blu che, come un angelo, scende dall’alto.
Questa immagine del silenzio va lasciata per almeno un giorno, e poi via via si può completare con i simboli legati alla prima settimana dell’avvento, che sono: – la stella – l’angelo blu – il calendario dell’avvento – i rami di Santa Barbara (si aggiungono il 4 dicembre, come racconterò meglio poi…) – sassi e minerali preziosi, per preparare montagne, stradine, e il percorso verso la grotta – la corona dell’avvento.
San Nicola, il 6 dicembre, cade quest’anno nella seconda settimana.
Per rappresentare questi elementi nel nostro presepe, esistono moltissime possibilità di scelta. Decidere è spesso difficile, ma è molto importante non eccedere nelle decorazioni.
Alla maggior parte dei bambini piace molto collezionare sassi: questa settimana si possono raccogliere durante le passeggiate, e si possono far trovare pietre preziose nelle tasche del calendario dell’avvento…
Un angioletto blu da portare a casa da scuola può essere un gradito regalo a fine settimana.
Tra le attività manuali che si possono proporre per la prima settimana di avvento , quella che riscuote maggior successo è senza dubbio la preparazione di geodi di feltro.
Le quattro settimane dell’avvento – ebook. Creando a scuola e in famiglia momenti speciali che possano scandire lo scorrere delle settimane, l’avvento può diventare occasione per coltivare coi nostri bambini le capacità dell’attesa, dell’ascolto, del guardare e dello stupirsi…
Le quattro settimane dell’avvento – ebook – link diretto al file pdf per il download e la stampa qui:
Avvento coi bambini – Per la tradizione ecclesiastica, l’anno liturgico inizia la prima domenica di avvento, in anticipo quindi rispetto all’inizio dell’anno civile.
Questo si fonda sulla legge dell’anticipazione morale, in base alla quale noi non cogliamo la realtà delle cose nel momento in cui la natura ce le offre esteriormente, ma in anticipo.
Ad esempio in inverno la natura offre poche occasioni per ricordarsi del sole, ma proprio in questo periodo dell’anno guardare un albero spoglio ci fa sentire cos’è la primavera e la luce del sole.
Una raccomandazione importante: l’avvento non è Natale. L’avvento è attesa. Non è la festa, ma aspettare la festa. Oggi questo è difficile da sentire, perchè da ogni vetrina, e molto in anticipo, siamo bombardati da immagini natalizie, canti, luci.
Però, creando a scuola e in famiglia momenti speciali che possano scandire lo scorrere delle settimane, l’avvento può diventare occasione per coltivare coi nostri bambini le capacità dell’attesa, dell’ascolto, del guardare e dello stupirsi.
Aspettare significa trattare con il tempo: mentre i desideri appartengono al futuro, la loro realizzazione richiede tempo. I bambini possono sperimentare l’attesa attraverso il calendario dell’avvento, la preparazione di biscotti che potranno essere mangiati solo a Natale, ecc…
Per ciò che riguarda l’ascolto, entriamo consapevolmente in momenti di silenzio, e creiamo la giusta atmosfera di intimità per il racconto di una fiaba, con ancor maggior cura di come facciamo di solito.
Tra quelle dei Grimm quelle consigliate per il periodo sono:
La chiave d’oro (dai 4 anni); L’oca d’oro (dai 6 anni); La guardiana delle oche (dai sei anni); Biancaneve e Rosarossa (dai sei anni); Biancaneve e i sette nani (dai sei anni); Gli gnomi, la prima fiaba (dai tre anni); I sette corvi (dai sei anni); La pioggia di stelle (dai sei anni).
Guardare: nel periodo dell’avvento il sole tramonta presto. Possiamo ad esempio approfittarne per guardare coi nostri bambini la bellezza del tramonto o del cielo notturno.
Infine lo stupore. Ricordiamo che la capacità di stupirsi è il primo passo dell’apprendimento, e questo dura tutta la vita. E sullo stupore possiamo imparare molte più cose noi dai bambini, che non i bambini da noi.
L’avvento è l’attesa di una nascita. Una cosa che piace molto ai bambini è vedere crescere il presepe lentamente, giorno dopo giorno. Ad esempio si può partire la prima domenica con un semplice telo blu, e aggiungere giorno dopo giorno i vari elementi, prima la scenografia, poi le piante, poi gli animali e infine i personaggi.
La corona dell’avvento si prepara con rametti di abete, e può essere completata con quattro candele che richiamano il colore simbolo della settimana: blu, rosso, bianco e viola. Ogni domenica si accenderà una candela in più, facendo l’esperienza di una luce che diventa sempre più intensa man mano che il Natale si avvicina.
Con qualche ramo avanzato dalla spirale dell’avvento di domenica abbiamo preparato la nostra corona dell’avvento, aggiungendo soltanto qualche bacca presa in giardino, della lana cardata colorata e qualche filo dorato. Le candeline le abbiamo fissate con un po’ di colla a caldo.
Per fare la corona basta legare tra loro con del nastro robusto (magari rosso) i rami scelti, a formare una lunga fila, che poi si curva e si modella facilmente nella misura che si desidera.
Una volta fissata, bisognerà forse accorciare un po’ i rametti troppo sporgenti, ma non serve altro.
Preparare un quadretto con carta velina colorata e attaccarlo alla finestra è una bellissima attività prenatalizia, perchè permette di fare esperienze interessanti di luce e colore.
I primi alberi di Natale erano semplicemente addobbati con mele rosse, biscotti e rose di carta, tutti simboli di rinnovamento, ma oggi non possiamo immaginare un albero di Natale senza candele o lucette.
Nella tradizione nordica l’albero si addobba solo la vigilia di Natale, noi forse siamo abituati a farlo molto prima, a seconda delle zone. Però per rendere il giorno di Natale più luminoso potremmo pensare di prepararlo, ma accendere le luci solo a partire dalla vigilia.
Infine è molto bello dedicarsi con i nostri bambini alla preparazione di doni fatti a mano per parenti ed amici.
Se cerchi idee per attività in stile steineriano per il periodo dell’avvento, puoi trovarle raccolte qui:
CANTI DI NATALE – Deck the halls – Metti un lume alla finestra – con testo in versione italiana e inglese, spartito sonoro stampabile, e traccia mp3 scaricabile gratuitamente.
CANTI DI NATALE – Deck the halls – Metti un lume alla finestra – testo
Inglese:
1. Deck the halls with boughs of holly, Fa la la la la, la la la la. Tis the season to be jolly, Fa la la la la, la la la la. Don we now our gay apparel, Fa la la, fa la la, la la la. Troll the ancient Yuletide carol, Fa la la la la, la la la la.
2. See the blazing Yule before us, Fa la la la la, la la la la. Strike the harp and join the chorus, Fa la la la la, la la la la. Follow me in merry measure, Fa la la la la, la la la la. While I tell of Yuletide treasure, Fa la la la la, la la la la.
3. Fast away the old year passes, Fa la la la la, la la la la. Hail the new, ye lads and lasses, Fa la la la la, la la la la. Sing we joyous, all together, Fa la la, fa la la, la la la. Heedless of the wind and weather, Fa la la la la, la la la la.
Italiano:
Versione 1: Metti un lume alla finestra Metti l’agrifoglio in casa, falala lalala lalala questo è un giorno pieno di gioia falalalala lala lala Metti l’abito di festa falala lalala lalala canta l’inno del tuo Natale falalalala lala lala. Il tuo cuore sia più bello falala lalala lalala metti un lume alla finestra falalala lala lala Questo è un giorno di gran festa falala lalala lalala canta l’inno del tuo Natale falalala lala lala
Versione 2: Festa di Natale Nella sala preparata, falala lalala lalala con i rami addobbata, falalalala lala lala il Natale festeggiamo, falala lalala lalala tutti quanti insiem cantiamo, falalalala lala lala. Arde il fuoco nel camino, falala lalala lalala brocca piena di buon vino, falalala lala lala questa notte brinderemo, falala lalala lalala fino a tardi balleremo, falalala lala lala. Non dormite pastorelli, falala lalala lalala ecco un suon di campanelli, falalala lala lala festa grande nel mio cuore, falala lalala lalala oggi è nato il Signore, falalala lala lala.
CANTI DI NATALE – Deck the halls – Metti un lume alla finestra – spartito e file mp3
CANTI DI NATALE – Vieni pastorello – con testo, spartito stampabile e file mp3 della traccia musicale, scaricabile gratuitamente.
CANTI DI NATALE – Vieni pastorello – testo
Vieni pastorello, vieni a Bethlem, perchè a Bethlem è nato il Signor. Vieni pastorello, vieni a Bethlem, adora Gesù che è nato quaggiù. Bella è la palma in mezzo al giardino, più bello il bambino che oggi adoriam.
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CANTI DI NATALE Pastorale cinese – con testo, spartito stampabile, e traccia mp3 scaricabile gratuitamente.
Testo
A Betlemme nato è Gesù, Alleluia a portare l’amore quaggiù, Alleluia Alleluia Alleluia Alleluia Alleluia. Su nel cielo tra mille splendor, Alleluia gli angioletti cantano al Signor, Alleluia Alleluia Alleluia Alleluia Alleluia. Ogni stella brilla in ciel d’amore, Alleluia ed annuncia il Redentore, Alleluia Alleluia Alleluia Alleluia Alleluia.
Dettati ortografici LA FESTA DEGLI ALBERI – 21 novembre. Una raccolta di dettati ortografici di autori vari per la scuola primaria. Difficoltà ortografiche miste.
In molte parti del mondo, sia i grandi che i bambini, piantano gli alberi in un giorno speciale chiamato “Festa degli alberi”. Essa cade in giorni diversi nei vari paesi del mondo. Se tu fossi un bambino indiano o una bambina messicana, avresti un albero tutto tuo! In quei paesi ogni volta che nasce un bimbo, i genitori piantano un albero dandogli il nome del bambino. In Israele, gli scolari piantano gli alberi in un giorno chiamato Tu B’ Shebat. Molto tempo fa infatti, in quel giardino, gli Ebrei piantavano un albero per ciascun bimbo nato in quell’anno, un cedro per i maschi e un cipresso per le bambine.
Dettati ortografici LA FESTA DEGLI ALBERI Il 21 novembre si celebra la festa degli alberi. Perchè amiamo gli alberi? Perchè la loro funzione è benefica. Gli alberi purificano l’aria; sentite che buon odore quando attraversiamo un bosco? Gli alberi trattengono le acque che altrimenti irromperebbero a valle, trascinando terra, piante, e purtroppo anche case. Gli alberi fanno da riparo ai venti. Danno bellezza al paesaggio: osservate la diversità fra una zona alberata e una zona brulla. Gli alberi ci danno il legno, materiale prezioso per costruire… che cosa? Guardiamoci intorno e cerchiamo tutto quello che è fatto di legno. Legno di quali alberi? Abete, castagno, pino, noce. E ancora, gli alberi ci danno la frutta. Ricordiamo gli alberi più noti: il castagno, l’olivo, il pero, il melo, il susino, il noce…
Dettati ortografici LA FESTA DEGLI ALBERI
Se l’albero è così utile e benefico, cosa possiamo fare noi per lui? Innanzitutto piantarli: sui margini dei fiumi, sulle pendici scoscese, nelle zone brulle, nei luoghi frequentati dai bambini. Un albero viene danneggiato se lo si lega stretto, se vi si piantano chiodi, se si strappa la corteccia, se si spezzano i rami, se il tronco viene ferito. Cerchiamo di proteggere questi giganti buoni. Sembrano potenti, ma anche un bambino può far loro del male.
Dettati ortografici LA FESTA DEGLI ALBERI Il 21 novembre è la festa degli alberi. In questa data si vogliono ricordare a tutti, ma soprattutto ai bambini, le grandi virtù di questi giganti della foresta, e insieme richiamare l’attenzione sull’importanza che essi hanno per tutti noi. Vuol far presente anche i gravi danni arrecati dal disboscamento, dovuti ad incuria e speculazioni disoneste. In questi casi è necessario il rimboschimento. E a questo rimboschimento partecipano i bambini con la festa degli alberi.
Dettati ortografici LA FESTA DEGLI ALBERI Un albero è tutto un vario, singolare, molteplice mondo. Eccone uno, tacito, solitario, immobile, gigantesco, sul ciglio dell’aspra strada di campagna. Sembra un essere dormiente, sembra serrato in non si sa quale suo cruccio, ed allarga, sul terreno diseguale, la sua ombra fresca e ferma. Si passa, di solit, vicino ad un albero, lo si sfiora, ci si appoggia a lui, si gode della sua ombra, quasi sempre senza pensare che vive come noi. (C. Allori)
Dettati ortografici LA FESTA DEGLI ALBERI – Rispettate gli alberi Rispettate gli alberi per il verde delle loro foglie, per il profumo dei loro fiori, per la bontà della loro frutta, per la delizia della loro ombra. Rispettateli perchè sono amici dell’uomo, perchè rendono più bella la campagna, perchè proteggono gli uccellini.
Dettati ortografici LA FESTA DEGLI ALBERI – L’albero Quando in un lontano giorno il seme cadde in terra e germogliò, la radice era soltanto un filo che succhiava; guarda che cosa è diventato quel filo: braccia nerborute di gigante che non mollano la presa. Guarda il tronco: era uno stelo sottile, verde, debole. Si piegava ad ogni soffio di vento. Ora è diventato una colonna, bella, diritta, solida.
Dettati ortografici LA FESTA DEGLI ALBERI
Gli alberi, oltre ad essere belli e a rendere suggestivo il paesaggio, sono utili all’uomo. Tutti conoscono i prodotti degli alberi da frutto, necessari alla nostra alimetazione, tutti sanno che dall’albero si ricava il legname così utilizzato dalle industrie, ma bisogna anche sapere che l’albero ci è utile con la sua sola presenza perchè difende il terreno dalle alluvioni, perchè modifica il clima rendendolo più fresco e più salubre, perchè bonifica l’aria.
L’albero nella storia Gli antichi amavano molto gli alberi. I Greci adoravano il dio Pan, nume dei boschi; i Romani il dio Silvano, simile, nell’aspetto, al dio dei Greci. Tutti i popoli germanici ritenevano sacri gli alberi e compivano i loro sacrifici e i riti religiosi nelle foreste, presso una quercia.
L’albero L’albero si incontra in ogni regione del mondo nelle sue diverse specie e varietà, ed è prezioso per i suoi prodotti e per l’influenza che esso ha sulla temperatura dell’ambiente e sulla vita stessa dell’uomo. Vi sono alberi da frutto, peschi, peri, meli, susini, ciliegi; alberi che danno ottimo legname utilizzato nelle industrie, alberi che, come l’olivo, ci forniscono un ottimo condimento per i nostri cibi.
Parla l’albero Sono nato da un piccolo seme, che un vecchio piantò nella terra; l’uomo sapeva che non mi avrebbe visto crescere, ma pensò ai figli dei suoi figli. Crebbi esile pianticella prima, poi tronco robusto e vigoroso. Invano il vento si accanì contro di me. Opposi alla sua forza la mia chioma rigogliosa e, con i miei fratelli, difesi dal turbine il paesello che stava sotto la mia protezione.
I boschi I boschi abbelliscono il paesaggio e lo rendono più suggestivo. Ma soprattutto, influiscono sul clima mitigandone il calore. Inoltre, gli alberi si oppongono efficacemente alla violenza dei venti e, trattenendo le acque, alimentano le sorgenti. Le radici impediscono lo scoscendamento del terreno ed evitano le frane. Gli alberi sono altresì di ostacolo alle valanghe a cui oppongono la resistenza dei loro tronchi proteggendo la zona anche dalle inondazioni.
Il culto degli alberi Fin dalla più remota antichità, gli alberi sono sempre stati sacri all’uomo e i grandi poemi, testimonianze delle prime civiltà, lo provano. Gli antichi Romani avevano il fico ruminale, perchè la leggenda diceva che sotto ad esso erano stati trovati Romolo e Remo. La pianta più cara ai Latini era la quercia, anche perchè si cibavano delle sue ghiande. La palma era l’albero sacro dei Fenici e dei Cartaginesi, l’olivo dei Greci, il tiglio dei popoli germanici, la vite degli Indo-Persiani. (A. Beltramelli)
I nemici dell’albero L’albero va curato come tutti gli esseri viventi. Le intemperie, gli insetti ed altri animali possono essere i suoi nemici. Gli insetti ne bucherellano la corteccia, vi scavano delle lunghe gallerie e ne divorano le foglie, i frutti e anche l’interno dei tronchi. Le intemperie possono spezzare rami, strappare foglie, schiantare tronchi. Anche le capre possono essere dannose agli alberi. Esse possono arrampicarsi sui dirupi arrivando così a brucare i giovanissimi arbusti di cui divorano le gemme.
L’albero L’albero giovane è come un bambino. Quando il sole lo riscalda, nella tiepida primavera, apre le gemme, mette le prime foglie e diffonde intorno a sè la stessa dolcezza che viene dagli occhi dei bambini. In seguito, l’albero acquista vigore, e spande i suoi rami, si riveste di foglie e mormora e freme, e canta quando il vento soffia. (F. Ciarlantini)
Gli alberi Come sono belli, alti e fronzuti, diritti contro il vento che li scuote! Gli alberi danno la bellezza ai luoghi dove crescono, danno la salute perchè purificano l’aria, proteggono il paese perchè trattengono le acque dirompenti che porterebbero la rovina. Rispettiamo gli alberi, i giganti della montagna, che ci danno soltanto bene.
Rispetta l’albero L’albero si può danneggiare incidendo la sua corteccia, troncando i rami, legandolo troppo stretto e piantando chiodi nel suo tronco. Si difende curando le sue ferite, e cioè otturando le cavità con gesso o altro, sostenendolo con pali durante la crescita, proteggendolo dall’opera nefasta degli insetti. Proteggi l’albero e l’albero ricambierà le tue cure dandoti ombra, i suoi frutti e il suo legno.
Il bosco Le piante crescono invadendo il regno dell’aria coi robusti polloni e penetrando la terra con le grosse radici: i rami si dividono, si moltiplicano, scendono, fanno capolino dappertutto: sono brune in cima, pallide in basso, e offrono tutte le più delicate tinte al verde da quello opalino, trasparente, pallido, sino al vigoroso e forte che quasi sembra nero. Il sole manda negli interstizi certi raggi sottili che paiono capelli biondi luminosi, getta in terra tanti cerchietti lucidi che sono la sua piccola e ridente immagine; la luce è buona e dolce nel bosco. (M. Serao)
Rispetta gli alberi Gli alberi rendono l’aria pura e balsamica; le radici, affondando nel terreno, impediscono che l’acqua trascini con sè la terra fertile. Se tu trovi una fresca sorgente nel bosco, lo devi in parte, anche agli alberi che con le loro radici trattengono il terreno e con questo l’acqua. Invece del torrente rovinoso, hai lo zampillo che dà origine al limpido ruscello.
L’albero e gli uccelli All’uscita del campo e della foresta, che era autunnalmente spoglia e aperta alla vista, come se fosse stato spalancato un portone per dare accesso alla sua vacuità, cresceva bella e solitaria, unica, fra gli alberi, ad aver conservato il fogliame intatto, una rugginosa, fulva pianta di sorbe. Cresceva su un rialzo fangoso del terreno e protendeva verso l’alto, fino al cielo, nella plumbea oscurità delle intemperie che precedono l’inverno, i piatti corimbi delle bacche indurite. Gli uccelli invernali dalle penne chiare come le aurore del gelo, fringuelli e cinciarelle, venivano a posarsi sul sorbo, beccavano lentamente , scegliendole, le bacche più grosse e, sollevando i capini, allungando il collo, le inghiottivano faticosamente. Fra gli uccelli e l’albero s’era stabilita una sorta di viva intimità. Come se il sorbo capisse e , dopo aver resistito a lungo, si arrendesse, cedendo impietosito: “Che posso fare per voi! Ma sì, mangiatemi, mangiatemi pure. Nutritevi.”. E sorrideva. (B. L. Pasternak)
Conoscere le piante Avete mai pensato solo per un momento a quello che gli alberi rappresentano ancora oggi per noi? Guardate, ecco, ho una matita in mano: la grafite è chiusa nel legno. Di quale legno? Si sa tutti che il legno è fornito dagli alberi, ma qual è l’albero che ha fornito questo particolare legno di grana fine, senza fibre, facile da essere tagliato, adatto, insomma, a fare matite? Forse nessuno di voi immagina che sia un ginepro della Virginia, il Red Cedar degli Americani, importato in Inghilterra nel 1600 e oggi coltivato proprio per questo uso industriale. Per matite meno costose si adoperano anche il legno di ontano e di tiglio, che sono alberi caratteristici del nostro paese. Scrivo su della carta, naturalmente, come su della carta fate ogni giorno i compiti di scuola. La carta di che cosa è fatta? Di stracci. Sì, anche, ma soprattutto di legno, preparati convenientemente, ridotto in pasta e poi steso. I migliori legni per fare ciò sono quelli di abete e di pioppo. Un albero così simpatico, dalle foglie che si agitano al vento sui lunghi peduncoli, dai tronchi chiari e di così rapida crescita. Oltre alla cellulosa per la carta, il legno per i fiammiferi, quante ne sono le utilizzazioni: pali, imballaggi, tutto ciò che richiede un legno leggero, unito, facile da lavorare e, naturalmente, anche i mobili. Tutti sappiamo che tavoli, armadi, sedie, poltrone sono di legno di vari tipi, lucidati o verniciati, oltre che di pioppo sono fatti di abete, di quercia, di noce, di castagno. Il mio tavolo, per esempio, ha il piano in compensato di quercia. Che cos’è il compensato? E’ un procedimento moderno per cui si ottengono fogli di vari spessori di sottilissimi strati di legno pressati e incollati insieme, e che offrono il vantaggio di essere leggeri, resistenti, e possono essere utilizzati nei modi più vari. Mentre il grande scrittoio giù a casa di mio nonno è un solido pesante tavolo di noce massiccio, ben levigato e costruito a regola d’arte, come si faceva cento anni fa, e che ha la durata di parecchie generazioni. Un mobile signore, dunque, benchè di forma che noi può non piacere più. E la seggiola su cui siedo? E’ di acero chiaro, fresco, leggero, piacevole alla vista e al tatto. Sicuramente sarete stati a sentire un concerto. Ebbene, davanti a quella massa di lucenti violini, vi siete domandati qual è il legno sonoro, meraviglioso, che diede la possibilità ai liutai di Cremona di costruire i loro famosi strumenti ricercati in tutto il mondo? Anch’esso è l’acero. Ogni giorno si adoperano tanti oggetti e utensili comuni, anche esteticamente così poco interessanti, ma così utili, ormai fissati nelle loro semplici forme, perchè le migliori, da generazione a generazione, e tutti di legno o in parte di legno. Mestoli per esempio, e ciotole per la cucina, e s manici di martelli o di cacciavite, e casse nelle quali vengono spedite le merci, dalla frutta alle conserve. Oggetti rozzi, eppure son fatti di faggio, uno degli alberi più belli delle nostre montagne, che da tempo immemorabile vive sul nostro suolo.
