Dettati ortografici FIORI

Dettati ortografici FIORI Una collezione di dettati ortografici sui fiori, di autori vari,  per la scuola primaria: fiori di campo, violette, primule, margherite, rose, ecc…

Fiori di campo

Sbocciano in piena libertà, all’aria aperta della campagna. Danno un aspetto vago all’erba, inghirlandano a festa le colline, riempiono di profumo le gole dei burroni e il silenzio delle ombrose valli. Li trovate dappertutto, lungo la strada, lungo i viottoli, lungo i fossi, le prode, su per i greppi, nelle aiuole degli orti e dei giardini.  Si direbbe che questi piccoli e graziosi amici stanno a far capolino tra l’erba per sorridervi mentre passate e per rallegrarvi la strada. Entrate nel bosco ed ecco venirvi incontro il mughetto con le sue campanelline d’argento e la violetta dal profumo delicato; fra quel ciuffo d’erba verde biancheggia l’elegante margheritina, e in mezzo a campi di grano spicca il rosso fiammante del rosolaccio e la tinta azzurra del fiordaliso. (Collodi)

Fiori 
Quanti fiori, nei giardini, a primavera! Nell’erba, nascoste, sono le violette profumate; sulla siepe fiorisce il biancospino. Ogni pianta ha il suo fiore. Anche le piantine che nessuno sa come si chiamano, hanno messo il loro bocciolino.

La pratolina
La pratolina è composta da molti fiori piccoli: tanti fiori gialli al centro, tanti fiori bianchi alla corona, riuniti in un solo capolino, così da sembrare un unico fiore che spicca sul verde del prato.
Perchè?
In questo modo gli insetti possono vederla anche da lontano; vi accorrono in volo; vi si posano a succhiare il nettare e trasportano il buon polline ad altre pratoline.
Solo così potranno nascere nuove piantine.

Dettati ortografici FIORI
Le primule

Sono sbocciate le primule. Sono a mucchietti, piccole e gialle. Ciascun cespo sembra una famiglia con tante sorelline.
Sbocciano di qua e di là, da tutte le parti. Si chiamano a fiorire insieme.
Le foglie escono, dal cespo, ruvide e rugose.
Questa pianta non ha rami, ma soltanto le foglie che rimangono rasente terra. I suoi fiori si alzano un poco sopra il cespo con i loro piccoli gambi sottili e con il calice verde che mette meglio in risalto il giallo della corolla.
Gli insetti si posano sui fiori, li fanno un po’ dondolare, ma il loro gambo non si spezza.
“Io so perchè gli insetti volanti si posano su questi fiori; perchè in fondo al calice trovano una gocciolina dolce come il miele, che si chiama nettare, e se lo succhiano”.
“Anch’io ho succhiato questi fiori e mi hanno lasciato in bocca un buon sapore dolce e profumato”, dice Giovanni alla sorellina.
(Pierina Boranga)

Fiori 
Perchè alcune piante fanno dei fiori così belli, variopinti, profumati? Forse per far piacere agli uomini? No, la pianta non si cura degli uomini, ma mette in opera tutta la sua bellezza, tutto il suo profumo, tutto il suo colore e soprattutto nasconde nel suo calice una gocciolina di dolcissimo nettare, per attirare gli insetti. E perchè questo sviscerato amore per le alate creature? Perchè saranno proprio gli insetti, almeno per numerosissime specie, a favorire la trasformazione del fiore in frutto nell’interno del quale, poi, matureranno i semi. Per ottenere questo, le piante mettono in opera infiniti accorgimenti. Qualcuna schiude i suoi fiori di notte, perchè sa che soltanto insetti notturni andranno a trovarla; altre fabbricano trappole astutissime per trattenerli il tempo necessario all’impresa; altre ancora foggiano petali e calice in modo da costruire passaggi obbligati, affinchè gli insetti arrivino al polline fecondatore. Tutto per il fine ultimo che la pianta si propone, quello di produrre il seme che darà vita ad altre piante.

Fiori 
Il piccolo fiore di prato non si sente mai solo; l’erba verde lo circonda, l’aria lo culla e lo accarezza dolcemente, l’ape si posa sulla sua corolla per succhiarne il  nettare, gli insetti ronzano introno. La sua vita è semplice e bella. Egli saluta l’alba spalancando la corolla alla luce, accoglie l’ora del tramonto chiudendo i suoi petali o reclinando la testina. Quando la falce dell’uomo taglia il suo stelo, giace fra le erbe e spande ancora intorno un sottile aroma: è l’odore fresco del fieno. (M. Cera)

Fiori 
Nel prato fioriscono i miosotis. Dalle umili foglioline emergono i fiori: sono frammenti di cielo azzurro ed in mezzo ad ognuno splende un grano d’oro, come il riflesso d’un sottile raggio solare. Vi fioriscono le primule. Dal cesto verde, tondo, aderente alla terra, si alzano le delicate corolle gialle, pallide e trasparenti, come se dentro brillasse un tenue lume. Si stendono in file bianche e rosate le pratoline. Le guardano, appena reclinandosi, le nobili genziane dalla veste mirabilmente turchina. Dove l’erba è più alta emergono i giallo-lucidi bottoni d’oro, penduli in ogni soffio d’aria, e le più gravi margherite, dal tondo occhio stupito in mezzo alla candida raggera. Al vento, le mente, dai fiorucci azzurro-bigi, affidano il  loro profumo. Per quel vento si aprono talvolta dei solchi e si scoprono laggiù erbe minute che pure hanno i loro fiori, spruzzi gialli, rossi, turchini. (G. Fanciulli)

Fiori 
Le siepi di pruni aprivano tra le spine miriadi di occhietti bianchi per guardare il frumento tenero che brillava rabbrividendo allo scherzo gentile del vento; e gli alberi gemmavano: le foglioline lucide accendevano a mille a mille le loro fiammette verdi lungo i rami, intorno ai fremiti dei nidi; tremolavano attraverso i campi i filari argentei dei pioppi e dei salici. Qualche nuvoletta bianca era nel cielo: nei prati brillavano i bottoni d’oro dei ranuncoli; intorno ad essi gli ombrellini lievi delle pastinache vi facevano una nebbiolina rosea e bianca, e tra il verde si fondevano i mille azzurri, i viola, i gialli, i rossi di tutti i fiori campestri. (Virgilio Brocchi)

Fiori 
A primavera, dopo che le ultime nevi sono scomparse, le erbe germinano in fretta e si fanno alte. Tutte eguali sembrano le erbe al piede che le calpesta, ma non agli occhi che le guardano con amore, nè alle mani che a dita aperte vi affondano una carezza. Quale innumerevole famiglia! Steli, foglie, fiori, che sembrano messi lì a far folla, hanno ciascuno un disegno, un’armonia di colore, un carattere individuale rivelato in minutissimi particolari. (G. Fanciulli)

Fiori 
Tutto il mio affetto va ai poveri fiori di campo e di monte, che pochi guardano e nessuno coltiva. Alle pratoline dai petali macchiati di vino, al papavero che insanguina i grani, al fiore azzurro del radicchio, al fragile ed effimero farfallio del biancospino, al cardo selvatico che mostra al primo sole le sue corolle crudeli e pungenti, fra il celeste e il turchino, al ciclamino che timido si affaccia tra l’erba tenera e commovente. Sono i fiori dei bambini e dei poeti; di coloro cioè che sono al tempo stesso più poveri dei mendicanti e più ricchi dei re. (G. Papini)