Dettati ortografici LA FESTA DEGLI ALBERI
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Poesie e filastrocche GLI ALBERI – una raccolta di poesie e filastrocche sugli alberi, di autori vari, per bambini della scuola d’infanzia e primaria.
Nel bosco Nel bosco ogni vecchio gigante sia abete, sia quercia, sia pino, ha intorno, ai suoi piedi, un giardino di piccole piante. Son muschi, son felci, son fiori, e fragole rosse e lichene cui l’albero antico vuol bene suoi teneri amori. E mentre le fronde superbe protende più su verso i cieli ai pensa a quegli umili steli nell’ombra, fra l’erbe. (L. Schwarz)
Albero secco Un albero secco fuori della mia finestra solitaria leva nel cielo freddo i suoi rami bruni. Il vento rabbioso la neve il gelo non possono ferirlo. Ogni giorno quell’albero mi dà pensieri di gioia: da quei rami secchi indovino il verde a venire. (Wang Ya-Ping)
Pioppi al tramonto Io so chi colora di rosso, nell’ora già prossima a sera, il cielo, soffuso di un pallido blu: i giovani pioppi a specchio nell’acqua laggiù. Li ho visti piegare il pennello dell’agile chioma e intingerlo dentro il ruscello di limpida porpora, sempre, a quell’ora. Poi, subito ritti, con zelo svettando; striare di rosso la pagina chiara del cielo. So ancora nel suo folleggiare nel fosso nel suo folleggiare monello si lascia sfuggire talora qua e là qualche macchia vermiglia che a nube sospesa somiglia. (G. Vaj Pedotti)
Pini in cortile Crescono i pini di fronte alla scala. Toccano coi rami il muro della casa dai tegoli bruni; e di mattina e di sera li visita il vento e la luna. Nelle tempeste d’autunno sussurrano un verso vago; contro il sole d’estate ci prestano un’ombra fresca. Nel colmo della primavera una pioggia sottile, a sera, riempie le loro foglie d’un carico di perle pendule; e alla fine dell’anno, il tempo della gran neve stampa sui loro rami una trina lucente. (liriche cinesi)
Alberi Alberi! Frecce voi siete dall’azzurro cadute? Quali tremendi guerrieri vi scagliarono? Sono state le stelle? Vengon le vostre musiche dall’anima degli uccelli, dagli occhi di dio. (F. Garcia Lorca)
Il pioppo Il pioppo nell’azzurro è un vivo tremolio di grigio e argento; fa in mezzo ai rami il vento lento sussurro. (G. Camerano)
Festa a scuola Mamma, lo sai che abbiamo fatto festa a scuola, stamattina? Allineati dapprima; e poi, con il maestro, in testa a piantar gli alberelli siamo andati. E ne abbiamo piantati un per ciascuno, ma bello come il mio non è nessuno: svelto, diritto, a cuspide perfetta, verde cupo nel folto e chiaro in vetta. Un per ciascuno, eravamo in cento: Ora cento alberelli al sole, al vento, come fiere sentinelle se ne stanno… e pensa che bel bosco diverranno! (L. Salvatore)
Castagni Nulla è più bello dei frondosi e ampi castagni a selve sterminate in mezzo a questi monti… Nulla è più dolce. Cascano con tonfi leggeri le castagne, e a quando a quando ne sguscia fresca sotto il piede una. Casca in gran copia e tutte l’erbe imbruna di bei cardi spinosi il frutto buono. (G. Marradi)
Speranza C’è un grande albero spoglio in mezzo all’orto: pare che soffra e non si possa coprire e riscaldare. Vola sui nudi rami un passero sperduto, e cinguetta più forte in segno di saluto. Geme l’albero: “Un tempo fui giovane e fui bello: candidi fiorellini erano il mio mantello.” Il passero cinguetta: “Oh vecchio albero, spera! Si scioglieran le nevi: verrà la primavera. (M. Dandolo)
L’alberetto Sul principio del boschetto l’alberetto guarda intorno, aspetta e spera primavera. Non ha foglie, non ha fiori, non ha umori; non ha nidi, nè richiami sopra i rami. AL suo piede una viola sola sola, stenta a fare capolino tra uno spino. Fischia il vento, scuro è il cielo: ahi, che gelo! Com’è triste, nell’aspetto, l’alberetto. (F. Socciarelli)
Il bosco Specie per voi bambini il bosco è bello, ospita tanti uccelli e tanti nidi: c’è talvolta un ruscello e l’eco che risponde ai vostri gridi. D’estate che bell’ombra! Che frescura! Quante frutta selvatiche e gustose in mezzo alla verdura! E di notte, quante voci misteriose! Anche d’autunno, quando s’è spogliato e di frutta e di nidi, è bello ancora, ma i colpi del pennato vi si fanno sentir fino all’aurora. Or più non vi canta l’assiolo con la sua voce dolorosa: “Chiù!” E’ l’inverno, e il boscaiolo picchia di scure e molto butta giù. E taglia tanta legna, chè i bambini quando sentono il freddo stanno male. Avran tutti i camini un ceppo per la notte di Natale. (F. Socciarelli)
Due palme Due palme son nel giardino; al mattino che allegro cinguettio le anima al sole. E se talvolta il fragore di motorini, camion o altro motore lo sovrasta per poco, ben presto passa il rumore, ma il cinguettio rimane come limpida acqua da cui traspare incantato fondo di mare. (F. Gisondi)
Alberi Sempre fermi, sempre ritti, sempre zitti, come impavidi soldati, stanno i buoni alberi, armati sol di foglie e fiori e frutti, di cui fanno dono a tutti. Tutto danno quel che hanno e per sè tengono solo un gorgheggio d’usignolo un fischietto di fringuello un sussurro di ruscello. (D. Valeri)
Il ciliegio Ho un ciliegio nell’orto (proprio sotto al murello) vecchio, rugoso e storto, che rinnova il mantello ad ogni primavera; e tra le nuove foglie, quando viene la sera, i passeri raccoglie. Nel sussurrar del vento, tra il cinguettar vivace, parla, sereno e lento: “Son vecchio, ma mi piace allargare i miei rami nell’aria cilestrina, udir questi richiami di sera e di mattina…”. “Se poi i dolci frutti” un passero gli dice “te li mangiamo tutti, ancora sei felice?” “Ma sì!” lieto risponde il ciliegio. “La vira di queste annose fronde se non dona… è finita”. (G. Fanciulli)
Boschetto In questo boschetto di poche gaggie ricanta un uccello le sue poesie. Se un cuore vi passa, si ferma e ristà, riparte provvisto di felicità. E’ un bosco d’un’ombra armoniosa e leggera e un angelo viene a dormirvi la sera. Per farsi un lettuccio men duro raccoglie, dai ceppi muschiosi, bracciate di foglie. E vede, addondando nell’umida cuna passare tra i rami più alti la luna; e sente tra fronde dal vento toccate tremore e bisbigli di calde nidiate; e trova la pace d’un sonno tranquillo tra un canto d’uccello e il canto d’un grillo. (R. Pezzani)
Il testamento dell’albero Un albero d’un bosco chiamò gli uccelli e fece testamento: “Lascio i miei fiori al mare, lascio le foglie al vento, i frutti al sole e poi tutti i semetti a voi, a voi, poveri uccelli, perchè mi cantavate la canzone della bella stagione… E voglio che gli stecchi, quando saranno secchi, facciano il fuoco per i poverelli. (Trilussa)
L’abete Nel nord sull’altura nuda un abete sorge solo, ha sonno, e di ghiacci e di neve lo cinge un bianco lenzuolo. Sognando va d’una palma, che nel remoto levante, solinga e muta s’attrista sopra il dirupo bruciante. (E. Heine)
L’arbusto Un arbusto si protende dalla roccia alta sul mare; vede un solco che risplende, ode l’onda sussurrare… E vorrebbe volar via per svanire nell’azzurro, dietro la fiammante scia, dietro il magico sussurro.
Il pioppo Conosci il riso del pioppo al margine del ruscello? E’ come un allegro monello che sia cresciuto troppo. Ride alla melodia dell’ospite usignolo, ride alla luna e al volo d’un’ala che sfiora e va via. Quando scherzoso arriva tra le fogliette il vento, ride e fruscia contento d’una risata viva. E guarda piegando piano la cima di qua e di là, l’acqua passata che va lontano lontano lontano. (L. P. Mazzolai)
La foresta Pare un gran tempio ad agili colonne, un tempio antico, scuro, con tappeti di muschio e con festoni verdi e lieti. Un tempio antico che ha per finestra il cielo; di canzoni n’ha tante e la preghiera la dicono gli uccelli mane e sera. (M. Bertolini)
Nel libro della natura Vanta una storia la quercia superba, ma l’ha forse men grande un filo d’erba? (M. Spiritini)
Se odorano le felci Se odorano le felci e il sole entra discreto tra le foglie e l’aria sfiora tra i castagni il sonno degli uccelli prendi la tua sorella per mano falle un cuscino di muschio e nel silenzio ascolta l’ora più bella del bosco. Domani la pioggia ed il vento avranno disperso l’incanto. (L. Deli Gazo)
Pini All’estremo orizzonte i grandi pini se n’andavano curvi in lunga traccia, a uno a uno come pellegrini: e ciascuno recava per bisaccia, alto sopra la livida brughiera, una nuvola d’oro della sera. (D. Valeri)
L’olivo Argento placcato di verde mi sembra la foglia che il verno giammai non dispoglia nè il vento disperde. Egli offre la drupa sua nera in tempo d’avvento, al tordo che vola contento, all’uomo che spera. E quando il freddo è più vivo, con funi, con scale, con cesti e panieri si sale la pianta d’olivo. Usando un arnese ad uncino s’incurvan le vette, si strusciano e s’empion sacchette chè aspetta il mulino. (F. Socciarelli)
La canzone dell’ulivo Non vuole per crescere, che aria, che sole, che tempo, l’ulivo! Nei massi le barbe, e nel cielo le piccole foglie d’argento! Tra i massi s’avvinghia, e non cede se i massi non cedono, al vento. (G. Pascoli)
Il canto del ciliegio
Sorrise con l’aprile la gioia in ogni cuore e zefiro gentile vide i ciliegi in fiore. I bianchi fiorellini zefiro si portò e in frutti corallini il maggio li cambiò. Su verde ramo appese con le ciliegie rosse dai bimbi sempre attese e piccoline e grosse. Al vivido richiamo venite coi cestelli ma resti sopra il ramo la parte degli uccelli! “Uccelli e bimbi avanti!” canta il ciliegio, “I frutti che porto sono tanti! Venite! Ne ho per tutti!”
I doni dell’albero
L’albero è tanto bello, l’albero è tanto buono, ha sempre pronto un dono per te e per l’uccello. A te regala l’ombra, la frutta nutriente e la provvida legna per la stagione algente. E ti dà il legno, utile per i mobili tuoi, chiedendoti bonario: “Che cosa ancora vuoi?” “Io voglio che tu arrsti i venti e le bufere, le frane, le alluvioni di morte messaggere…” “Lasciatemi dunque vivere sulla natia pendice; non venirmi a tagliare! Ti aiuterò felice.” (T. Romei Correggi)
Alberi
Gli alberi tengono il cielo azzurro prigioniero dei rami, si vestono di silenzi e di abbandoni e tremano di voli e di canzoni. Spandono un lume di fiori ai mesi chiari e camminano col vento per ignoti reami. La notte li ritrova incappucciati monaci solitari nel convento: ma, dove cantò l’usignolo, resta, nel fiato dell’alba, l’eco di un singhiozzo d’oro. (I. Dell’Era)
L’albero taciturno
L’albero aveva un cartello che solo gli uccelli potevan decifrare: “S’affittano rami per nidificare” dicea la scritta che un uomo non avrebbe potuto capire. Pur malgrado l’annuncio non venne alcun uccello, nè picchio, nè fringuello, e, deserto di nidi, a capo chino muor di tristezza l’albero, lungo il cammino. (A. M. Ferreiro)
L’albero
Vennero da vie lontane le rondini rapide e snelle a bere presso le fontane ancora fresche di stelle. Il sole apparve dal tetto effondendo oasi d’oro e l’albero del giardinetto sfavillò come un tesoro. S’accese di mille collane e stette estatico a udire le voci delle campane. Dalla dolce terra veniva musica d’onde lontane e verso il suo cuore saliva. (G. Titta Rosa)
Il cipresso
Al margine di un breve praticello sta un cipressetto solo e sembra triste tutto ravvolto nel verde mantello. Scherza, invece, col vento; a nascondino fa con la luna, o pure, in cima ai rami svelto l’appende come un lampioncino. Più spesso a sera, quando tutto imbruna, chiama le stelle a inghirlandargli il capo, fino all’alba le conta ad una ad una! E se piove, se rugge la tempesta, si piega, grida, stringe le sue braccia, ma non si spezza e fermo al suolo resta. Chè un bel nido protegge: un nidietto fragile e lieto, colmo di gorgheggi, tesoro grande per il cipressetto. (T. Stagni)
La quercia caduta
Dov’era l’ombra, ora sè la quercia spande morta, nè più coi turbini tenzona. La gente dice: “Or vedo: era pur grande!”. Pendono qua e là dalla corona i nidietti della primavera. Dice la gente: “Or vedo: era pur buona!”. Ognuno loda, ognuno taglia. A sera ognuno col suo grave fascio va. Nell’aria, un pianto… d’una capinera che cerca il nido che non troverà. (G. Pascoli)
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La spremitura a freddo delle olive e il frantoio – La raccolta delle olive può avvenire manualmente, staccando le olive dai rami con l’aiuto di particolari “pettini”, oppure meccanicamente, provocando cioè la caduta delle olive con l’utilizzo di macchine “scuotitrici”.
Le olive raccolte si portano al frantoio, dove per prima cosa vengono passate nella defogliatrice, che toglie tutte le impurità come terra, foglie e ramoscelli rimasti dalla raccolta.
La macinazione consiste nella frantumazione tramite grosse ruote di granito meglio conosciute come “molazze”.
La pressione morbida delle macine, che ruotano molto lentamente, consentono di ottenere una pasta di olive frantumate fra i 13 e 18 gradi di temperatura (temperatura ambiente). Questo processo di circa 20 minuti fa sì che l’olio assuma un gusto più dolce e delicato.
Le olive vengono macinate fino a quando si ottiene un impasto omogeneo dato dalla macinazione di buccia, polpa e nocciolo.
La gramolatura consiste in un delicato rimescolamento della pasta appena ottenuta dalla macinazione. La gramola è una vasca lunga e stretta con un asse centrale munito di lame impastatrici in rotazione continua.
Il movimento delle lame favorisce lo scioglimento delle molecole dell’olio ossia la rottura delle microscopiche sacchette che nella pasta delle olive, trattengono ancora l’olio.
La pasta così ottenuta viene poi posta su dei dischi di corda chiamati diaframmi o fiscoli, a comporre una sorta di torre che viene in seguito messa sotto la pressa.
La pressa, tramite pressione, separa la parte liquida (il mosto) da quella solida (sansa). Mentre la sansa viene scartata, il mosto viene trasferito nel separatore.
E’ questo, l’ultimo processo della spremitura a freddo. La separazione dell’olio dall’acqua di vegetazione avviene attraverso il “separatore” che, sfruttando la forza centrifuga, separa le particelle dei due componenti i quali, com’è noto, hanno peso specifico diverso.
Questo articolo fa parte dell’Album di Vita pratica:
Dettati ortografici sugli ALBERI – Una collezione di dettati ortografici sugli alberi per la scuola primaria, di autori vari.
La quercia La quercia è un albero rude e forte, che si innalza lento, vestito di una scorza ruvida, ma che custodisce un legno che dura in eterno e resiste alle insidie del tempo. Quando la quercia è ancora giovane, è un albero come un altro. Non diventa bella che quando ha mezzo secolo, e con gli anni va sempre crescendo la maestosità del portamento, la frondosità dei rami, la densità delle sue fresche ombre. La quercia è nel fiore della sua bellezza quando conta almeno un secolo di vita, ed è bellissima quando è tre, quattro volte centenaria. (P. Mantegazza)
Alberi di montagna in primavera Anche gli alberi si vestono a festa! In basso, sulle prime pendici, ecco gli alberi da frutta, spogli da alcune settimane della neve invernale, rivestirsi d’un’altra neve, quella dei loro fiori. Più su, i castagni, i faggi, i diversi arbusti, si ricoprono delle loro foglie dal verde tenero e da un giorno all’altro par che la montagna si sia rivestita con un meraviglioso drappo, in cui il velluto si mescola con la seta. (G. Reclus)
Il mandorlo fiorito Quale miracolo è mai avvenuto questa mattina? E’ caduta una neve odorosa oppure miriadi di farfalle si sono posate sui rami del mandorlo? Pur ieri l’alberello era nudo e freddo. Ma stanotte, all’alito dei venti, esso è sbocciato, è fiorito; s’è ricoperto di candide ali, di mille stelline. Sembra cosparso di fior di farina soffice e fragile con lievi riflessi di rosa. Gli occhi restano beati a mirarlo; ed intanto, nel cuore, passa nascosto il primo soffio della primavera. (F. Lanza)
Una gemma si apre Osserviamo le gemme del castagno: al centro, la bambagia avvolge le sue tenere foglioline; all’esterno una solida corazza di scaglie disposte come le tegole d’un tetto, le chiude strettamente. Le parti dell’armatura scagliosa sono incatramate con un mastice che, simile a vernice disseccata, diventa molle, in primavera, per permettere alla gemma di schiudersi. Le scaglie, non più incollate fra loro, si allargano vischiose, e le prime foglie si spiegano al centro della loro culla socchiusa. (H. Fabre)
Ciliegio in fiore L’albero era sino a ieri nudo; nudo nel tronco, nei rami qua e là contorti dall’aspro battere del vento. Cosa sarà accaduto perchè, stamane, io abbia visto invece dell’albero, una nube bianca fatta tutta di fiori stretti così fittamente gli uni agli altri da formare una cosa sola, impalpabile, quasi aerea, attraverso la quale non mi riesce più di distinguere nè rami, nè tronco? (A. Anile)
La prima fogliolina Nessuno s’è trovato mai davanti a un albero nel momento preciso in cui spunta la prima fogliolina. Tutti abbiamo questo desiderio perchè ci piacerebbe tanto poter dire: “Sono io che quest’anno ho visto per primo la primavera”. Ma, dopo aver tanto atteso, una mattina ci alziamo, scendiamo giù in cortile, e vediamo che le foglie sono già tutte spuntate. (Giovanni Mosca)
Il mandorlo frettoloso Un mandorlo frettoloso ha già spiegato al solicello la sua bianca fioritura; non gli importa se una brinata farà cadere troppo presto quella bella veste; come sempre, vuole essere il primo ad annunciare la primavera! I meli, i peri, i peschi, più prudenti, rimangono indietro. (G. Fanciulli)
Gli aranci In primavera, la Sicilia odora di zagare dalla Punta del Faro alla Conca d’Oro, dall’Agro trapanese a quello di Catania. Nei mattini tersi, nelle serene notti di luna, la soavissima fragranza dei sui venti, si diffonde sin nei più interni quartieri delle popolose città dell’isola e pare che ogni casa abbia un arancio fiorito davanti alla porta. Migliaia di aranci intanto costellano le distese degli aranceti siciliani. Quelle migliaia di piccole sfere, nelle cupole dei fitti e slanciati alberi, sembrano granelli di sole splendenti. (G. Patanè)
Il castagno
Il castagno, per l’alto valore nutritivo dei suoi frutti, è considerato l’albero del pane delle nostre montagne. Esso alligna tra i 400 e i 1000 metri d’altitudine. Il castagno giovane ha un tronco diritto e liscio, color bruno chiaro; il castagno vecchio è ricoperto di una corteccia bruna e screpolata. Di solito questa pianta raggiunge i dieci metri d’altezza, ma qualche castagno gigante può raggiungere anche i trenta metri. Le foglie, a punta di lancia e con il margine seghettato, sono lunghe quindici, venti centimetri. Il castagno fiorisce in maggio – giugno. I suoi fiori sono di due specie. Alcuni sono ricchi di polline giallo; quando questo viene portato via dal vento i fiori seccano e cadono. Altri fiori invece ricevono il polline trasportato dal vento e dagli insetti, si ingrossano e diventano castagne. Il frutto matura da settembre a novembre. Il riccio è la buccia verde e spinosa in cui sono racchiude una, due o tre castagne.
La palma
La palma esiste fin dai tempi preistorici in alcune zone dell’Africa e dell’Asia. Fuori da queste regioni o non fiorisce o non fruttifica, è unicamente ornamentale. Si trova infatti anche in Italia, ove fu importata dagli Arabi. La foglia della palma fu simbolo di vittoria: i trionfatori romani usavano fare il loro ingresso solenne in Roma con un ramo di palma in mano. Essa è pure simbolo di fede.
L’olivo
L’albero dell’olivo è sempre stato considerato con grande rispetto: esso è infatti simbolo di pace, di bellezza, di sapienza. Due colombe che tenevano nel becco un ramoscello di olivo annunciarono a Noè la fine del diluvio. Nelle religioni greca e romana l’olivo era sacro ad Atena e a Minerva. In Grecia i vincitori dei giochi olimpici venivano incoronati con rami di olivo e di palma. E ancora oggi l’olivo è simbolo di pace.
Fioritura
Il mandorlo si è tutto magnificamente coperto di fiori biancorosei, che brillano al nuovo sole come gemme cristalline e fragranti. Le margheritine silenziose e tranquille tremolano in bianca folla al tiepido vento. La giunchiglia piega sul gracile stelo il velato suo calice. Persino nelle lande più pietrose e deserte, qualche fiore solitario apre all’aria nuova le sue tre o quattro foglioline, soffuse di un pallido rosa, o venate di tenui righe violacee. In ogni albero canta un nido e in ogni cuore resuscita una speranza. (E. Nencioni)
Un piccolo vandalo
Luigi non ama gli alberi. Uno dei suoi passatempi preferiti, quando va a giocare nel prato, è quello di incidere nel tronco delle sue vittime arboree disegni e messaggi che salutano la sua squadra di calcio preferita. Le piante non sopportano scherzi del genere; la corteccia salta via a pezzi strappata dal temperino di Luigi. Il povero albero soffre, proprio come soffriremmo noi se ci strappassero la pelle a pezzetti per incidere dentro un bel disegno. (M. Bettini)
Il bosco
Qui la vegetazione è libera; le piante crescono invadendo tutto e penetrano la terra con robuste radici. Le fronde salgono, scendono, si dividono, si moltiplicano liberamente; offrono le più delicate tinte del verde; da quello opalino trasparente, pallido, sino al vigoroso e forte che sembra quasi nero. Giungono odori forti e sani: i profumi che esalano quegli alberi meravigliosi, i rigogli della loro gioventù, i succhi di vita che salgono in essi e rompono la corteccia. Quiete stupenda in tanta vitalità, sicurezza profonda in tanta libertà. (M. Serao)
L’albero di sera
C’è un pino in cui di notte si raccolgono a dormire i passeri. Ma ci sono tanti alberi che servono da albergo agli uccellini! Vi è mai capitato di osservare a sera, quando essi giungono da tutte le parti e pare che affondino nell’albero ospitale? Un gran frastuono, pigolii, cinguettii… al più piccolo rumore silenzio improvviso. Poi di nuovo il frastuono dell’albero immobile, sì che pare da sè cinguetti. (G. Pascoli)
Il platano
Era mezzogiorno d’estate. Due viaggiatori camminavano sotto il sole ardente. Erano stanchi, accaldati. Scorsero un platano e con un sospiro di sollievo si rifugiarono e si sdraiarono alla sua fresca ombra. Riposavano e intanto guardavano su trai rami frondosi. Disse uno dei due al compagno: “Ecco un albero sterile e inutile all’uomo”. L’altro approvò. L’albero prese la parola e li rimproverò: “Come? Proprio mentre godete dei miei benefici mi trattate da sterile e da inutile?”. (Esopo)
Il pioppo
Il pioppo è uno degli alberi più belli della nostra zona temperata. Alto, snello, robusto, si lancia in alto, diritto come un cipresso, ma non mai triste e severo come lui. I suoi filari non guidano al cimitero, ma fanno da lieti colonnati ai fiumi ed ai canali, diritti come sentinelle. (P. Mantegazza)
Il ciliegio
La frutta saporitissima che viene raccolta a ciocche, a mazzolini caratteristici anche per il vivo colore, è la ciliegia. L’albero, il ciliegio, fu importato in Europa dall’Asia Minore. Spesso arriva fino a venti metri di altezza. Il tronco del ciliegio è robusto e coperto di corteccia bruno – rossastra. La chioma è tondeggiante. Le foglie sono ovali, larghe, lucide, doppiamente seghettate, tinte di un verde assai scuro. I fiori, a mazzetti bianchi, profumati, si sviluppano numerosissimi in primavera: l’albero, a distanza, tutto bianco, sembra quasi coperto di neve.
Alberi da frutto I prodotti degli alberi sono noti. Innanzitutto la frutta. E’ la cosa più evidente. Vediamoli un po’ da vicino questi alberi da frutto: sono meli, peri, ciliegi, susini, peschi,… Facendo ricerche nell’ambiente, i bambini saranno in grado di descrivere questi alberi e i loro prodotti. In autunno sarà facile osservare il castagno e l’olivo che ci danno i loro prodotti. L’albero si incontra pressochè in ogni regione del mondo, nelle sue diverse specie e varietà, ed è prezioso per i suoi prodotti e per l’influenza che esso ha sulla temperatura dell’ambiente e sulla vita stessa dell’uomo. Affonda nel terreno le sue robuste radici, eleva il suo tronco rivestito di una corteccia rugosa, e si espande in alto con i rami rivestiti di foglie le quali formano la chioma.
Gli alberi nella storia Gli antichi amavano molto gli alberi. Nei tempi più remoti, si usava seppellire i defunti alla radice dell’albero, con la convinzione che essi sarebbero risorti nel tronco e nelle foglie. Questa pratica era in uso fino a poco tempo fa in Giappone dove si credeva che in alcuni alberi fossero rinchiusi gli spiriti degli eroi nazionali sepolti al loro piede. Usanze simili si riscontrano tuttora presso alcuni popoli primitivi d’Africa e d’Asia. I Greci adoravano il dio Pan, nume dei boschi. Essi lo raffiguravano incoronato di rami di pino, con le orecchie dritte, in mano un bastone da pastore e il fianco sinistro coperto da una pelle di daino. I Romani adoravano il dio Silvano dall’apparenza simile a quella di Pan. Essi credevano che negli alberi fossero ospitate le Ninfe, divinità considerate come forme ed energie della natura. Tutti i popoli germanici ritenevano sacri gli alberi e compivano i loro sacrifici e i riti religiosi nelle foreste, presso una quercia, ritenuta simbolo della divinità.
Boschi e macchie Gli alberi possono ergersi isolati oppure riuniti in gran numero in un’estensione che generalmente si chiama bosco. Più precisamente prende il nome di foresta quando è formata da alberi di alto fusto, selva quando ha un’estensione minore della foresta, macchia quando è una radura disseminata di alberi. I boschi possono essere costituiti da piante a foglie larghe o a foglie minute, o come si dice aghiformi. Molti dei primi si spogliano della loro vegetazione in autunno; gli altri sono nella maggior parte delle specie sempreverdi. A seconda degli alberi che lo compongono, il bosco può assumere diverse denominazioni: querceto, faggeto, pineta, abetaia. Si chiama ceduo il bosco sottoposto a taglio periodico.
Utilità degli alberi I boschi non soltanto abbelliscono il paesaggio, elemento questo niente affatto da trascurare, ma influiscono sul clima mitigando il calore. Inoltre, gli alberi si oppongono efficacemente alla violenza dei venti e alimentano le sorgenti. Le radici impediscono il franamento del terreno ed evitano le frane. Gli alberi sono di freno alle valanghe a cui oppongono la resistenza dei loro tronchi e proteggono dalle inondazioni in quanto, con le loro radici, consolidano il terreno e impediscono l’infiltrazione rapida delle acque nel sottosuolo. Inoltre, com’è funzione di tutte le piante, durante il giorno esse assorbono anidride carbonica ed emettono ossigeno e quindi rendono l’aria più salubre.
Gli alberi non crescono ugualmente in tutte le zone. A seconda degli alberi che vi prosperano si possono distinguere quattro zone in Italia.
Vi è la zona calda, denominata anche zona dell’ulivo dove, oltre all’ulivo crescono la quercia da sughero, il leccio, il carrubo, il pistacchio, il pino da pinoli, il pino marittimo, il cipresso e l’eucalipto.
Nella zona temperata, o zona del castagno, abbiamo oltre al castagno due specie di quercia, il cerro e il rovere. Nella zona fredda o zona del faggio (fino a 1200 metri) crescono la betulla, l’ontano e il tiglio.
Nella zona rigida o zona delle conifere, troviamo l’abete rosso e il larice. Le conifere hanno, in particolare, la proprietà di rendere l’aria balsamica e pura. Sono alberi che hanno il frutto a cono (pino, abete, …) comunemente detto pigna. Il pino, nelle sue diverse specie, si può trovare tanto in montagna che in riva al mare. In quest’ultimo caso si tratta del pino marittimo; l’altro è il pino a ombrello. Facendo un’incisione nel tronco di quest’albero, si vedrà gocciolare una sostanza attaccaticcia e profumata, la resina, che è utilizzata in varie industrie. Mescolata a nero fumo forma la pece dei calzolai; la si usa nei fuochi d’artificio e per rendere più vibranti le corde del violino; e nella fabbricazione dei balsami.
Il tronco del pino, così alto e diritto, viene utilizzato per fare gli alberi delle navi. L’olmo, l’ontano e il pioppo ci danno la cellulosa, ampiamente usata nelle più svariate industrie, come la fabbricazione della carta, della stoffa e perfino degli esplosivi.
Il legno dell’ontano che, crescendo vicino all’acqua è molto resistente all’umidità, viene utilizzato per i pali delle palafitte. Dalla corteccia di quest’albero si ricava il tannino, sostanza colorante usata in tintoria.
L’età degli alberi Gli alberi possono raggiungere anche migliaia e migliaia di anni di vita. In Sicilia esiste ancora il castagno dei cento cavalli, chiamato così perchè, secondo la tradizione, Giovanna d’Aragona, sorpresa dalla tempesta, si rifugiò sotto la sua chioma con cento cavalieri del seguito. Pare che questo immenso albero abbia almeno quattromila anni! A Somma Lombardo esiste un cipresso che si dice abbia duemila anni. L’età di un albero si può constatare soltanto quando l’albero è abbattuto. Infatti, poichè il tronco aumenta di solito di uno strato all’anno, contando in un tronco tagliato questi strati, che sono disposti in cerchi concentrici, si può sapere approssimativamente quanti anni è vissuto l’albero.
Il papiro L’albero che permise agli uomini di scrivere è il papiro. Il papiro è una grande erba perenne acquatica, con radice sotterranea strisciante, dura e carnosa. Il fusto esterno, triangolare, si erge diritto da due fino a cinque metri, e termina con chioma a ombrello: una specie di piumino. Oggi il papiro si trova con maggiore facilità e diffusione, ma è meno cercato. Lo si trova in Palestina, in Africa, a Malta, ed anche in Sicilia presso Siracusa, dove lo trapiantarono gli Arabi. Gli antichi trassero dalla corteccia del papiro un foglio largo, lungo e sottile, molto pieghevole, su cui poterono scrivere. Il papiro deve considerarsi quindi come una specie di “albero della scienza” poichè alla sua corteccia furono affidati, fino dall’alba della civiltà, i pensieri dell’uomo, le sue idee storiche, letterarie, artistiche, scientifiche. (G. Bitelli)
Sugli alberi Il nostro giardino era pieno d’alberi. C’era un ippocastano rosso con due rami a forca che per salire bisognava metterci dentro il piede, e poi non potendolo più levare ci lasciavo la scarpa. Dalle ultime vette vedevo i coppi rossi della nostra casa, pieni di sole e di passeri. C’era una specie d abete, vecchissimo, su cui si arrampicava un glicine grosso come un serpente boa, rugoso, scannellato, storto, che serviva magnificamente per le salite precipitose quando si giocava a nascondersi. Io mi nascondevo spesso su quel vecchio cipresso ricco di cantucci folti e di cespugli, e in primavera, mentre spiavo di lassù il passo cauto dello stanatore, mi divertivo a ciucciare la ciocca di glicine che mi batteva fresca sugli occhi come un grappolo d’uva. (S. Slataper)
Il re delle Alpi Il larice viene definito il re delle Alpi. E’ un albero maestoso che può raggiungere i 50 metri di altezza; il suo legno duro e resistentissimo viene usato soprattutto per le costruzioni navali. E’ una delle poche conifere che perdono le foglie durante l’inverno. E’ l’albero più tipico delle nostre Alpi, dove forma grandi boschi e si trova fino a 2200 metri di altezza. Altri alberi che popolano le nostre montagne sono il pino, l’abete e il faggio.
Proteggiamo l’albero I boschi sono affidati alla protezione dello Stato il quale soltanto ne può consentire l’abbattimento. Per questo, esiste uno speciale corpo di Guardie Forestali che hanno l’incarico non soltanto di difendere gli alberi dal vandalismo degli uomini, ma di curarli perchè non deperiscano e di ripopolare, mediante appositi vivai, le zone che ne sono sprovviste.
Ma la difesa dell’albero è affidata soprattutto al senso civico di ogni cittadino che deve apprezzare gli alberi non soltanto per il guadagno che ne può ricavare, ma anche perchè proteggono la salute, rendono bello il paesaggio, oppongono una valida difesa contro i pericoli delle alluvioni e delle valanghe. Come si può danneggiare un albero? Non soltanto con l’abbattimento, il che produce un danno definitivo ed irraparabile, ma anche strappando i rami senza discriminazione, scortecciando i tronchi, piantando chiodi sul tronco o stringendolo con fili di ferro. Tutti questi traumi possono danneggiare la salute dell’albero e causare anche la sua morte.
L’albero va curato come tutti gli esseri vivi. Gli insetti, le intemperie, alcuni animali possono essere i nemici dell’albero. Gli insetti ne bucherellano la corteccia, scavano sotto di essa lunghe gallerie e pur così piccoli come sono, possono provocare la morte dell’albero in brevissimo tempo. Anche le capre sono nemiche dell’albero. Infatti esse brucano anche i teneri germogli dei rami. Animali del bosco, come scoiattoli, ghiri ed altri, rodono talvolta anche la corteccia, causando danni rilevanti a questi giganti che non possono opporre nessuna valida difesa contro i loro dentini implacabili.
Il sottobosco Non dimentichiamo il sottobosco e quello che esso ci fornisce: funghi, fragole, lamponi, mirtilli. Anche questi prodotti minori della foresta hanno il loro valore tanto più che non implicano spese di sorta.
Guarda da vicino un albero Guarda da vicino un albero: vedrai tante cose che neppure immaginavi e rimarrai stupito. Guarda le sue radici, o almeno quello che affiora di esse. Sono grosse, nodose, capaci di sollevare la durissima crosta della terra. Se il vento tira forte e vuol sradicare l’albero, non può; ci sono le radici che tengono il tronco saldamente piantato sul terreno e il vento si sforza e ulula in una vana rabbia.
Quando il seme cadde in terra e germogliò, la radice era soltanto un filo che succhiava; guarda che cosa è diventato quel filo: braccia nerborute di gigante che non lasciano la presa. Guarda il tronco. Era uno stelo sottile, verde, debole. Si piegava a ogni soffio di vento. Ora è diventato una colonna, bella, diritta, solida. Colui che per primo fabbricò una chiesa coi suoi colonnati e i suoi pilastri e le sue volte profonde, si ispirò agli alberi di un bosco.
Una corteccia dura, legnosa, ruvida, copre questo tronco diritto. La pioggia l’ha gonfiata, il vento l’ha screpolata, gli insetti l’hanno percossa, sforacchiandola da tutte le parti; sembra una cosa insensibile, tanto è ruvida, rozza, eppure, se la ferisci col tuo coltellino, se ne stacchi un pezzo, da quella ferita gemerà il sangue dell’albero, e l’albero, indifeso, in quel punto sarà alla mercè della tempesta e del freddo e se non correrà ai ripari potrà anche morire per quella ferita che tu hai inferto alla corteccia che lo proteggeva.
La ferita si rimarginerà, ma rimarrà un gonfiore scabro che non se ne andrà più. Quel gonfiore scabro è la cicatrice, il ricordo del dolore che egli ha sofferto. Guarda i rami. Sono come grandi braccia che si tendono per proteggere. Proteggono tutto ciò che si rifugia sotto di essi: il coniglio pauroso che si nasconde nell’ombra, l’uccellino che vuol dormire. Proteggono anche te che cerchi ristoro al solleone. E il vento va ad infrangere la sua violenza contro la chioma ampia del bell’albero grande.
Guarda la foglia. E’ così delicata nella sua nervatura che sembra un ricamo. Guardala contro luce; nessuno saprebbe fare una cosa delicata e perfetta come la gemma, che meraviglia! La gemma, dentro, è un astuccio di velluto, e fuori è impellicciata come una bambina freddolosa. L’acqua e il freddo non riescono a penetrare nell’interno e, se è necessario, la gemma si riveste di resine e di cera o, magari, di una crosta dura come il metallo. A lei è affidato il tesoro dell’albero che è anche il suo avvenire: la foglia, il fiore, il frutto.
Il fiore si apre, così rosato e lieve che sembra quasi impossibile sia potuto sbocciare da un ramo tanto duro e ruvido. Fa la stessa impressione della mano morbida di un bambino posata sulla guancia rugosa del nonno. Ma i fiori degli alberi durano poco: oggi li vedi, domani non li vedi più. C’è solo una sfiorita di petali per terra. L’albero ha fretta: deve preparare i suoi frutti, prima verdi, duri, informi, poi grossi, rotondi, morbidi e coloriti che sembrano messi lì apposta per bellezza, come si mettono le palline lucide e sono felice.
Ecco, tutto questo è l’albero; basta che lo guardi da vicino, tanto da vicino per sentire il suo grande cuore battere nel tronco ruvido, da sentire la sua linfa vitale frusciare lungo le sue vene generose. (M. Menicucci)
La storia dell’uomo e del bosco C’era un uomo che possedeva un bosco. Questo bosco era fatto di alberi alti e fronzuti, castagni, pini, lecci e querce. A primavera pareva vivo: gli uccellini facevano il nido sui rami e svolazzavano di qua e di là, cinguettando. Fra le erbe ronzavano gli insetti e volavano le farfalle. C’era un bel fresco sotto gli alberi del bosco e in mezzo a quegli alberi l’uomo aveva la sua casa.
In autunno la famiglia andava a raccogliere le castagne e i bambini più piccoli cercavano i pinoli. Durante l’inverno, nel camino della casa, ardeva un bellissimo fuoco che illuminava e scaldava. La famiglia mangiava la polenta e anche i funghi quando ne trovava. Qualche volta mangiava anche le salsicce perchè con le ghiande si poteva allevare un maiale grasso e bello.
Un giorno salì, fino al bosco, un tale che non si era mai visto. Disse all’uomo: “Volete vendere il bosco?” L’uomo stette un pezzo a pensare, poi disse: “E io come camperò? Il bosco mi dà tutto: pane, companatico e la legna per l’inverno”.
L’altro si mise a ridere. “Siete un uomo semplice che non farà mai fortuna. Quando mi avrete venduto il bosco, io farò tagliare gli alberi e li porterò con via. Voi sul terreno rimasto libero, potete seminare il grano e piantare le patate. Senza pensare che io vi darò molti milioni e con questi potrete spassarvela un bel po’. L’uomo si mise a pensare ancora, poi disse: “Va bene, accetto. La cosa mi conviene”.