Fiori 
Uscite dai dedali della città e inoltratevi per i campi. Quale sia il fiore che per primo vi si mostrerà, voi, nel vederlo non divelto dalla pianta e vibrante con le cose circostanti, risentirete pieno il suo fascino. Riempitevi di questa armonia. Alla svolta di quel sentiero, all’ombra di un masso, una pianticina erbacea fa sforzi per offrire alla luce il suo fiorire di corolle fitte e azzurre, così grandi a paragone dell’umiltà della pianta che noi non possiamo trattenerci dal domandarci come abbia fatto ad effondere tanta ricchezza. (A. Anile)

Dettati ortografici FIORI
Fiori 

Non v’è lembo di prato spontaneamente formatosi che non ci si riveli una gara di richiami, che è gara di colori: dal bianco niveo al roseo, dal giallo al purpureo, dall’azzurro al violetto cupo. Se una specie ha fiori bianchi, il colore cioè che agisce a maggiore distanza ed un’altra ha fiori gialli, questa cerca di vincere il vantaggio di quella sollevandosi alquanto più da terra. Colori vari e gradazioni indefinibili di colori, che restano tuttavia insufficienti al numero delle specie dei fiori, che vogliono un loro segno. Da ciò la necessità del comporsi di varie tinte sopra il medesimo fiore, quante combinazioni di turchino e di giallo su fondo grigio, di violetto e di lilla su bianco, di rosso trapassante in purpureo ed in amaranto; e quante sfumature e screziature che non si possono esprimere con le parole. Una struttura particolare delle cellule di rivestimento del petalo ed una speciale incidenza di luce possono dare nuovi riflessi a un medesimo colore: paragonate il viola della mammola a quello di una corolla di petunia. Vi sono corolle dove ciascun petalo cambia colore in gradazioni non determinabili. (A. Anile)

Fiori 
Alla svolta di un sentiero, all’ombra di un masso, una pianticina erbacea fa sforzi per offrire alla luce il suo fiorire in corimbi fitti e azzurri, e così grandi in paragone all’umiltà della pianta, che noi non possiamo trattenerci dal domandarci come abbia fatto ad effondere tanta ricchezza; un poco più oltre, lungo il margine di un ruscello, un ciuffo fiorito si piega nel vento a riflettersi nell’acqua: se indugiate ad osservare il colore di questi fiori, vi accorgerete che è anch’esso sfuggente. Strisce d’asfodeli, che si dilungano sul fosso aspro di quel colle, sembra che traccino sentieri per il passaggio degli angeli. Dove si formano promontori in un tumulto di rocce, la più strapiombante sul mare si colora di una ghirlanda di fiori, la cui pensosa bellezza muore immediatamente se tolta da lassù. Allo stesso modo da fianchi rupestri di montagne emergono piante che amano rendere ondeggianti sull’abisso grappoli floreali che nessuna mano toccherà. (A. Anile)

Il fiore
Non c’è cosa più bella del fiore: piace all’occhio e anche all’odorato. Noi ci fermiamo talvolta a osservarlo e ci domandiamo da quale mano può essere fabbricata tanta beltà e tanta gentilezza. I fiori si donano alle persone che si amano. Si danno proprio perchè sono cosa bella e gentile. (F. Socciarelli)

I fiori

I fiori vivono e parlano. Il profumo è il loro respiro e il colore la loro voce. I fiori somigliano ai bambini. Quando la rugiada del mattino li bacia, tutti sollevano la corolla come tante testoline bianche e brune di bimbi appena nati. E come alle prime ombre della sera i fiori chiudono le loro corolle, così i bimbi piegano le testoline allorchè cadono dal sonno. (N. Salvaneschi)

Fiori 
Mille gentilissime forme, infinite sfumature di colori, un variare delizioso di profumi, e l’acuto piacere che danno al tatto i petali vellutati; ecco in folla venire a noi i fiori d’ogni stagione, a stimolare i nostri sensi, perchè facciano giungere all’anima l’immagine di tanta bellezza. (F. Monelli)

Fiori 
Le mammole riaprono dal lungo sonno i begli occhi azzurri. Il pesco si è tutto magnificamente coperto di fiori, che brillano al nuovo sole come gemme cristalline e fragranti. Le margherite silenziose e tranquille, tremolano al tiepido vento. Persino nelle lande più pietrose e deserte qualche fiore solitario apre all’aura nuova le sue tre o quattro foglioline soffuse di un pallido rosa, o venate di tenere righe violacee. In ogni albero canta un nido, in ogni cuore rinasce la speranza. (E. Nencioni)

Fiori 
La primavera tornò, la campagna si coprì del verde vellutato dei frumenti, interrotto a quando a quando dai gialli tappeti delle rape in fiore; i mandorli esalavano amare fragranze dalle loro bianche ghirlande; la viola mammola, ametista odorosa, fiorì celatamente fra l’erba. Sulle vette dei freschi platani e delle querce severe, tra i longevi cipressi e le gracili acacie, i fringuelli cantarono; da ogni lato si alzavano al cielo profumi e armonie; profumi e armonie primaverili. (F. Martini)

Fiori 
Le primule sono dappertutto: ho visto sulla collina un gran pendio tutto biondo che pareva l’immagine della via lattea. I cornioli in fiore sembravano sciami di api d’oro sospesi qua e là sullo smeraldo e sull’ametista delle campagne. Nel mio orto, giacinti e narcisi sono balzati su col vigore delle giovani punte, senza aspettare che io rimuovessi loro  la coperta invernale di letame e di fogliame. Laggiù nell’angolo, la vecchia mimosa, ridotta a quei due o tre rami inaccessibili, si è accesa del suo giallo fuoco di gioia. Rami inaccessibili, perduti in alto, che ogni primavera io guardo con un’ammirazione mista di dispetto. (F. Chiesa)

Fiori 
Appena la natura ripalpita ai primi soffi della primavera, ecco i fiori. Fiori dappertutto: nei campi e nei prati, sulle rive dei ruscelli, nelle siepi, nei boschi, nei giardini, nei negozi e nelle piazze. Ovunque è una profusione di piccole rose, dal profumo appena sensibile, ma vivide e fresche; di lillà bianchi e celesti, di violette sorgenti nel folto delle siepi: odorano con uguale grazia i vasi di cristallo e i pentolini sbocconcellati, i salotti dei ricchi e le modeste case  degli operai. Ed ecco nei prati le vivaci margherite dal cuore d’oro e dai petali sfumati in rosso. Fiori, fiori dappertutto. La natura che si risveglia dopo il riposo invernale è ricca di promesse. (M. Savini)

Fiori 
A tutti i fiori splendenti e superbi preferisco quelli modesti: la selvaggia rosa di macchia che un raggio di sole appassisce, il caprifoglio che si arrampica sulle querce, la viola del pensiero dagli occhi vellutati, la margheritina dei campi, il ranuncolo d’oro, l’erica rosa, il mughetto d’argento, il biancospino intorno a cui ronzano le api. (F. Dumonteil)