Dopo alcuni giorni vennero i boscaioli e cominciarono ad abbattere gli alberi. I grossi tronchi cadevano giù di schianto, con un gran frastuono di rami fruscianti; poi, con le mine, gli uomini fecero saltare le radici. Gli uccelletti fuggivano spaventati abbandonando i nidi. Anche le lepri scappavano e i conigli selvatici, le martore, le donnole e le faine.
“Non credevo che nel bosco ci fossero tanti animali!” diceva l’uomo meravigliato, e guardava i carri che portavano via, albero per albero, tutto il suo bosco. C’era rimasto solo un pino verde che pareva triste in tanta solitudine.
Il terreno restò sgombero e il sole, che ora spadroneggiava, seccò ben presto le erbe e i cespugli. L’uomo si mise a vangare la terra e da boscaiolo si fece contadino. Seminò il grano e piantò le patate. Diceva: “Avremo un bel raccolto!”, ma la moglie non era contenta.
“Senza il bosco mi sento sperduta” diceva, “C’era una bell’ombra e un bel fresco. Ora la casa mi sembra senza difesa”. I ragazzi, che non potevano più andare in cerca di castagne e di pinoli, furono mandati con un branco di tacchini e un piccolo gregge di pecore, in giro per la montagna. Il raccolto fu buono. La terra grassa produsse molto grano e molte patate e nella casa del contadino sembrò entrare l’agiatezza.
Poi venne l’autunno e con l’autunno le piogge. “Piove molto quest’anno” disse un giorno la moglie: “Piove più degli altri anni. Forse è perchè non ci sono più gli alberi” “Stupidaggini” rispose il marito; “la pioggia viene dal cielo e gli alberi non c’entrano per niente”. “Ma la pioggia viene giù a precipizio per il monte e si porta via la terra.” Il contadino dovette convenire che era vero. L’acqua, non più trattenuta dalle grosse radici, lavava il terreno e se lo portava a valle.
“E’ una brutta storia” disse la moglie “Qualche anno così e non ci resterà più terra, soltanto roccia. Intanto, a valle, il torrente gonfio rumoreggiava e il contadino seppe che gli abitanti del villaggio cercavano di rinforzare gli argini per paura delle piene.
L’inverno passò e fu un inverno molto più freddo del solito. C’era poca legna e nella casa, non più riparata, il vento entrava da padrone. Finalmente venne la primavera e tutta la famiglia respirò di sollievo. Senza la protezione del bosco aveva passato delle brutte giornate.
Il contadino aveva seminato anche stavolta grano e patate, ma il terreno, lavato dalle piogge, non era più fertile e ricco come prima. Il raccolto fu scarso. Il sole che batteva a piombo seccava anche le erbe e il gregge trovò poco da pascolare. “Non so com’è” diceva la donna, “Ma quando c’erano gli alberi si stava meglio. L’aria era più fresca e più buona e i ragazzi erano pieni di salute. Ora sono pallidi e meno forti. E poi, tutto era più bello. Se ne sono andai anche gli uccelli.
Infatti, nelle ore calde, non si sentiva nemmeno un cinguettio, solo il falco roteava in alto silenziosamente. Tornò l’inverno e con l’inverno la neve. La famiglia si chiuse in casa per non soffrire il freddo. Quell’anno la neve fu molta. C’erano dei mucchi alti che il vento spostava e faceva turbinare. “Non mi piace questa neve” diceva la donna “Non ne ho mai vista tanta.”
L’inverno fu lungo e cattivo, ma finalmente si aprì, nel cielo, uno spiraglio d’azzurro. La donna respirò di sollievo. Arrivava la primavera. Il contadino era pensieroso; le cose non andavano bene. Sotto la neve che si scioglieva non si vedeva la terra, ma la roccia. La terra se ne era andata a valle con la furia dell’acqua. Una mattina, tutta la famiglia uscì dalla casa a prendere il primo raggio di sole. C’era ancora tanta neve che scintillava intatta.
Ad un tratto si sentì un rumore lontano. Pareva un muggito. La donna ebbe paura. “Che cos’è?” Il contadino tendeva l’orecchio. Anche le pecore erano inquiete e si accalcavano le une accosto alle altre, come se volessero sfuggire un pericolo. L’uomo andò sopra un’altura e guardò lontano. “Si vede un polverio bianco…” Il rombo si faceva più forte; veniva dall’alto del monte. “Andiamo via” disse l’uomo, “Andiamo a metterci al riparo di quei massi. Fuggiamo di qui, è troppo scoperto…” Scapparono tutti meno le pecore chè non c’era tempo di radunarle.
Ora il rombo era forte e cupo e si avvicinava. “La valanga!” gridò l’uomo diventando bianco di paura. E si prese i figlioli tra le braccia e si nascose con loro dentro una grotta. Il turbine di neve si avvicinava con un rombo come il tuono. Ma non era tuono, il cielo restava sereno. Era una gran massa di neve che rotolava per il fianco della montagna, s’ingrossava lungo il cammino, schiantava, rovinava, travolgeva tutto al suo passaggio, non più arrestata dagli alberi che per tanto tempo le avevano sbarrato il passo.
Passò come un turbine, si scontrò con la casetta, la seppellì, la travolse, si perdette a valle con un muggito lungo e pauroso… E la famiglia uscita salva dalla grotta, stava a vedere, piangendo, la rovina che la valanga si era lasciata dietro e pensava che se ci fossero stati gli alberi, quella rovina non sarebbe avvenuta… (M. Menicucci)
Morte di un albero La donna lavava i piatti con un gran ciabattare e scrosciare d’acqua. Il marito fumava, leggendo il giornale. Era sera e faceva molto freddo. Brutta annata: gelate, tramontana, ventaccio e poca legna. La donna era di malumore e brontolava.
“Con tanti alberi, qui nel viale, non si può avere un ciocco di legna da buttare sul fuoco. Qui signori del Municipio! Tutto per la bellezza del paese! Come se la bellezza si potesse mangiare!” Il marito non diceva niente. Sapeva che la moglie bisognava lasciarla sfogare.
“Vorrei sapere che cosa ci stanno a fare quegli alberi sulla strada! Per dar fastidio! D’inverno ti levano la luce e d’estate ti coprono la finestra che non si può vedere neanche chi passa. C’è questo qui davanti poi, che è un castigo. Sembra che per i passeri non ci sia che quell’albero. Tutti lì, tutti lì, e la sera ti stordiscono per il chiasso che fanno e la mattina ti svegliano all’alba. E se per caso ti vien voglia di sederti all’aria fresca… sudicioni! L’altr’anno mi rovinarono il vestito nuovo!”
L’uomo fumava e taceva, ma gli si vedeva un risolino sotto i baffi. “Tu ridi, eh, ridi! E non vedi che siamo senza fuoco? Lo sai che la legna è quasi finita e l’inverno è appena cominciato? Ridi, invece di procurarti un po’ di fascine e di ciocchi!”.
La donna tacque per riprendere fiato. “Dimmi un po’” disse dopo un momento di silenzio “Non potresti tagliare qualche ramo?” “Sì, per andare in prigione!” rispose, flemmatico, l’uomo.
“In prigione! In prigione ci manderei quei signori del Municipio che non sanno far altro che piantare alberi! E perchè, poi? Per scimmiottare la città. Sicuro! E intanto, la povera gente non ha nemmeno il sole, chè se lo ruban tutto loro, foglie e rami!”.
La donna gettò uno sguardo iroso fuori della finestra dove s’intravedeva la sagoma scura e stecchita del grande albero spoglio. L’albero dormiva. Aveva perduto da un pezzo le foglie e ora si era chiuso tutto nella scorza dura per impedire che il gelo frugasse nelle fibre tenere e bianche.
Un sonno lungo, il suo, che cominciava ai primi freddi e finiva in primavera. Ma quanti sogni! Che cosa può sognare un albero? L’inverno che finisce e tutto e ancor freddo, immobile ma i rami cominciano a rabbrividire e, dentro, la linfa preme, gonfia la corteccia fin che la spacca e la gemma verde si affaccia per godersi il primo tepore dell’aria. Allora l’albero riviveva ed era una vita magnifica e possente. La linfa gagliarda andava su e giù finchè prorompeva in migliaia di germogli che scoppiavano da tutte le parti, si aprivano e mettevano le foglie, belle, grandi, lucide.
Passato quel primo tripudio di giovinezza in cui l’albero si sentiva un po’ pazzo, cominciava il lavoro calmo dell’estate. Diventava bello. Chi si ricordava più di quello scheletro magro ed asciutto? Il vento giocava coi rami, li strapazzava un po’, ma rifaceva subito pace portando profumi e tepori. Il sole si divertiva a trapelare tra le foglie e a ricamarle d’oro fino.
E poi, i passeri. Pettegoli, prepotenti, che allegria mettevano nel vecchio tronco! Non ci facevano il nido, preferivano il tetto, più sicuro, ma il primo volo, ai piccini, glielo facevan fare lì, dal tetto all’albero, che li accoglieva tutto intenerito, poveri piccoli piumaccioli, morbidi, tondi e tanto felici!
Poi la sera, a nanna, fra i suoi rami. Che chiasso! La gente alzava la testa, sorridendo e qualcuno si divertiva a fare un colpo con le mani, forte. E allora tutto lo stormo scappava, spaventato e nell’albero si faceva un gran silenzio. Ma non avevano paura, fingevano soltanto; tornavano alla spicciolata perchè sapevano che era un gioco e ci si divertivano anche loro. E, dopo un momento, riecco il cicaleccio fitto fitto. Avevano tante cose da dirsi, la sera! Infine, pian piano, qualcuno, stanco, taceva. Stava un po’ zitto e raggomitolato, con gli occhietti semichiusi, poi, tutt’a un tratto, ficcava la testina sotto l’ala e buonanotte a tutti!
Questo sognava il grande albero, ma nessuno lo immaginava, vedendolo così cupo e immobile. Di che cosa si accorgono gli uomini, egoisti e meschini? Ma l’avrebbero lasciato vivere se non fosse stato per l’odio di una donna.
“Un mezzo ci sarebbe per far seccare l’albero!” disse l’uomo levandosi la pipa dai denti e sputando lontano. La donna si fermò davanti a lui con le mani sui fianchi.
“Forse” riprese il marito “se l’albero seccasse, ci toccherebbe parecchia legna. Non per questa stagione, naturalmente, ma si potrebbe far provvista per l’inverno che viene. Non la porterebbero via tutta”. “Parla dunque” “In una sera di gelo, basta rovesciare, sulle radici dell’albero, un paiolo di acqua calda. Non so com’è, ma l’albero secca”. Una luce cattiva passò negli occhi della donna. “Ma io direi di farlo vivere” si affrettò a dire l’uomo, pentito di quanto si era lasciato scappare. “In fondo è un bell’albero e ha faticato per crescere”.
La donna non lo degnò di una risposta: prese il paiolo e andò a metterlo sul fuoco. “Non ci pensi molto, tu” disse l’uomo andandosi a mettere davanti alla finestra. Gli dispiaceva d’aver parlato, ma non credeva che la moglie mettesse subito in atto il suo progetto. L’albero si levava nella notte come un fantasma nero. Un soffio di tramontana fece vibrare i vetri. “Dove la trovi una notte più fredda di questa?” disse la donna “Vogliono gelare persino i sassi della strada”. E alimentò il fuoco sotto il paiolo. Il marito tacque. S’era pentito delle sue parole, ma ormai sapeva che c’era più nulla da fare. Aveva rimorso di veder uccidere deliberatamente l’albero che, infine, era una creatura viva. Poi pensò che, forse, quella poca acqua non sarebbe stata sufficiente ad uccidere un colosso così. La donna prese il paiolo, si ravvolse in uno scialle e scese nella strada.
Il cielo, scintillante di stelle, prometteva una gelata bianca come un sudario di morte. L’albero si destò. Un’onda di tepore saliva lungo le sue fibre con una dolcezza primaverile. Stupì. Ad ogni suo risveglio era abituato a vedersi attorno una fioritura leggera e il cielo azzurro, tenero e soave. Invece era notte e tutto era nudo, scheletrito e deserto.
Ma il tepore persisteva e l’albero si rallegrò. Dilatò le sue fibre e lo accolse trepidante. Le radici, anch’esse improvvisamente rideste, si abbeverarono a quel calore dolce, fremendo. Il tronco si scosse e aprì i suoi pori già serrati contro il gelo e il tiepido succo salì, ricercò la sua vita più profonda, la rianimò, diffondendo sotto la corteccia un benessere gaudioso. E per l’albero fu primavera. Ecco, la sua rinascita cominciava. Il gelo delle sue membra si scioglieva, le ombre dei sogni fuggivano di fronte a questa magnifica realtà; l’albero si preparò a ricevere il nuovo, benefico afflusso di vita… Una raffica violenta lo investì; rigida come una lama si infiltrò nelle fibre dilatate e indifese; lo frustò fino al midollo tenero e bianco, serrò in una morsa gelida le radici deste e vive, scosse i rami vibranti e li fermò in un abbraccio mortale… Poi passò come un impeto di furia vittoriosa, oltre l’albero, che restò immerso in uno stupore desolato… Il vecchio cuore, colpito dall’inganno, impietrì senza più vita. Sopra un ramo, un passero pigolò piano, e nel sonno si scosse tutto rabbrividendo. (M. Menicucci)
Le piante si difendono dalla siccità e dal freddo eccessivi, liberandosi delle foglie
La caduta delle foglie è un fenomeno che avrai osservato tante volte: è lo spettacolo suggestivo e poetico che l’autunno ogni anno ci offre. Gli alberi restituiscono alla terra le loro verdi spoglie. Nelle regioni a clima temperato, come l’Italia, la caduta delle foglie avviene ai primi freddi autunnali. In altri paesi delle regioni tropicali la caduta delle foglie coincide con l’inizio dell’estate. Come mai le piante si comportano in così diversa maniera? Non è il caldo o il freddo che direttamente fanno cadere le foglie. E’ un’altra la ragione. Tu sai che le piante traspirano attraverso le foglie, cioè eliminano vapore acqueo. Nelle regioni tropicali il periodo estivo è caratterizzato dalla mancanza di piogge: le piante seccherebbero tutte se continuassero a traspirare regolarmente attraverso le foglie. Invece le lasciano cadere e passano il periodo di siccità in una specie di sonno estivo. Nelle regioni temperate accade che all’inizio dell’autunno il freddo fa abbassare la temperatura del terreno: le radici delle piante, allora, non riescono più a trarre da esso quella quantità d’acqua di cui ha bisogno. Se la traspirazione delle piante continuasse normalmente, le piante seccherebbero completamente. E così, più o meno rapidamente, le piante si liberano dalle foglie. In certe piante (faggio, nocciolo) la caduta delle foglie ha inizio dalla cima dei rami e va verso la base. In altri invece (tiglio, salice, pioppo) avviene il contrario: cadono prima quelle più in basso e poi quelle dei rami superiori. La caduta delle foglie è certo una perdita di sostanze per le piante: è un danno ma presenta anche dei notevoli vantaggi. D’altra parte la pianta, prima di perdere il suo verde manto, ha compiuto una… operazione di recupero delle cellule delle foglie: ha portato via amidi, zuccheri, grassi, li ha messi da parte nel tronco per utilizzarli poi in primavera per creare nuove e più giovani foglie. Ecco perchè le foglie, prima di cadere, cambiano colore e diventano gialle, o arancione o brune in infinite sfumature, creando con i loro colori il meraviglioso paesaggio autunnale. La pianta dunque cede alla terra solo gli scheletri delle foglie, ricche soprattutto di una sostanza, che si è accumulata durante l’estate, l’ossalato di calcio. Questa sostanza non solo non è più utile alla pianta, ma ne riuscirebbe dannosa, se la conservasse ancora. La caduta delle foglie ha un po’ anche il compito di purificare la pianta e liberarla dalle sostanze inutili e dannosi: un’operazione simile all’escrezione degli animali. Le foglie cadute al suolo lentamente si decompongono e contribuiscono alla formazione dell’humus, che è un elemento fondamentale per la fertilità del terreno. Come si staccano le foglie? E’ forse il vento che le porta via con il suo gelido soffio? Certo le foglie cadono più facilmente e rapidamente per lo stimolo di cause esterne; ma è la pianta stessa, che lavora per liberarsi delle foglie. Essa forma sul picciolo delle foglie una specie di anello di cellule, che ha il compito di operare la separazione delle foglie dalla pianta. Basta allora un alito di vento o il peso stesso delle foglie a determinarne la caduta.
Alberi nani
I giardinieri giapponesi sanno ottenere incantati giardini in miniatura, allevando gli alberi in piccoli vasi, ove vegetano lentissimamente per decine e decine di anni, assumendo l’aspetto di vecchie piante, pur essendo alte pochi centimetri. Per ottenere questo nanismo, si seminano in piccoli vasi i semi più piccoli delle piante in terriccio povero: le piantine vanno poco innaffiate e abbondantemente potate. La radice principale viene tagliata, le radici laterali vengono in parte scoperte. Si cerca di dare alla pianta la forma di un vecchio albero con tronco e rami tortuosi. Un tale ricorda di aver osservato in Giappone una pianta di ciliegio, che aveva l’età di centocinquanta anni. A questo tipo di allevamento si presta bene l’albero della canfora, con foglie alterne sempreverdi, picciolate ovali, a fiori piccoli e biancastri; così pure il cedro, resinoso, dal caratteristico odore aromatico, la quercia e l’albero del pane, dai cui frutti si ricava un lattice, che col calore si rapprende formando una specie di pane, commestibile.
Albero tuttofare
Un europeo viaggiava per i paesi dell’India meridionale sotto un sole implacabile, quando, stanco e spossato per il lungo cammino, decise di bussare ad una solitaria capanna circondata da altissime palme di cocco. L’ospitalità dell’indiano fu veramente squisita: per prima cosa gli offrì una bibita dissetante affinché si ristorasse, poi gli servì un pranzo così vario e nutriente che il viaggiatore, meravigliato, domandò al suo ospite chi in quel luogo così solitario lo provvedesse di tutte quelle cose. “Le mie palme!” gli rispose l’ospite. “La bibita dissetante che vi ho offerto è ricavata dal frutto prima che sia maturo. Questo latte, che voi trovate così gradevole, è contenuto nell’interno della mandorla. Questa verdura così delicata è il tenero germoglio dell’albero di cocco. Il vino, di cui voi siete così contento, è anch’esso fornito dal cocco, durante tutto l’anno. E infine, tutto questo vasellame e questi utensili di cui ci siamo serviti a tavola, sono stati fatti con il guscio del cocco.
Vita dell’albero
Vive col tempo, con le stagioni, progredisce, si protende, si innalza. Nei suoi anelli concentrici sono impresse le vicende di tutte le annate trascorse, sì che leggendo in un tronco tagliato, puoi avere notizia non solo della sua età, ma della siccità o meno di tutte le annate da lui vissute. Combatte con le intemperie, con gli animali, coi parassiti, coi venti, coi fulmini; si difende, si cura, si guarisce da solo. Guardalo. Pesa quintali e quintali e non ne vedi il peso; vedi la forza semmai, lo slancio, la leggerezza, la freschezza, la grazia. (F. Tombari)
Alberi in fiore Sull’alto della collina, il contadino ripartisce lo stabbio col tridente e attorno a lui è già una vasta punteggiatura sulla terra grigia. Col solito anticipo sugli altri alberi da frutta i mandorli sono già fioriti; tutta la collina ne è bianca e rosa. Da quando Maria posò tra i suoi rami Gesù neonato, per nasconderlo agli sbirri di Erode, secondo quello che narrano i vecchi, il mandorlo si affretta ogni anno a fiorire, anche a costo, come spesso capita, di perdere fiori e frutti alla prima gelata. In fondo alla valle si estende il mosaico verdegrigio dei campicelli. Sui rettangoli e quadrati verdi, frotte di ragazzi e donne già zappettano per dare aria alla terra incrostata e liberare il grano tenero dalle erbe selvatiche; sulle parti grigie, uomini con zappa, aratri e bestie lavorano alle semine di granoturco, di piselli, di fave, di ceci, di lenticchie, mondano i fossi, rafforzano i cigli, le fratte. (I. Silone)
Dettati ortografici sugli ALBERI – Tutte le opere contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere.
Festa degli alberi : una canzoncina per festeggiare gli alberi, nel loro giorno: testo, spartito stampabile e file mp3
Canto LA FESTA DEGLI ALBERI Testo
I bambini stanno in mezzo al bosco. Le piantine han visto festeggiare; poi le han sistemate al loro posto, dicendosi: “Cresceranno come noi”. Alberi, tra i vostri rami cantano, e i nidi si preparano, a mille gli uccellini. Alberi, all’ombra vostra posino, e in pace si ristorino a mille i bimbi belli, a mille i bimbi belli.
Canto LA FESTA DEGLI ALBERI Spartito stampabile e mp3 qui:
Dettati ortografici sull’olivo – una raccolta di dettati ortografici, di autori vari, per bambini della scuola primaria. Difficoltà ortografiche miste.