Fiori 
I fiori sono il più bel dono che sia stato fatto agli uomini. Osservate un giardino in fiore, una terrazza, un balcone, adorni di fiori  dai colori vivaci, dai profumi inebrianti e soavi. Osservate la vetrina di un fioraio: quale festa di colori, di forme armoniose! I fiori hanno una sola colpa: quella di durare troppo poco. Anche circondato dalle maggiori cure, il fiore finisce sempre per appassire, perdendo profumo, colore, freschezza e morbidezza. Ma questo danno è solo apparente; in sostanza, il fiore appassisce, ma in esso si forma il germe di una nuova pianta. (P. Addoli)

Fiori 
Al mattino, appena il cielo biancheggia ad oriente e spegne a uno a uno i suoi lumi, appena le nuvole cominciano a colorarsi di tinte d’argento, d’oro, di porpora, i colori dei fiori cominciano a distinguersi fra le erbe sempre meno scure, e prima i bianchi e i gialli, più tardi i rosei, i celesti, i blu. Presto presto, se il cielo non è nuvoloso o piovoso, le pratoline sciolgono le cuffiette, i vilucchi calano i cappucci, si aprono le campanelle e i gialli soffioni e le cicorie somiglianti a fiordalisi. (P. Lioy)

Fiori 
Addio, giorni brevi e tristi; cieli grigi, fredde e tenebrose piogge monotone, nebbie e ghiaccio crudele… Un alito nuovo spira tiepido dalle umide colline, velate di vapori argentei e leggeri. Bianche e soffici nuvole aleggiano per l’immacolato turchino del cielo. I neri e grossi alberi, dalle braccia muscolose e rudi, paiono spruzzati da una brina di smeraldi e di perle. Sotto il muschio delle vecchie pietre grigie, nel bosco, le mammole riaprono dal lungo sonno i begli occhi azzurri. (E. Nencioni)

Fiori 
La primavera è proprio dappertutto, anche dove non c’è bisogno. Anche tra i sassi del muro franato l’erba è voluta crescere; per i sentieri più scoscesi, tra i tronchi degli alberi che furono abbattuti con l’ascia. Le margheritine bianche, quelle dei prati, fanno di tutto per dare nell’occhio; e gli stessi prati si sono lisciati con la rugiada e il fresco che pare perfino bizzarria e voglia di divertirsi. Anche l’azzurro rimane lì per lì un poco rintontito, quasi non sapesse che fare e forse, vergognoso di odorare nemmeno quanto una violetta. (F. Tozzi)

Fiori 
La terra si era addormentata. Una lunga pioggia leggera è scesa a cullare la fine del suo sonno. Lei sentiva, ma ancora non si svegliava. Dolce dormire. Sorrideva, dietro le palpebre chiuse, a sentire frugare fra l’erba, a sentirsi toccare le violette nascoste. Picchiettandola con le minute dita leggere, la pioggia le faceva il solletico e le diceva pian piano: svegliati; e mormorava: svegliati; e poi: su, su, è l’ora, vestiti. E la terra fingeva ancora di dormire, perchè nulla era più dolce di quella carezza leggera e di quel dormiveglia. Alla fine ha aperto gli occhi delle margheritine ed è rimasto un odore di terra bagnata nei giardini. (A. Campanile)

Dettati ortografici FIORI
Fiori 

Noi chiamiamo frutti solo la pesca, la ciliegia, la pera, la noce, l’arancia e l’uva. Ma tutte le piante producono frutti, dalla rosa alla fava, dalla violetta alla quercia, perchè il frutto non è altro che l’ovario trasformato dopo la fecondazione degli ovuli. Per effetto di questo prodigioso fenomeno, il magico fiore della rosa è trasformato in una piccola sfera rossa che pochi conoscono, perchè le rose sono colte e appassiscono prima del tempo. Il fiore alato della fava e dei fagioli diventa un grosso legume e l’amabile fiore del ciliegio, la rossa bacca carnosa. (E. Baldacci)

Fiori 
A primavera, quando i fiori si schiudono ai primi tepori, quando i petali variopinti mostrano i loro splendidi colori ed esalano i profumi più soavi, una moltitudine di insetti vola freneticamente dall’uno all’altro fiore per succhiare quella gocciolina di nettare che ognuno di essi nasconde in fondo al suo calice. E, così facendo, aiutano la natura nel miracolo della fecondazione. Per opera degli insetti, il polline di un fiore viene trasportato su un fiore della stessa specie, ed ecco che il miracolo si compie: il fiore si trasforma in frutto.

Fiori 
Le piante che ricorrono all’opera degli insetti per trasformare i loro fiori in frutti, prendono gli aspetti più appariscenti per attirarli. Innanzitutto il colore, così gli insetti possono subito avvistarli fra il verde e visitarli. Poi, il profumo. Non è necessario che siano odori soavi e delicati. Qualche fiore emana perfino un odore nauseabondo che attira gli insetti che lo preferiscono, ma tutti hanno, in fondo al calice, una gocciolina di dolcissimo nettare. Per succhiare questo cibo squisito, gli insetti visitano diligentemente tutti i fiori, impolverandosi così di polline che trasportano da un fiore all’altro.

Fiori 
I leggeri venti mattutini che soffiano per la valle appena il sole si alza, le calde correnti che salgono nell’aria, verso il mezzogiorno, le brezze marino che spirano sulle coste, raccolgono il polline dalle capsule floreali mature e lo portano in volo con movimenti ondeggianti, diluendolo nell’aria. I filamenti piumosi, viscidi, pelosi dell’ovario si sporgono dai calici, e come ragnatele pronte a far prigioniero ogni minuscolo insetto che incautamente vi cada, raccolgono quanto il vento ha portato. Dagli abeti e dai pini, dai ginepri e dai cipressi, si libera una nuvola gialla al primo alitare di vento: una pioggia di zolfo, come la chiamano i contadini. Il polline scorre sulle correnti atmosferiche e si deposita sui fiori femminili. sbocciati all’estremità dei rami. (E. Baldacci)

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Fiori 

Il mandorlo, il pesco, l’oleandro, il lampone e la fragola producono nettare prelibato attorno al loro ovario. Il nettare non è che un impasto di amido, di zuccheri, di grassi e di altre sostanze, ma il suo sapore è dolcissimo come quello del miele delle api. I fiori producono il nettare sulle loro foglie colorate o in ricettacoli e ciascuno non può cederlo che a insetti particolarmente confermati. I coleotteri muniti di brevi succhiatoi lo raccolgono dai tessuti carnosi del calice, su cui il nettare si spande come una densa pennellata di vernice lucente. Le farfalle, munite di lunghe proboscidi, visitano i fiori che nascondano il loro nettare in recipienti profondi. Così che i visitatori di questi fiori non possono raggiungere fiori diversi da quelli su cui questo nettare è stato prodotto. (E. Baldacci)

Fiori 
Gli insetti aiutano il fiore: mosche, vespe, calabroni, api, scarabei, farfalle, tutti fanno a gara in suo aiuto per trasportare il polline dagli stami sui pistilli. S’immergono nel fiore ingolositi da una goccia di miele espressamente preparata in fondo alla corolla e nei loro sforzi per raggiungerla, scuotono gli stami e s’impasticciano di polline che trasportano da un fiore all’altro. Chi non ha visto le api e i calabroni  uscire infarinati dal seno dei fiori? Il loro corpo villoso, polveroso di polline, non ha che da toccare, passando, un pistillo per comunicargli la vita. (J. H. Fabre)

La prima viola
E’ spuntata sull’orlo della strada, sotto la siepe, piccola, scura, profumata. E’ venuta a dire che è primavera, che tra poco torneranno le rondini a rifare il nido, che tutti gli alberi, uno dopo l’altro, si ricopriranno di fiori, di foglie, di frutti. E’ venuto a dire al contadino che i lavori dei campi l’aspettano. E’ venuta a promettere ai poveri che non farà più freddo. Tra poco il sole tiepido scalderà la terra coi suoi raggi e la terra tornerà rigogliosa, con l’aiuto di Dio e col lavoro dell’uomo. (L. Steiner)

E’ spuntata sul bordo della strada. Manda un delizioso profumo. E’ venuta a dire che la primavera è finalmente arrivata.