Le olive sono ormai tutte nere e grasse e a spremerle emanano il loro denso liquore; gli olivi, poveretti, implorano di essere alleggeriti da tanto peso. Non ne possono più. E le raccoglitrici cercano in terra e non lasciano che una sola bacca sfugga ai loro sguardi. Cantano, intrecciano stornelli. Una canta e le altre rispondono. Così per tutto il giorno. Verso il tramonto le lavoratrici si radunano e partono intonando ancora una canzone. (A. Palazzeschi)
L’olivo Con la vite e col grano, l’olivo è la terza pianta propria del nostro suolo. Pianta povera, modesta nell’aspetto, mite nei frutti, cresce sui colli, esposta al sole e ai danni degli insetti, che ne rovinano il tronco. Per crescere e fruttificare bene, impiega circa trent’anni: però chi la pianta non la pianta mai per sè, ma per i figli e i nipoti e per amore verso la terra. (F. Tombari)
L’olivo Veste di grigio-verde le nostre colline, e di notte s’inargenta ai raggi della luna. I suoi rami sono contorti, ma le foglioline robuste sono dritte e lucide come piccole lame. Si afferra con le radici al terreno, si nutre d’aria, di sole, di salmastro. I suoi frutti non sono dorati, profumati, grossi, ma sono quei piccoli tesori bruni nei quali si nasconde tanto oro: l’olio che cola dal frantoio e va ad allietare la nostra tavola. (G. Vaj Pedotti)
Il dolce olivo Dovunque l’aria sia mite e il clima non troppo mutevole, ne umido, ne secco, l’olivo resiste: all’opera attenta dell’uomo è legata la sua lunga vita. Beato chi ha piantato l’albero d’olivo, nella propria terra, a difesa del grano che non ama essere investito dal vento invernale; beato chi può raccoglierne le bacche, appena macchiate di violetto o biancastre, o screziate, o verdoline, in questo mese dolce, dopo il primo temporale d’autunno, sulla terra ancora dura che odora di vendemmia! Dalle vigne ove rare piante segnano i confini, alle coste ondulate delle colline, alla pianura gialla e nera di ristoppie arse dal fuoco, il paesaggio di questa terra agli olivi affida la sua decorazione: quel distacco ricco di ombre ferme che variano dal grigio all’argenteo, dal verde al cupreo, a seconda dei riflessi della luce, dello splendore del giorno, della trasparenza della sera. Tra gli spazi di questo paesaggio, ecco donne ricurve: soltanto le mani si muovono, e il grembiule si gonfia di olive. Qualcuna è salita sull’albero e scrolla con grazia esitante i rami più alti. (R. M. De Angelis Beltempo)
La raccolta delle olive
Alla metà di novembre i contadini raccolgono le olive. Quanti mesi sono passati da quando gli olivi, nelle chiare giornate di aprile, si coprirono di fiorellini gialli!
Ora i campi sono squallidi. Viti, pioppi, gelsi sono tutti senza foglie. L’aria è bigia e fredda, senza voli e senza canti. I contadini escono di casa ben coperti, camminano per la viottola fino agli ulivi che occupano la parte più alta della collina, dove la terra è più asciutta e sassosa, poi si accingono al lavoro pazienti. L’aria è fredda e le mani presto si intorpidiscono. Ma i contadini resistono alle fatiche e al disagio per ore e ore; sanno che le olive costituiscono il raccolto più ricco dell’anno; sono il loro tesoro, e non vogliono perderne nemmeno una. (G. Fanciulli)
L’olivo è un albero sempreverde, dalle foglie coriacee, verdi di sopra, biancastre di sotto, fortemente cutinizzate, rivestite cioè di cutina, una sostanza dura e impermeabile che permette al fogliame di difendersi dal freddo e dall’umidità. Il frutto dell’olivo è l’oliva, una drupa con polpa oleosa e nocciolo duro nell’interno. Dell’olivo esistono due sottospecie: l’olivo coltivato (olivo gentile) e l’olivo selvatico detto anche oleastro.
Questo non è da confondersi con l’olivastro, chiamato anche erroneamente olivo selvatico e che invece proviene da seme di olivi coltivati e cresce nelle siepi e nei boschi senza coltura. Produce frutti più piccoli, meno carnosi che danno generalmente un prodotto più scarso, ma superiore per qualità a quello dell’olivo coltivato. Le olive sono ricoperte da una pellicola verde che con la maturazione diventa, man mano, più scura, fino a raggiungere una tinta bruno – violacea o nerastra. Le olive, a seconda della qualità, vengono utilizzate in vari modi, conciate, salate, seccate, ma l’utilizzazione più importante è quella dell’estrazione dell’olio.
L’olivo cresce in regioni che hanno un clima dolce e uniforme. Non prospera dove è troppo freddo, ma nemmeno dove è troppo caldo. Qualunque terreno, purchè non sia paludoso, conviene all’olivo. Nei terreni fertili esso è più produttivo, ma la qualità del suo frutto è inferiore a quello che può dare in un terreno sassoso sito in posizione alquanto elevata e che costituisce l’ambiente ideale.
Il legno dell’olivo, che si presenta compatto ed elegantemente variato per l’andamento delle sue fibre, è molto usato nell’industria per la fabbricazione di mobili e per lavori di tarsia. L’olivo cresce con lentezza e può vivere anche più di quattro o cinque secoli. Si dice che lo pianta il nonno per il nipote. In alcune regioni, si usa raccogliere le olive percuotendo l’albero con un lungo bastone, ma questo sistema è dannoso. Il miglior modo di procedere alla raccolta è quello di cogliere l’oliva a mano.
L’olivo fu conosciuto fin dalla più remota antichità. I Greci premiavano i vincitori dei giochi con corone di olivo e fecero di questa pianta il simbolo della saggezza, dell’abbondanza, della pace. Quest’albero fu tenuto in considerazione anche dai Romani; spesso, i popoli vinti chiedevano la pace a Roma portando rami di olivo. Secondo la Bibbia la colomba del diluvio tornò nell’Arca con un ramoscello di olivo nel becco, simbolo della pace tra Dio e gli uomini.
L’olivo viene distribuito insieme alle palme, nelle chiese la domenica prima di Pasqua, chiamata perciò domenica delle palme o degli ulivi, in ricordo del giorno in cui Gesù entrò in Gerusalemme, festeggiato dalla folla che agitava rami di palma e di ulivo in segno di giubilo.
Dettati ortografici sull’olivo – Tutte le opere contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere.
Poesie e filastrocche per San Martino per bambini della scuola materna e primaria.
San Martino Umido e freddo spunta il mattino, ed a cavallo va San Martino Quand’ecco appare un mendicante, lacero e scalzo vecchio e tremante Il cavaliere mosso a pietà, vorrebbe fargli la carità Ma nella borsa non ha un quattrino, e allora dice Oh poverino Mi spiace nulla io posso darti, ma tieni questo per riscaldarti Divide in due il suo mantello, metà ne dona al poverello Il sole spunta e brilla in cielo, caccia la nebbia con il suo velo E San Martino continua il viaggio, sempre allietato dal caldo raggio.
San Martino Nero il cielo era; la pioggia fitta al suol precipitava nè una casa nè una roggia al meschin si presentava avanza sconfortato, le sue gambe eran tremanti ecco un giovane soldato si presenta a lui davanti snello biondo ardito e bello, ei sta ritto sul cavallo guarda e subito il mantello svelto taglia senza fallo ne dà mezzo al poveretto, che l’indossa, e il donatore fissa. Dice ” Benedetto, sia per sempre il tuo buon cuore.” Il meschino era Gesù, e Martin si prosternava ora non pioveva più, ecco il cielo rischiarava riapparì smagliante il sole, s’udì dolce un’armonia gelsomini, rose, viole, infioravano la via. (N. Giustino)
San Martino La nebbia agl’irti colli piovigginando sale e sotto il maestrale urla e biancheggia il mar; ma per le vie del borgo dal ribollir dei tini va l’aspro odor de i vini l’anime a rallegrar. Gira su ceppi accesi lo spiedo scoppiettando: sta il cacciator fischiando su l’uscio a rimirar. Tra le rossastre nubi stormi d’uccelli neri com’esuli pensieri nel vespero migrar. (G. Carducci)
San Martino Lampioncini colorati che sfilate lungo i prati stan le stelle ad osservare per vedervi scintillare voi fiorite nei giardini come lieti fiorellini stan le stelle ad osservare per vedervi scintillare siete come le farfalle, bianche rosse verdi e gialle stan le stelle ad osservare per vedervi scintillare.
San Martino Chi passa al gran galoppo su quel cavallo bianco? Un prode cavaliere con la sua spada al fianco. Poi torna al suo castello e per il bosco va gli uccelli lievemente gorgheggiano qua e là.
San Martino Se passa un cavaliere con un pennacchio rosso sull’elmo è san Martino, senza mantello indosso. Il sole novembrino che stacca foglie gialle, pelliccia bionda e soffice gli cade sulle spalle (R. Pezzani)
La leggenda di San Martino San Martino sul destiero galoppava, galoppava, tutto avvolto nel mantello, tutto assorto nel pensiero. Nero il cielo, freddo il vento ed un turbine di foglie… Era autunno. San Martino galoppando udì un lamento. “Muoio”, un poverello ripeteva irrigidito. San Martino con la spada tagliò a mezzo il suo mantello. Che tepore! Al poverino gli ritorna sangue e vita, or ch’è avvolto nel mantello del pietoso San Martino. Ricomincia a galoppare nel grigiore il cavaliere quando tiepido il bel sole, per prodigio, ecco riappare! D’un azzurro intenerito che ricorda primavera si sinnova tutto il cielo, pare il mondo rifiorito. (Olga Siniscalchi)
Poesie e filastrocche per san Martino – tutte le opere contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere.
si preparano le lanterne, e si decorano i tradizionali biscotti di san Martino.
La mamma prepara le basi con la pastafrolla: qui un modello, che potete scaricare e stampare gratuitamente modello per biscotto di San Martino e i bambini li decorano con caramelle, cioccolata, marzapane e altro.
nella tradizione di Venezia e della sua terraferma, per san Martino si regala un biscotto di pasta frolla, raffigurante il santo a cavallo sempre con mantello e spada, decorato con glassa o cioccolato (ma questa è una tradizione già più moderna!) e con confettini colorati o altri dolciumi.
Questa usanza nasce dal regalo che si scambiavano i fidanzati (i morosi), poiché proprio nel periodo dei contratti legati al mondo agricolo, spesso si scambiavano promesse di matrimonio e si dava inizio al fidanzamento ufficiale. La tradizione si è poi evoluta passando dai fidanzati ai bambini.
I biscotti di san Martino venivano consumati l’11 novembre, chiaramente, ma questa data era detta “san Martino dei ricchi”, perchè i più abbienti potevano permettersi di comprare i biscotti e la bottiglia di moscato per inzupparli, nel giorno stesso della ricorrenza. I poveri, invece, dovevano aspettare di ricevere il salario (simanata), che veniva corrisposto il sabato e quindi mangiavano i biscotti col moscato la domenica successiva all’11 novembre, che si chiamava “san Martino dei poveri”.
Ecco i biscotti di San Martino :
Questo articolo fa parte dell’Album di Vita pratica:
The biscuits of St. Martin. Waiting for the festival of St. Martin we prepare lanterns, and the traditional biscuits.
Mom prepares the bases with the pastry (here a model, that you can download and print for free), and children decorate them with candy, chocolate, marzipan and more.
In the tradition of Venice and its mainland, for St. Martin is offering a shortbread, depicting the saint on horseback always with cape and sword, decorated with icing or chocolate (but this is a tradition already more modern!), and with colored candies or other sweets.
This custom comes from the present that engaged couples exchanged, because in the period of the contracts related to the agricultural world, often they exchanged wedding vows and began the official engagement. The tradition has since moved going from boyfriends to the children.
Cookies of St. Martin were eaten on 11 November, of course, but this date was called “St. Martin of the rich”, because the wealthy could afford to buy the biscuits and a bottle of muscat for soak them, on the day of the recurrence. The poor, on the other hand, had to wait to be paid their salary, which was paid on Saturday and then ate the biscuits with Muscat next Sunday 11 November, which was called “St. Martin of the poor”.
Lanterne realizzate riciclando i cartoni per la pizza da asporto e le bottiglie di plastica, per san Martino e non solo…
Questi sono esempi di lanterne realizzate coi cartoni da pizza, un normale foglio A4 e dei pezzetti di carta velina:
Queste lanterne invece sono realizzate utilizzando le bottiglie di plastica:
Per le prime lanterne, in pochi minuti, si fa così:
Io ho usato un contenitore da pizza, (con evidenti tracce di pizza) ritagliando dal bordo il rinforzo per la parte superiore della lanterna, e poi la sagoma per il fondo:
per le pareti della lanterna va benissimo un normale foglio bianco A3. Il bambino può disegnare ciò che desidera, oppure si può semplicemente colorare con i pastelli a cera
si ritagliano delle aperture (le foglie sono la forma più semplice, ma ci si può sbizzarrire con stelline, pallini o quello che si vuole…
poi ci sono due possibilità: usare il foglio così com’è, oppure trattarlo con un batuffolo di cotone imbevuto di olio (la carta risulta più forte e trasparente, e leggermente impermeabile, in caso di pioggia)
sul retro del foglio si incollano dei pezzi di carta velina colorata a coprire i fori
poi si graffetta il fondo e il bordo superiore, e la lanterna è pronta.
Easy, fast, recycled lantens made with cartoons for pizza takeaway and plastic bottles.
These are examples of lanterns made with boxes of pizza, a normal A4 paper and pieces of tissue paper:
These lanterns instead are made using plastic bottles:
Easy, fast, recycled lantens
For the first lanterns, in a few minutes, do this:
I used a box of pizza, (with evident traces of pizza), I cut from the edge the reinforcement for the top of the lantern, and then the shape for the bottom:
for the walls of the lantern is fine a normal white sheet A3. The child can draw what he wants, or he can simply coloring with wax pastels:
Cut a few openings in the shape of leaf, star, ball, etc…
then there are two possibilities: use the paper as is, or treat it with a cotton ball soaked in oil (the paper will become stronger and more transparent, and slightly waterproof in case of rain):
on the back side glue pieces of colored tissue paper to cover the holes:
then staple the bottom and the top edge, and the lantern is ready.
Lanterna di carta Waldorf. Questa bellissima lanterna di carta è un classico della scuola Waldorf: viene utilizzata non solo per San Martino, ma anche per accompagnare il periodo dell’avvento e il Natale.
Le stelle si formano grazie alla sovrapposizione dei pentagoni di carta, e la realizzazione è davvero molto semplice…
Si preparano 11 pentagoni (8cm di lato), e di ogni lato si segna la metà.
poi si ritagliano e si piegano lungo le linee ideali che vanno dalla metà di un lato alla metà dell’altro:
quindi si procede ad incollarli tra di loro in questo modo: per la base si incollano i due triangoli tra loro e poi le “lingue” ottenute sui lati verticali, così
Per tutti gli altri pentagoni invece, si incolla sempre un triangolo all’interno e un triangolo all’esterno (in questo modo le stelle si formano su ogni faccia della lanterna), così
Waldorf paper lantern. This beautiful paper lantern is a classic of the Waldorf School: is used not only for St. Martin, but also to accompany Advent and Christmas.
Stars are formed due to overlap of the pentagons of paper, and the construction is really very simple…
To get the Waldorf paper lantern prepare 11 pentagons (8cm wide). With a pencil mark the middle of each side of each pentagon.
then crop the pentagons, and fold along the ideal lines ranging from the middle of one side to the middle of the other:
then proceed to glue them to one another in this way: for the base glue the two triangles together, and then the “tongues” obtained on the vertical sides, in this way:
For all other pentagons on the other hand, glue always a triangle inside and a triangle outside (in this way the stars are formed on each face of the lantern), in this way:
Nell’ampio ciel le stelle – canto per San Martino: un classico canto per accompagnare la festa delle lanterne, con spartito stampabile, testo e traccia mp3.
Fa parte di una serie di post sul tema:
Nell’ampio ciel le stelle – canto per San Martino – spartito
Nell’ampio ciel le stelle – canto per San Martino -Testo
Nell’ampio ciel le stelle, brillan come fiammelle; io piccolo bambin quaggiù, rivolgo gl’occhi al ciel lassù. Io adoro voi mie stelle, che siete tanto belle, mentr’io con il mio lumicin, vo’ incerto qui nel mio cammin. Manto del ciel, stelline, salutano il mio cammin e allegro allor io piccolin, saluto lor col mio lumin.
Nell’ampio ciel le stelle – canto per San Martino spartito e file mp3
Queste canzoncine appartengono al repertorio classico tedesco di canzoncine che i bambini cantano durante i cortei di lanterne che si tengono a San Martino. Le traduzioni nella nostra lingua non sono sempre riuscitissime. I testi originali si possono trovare qui http://www.martin-von-tours.de/lieder/, dove è anche possibile ascoltarle e scaricarle in Quicktime.
Canti per san Martino – MARTIN CAVALCA NELL’OSCURITA’: un canto tradizionale da cantare durante la festa delle lanterne; qui trovi il testo, lo spartito, il file mp3.
Fa parte di una serie di articoli sul tema:
Canti per san Martino – MARTIN CAVALCA NELL’OSCURITA’
Canti per san Martino – MARTIN CAVALCA NELL’OSCURITA’ – testo
Martin cavalca nell’oscurità, freddo il vento che paura fa; curvo là un vecchio egli ved’arrancar, e sulla candida neve gelar; lucente spada nel pugno afferrò, il cavalier in due pezzi tagliò purpureo manto da cima ai piè, uno al vecchietto in dono lo diè; oh, possa anch’io percepir nel mio cuor, di un uomo fratello il suo cupo dolor e le mie mani solerti adoprar, gioia e sollievo dovunque a portar.
Canti per san Martino – MARTIN CAVALCA NELL’OSCURITA’ spartito e file mp3 qui:
Queste canzoncine appartengono al repertorio classico tedesco di canzoncine che i bambini cantano durante i cortei di lanterne che si tengono a San Martino.
Le traduzioni nella nostra lingua non sono sempre riuscitissime. I testi originali si possono trovare qui http://www.martin-von-tours.de/lieder/, dove è anche possibile ascoltarle e scaricarle in Quicktime.
San Martino cavaliere – canto per San Martino: un classico canto che accompagna la festa delle lanterne; trovi qui lo spartito, il testo, lo spartito sonoro e la traccia mp3.
Fa parte di una serie di articoli sul tema:
San Martino cavaliere – canto per San Martino – spartito
San Martino cavaliere – canto per San Martino -Testo
San Martino, cavaliere, ti ringrazio per la luce, che per strada mi conduce, e mi illumina il cammin.
San Martino cavaliere – canto per San Martino – spartito e traccia mp3:
Io vo con la mia lanterna – canti per San Martino: un canto tradizionale che accompagna la festa delle lanterne; trovi a seguire testo, spartito, spartito sonoro e traccia mp3.
Io vo con la mia lanterna – canti per San Martino – spartito e mp3 qui:
Io vo con la mia lanterna – canti per San Martino – testo:
Io vo con la mia lanterna, la porto sempre con me. Nel cielo splende una stella e qui lei arde per me. La luce poi si spegnerà, rabimmel rabammel rabum la luce poi si spegnerà, su bimbi a casa torniam.
Lanterna di cartapesta su palloncino: una lanterna semplicissima da realizzare e di grande effetto. Il progetto è adatto anche ai più piccoli.
Per realizzare questa lanterna gonfiamo il palloncino,
poi lo fissiamo con due pezzetti di nastro adesivo a un barattolo di yogurt. Per fare un po’ di peso possiamo mettere nel barattolo un sasso preso in giardino.
Poi strappiamo i fogli di carta velina colorata e prepariamo dei vasetti di colla vinilica molto diluita, e cominciamo ad attaccare i pezzetti di velina sul palloncino.
Dopo aver applicato vari strati di carta, quando il tutto sarà ben asciugato, bucheremo i palloncini e la lanterna sarà pronta per essere ammirata: con un po’ di cera che cola dalla candela accesa, fissate sul fondo il lumino.
Il progetto, soprattutto coi bambini più piccoli, va condotto nell’arco di più giorni; se vogliamo che sia pronta per la festa delle lanterne di san Martino dovremo impostarlo con un certo anticipo…
Paper mache lantern tutorial on balloon: a lantern simple to make and very effective. The project is also suitable for the little ones.
Paper mache lantern tutorial
What do you need?
a balloon colored tissue paper white glue water a brush a jar of glass or plastic a stone masking tape a tealight.
Paper mache lantern tutorial
What to do?
To do this lantern inflate the balloon,
then we fix it with two pieces of masking tape on the jar. To make weight we can put into the jar a stone taken in the garden.
Then tear off the sheets of colored tissue paper and prepare the jars of white glue very diluted with water, and begin to attack the pieces of tissue on the balloon, with the brush.
After applying several layers of paper, when all will be well dried, puncture the balloons and the lantern will be ready to be admired: with a bit wax dripping from the candle lit, laid on the bottom the tealight.
The project, especially with younger children, it should be conducted over several days; if you want it to be ready for the Lantern Festival of Saint Martin we’ll set it well in advance …
Questa è la leggenda di San Martino in versione cantata (Sankt Martin ritt durch Schnee und Wind). La “traduzione” è quella che è…
prima strofa: San Martino, san Martino, san Martino va, tra la pioggia e il vento, il suo cavallo va forte e contento. Martino con coraggio va, ed il suo mantello caldo gli dà.
seconda strofa: Lì vicino, sulla neve, un vecchietto c’è, quasi nudo egli è, e dice al santo con voce di pianto. Aiutatemi, io bisogno ho, altimenti per il freddo morirò (o gelerò)
terza strofa: San Martino, san Martino, san Martino il suo cavallo fermò e presso il vecchietto sì arrestò. Lucente spada nel pugno afferrò, e il suo mantello in due parti tagliò.
quarta strofa: san Martino, san Martino, il vecchietto col suo mantello coprì, così il poveretto caldo sentì. Col cuore contento voleva ringraziar, ma san Martino umilmente riprese a cavalcar.
Come dicevo, queste canzoncine appartengono al repertorio classico tedesco di canzoncine che i bambini cantano durante i cortei di lanterne che si tengono a San Martino. Le traduzioni nella nostra lingua non sono sempre riuscitissime. I testi originali si possono trovare qui http://www.martin-von-tours.de/lieder/, dove è anche possibile ascoltarle e scaricarle in Quicktime.
Racconti per San Martino: racconti adatti a bambini della scuola d’infanzia e primaria su San Martino
San Martino San Martino era un bel soldato, giovane e forte. Se ne andava, in un giorno di novembre, lungo una strada di campagna e si riparava dalla pioggia con un pesante martello che l’avvolgeva tutto. “Che brutta stagione!” disse guardandoci attorno.
Gli alberi avevano perduto le loro foglie e alzavano i rami stecchiti e nudi verso il cielo grigio, tutto uguale, che prometteva pioggia per chissà quanto tempo. Non c’era un fiore nei prati; quella poca erba era tutta inzuppata d’acqua e in mezzo vi saltavano le rane e facevano gre gre.
La strada era deserta, tutti stavano riparati dentro le case. Soltanto un mendicante se ne stava seduto sopra un paracarro, al margine della strada e tremava sotto la pioggia, cercando di ripararsi sotto pochi cenci che ormai erano intrisi d’acqua e non servivano più a nulla.
“Poveretto!” disse Martino, fermandosi davanti a lui… “Vorrei tanto aiutarti, ma i soldati sono poveri e ti dico la verità che in tasca non ho neppure una moneta per farti bere qualcosa che ti scaldi”. “Non importa” rispose il poveretto rannicchiato sotto l’acqua. “Mi hai detto una buona parola. Anche questa è carità. Non capita spesso…”
“Aspetta!” disse ad un tratto Martino “Qualcosa ce l’ho”. Trasse la spada e tagliò il mantello in due parti. “Ecco qua” disse contento “Mezzo per uno e staremo abbastanza caldi tutti e due”. Posò il mantello sulle spalle del vecchio che lo guardava con riconoscenza e proseguì lietamente il suo cammino.
Poco dopo incontrò un altro mendicante, anche questi lacero e tremante sotto la pioggia gelida che veniva giù. “Quanti poveri ci sono al mondo!” disse fra sè Martino e la sua bella contentezza era svanita. Lo spettacolo della miseria gli aveva rattristato il cuore. Senza neppure pensarci su un momento, si tolse la metà del mantello che si era gettato sulle spalle e lo regalò al mendicante.
Martino camminava e pregava Dio per la povera gente e si sentiva il cuore pieno di amore e di pietà. Era così assorto nei suoi pensieri che non si era neppure accorto che aveva smesso di piovere. Guardandosi attorno pensò di sognare. Il cielo si era schiarito e le pozzanghere erano piene di riflessi azzurri. All’orizzonte era apparso un bellissimo arcobaleno e il sole era caldo e luminoso. Le siepi erano tutte fiorite e gli uccellini, sugli alberi, cantavano lietamente. Non pareva più autunno, ma la dolce e tiepida primavera.
Dio aveva voluto ricompensare l’atto generoso di Martino e gli aveva mandato un segno della sua benevolenza. Da allora, nel pieno dell’autunno, s’è sempre qualche giornata tiepida, il sole splende e i rami spogli provano anche a mettere qualche gemma. Gli uomini dicono che quella è l’estate di San Martino che il cielo, ogni anno, manda sulla terra per ricordare l’atto pietoso del Santo che regalò il suo mantello ai poveri. M. Menicucci
Il cavaliere della luce Questo è un racconto che si usa nelle scuole steineriane, che ho un po’ alleggerito (nei limiti del possibile) degli elementi che a mio parere calcano troppo la mano sulle simbologie religiose e morali. In effetti la storia di san Martino è un racconto semplice formato da due quadri soltanto: il taglio del mantello, e l’apparire del sole.
In un regno lontano lontano viveva tanto tempo fa un ragazzo, Martino. Questo ragazzo era molto stimato dal Re, per i suoi modi gentili e per il suo cuore coraggioso. Presto Martino imparò a cavalcare, a tirare di scherma e con la fionda. Non usciva mai dal castello, se non per qualche battuta di caccia, durante la quale il re lo voleva sempre al suo fianco. E Martino cresceva sempre più bello, e forte, e intelligente.
Così, quando venne il momento, il re lo mandò a chiamare, perchè già da tempo aveva pensato di fare di lui il suo consigliere. Quando Martino si trovò al cospetto del re, messo al corrente delle sue intenzioni (intenzioni che avrebbero certo lusingato cavalieri, nobili e principi di tutto il mondo), lui rimase un attimo in silenzio, poi chiese al re tre giorni di tempo per riflettere sulla proposta. Il re fu molto stupito, ma siccome aveva grande fiducia in Martino e lo stimava moltissimo, non si offese per nulla e accettò la sua richiesta.
Martino trascorse la prima notte nella torre del castello, e di notte, uscendo a guardare le stelle, sentì quanto piccolo era il regno in cui viveva e quanto grande era il cielo.
Il secondo giornò cavalcò a lungo, poi trascorse la notte in una grotta che conosceva bene, perchè era quella dove andava a giocare da bambino.
Lì fece un sogno: era a palazzo, durante una festa, al fianco del suo re. Tutti sorridevano, tutto era bello e ricco. Poi improvvisamente si alzava una nebbia grigia e lui si ritrovava solo, in una strada stretta mai vista prima. C’erano persone tristi, povere e affamate, e ogni volta che lui cercava di aiutarle, nel sogno rimaneva come immobilizzato. E più andava avanti per quella strada, più anche lui si trasformava: i suoi bei vestiti diventavano stracci, e lui sentiva fame e sete e freddo.
Si svegliò di colpo, senza sapere come finisse il sogno.
Il terzo giorno decise di andare in riva al mare, e la sera si addormentò su di una zattera ormeggiata agli scogli. E fu un sonno senza sogni. Quando si svegliò, si sentiva forte e sereno, e tornò dal re, che lo stava aspettando. “Caro re, ho pensato a lungo e mi sento onorato dalla vostra proposta, ma sento che il mio destino non è quello di restare a palazzo. Datemi il permesso di partire. E vi prometto che tornerò, non appena avrò trovato quello che cerco”. Di fronte a tanta fermezza, il re accettò la decisione di Martino, e sguainata la spada, lo nominò cavaliere dicendo: “Ora sei un cavaliere, avrai un cavallo, questo mantello rosso e la mia spada.”
Martino partì al galoppo su uno splendido cavallo bianco, col suo bellissimo mantello rosso e la spada dono del re. Compì molti atti eroici lungo la sua strada, e con la sua spada combattè ingiustizie e bugie. E passarono molti anni. Un giorno, era autunno inoltrato, Martino cavalcava pensando a quanto tempo era passato da quando aveva lasciato il suo regno. Era novembre. Le giornate si facevano sempre più fredde, e una fittissima nebbia avvolgeva tutte le cose. Si strinse nel suo mantello rosso. L’umidità dell’aria si sentiva fin nelle ossa. Ad un certo punto il cavallo si fermò, come se avesse sentito qualcosa.
Allora Martino scese dalla sella e vide, seduto sul ciglio della strada, un povero mendicante. Il freddo era insopportabile. Martino guardò tra le sue cose se c’era qualcosa che poteva essere utile per soccorre l’uomo, ma non aveva nulla. Allora, senza nemmeno pensarci un attimo, si tolse il mantello, lo alzò in aria, e impugnata la sua spada lo divise in due parti uguali. Poi con una metà andò a coprire il mendicante, e lui si accontentò dell’altra metà.
Quindi, senza dire una parola, rimontò in sella e si allontanò nella nebbia, sotto lo sguardo riconoscente dell’uomo. Subito dopo avvenne una cosa davvero incredibile: la nebbia sparì di colpo per lasciar filtrare i raggi del sole, ed erano raggi caldi come in estate, capaci di scaldare tutto il paese. Martino si tolse anche il pezzo di mantello rimasto, tanto faceva caldo. E capì che era il momento di tornare nel suo regno.
San Martino
Nacque nel 316 in Ungheria. Suo padre era un ufficiale romano. Ancora ragazzo fu avviato alla carriera delle armi che più tardi, divenuto prete, abbandonò. Fu eletto vescovo di Tours. Morì nel 397. La leggenda narra che San Martino, il santo della carità, divise il proprio mantello con un povero incontrato in una rigida giornata autunnale. Come premio a questo suo atto generoso, Dio mutò la temperatura di quella giornata in un clima di primavera. Da quel giorno quel periodo venne chiamato “l’estate di San Martino”. San Martino è considerato anche il simbolo dell’abbondanza.
San Martino
Nacque in Pannonia. Suo padre, tribuno romano, fece di lui un soldato. Ebbe innato il senso della carità. E’ particolarmente noto l’episodio di cui fu protagonista in una fredda giornata di novembre. Mentre a cavallo percorreva un solitario sentiero, si imbatté in un poveretto tremante. Non esitò a dividere con lui il suo mantello. Nella notte, in sogno, gli apparve un giovane uomo rivestito del drappo che aveva donato al poveretto e lo ringraziò. Commosso da questo strano sogno, non esitò a convertirsi al Cristianesimo. Fondò poi alcuni monasteri ed ebbe grande popolarità. La sua tomba divenne meta di numerosi pellegrinaggi, cosicché in quel luogo sorse una stupenda Basilica.
Racconti per San Martino – tutte le opere contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere.
Lanterna che brilli – canto per san Martino: una canzoncina tradizionale per la festa delle lanterne, con spartito, testo, spartito sonoro e traccia mp3.
Fa parte della raccolta:
Lanterna che brilli – canto per san Martino – spartito
Lanterna che brilli – canto per san Martino – Testo
Lanterna, che brilli, nella notte oscura. Dimmi dove andar, dimmi dove andar, senza luce al buio non posso restar…
Lanterna che brilli – canto per san Martino – spartito ed mp3 qui:
Queste canzoncine appartengono al repertorio classico tedesco di canzoncine che i bambini cantano durante i cortei di lanterne che si tengono a San Martino.
Le traduzioni nella nostra lingua non sono sempre riuscitissime.
San Martino nella tradizione: ci sono molte leggende che riguardano San Martino, e le sue gesta sono note a tutti i bambini in Germania, Austria e Svizzera. San Martino è festeggiato anche in tutt’Italia, con tradizioni popolari diverse che vanno dai falò al sud (simili alle feste delle lanterne), ai sammartinelli o sama di Venezia.
In effetti l’origine della tanto amata processione delle lanterne non è chiara. Però è molto accreditata l’ipotesi che si tratti di un’elaborazione più “cittadina” dei falò di San Martino, che ancora oggi vengono accesi nelle campagne in tutta Europa.
Per quanto riguarda le tradizioni gastronomiche, per San Martino si preparano dolci tipici e l’oca. Al ritorno dai festeggiamenti all’aperto si consumano insieme al vino caldo.
Pur essendo morto l’8, San Martino viene ricordato il giorno in cui la sua salma venne tumulata, l’11 novembre appunto.
Questa data probabilmente non venne scelta a caso, poiché è una data fondamentale sia nella tradizione cristiana e cattolica sia nel mondo rurale e nelle sue tradizioni: nella tradizione cristiana e cattolica questa data rappresentava infatti il penultimo giorno prima dell’inizio del periodo di penitenze e digiuni che precedevano il Santo Natale, mentre per il mondo contadino rappresentava la fine dell’anno agricolo, nonché la data della svinatura e l’inizio del ciclo invernale.
In questo periodo si spillava il vino novello dalle botti e si festeggiava accompagnando il vino con i frutti della stagione, quali ad esempio le castagne. Ecco perché ancora oggi in tale ricorrenza si servono caldarroste e vin brulé (http://www.restoredtraditions.com/)
Oltre ad essere l’inizio del ciclo invernale, l’11 Novembre segnava anche la fine dei contratti agricoli. Infatti in tale data i mezzadri preparavano le loro masserizie e lasciavano la loro mezzadria al signore del podere; se questi decideva di rinnovare il contratto, ritornavano nella loro casa a festeggiare con i prodotti di stagione, altrimenti dovevano traslocare.
Ed ecco come è nata l’espressione “Faxemo San Martin” ovvero “Fare San Martino”, che indicava appunto il trasloco dei mezzadri.
Dai traslochi del mondo rurale, anche nelle città divenne consuetudine cambiare casa nel periodo di San Martino e l’utilizzo dell’espressione “Fare San Martino” dalle campagne arrivò nelle città.
Molti dei detti popolari hanno origine da queste usanze. Tra questi ricordiamo “Oca, castagne e vino, tieni tutto per San Martino” ed il veneto “Chi no magna oca a San Martin no’l fa el beco de un quatrin”.
Va però anche ricordato che sempre in questo periodo, soprattutto nel Veneziano, i popolani più poveri andavano in giro di casa in casa e, porgendo il grembiule vuoto, cantavano: “In sta casa ghe xe de tuto, del salame e del parsuto, del formagio piasentin viva viva San Martin!” (In questa casa c’è di tutto, del salame e del prosciutto, del formaggio piacentino viva viva San Martino), con la speranza di ricevere qualcosa, ricordando il gesto caritatevole di San Martino verso il Mendicante.
Inoltre, i festeggiamenti per i nuovi affari o per il rinnovo del contratto avvenivano spesso per le strade ed erano accompagnati, oltre che dall’oca arrosto, da bicchieri di buon vino novello e da castagne arrosto, anche da canti, spesso anche a squarciagola viste le abbondanti libagioni.
Spesso, coloro che festeggiavano in strada non si limitavano a cantare, ma facevano ogni sorta di rumore pur di convincere chi era in casa a donare loro altro vino e altre castagne.
E chi era in casa, sia per gesto di bontà sia perché non ne poteva più del baccano, donava!
Ed ecco perché si dice “battere il San Martino” e tale usanza è rimasta ancora oggi a Venezia e nella laguna.
Ancora oggi a Venezia l’11 novembre i bambini girano con pentoloni e campanacci per i negozi chiedendo qualcosa in dono e cantando, oltre al ritornello di S.Martino campanaro, anche filastrocche più complesse, sul genere di “In sta casa ghe xe de tuto, del salame e del parsuto, del formagio piasentin viva viva San Martin!”:
Oh che odori de pignata! Se magnè bon pro ve fazza, Se ne de del bon vin cantaremo S.Martin
Oh, che odori di cucina, se state mangiando vi faccia bene, se ci date del buon vin, canteremo san Martin.
S.Martin n’à manda qua Perché ne fe la carità Anca lu, co’l ghe n’aveva Carità ghe ne faceva.
San Martino ci ha mandati qua perchè ci facciate la carità. Anche lui, con quel che aveva, la carità lui la faceva.
Fe atenzzion che semo tanti E fame gavemo tuti quanti Stè atenti a no darne poco Perché se no stemo qua un toco!
Fate attenzione che siamo in tanti, e fame l’abbiamo tutti quanti. State attenti a non darne poco, perchè sennò staremo qua un bel po’
Due poi erano le conclusioni della filastrocca a seconda che i bambini avessero ricevuto in dono qualcosa, caramelle, soldi, cibo:
E con questo la ringraziemo Del bon animo e del bon cuor Un altro ano ritornaremo Se ghe piase al bon Signor E col nostro sachetin Viva, viva S.Martin.
E con questo la ringraziamo del buon animo e del buon cuore. L’anno prossimo ritorneremo, se piacerà al buon Signor. E col nostro sacchettino, viva viva san Martino.
O, non avessero ricevuto niente:
Tanti ciodi gh’è in sta porta Tanti diavoli che ve porta Tanti ciodi gh’è in sto muro Tanti bruschi ve vegna sul culo.
Tanti chiodi ha questa porta, tanti diavoli che vi portano. Tanti chiodi ha questo muro, tanti foruncoli vi vengano al culo
Si parla anche di “Estate di san Martino” per i giorni intorno all’11 novembre, riconducendoli all’episodio del mantello; in effetti spesso è proprio in questo periodo che si osservavano pochi giorni di tempo bello e tiepido, subito dopo le brume autunnali e poco prima delle gelate invernali.
E’ perciò probabile che l’osservazione dei fenomeni naturali nel mondo agricolo e le consuetudini contadine si siano integrate profondamente nella costruzione della leggenda sul santo.
I biscotti di san Martino
I “Weckmänner” sono biscottoni tedeschi a forma di omino, con la pipa in bocca, che si preparano per san Martino. Per il tradizionale Weckmann, la pasta è modellata a mano a forma di omino, e con l’uvetta o i mirtilli secchi si fanno occhi e bottoni della giacca. In Germania si trovano facilmente le pipe in terracotta per decorarli, ma è molto difficile trovarle altrove…
Anche in Italia c’è qualcosa di simile, a Venezia. Nella tradizione di Venezia e della sua terraferma, per san Martino si regala un biscotto di pasta frolla, raffigurante il santo a cavallo sempre con mantello e spada, decorato con glassa o cioccolato (ma questa è una tradizione già più moderna!) e con confettini colorati o altri dolciumi.
Questa usanza nasce dal regalo che si scambiavano i fidanzati (i morosi), poiché proprio nel periodo dei contratti legati al mondo agricolo, spesso si scambiavano promesse di matrimonio e si dava inizio al fidanzamento ufficiale. La tradizione si è poi evoluta passando dai fidanzati ai bambini.
I biscotti di san Martino venivano consumati l’11 novembre, chiaramente, ma questa data era detta “san Martino dei ricchi”, perchè i più abbienti potevano permettersi di comprare i biscotti e la bottiglia di moscato per inzupparli, nel giorno stesso della ricorrenza.
I poveri, invece, dovevano aspettare di ricevere il salario (simanata), che veniva corrisposto il sabato e quindi mangiavano i biscotti col moscato la domenica successiva all’11 novembre, che si chiamava “san Martino dei poveri”.
Ora, non ci restano che le oche…
Quella dell’11 novembre, abbiamo visto, era una festa pagana di origine antichissima , già della tradizione celtica, ed entrata a far parte delle feste cristiane grazie a S. Martino.
La leggenda racconta infatti che il Papa volesse a tutti i costi nominare vescovo Martino, il quale invece molto umilmente non desiderava occupare posizioni importanti, poiché voleva dedicare la sua vita alla preghiera, all’evangelizzazione e all’aiuto dei poveri.
Allora Martino si nascose in un convento sperando che nessuno lo potesse scovare. C’erano però delle oche, che si sa sono animali molto chiassosi. Le oche fecero un tale baccano con i loro “qua qua”, che alla fine Martino venne scoperto. E divenne vescovo.
Da allora ogni anno, a ricordare il “tradimento” delle oche, un’oca veniva arrostita.
Nella tradizione contadina, come già detto, l’11 novembre si chiudevano i vecchi contratti agricoli, ma se ne aprivano anche di nuovi. E va detto che l’oca rappresentava, assieme al maiale, la riserva di grassi e proteine durante il periodo invernale del povero contadino, il quale si cibava quasi esclusiamente solo di cereali e di grandi polente.
Nel Medioevo, inoltre, l’oca veniva allevata anche nei conventi e nei monasteri, come aveva decretato Carlo Magno. L’oca divenne perciò una preziosa e fondamentale merce di scambio. I fittavoli ed i mezzadri spesso pagavano la pigione al nobile possidente con un’oca; i contadini portavano alle fiere, che venivano organizzate in tale periodo, le loro oche per barattarle con altre merci, quali ad esempio capi di vestiario.
A tale proposito, famosa è la “Fiera delle oche e degli stivali”, che si svolge a S. Andrea di Portogruaro e che conserva la memoria dei baratti tra contadini e mercanti. Inoltre, considerato che in questo periodo aveva inizio il ciclo invernale, gli uccelli migratori, come le oche selvatiche muovevano verso sud e nelle zone di passo, come appunto la Laguna di Venezia, era più facile cacciarli proprio in questo periodo.