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La pratolina

La pratolina cresceva a vista d’occhio, finchè una mattina si trovò in piena fioritura, con tutte le foglioline bianche e lucenti spiegate come raggi intorno al piccolo sole giallo del centro. A lei nemmeno passava per la mente di essere un povero fiorellino disprezzato che nessuno avrebbe degnato di uno sguardo, là, in mezzo all’erba; oh, no:  era tutta contenta, si volgeva dalla parte del sole, guardava su ed ascoltava l’allodola che cantava, nell’alto. Se ne stava composta, sul suo piccolo stelo verde e imparava dal sole caldo e da tutto quanto la circondava quanto è bello il mondo; e godeva che l’allodoletta cantasse così bene e così chiaro. (H. C. Andersen)

Gli anemoni
Intorno a certe rocce, si alzano, in belle famigliole, gli anemoni. Tutti hanno simili foglie, a ventaglietto, minutamente tagliuzzate come per gioco, e grossi gambi rosso-bruni, un po’ contorti per lo sforzo del trovare la via tra la terra secca e i sassi. Ma le corolle dei petali riuniti, soffuse di opaca lanuggine, mostrano i colori più diversi: alcune rosse di fiamma, altre violacee, e altre quasi bianche. Nei fiori, che aprono i petali a stella di sei punte, si scorge il nero cercine dei piccoli stami affollati. (G. Fanciulli)

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La mammola

Erba, cara erba, sempre vista e sempre nuova, quando mai mi era apparsa così verde? E dove mai se ne stavano nascoste tutte queste mammole? Proprio come le stelle che, fino a una certa ora della sera, non ci si pensa: poi ad un tratto, se levi lo sguardo, il cielo ti trafigge gli occhi con miriadi di spilli. Dappertutto mammole: nella prateria dietro la casa, lungo i cigli dei viali, formando siepe, sulle rive del laghetto, all’ombra dei pini e dei pioppi. Non c’è tronco che non abbia alla radice, tra i fili d’erba e i ciuffi dell’edera, la sua corona di mammole. Brune, di un bruno intenso, di ciglia abbassate, timide e pur d’un rilievo schietto tra le foglioline a cuore; e d’una fragranza così penetrante nella sua leggerezza, che le narici le sentono prima che l’occhio le scopra. (A. Negri)

Ciliegio in fiore
L’albero era fino a ieri nudo; nudo nel tronco, nei rami qua e là contorti dall’aspro battere del vento. Cosa sia accaduto perchè stamattina ricalcando il sentiero solitario, io abbia visto, invece dell’albero, una nube bianca tutta di fiori stretti così fittamente gli uni agli altri da formare una cosa sola, impalpabile, quasi aerea attraverso la quale non mi riesce più di distinguere nè rami nè tronco… L’aria attorno alla nube non è più chiara e vibra come uno strumento musicale con melodie di suoni che son diventate melodie di profumi e di cui la mia anima si riempie. Guardo in alto, e mi sembra che il cielo si sia più incurvato per richiamare a sè questa nube venuta da sottoterra. (A. Anile)

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Glicine

Si arrampica sui muri, ammantandoli con la sua veste violacea fatta di grappoli fitti fitti visitati golosamente dagli insetti. Il glicine è il trionfatore dell’aprile. Si arrampica su su, e ogni vecchio muro diventa leggiadro, ogni cancello ha una veste fiorita, ogni inferriata sembra piena di primavera.

I grappoli del glicine coprono tutto il muro come un manto violaceo, senza neppure un filo di verde perchè le foglie non sono ancora spuntate. Pare che abbia fretta, il glicine, e sboccia subito ai primi tepori, e sale su, impetuoso, fino alla sommità del muro, e tabocca ancora di là, come se non gli bastasse mai.

Dopo l’impeto della prima fioritura, i grappoli del glicine impallidiscono piano piano, i calici cadono come una pioggia di viole e, allora, sono le foglie che crescono, si arrampicano, ricoprono il muro di verde, e lo fanno tutto bello, fresco, nuovo, mentre ancora qualche grappolino fiorisce qua e là, ma di malavoglia, come se gli dispiacesse di finire troppo presto, quando la stagione è ancora tanto tiepida e dolce.

Durante la notte cadde una pioggerella benefica e il mattino si alzò limpido e luminoso. Gli steli acuminati del grano giovane erano cresciuti di un dito e nell’orto i piselli avevano germogliato. La canna da zucchero era tutta aghi del colore del pistacchio contro la terra color cioccolata. I gelsi erano carichi di more verdi; la spalliera del glicine era tutta in fiore: una trama delicata come un merletto. Le api ne avevano scoperto la fragranza e in ogni corolla ce n’era una, a capofitto intenta a succhiare. (M. Rawlings)

I papaveri
I papaveri hanno invaso il campo di grano. Sono un esercito. I soldatini indossano la camicia rossa e non fanno male a nessuno: la loro spada è la spiga. Il vento li agita.I soldatini sembrano correre per il campo conquistato. Quando poi il vento tace, ogni papavero si attarda col fiordaliso, suo compaesano, che indossa la tuta azzurra dell’operaio. (Renard)

Ninfee
Le rive dello stagno erano ricoperte di ninfee. La barca ne fendeva la superficie spessa con un secco fruscio. Tra le foglie, l’acqua traspariva come la polpa di un’anguria nel triangolo dell’incisione. Le piante s’intrecciavano fra loro accorciandosi, i fiori bianchi con lo stelo chiaro, scomparivano sott’acqua e riemergevano grondanti. (B. Pasternak)

Il giglio
Osservate il giglio: lascia a terra la rosetta delle sue foglie e si eleva tutto in uno stelo che porta al sommo le candide corolle. Non sembra un fiore: è piuttosto una purezza di offerta all’alto, sì che non c’è stato pittore che non l’abbia fatto portare dalla mano di un angelo.  (A. Anile)

I fiori

I fiori sono sempre belli: belli quando timidi ed umili ornano le zolle dei campi e occhieggiano dal fitto delle siepi; belli quando sbocciano sul ramo quasi nudo degli alberi da frutto cui donano un vestito nuovo e vaporoso; belli nelle aiuole curate dei giardini quando vengono a premiare la fatica del giardiniere. Ma diventano belli soprattutto quando, raccolti in un mazzolino, diventano un omaggio ed un dono.