E per finire una ricetta tedesca
Oca di San Martino con mele, castagne e gnocchi di pane (Martinsgans mit Rothkohl und Schmoräpfel)
È un piatto che richiede molto tempo. La cottura dell’oca è di per sé semplice. La preparazione dei contorni richiede però pazienza.
Ingredienti per 6 persone: 1 oca di circa 5 kg, 30 g di ambrosia (favorisce la digestione), 2 cipolle, 2 mele, sale e pepe.
Eliminare la parte più grassa all’oca e porla in una pentola a fuoco basso con un bicchiere di acqua. Eliminare il collo e le ali (serviranno nella preparazione del condimento). Tagliare a tocchetti la cipolla e le mele. Insaporirle con ambrosia, buccia di arancia, sale e pepe. Salare internamente l’oca e riempirla con le mele e la cipolla appena preparate. Salare e pepare poi l’oca esternamente e porla a cuocere sopra una teglia da forno, con un po’ di acqua (leggermente profonda per poter raccogliere tutto il grasso che si scioglierà durante la cottura) in forno preriscaldato a 180° C. Non appena l’oca inizia ad assumere colore diminuire la temperatura a 160° e continuare la cottura in forno per 90 minuti. Ogni 15 minuti irrorare l’oca con il grasso di cottura.
Mele al forno
Ingredienti: 6 piccole mele (Cox Orange), 200 g di marzapane (naturale), 90 g di uvetta sultanina
Eliminare con l’apposito coltellino il torso delle mele. Mischiare l’uvetta sultanina con il marzapane e riempire la parte centrale delle mele svuotate. Porre le mele su una teglia da forno ed infornarle a 160° C sino a quando non si ammorbidiscono.
Cavolo
Ingredienti: 90 g di grasso di oca, 100 g di cipolla tagliata a fettine sottilissime, 1 kg di cavolo rosso tagliato a fettine sottilissime, 50 g di gelatina di mirtilli rossi, 2 piccole mele tagliate a fettine sottilissime, un sacchettino aromatico con: 4 chiodi di garofano, 2 foglie di alloro, 3 bacche di ginepro, 1 dl di aceto di vino rosso, sale, zucchero, 1/2 l di vino rosso
Porre il cavolo con la cipolla a rosolare in una capiente pentola ove si sarà messo a sciogliere un po’ di grasso d’oca. Dopo circa venti minuti aggiungere l’aceto e il vino rosso. A pentola coperta lasciare stufare per ulteriori venti minuti. Aggiungere quindi il sacchetto aromatico e le fettine di mela e continuare la cottura. Poco prima di terminare la cottura aggiungere la gelatina di mirtilli rossi. Riscaldare al momento di servire.
Marroni
Ingredienti: 200 g di zucchero, 1 bicchiere di vino bianco, un po’ di brodo di oca (i cosiddetti “fondi”si trovano in commercio presso i negozi specializzati e sono di ottima qualità), 7 fette di sedano sottilissime, 40 castagne (tipo marroni), 3 stecche di cannella
Incidere la buccia dei marroni e porli in forno preriscaldato a 180° C per circa 15 minuti, indi sbucciarli. In una padella fare caramellare lo zucchero. Aggiungere il vino bianco e il fondo di cottura d’oca per sciogliere il caramello, versate i marroni. Appoggiare le sottili fette di sedano sui marroni, aggiungere le stecche di cannella e continuare la cottura dolcemente sino a quando le castagne saranno morbide ma compatte.
Gnocchi di pane
Ingredienti: 400 g di pane bianco del giorno prima, 100 g di burro, 0,7 L di latte caldo, 4 uova, 60 g di cipolla imbiondita in un po’ di burro, 4 cucchiai di prezzemolo tritato finemente, sale, noce moscata
Tagliare i panini in piccoli pezzi e abbrustolirne 100 g in una padellina con un po’ di burro. Prendere una ciotola e mettervi i pezzettti di pane (anche quelli abbrustoliti) e coprirli con il latte tiepido. Sbattere le uova e aggiungerle, assieme agli altri restanti ingredienti (cipolla rosolata e prezzemolo tritato), alla mollica di pane. Salare e pepare, corregggere con un po’ di noce moscata e lasciare riposare per circa 45 minuti. L’impasto risultante dovrà essere morbido ma compatto. Con tale impasto formare delle piccole “palle” (Knödel) del diametro di circa 5 cm. Per la cottura: riempire una capiente pentola con acqua. Salarla. Portarla ad ebollizione e diminuire immediatamente la fiamma. Gli gnocchi si dovranno infatti cuocere solo attraverso il calore moderato. Non appena vengono in superfice, sono pronti per essere serviti. Questi gnocchi si possono preparare per tempo. Si possono cuocere e, al momento di servire, si posson versare per 1-2 minuti nell’acqua bollente per essere riscaldati
Per il ripieno
Ingredienti: fegato e cuore dell’oca, 60 g di pane a dadini, 70 g di timo e maggiorana freschi tritati, 80 g di patate a dadini, 60 g di cipolla a dadini, 2 uova, buccia grattugiata di un’arancia e di un limone, carta stagnola per avvolgere il ripieno
Tagliare il fegato e il cuore dell’oca a pezzetti. Rosolarli in un po’ di grasso d’oca assieme alla cipolla. Aggiungervi quindi le patate, le erbe aromatiche e il pane. Lasciare insaporire il tutto per circa dieci minuti. Lasciare raffreddare e aggiungere le due uova, la buccia grattugiata dell’arancia e del limone e amalgamare bene il tutto. Lasciare riposare per circa venti minuti. Prender della carta argentata. Ungerla con del grasso d’oca e porvi l’impasto dando una forma allungata. Chiudere il “salamino” avvolgendo su se stessa la carta e appoggiarlo sulla teglia dove cuoce l’oca lasciandolo cuocere per 20 minuti. Quando l’oca sarà cotta, porzionarla, ponendo le porzioni su una teglia da forno, irrorarle col grasso di cottura e coprirle con un foglio di carta argentata. Dieci minuti prima di servire rimettere in forno a 200° C per riscaldare. Le parti restanti della carcassa verranno aggiunte al condimento preparato con il collo e le ali, le verdure, la salsa di pomodoro ed il brodo di volatile (dovrà cuocere per 2 ore). Per addensarlo, utilizzare all’occorrenza un cucchiaio di fecola di patate. Prima di servirlo, filtrarlo con un colino.
Per la salsa: collo, ali e scarti di cottura dell’oca, 150 g di verdure (cipolla, carota, sedano), 30 g di salsa al pomodoro, 1 bicchiere di vino bianco, brodo di pollo o altro volatile
Per servire: riscaldare i piatti. Assicurarsi che tutte le componenti (marroni, mele, verza, oca, ripieno, salsa) siano caldi, quindi, su ogni piatto porre: 1 pezzo d’oca; 2-3 fette di ripieno; al centro la verza; la mela; i marroni; irrorare con abbondante salsa.
Ecco spiegato perchè i Tedeschi prenotano i ristoranti per mangiare l’oca di san Martino anche con molti mesi d’anticipo…
Esperimenti scientifici per bambini – Candele commestibili. Il nostro corpo utilizza l’energia chimica immagazzinata attraverso il cibo che mangiamo. Parte di questa energia viene utilizzata per le funzioni del corpo e il suo lavoro (saltare, correre, giocare, ecc…) e parte si trasforma in calore. Perchè possa esserci combustione occorrono tre cose: energia iniziale (di solito calore), ossigeno e combustibile.
Sia nelle candele di cera classiche, sia nelle candele “commestibili” l’ossigeno è quello presente nell’aria, l’energia iniziale è quella fornita dal fiammifero o dall’accendino, il combustibile nel caso della candela di cera è il gas che si sprigiona dalla cera, in quelle commestibili l’olio d’oliva o l’olio contenuto nella mandorla.
Una candela di cera è fatta di due parti: lo stoppino e la cera. Lo stoppino è fatto di un materiale assorbente, e quando viene acceso, il calore della fiamma scioglie la cera intorno ad esso, lo stoppino la assorbe, e questa per capillarità risale lungo lo stoppino. Quando la cera liquida raggiunge la fiamma, evapora e diventa gas : questo gas è il combustibile che permette alla candela di continuare a bruciare.
Anche la candela commestibile è fatta di due parti: la mandorla (o l’olio d’oliva) e la patata (o la mela, o il filamento centrale del mandarino). Nel caso della mandorla, si tratta di un frutto ricco di proteine, grassi e carboidrati, ma è l’alta percentuale di grasso a fare sì che bruci molto a lungo. La mela o la patata o la buccia del mandarino fungono invece solo da sostegno, ma non forniscono combustibile.
Esperimenti scientifici per bambini Candele commestibili Mandarini
Cosa serve
• almeno 2 mandarini o clementine • olio d’oliva • 1 coltello affilato • accendino o fiammiferi; eventualmente una candela tradizionale per fare coi bambini i confronti tra le due candele
Come fare
La parte difficile è ricavare lo “stoppino” all’interno della seconda metà del mandarino, per cui possono servire molti frutti…
Incidere la pelle del mandarino lungo la circonferenza, quindi rimuovere la metà di buccia superiore (quella senza “stoppino”) avendo cura di non romperla. Per capirsi la parte superiore è quella col picciolo. Avremo adesso una mezza buccia vuota, e una mezza buccia piena di spicchi interi.
Al centro degli spicchi c’è un fascio di filamenti bianchi: lo “stoppino”, appunto. Rimuoviamo gli spicchi senza rompere i filamenti bianchi al centro.
Nella metà senza stoppino ritagliare un foro decorativo, ad esempio a forma di stella.
Riempire la metà con lo stoppino con olio di oliva, in modo che lo stoppino sporga dal livello dell’olio per circa 5mm.
Dare fuoco allo stoppino con fiammiferi o accendino: lo stoppino può contenere dell’umidità e non essere ancora ben intriso d’olio, per cui occorre tenervi la fiamma per alcuni secondi prima che si avvii la combustione. Quando questa si innesca, porre la seconda metà del mandarino sulla nostra candela.
Bellissima e profumatissima attività scientifica e natalizia (o anche per San Martino)…
Esperimenti scientifici per bambini Candele commestibili Patate e mandorle
Cosa serve: Una patata ritagliata a forma di candela (cruda o lessata se si vuole mangiare davvero, per giocare ai maghi) Scaglie di mandorle Accendino o fiammiferi; eventualmente una candela tradizionale per fare coi bambini i confronti tra le due candele.
Cosa fare: Posare la patata a forma di candela su un piattino Inserire nella parte superiore una scaglia di mandorla, come stoppino Dare fuoco alla mandorla. Osservare coi bambini quale parte della candela sta bruciando. Spegnere la candela. Eventualmente lasciar raffreddare e mangiare…
Esperimenti scientifici per bambini Candele commestibili Mela e mandorla
Cosa serve: Una mela Un coltello Una mandorla Fiammiferi o accendino; eventualmente una candela tradizionale per fare coi bambini i confronti tra le due candele.
Cosa fare: Tagliare via la parte superiore e quella inferiore della mela Scegliere una bella scaglia di mandorla oppure sbucciare una mandorla e ritagliarla in modo che si presenti stretta e lunga Inserire la mandorla nella mela Accendere Eventualmente spegnere, raffreddare e mangiare.
Possiamo anche estrarre dalla mela un cilindro a forma di candelina e poi applicare la mandorla, e mi sembra una bellissima idea per una torta di mele di compleanno:
Corona di foglie secche – un bellissimo lavoretto per l’autunno, adatto a bambini della scuola d’infanzia e primaria.
Corona di foglie secche: raccogliete delle belle foglie autunnali e fatele asciugare e stirare tra le pagine di un libro. Non fatele seccare completamente, però.
Poi pinzatele su una striscia di stoffa o cartoncino, e se volete, per rendere la corona più lucida e resistente, spennellate il tutto con acqua e colla vinilica.
Un’alternativa naturale alla colla è quella di immergere le foglie nella cera fusa prima di costruire la corona di foglie.
Se volete invece conservare la corona di foglie negli anni, plastificate le foglie con la plastificatrice.
E’ un bellissimo regalo per i bambini che compiono gli anni in autunno.
Questo articolo fa parte dell’Album di Vita pratica:
Acquarello steineriano L’ ALBERO IN AUTUNNO: una proposta di lavoro. L’esperienza procede rispettando una data sequenza di azioni, che porta il bambino a riflettere sulla condizione dell’albero in questa stagione.
Molto importante è non presentare ai bambini lavori già fatti: vi accorgerete così che proprio chiedendo ai bambini di rispettare una certa sequenza, verrà fuori la personalità di ognuno di loro, e non potranno esserci due alberi uguali, o due verdi uguali, o due marroni uguali ecc…
Acquarello steineriano – Materiale occorrente
acquarelli di qualsiasi marca in tubetto o flaconcino (non in pastiglia) nei colori: giallo limone, giallo oro, blu oltremare, blu di prussia rosso vermiglio (nelle foto c’è anche il rosso carminio, ma non è stato usato). I colori vanno diluiti nei vasetti, in modo che il colore risulti non denso e non carico: diciamo una diluizione abbastanza decisa.
Un pennello a punta piatta largo e con setole di qualsiasi genere, purchè morbide (altrimenti il bambino rischia di graffiare il foglio e noi rischiamo che l’esperienza non venga vissuta come un pieno successo)
una bacinella e un vasetto d’acqua
una spugna che servirà per stendere bene il foglio bagnato sul tavolo, e poi per asciugare il pennello (molto meglio degli straccetti o della carta)
un foglio di carta robusta, meglio se da acquarello (le carte scadenti bagnate possono fare i “pallini”)
Acquarello steineriano – Come si fa
Immergere il foglio nella bacinella, quindi stenderlo con cura sul tavolo con l’aiuto della spugna.
Bisogna evitare che si formino bolle d’aria, perchè altrimenti la carta rischia di arricciarsi.
Poi si dispone il materiale, se volete così:
E’ il modo migliore per evitare incidenti.
Al bambino possiamo dire che stiamo dipingendo un albero in autunno prima, oppure possiamo semplicemente dire che faremo una “pittura” e sarà lui a scoprirlo facendo.
Col blu oltremare si comincia a far scendere la luce dall’alto verso il basso (essere buoni mimi in questi casi aiuta); si può dire che la luce viene sempre dall’alto, e che questa è una luce un po’ mescolata al freddo e all’umidità.
Siccome i bambini non hanno visto la pittura già fatta, ognuno troverà il suo gesto, (breve, lungo, irregolare, verticale o tondeggiante ecc…) l’importante è che ogni pennellata vada dall’alto al basso, senza tornare indietro ma staccando… Si prende dal vasetto il colore in più riprese. Alla fine il blu oltremare è su tutto il foglio.
Ora, senza lavare il pennello, aggiungiamo all’elemento aria l’elemento terra, utilizzando il blu di prussia. Possiamo dire che un appoggio duro sta sotto l’aria, mimando un percorso orizzontale con la mano.
E quando il bambino ha fatto la sua “striscia” blu, gli diciamo che i due si parlano sempre tra loro, e che il blu non se ne sta sdraiato, ma comincia ad andare un po’ incontro alla luce.
Allora possiamo dire che sono cielo e terra, ma che così sembra un paesaggio polare, invece noi vogliamo un paesaggio che si ricorda il sole dell’estate. Infatti in autunno e in inverno la terra è calda anche se l’aria è fredda, ed è per questo che il contadino semina il grano e molti animali si scavano tane per il letargo… così possiamo dire ai bambini di lavare benissimo il pennello, asciugarlo sulla spugna e poi prendere il giallo oro (una volta) e farlo giocare sul foglio col blu di prussia, poi si può rilavare il pennello e far giocare un po’ anche il giallo limone.
Ora è chiaro che siamo in un prato.
E possiamo dire ai bambini di prendere una punta di rosso vermiglio, sempre senza lavare il pennello. Perchè il seme è il ricordo dell’estate e del suo calore, per la pianta. E chiediamo ai bambini di piantare questo seme.
Ora è molto importante non lavare mai il pennello, e non prendere altro rosso: si usa solo il rosso del seme, che si mescola agli altri colori sul foglio.
Il seme nella terra incontra calore, luce e acqua, e così si apre: una parte va verso il basso (le radici), quindi si mette il pennello sul seme e si scende, sempre staccando e senza mai tornare indietro:
e una parte comincia ad andare verso l’alto (sempre dal seme in su, senza tornare indietro). Naturalmente mescolandosi rosso blu e giallo si forma il marrone, e non ci saranno due marroni uguali…
e il tronco cosa fa? Prende dalle radici il nutrimento e lo porta su, verso i rami…
se si usano solo i colori che ci sono sul foglio, naturalmente i rami diventano sempre più sottili e chiari, e non serve dire ai bambini di disegnarli così.
Ora diciamo che questo è un albero che ha già perso tutte le sue foglie, ma invece noi vogliamo ricordarci di quando, prima di cadere, c’erano ancora ,anche se non erano verdi verdi come in primavera.
Sempre senza lavare il pennello chiediamo di prendere una puntina di giallo oro e di ricordarci insieme all’albero di quando il sole era ancora un po’ luminoso, e di fare la chioma…Le foglie naturalmente spuntano dai rami, non arrivano sull’albero volando o rimbalzando da terra…
… poi ci si può ricordare anche del tepore, prendendo una puntina di rosso, e poi si lavora la chioma senza prendere altri colori…
Questo è quello che succede all’albero in autunno: anche se c’è ancora un po’ di luce e di calore, smette di portare nutrimento alle foglie (blu), e così queste perdono il loro verde (giallo+blu), e mentre si decompongono prendono colorazioni rossastre, gialle e marroni, e anche la decomposizione produce calore…
Dettati ortografici per i frutti dell’autunno. Una collezione di dettati ortografici per la scuola primaria sui frutti dell’autunno: funghi, uva, castagne, frutta secca, ecc…
Funghi
Il bosco si è ripopolato di funghi. Curvi sotto un gran cappellone, i porcini; altri grassocci, tondi come osti, altri ancora più piccini, col cappuccio, un po’ storti, riuniti a famigliole simili a funghi bambini, bruni, giallicci e bianchi, sporchi di fango, fanno capolino qua e là, nascosti sotto il cumulo delle foglie, sul terriccio molle, su muschio, dietro gli alberi. (F. Tombari)
Il grappolo d’uva
Il grappolo d’uva occhieggia fra i pampini con i suoi chicchi maturati al sole. Chicchi d’oro, chicchi bruni, così belli e dolci che il bimbo, al solo vederli, tende le mani, pieno di desiderio. Chicco dopo chicco, ben presto del bel grappolo non resta che il raspo.
L’offerta
Il sole pallido batte sulla siepe e sul bosco. Disegna con le ombre degli stecchi e dei rami strane figure sulla terra imbiancata dal freddo. Ma su quella ragnatela di scarabocchi oscuri si accendono i colori delle bacche, risaltano le sagome della frutta secca. Pare che il mondo delle piante si sia spogliato per rendere più visibile l’offerta dei suoi dono agli uccelli che si preparano al lungo volo, agli animali che si preparano al grande digiuno e al lungo sonno.
La vendemmia
Gli allegri vendemmiatori si spargono nella vigna, armati di cesoie e di panieri. Ad uno ad uno, i bei grappoli vengono staccati dal tralcio e cadono nelle ceste. Le ceste ricolme sono rovesciate nei tini dove un uomo, a piedi nudi, pigia l’uva. Ecco il mosto dolce e profumato. E’ una fatica allegra. Tutti sono nelle vigne, perfini i bambini più piccini; ognuno ha il suo grappolo da portare nel tino.
I semi del pino
E’ venuto il vento e ha seccato l’aria. Le pigne si aprono crepitando. Poi, nel chiarore del nuovo mattino, si vedono volteggiare piccole eliche. Sono i semi del pino: quasi puntini neri, tanto sono piccoli. Da questi “puntini” nasceranno i pini marittimi: i giganti che combattono contro il vento, per donare all’uomo terra buona ed aria purissima.
Nella vigna
L’uva è stata vendemmiata. Fra i tralci c’è rimasto solo qualche grappolino dimenticato dal vendemmiatore, ma non dimenticato dalle vespe che vi ronzano attorno, ansiose di succhiare la bella polpa zuccherina.
La castagna
La castagna è un frutto prezioso. L’albero delle castagne è il castagno. E’ un albero alto e ricco di rami. Il bosco di castagni si chiama castagneto. La castagna è protetta dal riccio spinoso. Dalla castagna si ottiene una farina dolciastra che serve per preparare i dolci. Io mangio volentieri le castagne arrosto e lessate. Al mattino incontro il venditore di caldarroste. Conosco un indovinello che dice: “Il riccio pungente, la buccia lucente, si mangiano cotte, arroste o ballotte”.
Il mosto bolle
Il mosto bolle nelle buie cantine. Un odore acuto si sprigiona dai tini. E’ pericoloso entrare nelle cantine quando il mosto bolle. Ma il contadino prudente lo sa; e, quando vi scende, accende una candela. Se la candela si spegne, egli sa che c’è pericolo e si affretta a risalire.
Caldarroste
Sull’angolo della strada è già comparso il solito carretto che si annuncia da lontano con l’odore delle castagne arrostite. Il fornello ha la bocca rossa; la grande padella forata, messa lì sopra, viene scoperta di tanto in tanto per rimestare le castagne, e manda una fumata.
L’uva è matura
L’uva è matura e fra i pampini s’intravedono i grappoli grossi e lucenti. Tac tac, si sente il rumore delle cesoie che recidono i tralci e i grappoli che vanno a cadere nelle ceste. Le ceste colme sono poi rovesciate nei tini, dove l’uomo è già pronto per pigiare i grappoli e spremerne il buon mosto profumato.
Le castagne
Gli alberi del bosco dicevano al castagno: “Tu non dai che spine e foglie”. Venne l’autunno, e gli alberi tristi e soli si lamentavano ancora: “Non abbiamo più frutta. Non abbiamo più bacche. Sono fuggiti gli uccelli, sono fuggiti i bambini. E tu, vecchio castagno, ancora non dai che spine”. Il castagno taceva e soffriva. E soffrì tanto che i suoi frutti spinosi si ruppero e… tac tac tac, caddero le castagne scure sulle foglie morte. Le vide un bambino. Chiamò i compagni. E, nel bosco, pieno di canti e di voci, tornò per alcuni giorni la gioia, come a primavera. (Comassi – Monchieri)
La vite
La vite, in primavera, ha fiorito, ma non ha fatto fiori vistosi, bensì dei fiorellini minuti e modesti. Questi, dopo essere stati visitati dagli insetti, ghiotti del dolce nettare che essi contengono, si sono poi trasformati in chicchi dolcissimi. E ora, dalla vite, pendono grossi grappoli color d’oro e di rubino che sono un frutto squisito e sano.
La raccolta delle castagne
Uomini, donne, ragazzi, raccolgono le castagne su per il bosco. Dai ricci secchi e spaccati, le castagne sono ruzzolate in terra tra l’erba e i ciuffi delle felci. Le castagne vengono gettate nel paniere, che ciascuno di quei montanari porta al braccio. Come son belle, gonfie, lustre! I ragazzi vuotano i panieri colmi nei sacchi, giù presso la viottola grande. Poi passerà il carro per portare i sacchi a casa. (G. Fanciulli)
La pigiatura
Quando il tino è pieno di grappoli, vi entra un baldo giovanotto, a piedi nudi, che comincia un allegro ballo. Dall’uva schiacciata esce il succo, il mosto dolcissimo e profumato. Esso viene messo in tini capaci e, nella profondità della cantina, bolle e, come meglio si dice, fermenta. Dopo qualche tempo, non è più mosto: è vino.
La stagione delle castagne
La stagione delle castagne è anche quella del vino e le due opere si incrociano. Grandi faccende da per tutto. Mentre in paese gli uomini provvedono ai tini, le donne e i ragazzi s’inerpicano su su nei boschi a raccogliere le prime castagne. Sotto le grandi chiome dei castagni, i richiami, le voci, i canti hanno un tremolio, un calore come di eco. Tratto tratto le sassate improvvise dei ragazzi saettano le chiome. Con un tonfo pieno, qua e là i ricci cadono da sè sulla terra morbida; ne sgusceranno castagne tutte nuove, umide e ammiccanti come occhi. E questa è vendemmia dei ricchi e dei poveri; il castagno è una buona pianta che qualcosa dà a tutti. “La castagna ha la coda: chi l’acchiappa è la sua!”. Questo vuol dire che le castagne che cadono nei viottoli del castagneto sono di chi le prende. (P. Pancrazi)
La vendemmia
L’epoca della vendemmia è la più lieta di tutto l’anno. Nessun altro prodotto della campagna, neppure le spighe d’oro, è portato a casa in mezzo a tanta festa. Nei lavori della vendemmia tutti possono essere utili. Curve sui filari le fanciulle e le donne, avvolti intorno al capo i loro bei fazzoletti colorati, muovono rapidamente le forbici tra i pampini e staccano i grappoli che pongono con cura dentro i canestri posti ai loro piedi. Gli uomini con le bigonce si avvicinano e versano in esse l’uva dei cesti, piano, sospingendola con le mani. (R. Lombardini)
La castagna
Il castagno fiorisce in maggio – giugno. I suoi fiori sono di due specie. Alcuni sono ricchi di polline giallo; quando questo viene portato via dal vento i fiori seccano e cadono. Alcuni fiori invece ricevono il polline trasportato dal vento e dagli insetti, si ingrossano e diventano castagne. Il frutto matura da settembre a novembre. Il riccio è la buccia verde e spinosa in cui sono racchiuse una, due o tre castagne. La polpa bianca, molto nutriente, della castagna è protetta da due bucce: quella esterna è bruna, lucida e dura, più chiara alla base perchè unita al riccio; quella interna è bionda, sottile e pelosa. Ci sono molte varietà di castagne: la più grossa e saporita si chiama marrone. Il frutto dell’ippocastano, o castagno d’India, è simile alla castagna, ma non si può mangiare perchè è di cattivo sapore. La raccolta delle castagne avviene in autunno con la bacchiatura, così chiamata perchè i contadini fanno cadere le castagne percuotendo i rami della pianta con un bastone grosso e lungo detto appunto bacchio. Le castagne si mangiano lessate, arrostite (caldarroste), o condite (fatte bollire in uno sciroppo di zucchero). Per conservarle i montanari usano ammucchiare le castagne sotto ricci vuoti, foglie e terriccio. Un altro metodo per la conservazione delle castagne è quello di affumicarle, bagnarle e farle seccare più volte: preparate così, vengono vendute sciolte o infilate a treccia. Le castagne possono anche essere seccate a fuoco in appositi recipienti; poi si sbucciano e si hanno così le castagne pelate o peste, che si mangiano cotte in acqua con un po’ di vino, o nel latte. Con la farina di castagne si fa il castagnaccio, una torta casalinga con l’aggiunta di noci e pinoli.
La vite
Il contadino coltiva la vite in filari, a festoni, a pergolato. La vite ha un fusto contorto e i rami (tralci) che si afferrano con facilità ai sostegni per mezzo dei viticci. Le foglie (pampini) sono larghe, a forma di cuore, con contorno dentellato. La vite produce grappoli d’uva scura o bionda. Ogni grappolo è composto di un raspo e di acini tondi o allungati. La polpa dell’acino è rivestita da una buccia resistente e contiene alcuni semi, detti vinaccioli. La vite viene attaccata da un piccolo insetto, la fillossera, che punge le radici e provoca la morte della pianta. Un altro parassita della vite è la peronospora che il contadino combatte con lo zolfo. La vite preferisce colline piene di sole, ma prospera bene anche in pianura ed in montagna, non oltre i mille metri. In Italia, perciò ci sono tante varietà d’uva. L’uva dell’Italia meridionale è zuccherina; quella dell’Italia settentrionale è più acida. La vendemmia avviene a settembre ed il raccolto dell’uva in Italia è uno dei più ricchi. Noti in tutto il mondo sono i vini italiani.
La vite e l’uva
Nelle antiche mitologie esiste la leggenda del primo che piantò la vite. Per gli Egiziani fu Osiride, per i Greci Dioniso che, allevato dalle Ninfe, era nutrito da queste con grappoli d’uva. Gli Indiani, che facevano col succo d’uva sacrifici agli dei, chiamarono questo succo vinas, cioè amato. E quando gli Arabi penetrarono in Europa, vi portarono questa parola: “vino”.
La coltivazione della vite è antichissima e se ne sono trovate tracce anche nei villaggi di palafitte.
Le foglie della vite si chiamano pampini, i rami tralci e i loro filamenti attorcigliati, che si avvinghiano ai sostegni, viticci. Il grappolo è composto di acini (o chicchi) che sono bacche contenenti i semi o vinaccioli. L’acino è costituito dalla buccia e dalla polpa. La buccia può essere di colore verde che assume varie gradazioni, quando non di tratti della cosiddetta uva nera che assume invece una tinta violacea più o meno scura.
La buccia è ricoperta di uno strato di cera che ha il compito di difendere l’acino dalla pioggia e dalla puntura degli insetti. Questo strato cereo si chiama pruina.
L’Italia fu chiamata anticamente Enotria, dalla voce greca oinòs che vuol dire vino, quindi, terra del vino.
La vite prospera in regioni temperate e anche in quelle calde purchè abbia un sufficiente grado di umidità. Si conoscono numerosissime varietà di uva non soltanto in relazione al colore, ma anche al sapore, alla consistenza della polpa, all’uso, ecc… Si hanno quindi uve da tavola e uve da vino.
Nemici della vite sono la filossera, un insetto dannosissimo che può distruggere interi vigneti e la peronospera, malattia causata da un fungo.
Il vino
L’uva viene pigiata in capaci tini e se nei tempi passati questa operazione si faceva coi piedi, oggi generalmente viene fatta con apposite macchine pigiatrici.
Dall’uva schiacciata si ricava il mosto, un liquido dolce, dal caratteristico profumo.
Dopo qualche giorno, il mosto fermenta. Anticamente si davano le versioni più disparate di questo fenomeno che non si sapeva spiegare. Fu Pasteur che, per primo, scoprì come la fermentazione fosse dovuta a speciali microorganismi esistenti sulle bucce e che, trasportati dall’aria sulle sostanze zuccherine dell’uva, si sviluppano e sono la causa della trasformazione dello zucchero in alcool e anidride carbonica. Il liquido perde così il suo sapore dolce; l’alcool resta nel vino, mentre l’anidride carbonica si disperde nell’aria dopo essere salita alla superficie del liquido smuovendo la massa.
L’anidride carbonica è un gas irrespirabile. Ecco perchè la permanenza nelle cantine durante la fermentazione costituisce un pericolo che può essere anche mortale. E’ prudente, quindi, scendere in cantina con una candela accesa. Se la candela si spegne vuol dire che esiste anidride carbonica in eccesso.
Quando la fermentazione è compiuta, si tolgono le bucce ed i semi. Il vino è composto di una gran quantità di acqua, una piccola quantità di alcool, vitamine, sostanze varie ed enocianina, che è la sostanza colorante contenuta nelle bucce.
Se si espone il vino all’aria, dopo un po’ esso diventa aceto per opera anche questa volta di microorganismi vegetali che formano, alla superficie del liquido, un velo detto appunto madre dell’aceto. Questi microorganismi trasformano l’alcool in acido.
Vendemmia
Nelle ultime settimane di agosto il paese mutava, si agitava, pareva ammalarsi d’ansia. Cantine, che per noi non aerano mai state porte chiuse, con un buco sulla soglia per i gatti, si aprivano, rivelandoci androni bui in cui troneggiavano cupamente tini, botti e qualche misteriosa macchina, simile a un gigante che avesse per petto un’enorme vite di legno e per testa una trave di traverso. (E. Cozzani)
Vendemmia
Tutto il paese fa la veglia, tra le vasche e le botti, e mangia sorbe bagnate nel mosto e tracanna bicchieri di vino fermentato, che sprizza vivido e vermiglio dai tini coperti di graspi. Solo all’alba, quando la stella del giorno è lassù a sfiammare nello spazio e annuncia il primo chiarore, il paese va a riposare.
La vendemmia durava due settimane, tra la raccolta delle noci e le prime semine. Così la stagione, dopo tanto pacato indugiare, cadeva spossata: si alzavano le prime nebbie, partivano gli uccelli, e la campagna si spogliava al vento d’autunno. (G. Titta Rosa)
Vendemmia
L’afa era ancora pesante, il cielo velato di vapori. La pioggia doveva essere assai lontana, e si cominciò la vendemmia. Nelle vigne popolate di vespe e di calabroni i grappoli appena punti si disfacevano. Un odore denso era dappertutto. Le donne si sparsero per il campo con le loro ceste sul capo, e si adagiavano sotto le viti. Le dita si appiccicavano legate dai succhi e dalle ragnatele. Nell’aria si intonavano canzoni cui si rispondeva da vite a vite, e i peri e i peschi buttavano giù con un tonfo qualche frutto troppo maturo.
Verso mezzogiorno il palmento si riempì d’uva e fu il primo convegno delle vespe che salivano stordite alla superficie dei grappoli. L’aria era divenuta di miele, e l’aroma delle piante bruciate dal sole si mescolava a quello dolce e inebriante delle uve che non riuscivano più a contenere i succhi e che si disfacevano, un grappolo sull’altro, nel reciproco peso. (C. Alvaro)
Si vendemmia
In ogni vigna si vendemmia: l’uva bianca e l’uva nera passa dalle mani invischiate delle ragazze che la mondano degli acini secchi o guasti e ne riempiono ceste e bigonce. Ronzano vespe e mosche ubriache. Il sole scotta ancora: le ombre del pomeriggio sono brevi, raccolte ai piedi dei tronchi, nascoste nelle siepi. Frullano per ogni dove, passi di gioia, schiere di uccelli; anche per essi si vendemmia. Da una vigna all’altra i canti si chiamano, si rispondono, tacciono; e s’ode un’accetta, in quel silenzio a un tratto slargato, battere nel bosco vicino. Poi il rumore d’un carro, le voci del paese dalle aie, un fischio lontano. Il giorno pare che riposi su se stesso, adagiato in un calmo dorato sopore, in un tempo che sembra fermo, come in uno specchio.
Le poche, scarse nebbioline azzurre della mattina se l’era assorbite il cielo, bevute il sole. Saluto dal monte cinto di nuvole arrossate, il sole s’era avviato a varcare la curva dello spazio con vittoriosa lentezza. Ora comincia a discendere, e pare che i colli si alzino con le lunghe loro ombre per seguirlo. Poi, poco prima che giunga la sera, un grillo si mette a cantare tutto solo. Chiama la notte, la luna. (G. Titta Rosa)
La sfogliatura
Pochi uomini intorno alla macchina. Le grosse pannocchie incartocciate venivano immesse in una specie di imbuto e da una bocca situata in basso, simile a una pioggia d’oro, usciva una cascata di chicchi che rimbalzavano a terra dove il mucchio si elevava.
Dall’altro lato i tutoli, e le foglie che prima avvolgevano le pannocchie, venivano rigettati al di fuori da due diverse aperture.
Un uomo spalava i chicchi che più tardi sarebbero stati distesi sull’aia e rivoltati accuratamente per la completa asciugatura; intanto una ragazza ammucchiava con un rastrello i tutoli che sarebbero serviti per avviare il fuoco. Un’altra ragazza affastellava le foglie crocchianti dentro le quali, con alti strilli di gioia che superavano il ronzio della macchina, i bambini facevano le capriole. (Q. P. Fontanelli)
La sfogliatura del granoturco
Un canto di più voci, lento e dolcissimo, che scende da una casa buia, mi conduce su per una scala di pietra di un granaio dove in dieci o dodici stanno sfogliando il granoturco. Seduti in cerchio, uomini, donne, fanciulli, fra i cartocci già alti sull’impiantito; in mezzo al cerchio pende una lacrimosa lanterna da stalla. L’ombra di questa lanterna si distende su ogni cosa; la sua fioca luce sembra il riflesso di un lontano lume.
I cartocci si aprono come strani fiori, i loro gambi si spezzano crocchiando e le pannocchie stupendamente lucide e compatte vanno a cadere nel mucchio. (U. Fracchia)
La bacchiatura delle noci
Sotto la pertica lunga sbattuta con forza addosso ai rami, le belle noci cascano con tonfi umidi e sordi sul muschio del piede dell’albero, e i loro malli, spaccandosi, cacciano odore di verde e di radici. I bambini, che naturalmente alla festa non mancano, è il loro mestiere raccogliere nel sacco e portarle fino a casa; dove, riposte in solaio o in dispensa, saranno ambito companatico alla lieta merenda. Tanto che un proverbio dialettale lombardo, con una rima che in lingua non torna, dice che pane e noci è mangiare da sposi, volendo dire che è molto gustoso. (C. Angelini)
La vite
La vite è una pianta sarmentosa, provvista di radici molto sviluppate e minutamente ramificate (radici capillari o barboline).
La radice continua nel fusto o ceppo, che si eleva più o meno da terra e si dirama nelle branche sulle quali sono inseriti i rami di uno o due anni, detti tralci.
Questi sono lunghi, esili, cilindrici e ingrossati ai nodi.
I tralci, quando sono ancora allo stato erbaceo, si chiamano cacciate e terminano col germoglio. Il tratto che corre tra un nodo e l’altro è detto internodo; esso contiene un midollo molto sviluppato, interrotto da un diaframma legnoso in corrispondenza dei nodi.
Sui nodi dei tralci si trovano le gemme dormienti, che si formano d’estate e danno in primavera i tralci fruttiferi. Invece le gemme che si sviluppano subito dopo formate si chiamano gemme pronte e danno rami inutili, che si chiamano femminelle.
Sul legno vecchio talora spuntano, da gemme latenti, tralci detti succhioni, che non portano frutto.
Le foglie sono palmate, dentate, lobate (divise in tre o cinque lobi divisi a loro volta dalle rispettive insenature). La pagina inferiore è spesso pelosa o feltrata. I viticci o cirri sono organi filiformi, coi quali la vite si attacca a sostegni durante il suo sviluppo.
I grappolini dei fiori in boccio si chiamano lame fiorifere.
I fiori sono minuti ed odorosi.
Il grappolo è formato dal graspo, nel quale si distinguono: la raffide, cioè l’asse principale; i racemi, ossia le diramazioni secondarie ed i pedicelli, ai quali sono attaccati gli acini.
La buccia è ricoperta da una sostanza biancastra, di natura cerosa, detta pruina.
Gli acini contengono da uno a quattro vinaccioli.
Perchè il vino, che deriva dall’uva, ha un sapore così diverso?
Quando l’uva viene pigiata nei tini o nella pigiatrice, il suo succo si trasforma in mosto. Questo sembra bollire e gorgoglia continuamente. Che cosa succede? Nel mosto si trovano certi funghi piccolissimi chiamati saccaromiceti (funghi mangiatori di zucchero). Questi funghi si raccolgono sugli acini sin da quando l’uva, ancora sulla pianta, comincia a maturare e con essa passano nei tini. Appena l’uva viene pigiata, si mettono in alacre attività: cominciano a nutrirsi e a produrre, in conseguenza, un gas, l’anidride carbonica; è questa che, salendo attraverso il liquido, per uscire all’aria fra gli altri gas, fa gorgogliare. Attenzione! E’ un gas venefico: gli ambienti dove il vino fermenta devono avere tanti finestroni; guai a lasciarli chiusi, anche se solo per poco si può anche morire, uccisi dall’anidride carbonica, che gli operai degli stabilimenti vinicoli chiamano lupo. Ma, mangiando lo zucchero, i saccaromiceti, e questo è il buon servizio che ci rendono, lo trasformano in alcool, che dà la gradazione e il sapore al vino. Il vino viene lasciato nelle botti, sul fondo delle quali si sedimentano le impurità. Dopo un po’, perciò, il vino va travasato in altri recipienti puliti
Gli agrumi, riserva di sole e di vitamine
Pochi frutti riscuotono in tutto il mondo tanto successo quanto gli agrumi. Aranci, mandarini, limoni, cedri, pompelmi sono divenuti oggetto di un commercio attivissimo e redditizio che non si limita a rifornire le nostre tavole di frutti gustosi e decorativi, ma costituisce la materia prima per molti impieghi industriali. Gli agrumi trovano infatti largo impiego in profumeria, farmacia e nella fabbricazione delle bevande dissetanti. Con aranci e mandarini sono stati ottenuti incroci interessantissimi, come i mandaranci e le clementine.
(P. Tombari)
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Esperimenti scientifici per bambini – I cristalli di borace – Cosa serve: scovolini, forbici, filo di cotone, matite o bastoncini corti, barattoli di vetro, acqua, borace in polvere, coloranti alimentari.
Esperimenti scientifici per bambini
I cristalli di borace
Come fare
Modellate gli scovolini a vostro piacimento realizzando spirali, forme geometriche, lettere dell’alfabeto, numeri o quel che volete. L’importante è che le forme riescano ad entrare nei barattoli senza toccarne le pareti.
Far bollire l’acqua e versarla nei barattoli, aggiungere la polvere di borace fino ad ottenere una soluzione satura (presenza di deposito di polvere sul fondo del barattolo) ed eventualmente colorare.
Annodare ogni forma ad una matita con un pezzetto di filo, e immergerla nei barattoli appoggiando la matita orizzontalmente sul bordo del barattolo, in modo che lo scovolino resti sospeso nella soluzione e che non tocchi il fondo nè le pareti e lasciar riposare per almeno un giorno.
I cristalli di borace inizieranno a formarsi dopo un paio d’ore: infatti man mano che l’acqua si raffredda, rilascia borace e questo va a depositarsi in forma di cristallo sullo scovolino. L’acqua calda è in grado di trattenere più borace.
Qui l’esperimento è servito a realizzare decorazioni natalizie, ad esempio:
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