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I fiori e le stelle

Quanti fiori rallegrano la terra! Papaveri rossi, fiordalisi azzurri, margheritine bianche e ranuncoli d’oro spiccano in mezzo al giallo dei campi e al verde dei prati, mentre garofani screziati e rose di ogni colore ornano le aiuole dei giardini.
Quando, poi, i fiori si piegano sullo stelo per dormire, e i loro colori scompaiono nell’oscurità della notte, in cielo, ad una ad una, si accendono le stelle.
E anche le stelle sembrano fiori.

La natura e i fiori

Di fiori è piena la natura: prati, campi, siepi, declivi, monti, boschi, selve, tutto è un immenso, molteplice, perenne rifiorire.
I fiori sono la poesia del mondo. Dove si trova mai un tessuto che possa eguagliare il petalo di un fiore? I fiori sono per noi simbolo di gentilezza, di purezza, di grazia, di bellezza, di amore, di gioia, di speranza, di augurio, di ricordo.
Chi ama i fiori non può essere un’anima volgare: coltivare un fiore significa ingentilirsi, pensare al bello, al buono. (O. Stampatti)

Il fiore

Il fiore ha allungato il gambo. Nel bocciolo, piccolo laboratorio, è ormai tutto pronto: il polline, le antere, gli stami, il pistillo, i petali tutti uguali. Si aspetta il segnale perchè l’apertura si compia.
Ma nessuno deve vedere questo miracolo, e perciò i boccioli si schiudono sempre di notte. Al mattino il fiore è aperto; e il sole gli dà gli ultimi ritocchi di colore… Le farfalle, appena si svegliano, corrono tutte a vedere, e, al suono del campanellino dei grilli, danzano sui petali immacolati la lieta danza della primavera. (C. Pretelli)

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Quanti bei fiori

Quanti bei fiori rallegrano il nostro paese! Tutti i colori: il rosso dei papaveri, l’azzurro dei fiordalisi, il bianco delle margherite, spiccano in mezzo al verde dei campi dei prati. Nei giardini si aprono i fiori d’arancio, le rose, i garofani, le dalie, i crisantemi.
Quando viene la sera, quando l’ombra copre la campagna ed i giardini, i vivi colori dei fiori svaniscono nell’oscurità. Molti fiori piegano sugli steli le corolle stanche, come se volessero dormire. Allora appaiono ad una ad una le stelle, che sembrano fiori luminosi nel limpido cielo. (M. Savi Lopez)

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Un fiore che ha fretta

Il ranuncolo è una pianta frettolosa; appena finito il vero freddo, allarga le sue foglie lucenti spesso macchiettate di rosso bruno o di bianco. Dal centro di questa rosetta di foglie si alza il fiore giallo dorato che invita i primi insetti della stagione a fargli visita.
Ha da tre a cinque sepali e i petali variano da cinque a dodici. Se staccate un petalo vedete, alla sua base, una piccola squama che sporge come l’apertura di una tasca. Per gli insetti è davvero una tasca piena di leccornie: è il serbatoio del nettare. E’ una pianta così rasente alla terra che bisogna s’affretti a far provvista di luce e d’aria prima che le altre piante più alte le si affollino intorno. Infatti, quando ha fiorito allarga più che può le foglie, per assorbire dall’aria il maggior nutrimento possibile, e mandarlo alle radici che ingrossano; poi le foglie appassiscono e spariscono. Ma il tesoro è già messo in serbo per la primavera ventura, quando, allo sciogliersi delle nevi, sul terreno ancor tutto spoglio, appariranno le foglie verdi del ranuncolo.

Dettati ortografici FIORI
Il fiore sconosciuto

Quando giunge la fine di febbraio, esco tutti i giorni per frugare con lo sguardo nei campi e lungo i margini delle strade; cerco i primi fiori che annunciano la primavera. Il primo che vedo è sempre un fiore giallo, dai petali che luccicano al sole come tanti specchietti, che dove nasce spande attorno un senso di gioia e di festosità.
Prima di coglierlo, mi fermo a guardarlo, e mi viene voglia di inginocchiarmi tanto mi sembra bello.
Tutti i fiori che porta la primavera non hanno la bellezza e lo splendore di questo umile fiore giallo, di cui non conosco neppure il nome.
E non cerco di saperlo, perchè mi pare che non ci possa essere nome tanto bello, per un fiore così grazioso.
(C. Pretelli)

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Dettati ortografici LA PRIMAVERA

Dettati ortografici LA PRIMAVERA – Una collezione di dettati ortografici sulla primavera, di autori vari, per la scuola primaria.

Dettati ortografici LA PRIMAVERA

Da qualche giorno c’è qualcosa di nuovo nell’aria. Si diffonde un lieve tepore, il sole è più limpido. La primavera è arrivata. Anche sotto terra la buona notizia deve essere arrivata, perchè già alcune foglioline spuntano piano piano come sentinelle per informarsi di come vanno le cose; e subito dopo alcuni fiorellini curiosi tirano fuori il capino per vedere. Pochi giorni ancora, e i fiori saranno tanti, tanti; i ruscelli, ingrossati per lo sciogliersi delle nevi, cominceranno a correre allegramente. (O. Giacobbe)

Ed ora è primavera, ancora una volta primavera. Invano l’inverno ha scatenato le sue ultime raffiche di neve, di grandine, di tramontana; già grandi lenzuoli azzurri ondeggiano bruscamente tra la nuvolaglia oscura. La campagna, il giardino erompono dappertutto in boschi di serenelle, in gemme di alberi da frutto; le giunchiglie spuntano nell’erba diritte come pugnali, e nei boschi i rami ancora nudi si popolano di battiti d’ali e di gridi leggeri. (M. Roland)

Venne la primavera. Sul cielo ancora freddo, ma alto e nitidissimo, riapparve qualche rapido volo di rondine e il sole scese sul cortiletto, indugiandosi negli angoli umidi e verdognoli di muschio, ove restava qualche rimasuglio di neve ghiacciata. Sulle creste dei muri luccicavano, verdi e lavati, i frantumi di vetro; i davanzali di granito, resi bruni dall’umido, riprendevano la prima tinta chiara, e sulle grigie cime del noce dell’orto attiguo, gli estremi rami sottili  si squarciavano per lasciare uscire le gemme di un bel giallo verdognolo e delicato. (G. Deledda)

E’ primavera: tutta la natura si risveglia e mentre il suolo si libera dal gelo invernale, le erbe si affrettano a fiorire prima che la cupola del verde degli alberi si chiuda sul bosco e le privi di luce. Così dal suolo cosparso di foglie spuntano i primi colori dei mughetti, delle viole. Nell’interno degli alberi la linfa sale fino ai germogli che spingono le sottili squame chi li hanno finora protetti e sbocciano. Sembra che la fretta abbia invaso il bosco. Tutto si spinge verso la luce, quella luce che è vita: a metà aprile il ciliegio è ricoperto da grappoli di fiori bianchi, l’acero è pieno di boccioli vermigli. A maggio la febbre della primavera tocca il suo culmine. Il suolo è tappezzato da campanule gialle, gerani selvatici, da margherite. Gli alberi si ricoprono rapidamente di foglie. Anche gli animali iniziano una nuova vita. Chi durante l’inverno era rimasto in letargo come l’orso, si desta dalla tana: è magro, irritabile, sente prepotente il bisogno del cibo. A frotte ritornano gli uccelli migratori, i rettili riprendono a strisciare in cerca di preda, e gli insetti, nella maggioranza dei casi, completano la loro formazione.

Primavera in città.
Com’è stato lungo l’inverno! Pareva non dovesse avere mai fine! Furono giorni e giorni senza nemmeno un’occhiata di sole. Nella luce malinconica e scialba, sotto una coltre di nebbia e di nuvole che gravava sulla città, tutto era ottenebrato, in una specie di eterno crepuscolo. Ora, fugata la nebbia, fugate le nuvole, il sole trionfa nel cielo. Si respira di gioia. D’un tratto la città ha preso un aspetto di festa. Bambini e ragazzi sciamano per i viali e per le piazze alberate. Nei rioni popolari finestre e terrazzi si spalancano al sole; la gente si affaccia per godersi l’animazione della strada, per respirare e tuffare gli occhi nel cielo di una bellezza che rapisce. (A. Fabietti)

Il ventuno del mese di marzo la primavera entra puntualmente, portando la luce, il calore, la vita. I contadini hanno ormai un gran da fare: seminano la canapa, il riso, i fagioli, il granoturco, i foraggi. Poi rincalzano la terra, sarchiano, concimano, hanno mille faccende da portare a termine negli orti. Ed ecco che la mattina al mercato si cominciano a vedere già le primizie: i primi piselli, i carciofi, le insalatine. Vediamo anche le ricotte e i formaggi freschi. Nei campi ogni albero è carico di gemme… e nei prati sbocciano le violette, le primule. (A. Palazzi)

Primavera in montagna.
In questa stagione gli uomini, per consuetudine antica, salgono le pendici e cercano le vette. Primi sono i pastori. Hanno passato lunghi mesi tra le case del villaggio chiusi talvolta per settimane tra quattro pareti, di contro al biancore compatto d’intorno. Belavano le bestie affamate, piangevano i bimbi infastiditi. Ora son tutti fuori nel sole: spingono innanzi le bestie, mai sazie di erba tenera, verso i pascoli alti. La baita sull’orlo del prato, a sera fuma, e l’occhio del bimbo fissa la stella piccolina, che è spuntata laggiù. (G. Fanciulli)

Primavera alpina.
Neve e fiori… ecco la pompa della primavera delle Alpi. Il fiorellino appena sbocciato, tentennando il capo mollemente sulla neve, che ha appena abbandonato sull’esile gambo l’ultima stilla, sembra ringraziarla con un sorriso di avergli custodito nella lunga stagione dei geli il germe della vita. Superba sopra tutti sorride la rosa delle Alpi che in solitari cespugli orna la cima di una rupe o in larghe e folte macchie si distende tutta porporina tra neve e neve. Essa è la gloria della flora alpina.

Apri la finestra. E’ la primavera che ti chiama: ogni cosa intorno a te parla di vita. Alza gli occhi al cielo, dove, scompigliata la corte delle nubi, torna alfine il sole, a cucire con fili di luce gli abiti nuovi degli alberi e dei campi. Un anno nuovo comincia nel grande tempo della terra. (R. Rubatto)

Primavera.
Non è più tanto freddo e, sui prati, sbocciano, a cento a cento, i fiorellini bianchi. Anche le violette sbocciano sul margine dei fossi e profumano l’aria.

Primavera.
Il cielo è quasi sempre sereno e soltanto qualche nuvoletta vaga qua e là. Il vento la trasporta e la nuvoletta è molto lieta di  vagare per il cielo e guardare la terra tutta verde.

La bella stagione.
Un giorno il cielo diventa tutto azzurro, di un azzurro gentile e delicato con qualche nuvoletta bianca che vaga qua e là. E gli alberi, che sembravano secchi, improvvisamente si mettono a fiorire.

Primavera.
E’ primavera. I campi sono tutti verdi; è l’erbetta nuova che cresce. Fra l’erba sbocciano le pratoline. Si aprono al primo raggio di sole e se il sole scompare, chiudono i petali e si addormentano.

Primavera.
I bambini sono contenti che sia tornata primavera. Ora possono andare a giocare per i prati e godere il tepore del sole d’oro.

Colori della primavera.
Al cielo terso e luminoso di un azzurro che l’inverno non conosce e l’estate non ha più, ai colori dei torrenti e dei ruscelli, alle mille sfumature di verde della nuova vegetazione, la primavera aggiunge la tavolozza ricchissima dei suoi fiori. Ha cominciato il mandorlo con i suoi candidi fiori, poi i meli, i peri, i ciliegi, ma prevalgono i fiori dei peschi con il loro rosa che sfuma nel carminio. (F. Monelli)

Primavera, tempo degli arrivi
La primavera è il tempo degli arrivi. I meli, i peri hanno già ricevuto la fioritura rosea e bianca,e tramando la innalzano nell’azzurro. Sotto ogni mazzetto di fiori fa capolino il cartoccetto delle foglie; fra poco la buccia si romperà e le foglie si apriranno, piccine, tenere e lustre. Sui solchi, il grano verdazzurro vibre, lancia per lancia, rimescolato dal tepore del sole. (G. Fanciulli)

Primavera
La primavera è qui, è arrivata. La senti nell’aria, la vedi nel cielo, nel prato e persino nel viso delle persone che è più aperto, più ridente, non più nascosto da sciarpe e pellicce, ma esposto al dolce venticello che purifica l’aria e la rende più dolce. Guardati intorno, ma il tuo sguardo non sia distratto e superficiale. La primavera va scoperta con attenzione, con amore e soltanto allora potrai godere del lieto miracolo che ogni anno si rinnova.

Primavera
Ogni pezzo di terra era coperto d’erba; gli steli crescevano folti, stretti l’uno contro l’altro, in uno splendido rigoglio. Si scostavano ad ogni passo dolcemente e subito si raddrizzavano. L’ampia, verde pianura era costellata di margherite bianche, di fiori di trifoglio dalle grosse teste violette sfumate di rosso, di gialli bottoni dorati e splendenti, di denti di leone. (F. Salten)

Annuncio di primavera
Da qualche giorno c’è qualcosa nell’aria. Si diffonde un lieve tepore, il sole è più limpido, la primavera è arrivata.
Anche sottoterra la buona notizia deve essere arrivata, perchè già alcune foglioline spuntano piano piano come sentinelle per informarsi come vanno le cose; e subito dopo alcuni fiorellini curiosi tirano fuori il capino per vedere.
Pochi giorni ancora e i fiorellini saranno tanti; i ruscelli, ingrossati per lo sciogliersi delle nevi, cominceranno a correre allegramente. (O. Giacobbe)

Preannuncio di primavera
Anche i vecchi alberi di copriranno presto di verde. Ecco che le gemme si ingrossano; lì dentro stanno chiuse le foglie. Ma il sole vuole che vengano fuori, e scalda le gemme e l’albero tutto: e le foglie scappan fuori belle lucide e pare che ridano; e anche l’albero ride, si fa tutto verde e torna giovane ancora. (A. Colombo)

Primavera
La primavera è una stagione meravigliosa, coi suoi bei fiori, i prati smeraldini, le rondini che tornano ai nidi, e i pulcini pigolanti intorno alle chiocce. Tutto sulla terra germoglia, le giornate si fanno più lunghe, e i ragazzi passano quasi tutto il tempo che rimane loro libero, fuori di casa a giocare alle biglie, alle guardie e ai ladri, e a qualunque altro gioco che venga loro in mente. (Jerome S. Meyer)

La primavera
L’inverno aveva rinfrescato anche il colore delle rocce. Dai monti scendevano, vene d’argento, mille rivoletti silenziosi, scintillanti tra il verde vivido dell’erba. Il torrente sussultava in fondo alla valle tra i peschi e i mandorli fioriti. E tutto era puro, giovane, fresco, sotto la luce argentea del cielo. (Grazia Deledda)

Il risveglio della terra
La terra si era addormentata. Una lunga pioggia leggera è scesa a cullare la fine del suo sonno. Lei sentiva, ma ancora non si svegliava. Dolce dormire. Sorrideva, dietro le palpebre chiuse, a sentirsi frugare fra l’erba, a sentirsi toccare le violette nascoste. Picchiettandola con le lunghe dita leggere, la pioggia le faceva il solletico e le diceva piano piano: “Svegliati!”. (Achille Campanile)

Primavera
Alla grondaia sono arrivate le rondini e rattoppano i buchi dei vecchi nidi; volano, volano ancora portandosi intorno un riflesso del gran mare che hanno attraversato. Sui ramicelli più nuovi della macchia si posano i pettirossi, attillati e svelti, l’occhio attento ad esplorare l’orto. Anche i bruchi li hanno visti e si rannicchiano dentro i gonfi cavoli; sarebbe triste davvero farsi sciupare la farfalla! Per tutta la valle scende un vento fresco, non freddo, e spazza, spolvera, scioglie gli ultimi nodi dell’inverno, porta al sole il fumo dei camini, il suono delle campane, le prime libere canzoni. (G. Fanciulli)

Primavera nei campi
Dopo il letargo invernale, la campagna sembra sorridere al contadino, ravvivargli nel cuore la santa speranza dei racconti e invitarlo al lavoro. Nel cielo ci sono nuvoloni chiari che si accavallano; un’acquata breve e improvvisa fa trotterellare gli agnellini verso le loro mamme, e sembra rendere più acuto l’odore delle erbe. Sboccia un garofano sul davanzale della massaia; appare timidamente il biancore del biancospino e si avverte veramente il profumo delle viole mammole. (L. Rinaldi)

Rifluisce la vita
Il giovane bosco era ancora quasi spoglio, come d’inverno. Solo nei cerei germogli, di cui era fittamente costellato, c’era qualcosa di superfluo, di insolito, una gromma o un gonfiore: questo superfluo, questa novità, questa gromma erano la vita che abbracciava già alcuni alberi con la verde fiamma del fogliame.
(B. Pasternak, da “Il dottor Zivago”)

La primavera
La primavera toccò i rami dei peschi e dei mandorli e disse lietamente; “Su, svegliatevi! Che cosa fate? E’ ora!”. E quelli, obbedienti, schiusero le gemme, si coprirono di fiori, e furono molto belli. Anche le violette si destarono, sbocciando al tocco leggero della primavera e così le pratoline fra l’erba dei prati e il biancospino sulla siepe.

Le violette
Per i campi si sparse un odore soave e leggero. Erano sbocciate le violette e tutti furono contenti. Gli uccelli, vedendole, cinguettarono festosi e le nuvolette bianche chiesero al vento che non le portasse via subito. Volevano sentire anch’esse quel gentile profumo.

La bella stagione
Un bel giorno il cielo diventa azzurro, di un azzurro delicato con qualche nuvoletta bianca vagante qua e là. E gli alberi, che sembravano tutti secchi, stecchiti, improvvisamente si mettono a fiorire. E pare impossibile che da quei rami, duri e ruvidi, siano potuti venire certi fiori così lievi.

Le lucertole
Le lucertole, riscaldate dal sole tiepido, escono dai buchi dove sono state in letargo per tutto l’inverno e si fermano al calduccio, guardando qua e là con gli occhietti vispi. Sono alla caccia di un insetto. Hanno tanto dormito che ora vorrebbero proprio saziarsi di qualche insettuccio incauto, che arrivi alla portata della loro lingua.

Le pratoline
E’ primavera: i campi sono tutti verdi; è l’erbetta nuova che cresce. Fra l’erba sbocciano le pratoline. Si aprono al primo raggio di sole, ma se il sole scompare, velato da una nuvola, o se scende dietro l’orizzonte, le pratoline chiudono i petali e si addormentano. Si schiuderanno al nuovo sole.

Primavera
Quando viene primavera, tutta la terra si schiude al dolce calore.Gli alberi mettono le gemme; fra l’erba sbocciano le pratoline, il cielo si fa chiaro e l’aria mite. I giorni sono più lunghi e tutto è allegria.

Primavera
Il torrente sussultava in fondo alla valle, fra i peschi e i mandorli fioriti. E tutto era puro, giovane, fresco, sotto la luce argentea di quel gran cielo mite, sul cui orizzonte i profili morbidi dei monti, ancora coperti di neve, si stendevano come file di colombi addormentati. (G. Deledda)

Primavera
Al torrente è arrivata tanta acqua dai nevai che si sfanno, e la sua voce canta più alta fra i ciottoli, parla più tenera fra i salici… Per tutta la valle scende un vento fresco, non freddo; scioglie gli ultimi nodi dell’inverno, porta il fumo dei camini, il suono delle campane e le prime libere canzoni. (G. Fanciulli)

Primavera
Le mammole riaprono, dal lungo sonno, i begli occhi azzurri, il pesco si è tutto magnificamente coperto di fiori che brillano al nuovo sole come gemme cristalline. Le margherite, silenziose e tranquille, tremolano al tiepido sole. (E. Nencioni)

Primavera
L’aria si è addolcita. La pioggia non è più gelida. S’è fatta quasi tiepida. All’alito della primavera, le piante, che hanno dormito per tutto l’inverno, si ridestano. Le loro radici si allungano nella terra umida. Succhiano e fanno salire nuovi umori lungo i fusti e i tronchi. (P. Bargellini)

Il vento
Il vento di primavera è capriccioso: ora è uno zeffiro leggero che fa dondolare i fiori e frusciare dolcemente gli alberi. Talvolta invece, è un vento strapazzone, che sbatacchia porte e finestre, strappa i petali dei fiori e trascina le nuvole in un pazzo galoppo.

Il vento
Il vento tira violento, ulula fra i monti, fischia tra i rami degli alberi, strappa i fiori, urla, penetrando nelle case e porta le nuvole qua e là in un pazzo galoppo. Ma se diventa gentile, fa frusciare i rami degli alberi, accarezza i fiori e porta, con grazia, le nuvolette qua e là nel cielo.

I neri e grossi alberi dalle braccia minuscole e rudi, paiono spruzzati da una brina di smeraldi e di perle. Sotto l’arido muschio delle vecchie pietre grige, nel bosco, le mammole riaprono, dal lungo sonno, i begli occhi azzurri. Il mandorlo si è tutto magnificamente coperto di fiori biancorosei che brillano al nuovo sole come gemme cristalline e fragranti. (E. Nencioni)

Il pesco si è tutto magnificamente coperto di fiori biancorosei, che brillano al nuovo sole come gemme cristalline e fragranti. Le margherite, silenziose e tranquille, tremolano al tiepido vento, La giunchiglia piega sul gracile stelo il velato suo calice. Persino sulle lande più petrose e deserte, qualche fiore solitario apre le sue tre o quattro foglioline soffuse di un pallido rosa, o venate di tenui righe violacee. (E. Nencioni)

Addio, giorni brevi e tristi, cieli grigi, pesanti. Addio fredde e tenebrose piogge monotone, nebbie e ghiacci crudeli… Il fremito giovanile della vita è corso su tutta la terra… Un alito spira lieto dalle umide colline, velate dai vapori argentei e leggeri. Bianche e soffici nuvole aleggiano per l’immacolato turchino del cielo. (E. Nencioni)

Mentre le gemme si fanno turgide e i fiori sbocciano, gli insetti, come avvertiti da questo mirabile risveglio della terra, escono dalle loro uova, dai bozzoli, dalla terra e si spandono per i campi, per i prati e per i boschi. Gli uccelli si riuniscono a coppie e preparano il nido. Molti ritornano dalle zone più calde. Le vacche e le pecore escono dalle stalle e tornano sui prati coperti di tenera erbetta. (L. Vaccari)

Ieri gli alberi erano nudi, neri, rigidi: d’un tratto in vetta, al ramo più alto brillò una fogliolina ancora accartocciata, colore di chiaro bronzo, e un poco si aprì all’aria solatia che si addolciva nel presentimento delle viole. Subito su ogni ramo s’inturgidirono mille e mille gemme, si schiusero e vestirono platani e ippocastani di una peluria di un verde roseo che inteneriva a guardarla. (V. Brocchi)

Nell’inverno, il sole è in basso, i suoi raggi obliqui non penetrano nella terra, nulla si muove allora. Ma appena comincia ad elevarsi al di sopra di noi e con le sue frecce riscalda la terra, tutto nel mondo si riscalda e si mette in movimento. La neve scompare, il ghiaccio si scioglie nei ruscelli, le acque precipitano dalle montagne e con l’elevarsi dei vapori dall’acqua, in forma di nubi, comincerò a piovere. (L. Tolstoj)

C’è uno stepito gioioso intorno all’albero d’aranci mentre le api abbracciano i fiori e s’inebriano di dolcezza. Ognuna ha da portare all’alveare, prima dell’imbrunire, un carico di nettare che è forse dieci volte il proprio peso. E’ stato calcolato che mezzo chilo di miele richiede trentasette mila viaggi di andata e ritorno dall’alveare ai fiori. (D. Culross Peattie)

Basta un fiore sbocciato sul davanzale della finestra, il volo di una rondine nel breve spazio del cielo verso cui alziamo gli occhi, un raggio lucente e caldo che ci raggiunga al nostro tavolo di lavoro, per dirci che è primavera. Ma forse non c’è bisogno di nulla se ascoltiamo dentro di noi il desiderio di essere buoni e gentili con tutti, la voglia improvvisa di ridere e di cantare. Il piacere di rimanere con gli occhi rivolti verso il cielo inseguendo con il pensiero un sogno. Allora la primavera è in noi. (G. G. Moroni)

Le sementi, disgelandosi, manderanno fuori i loro germogli; questi ingrosseranno nella terra; dalle vecchie radici verranno fuori germogli nuovi, e gli alberi e le erbe cominceranno a crescere. Gli orsi, le talpe usciranno dal loro torpore; le mosche e le api si sveglieranno; le zanzare nasceranno e le uova dei pesci si schiuderanno. L’aria scadandosi, si innalzerà, al suo posto verrà l’aria fredda e il vento soffierà. Le nubi saliranno… Chi farà tutto questo? Il sole. (L. Tolstoj)

La siepe era tutti spini, sembrava imbronciata. Non sta bene avere il broncio, quando tutti sono contenti. Ieri il vento deve averglielo detto: le è passato vicino dicendo: sss… sss… sss… Penso che le abbia detto: “Su, ridi, e vestiti a festa anche tu”. E questa mattina è vestita di bianco e di verde, che è una bellezza. Le spine non si vedono più; sono tutte ricoperte dai fiori bianchi. (Colombo)

Ritorno all’aperto
Eravamo usciti di febbraio due o tre giorni appena, quando il tempo, fino allora grigio e sudicio, si schiarì per un bel vento tiepido, che sembrava sopravvenuta la primavera. Ed io ottenni, se Dio vuole, di precipitarmi fuori di casa.
Che felicità quei primi giorni!
Respiravo l’aria libera come si beve sopo una gran sete; ritrovavo, come scoperte allora allora, le strade, le case, le campagne, la gente: cose tutte piene d’un valore fantastico; somiglianti, sì, ad una vaga immagine che ne avevo in mente, ma mille volte più belle e felici. I butti d’acqua che venivan giù dalle rocce delle fontane, bisognava per forza che li toccassi, tanto mi sembravano incredibili.
E il sole! Quel bel sole d’oro, biondo, morbido, buono come se mi conoscesse personalmente, non mi bastava vederlo luccicare sulle cortecce violette degli alberi, nè pure di sentirmelo sul dorso delle mani, che gli stendevo.
Bisognava guazzare in quel sole.
(F. Chiesa, da “Tempo di marzo”)

Giorni di fine inverno
Finisce l’inverno, lungo le rive dei fossi si aprono i primi fiori e sui pendii dei colli altri, di colori più intensi, azzurri o gialli. Sulle cime dei monti gli ultimi filoni di neve sfumano in nere nubi. Il verde del frumento si accresce, ed altri campi si fanno gialli di ravizzone. Biancheggiano i susini, i peri, alterni al rosa dei peschi. Le galline hanno un canto diverso, appare la prima farfalla, e gli uccelli cantano fra gli alberi che ancora non danno ombre. Finisce l’inverno, si entra in primavera, certi anni il trapasso viene come velato da un lungo periodo di piogge, si aprono le foglie, fioriscono i frutteti e la terra sotto la pioggia, ritorna il sole e sui rami si scopre la frutta già segnata senza esserci accorti dei fiori.
(G. Comisso, da “La favorita”)

Presagi di primavera sui monti
A volte pare impossibile che la montagna si liberi ancora dell’inverno, eppure sta scritto che se ne libererà. Non grazie alle deboli forze umane, costrette, qui, come altrove, ad assistere, ad accettare; ma grazie ad una forza divina, che scende fino a noi con le fiamme del sole.
Non si libererà come la pianura, ma in tutt’altro modo. In pianura la neve se ne va un poco ogni giorno, come è venuta, silenziosamente. Anche qui molte cose accadono senza rumore: sopra e sotto la terra, nei pianori più riposati, nei grembi concavi, negli angoli riparati e inclinati leggermente. Ma altre si svolgono addirittura con fragore. Non sempre la montagna è il regno del silenzio. Già ben sonoro è il primo risvegliarsi della meravigliosa forza celeste. Un bel mattino, e pare ancora pienissimo inverno, il rivestimento di ghiaccio su per le pareti e le cime non tiene, non aderisce più: tende all’infuori, scricchiola, si stacca, piomba giù per cinquanta, per cento metri, con rombi e rimbombi di tuono.
Ora gli uomini hanno capito. La primavera tornerà, spunteranno presto i bucaneve, i suoi crochi bianchi e turchini, innumerevoli, nei prati.
(G. Zoppi, da “Dove nascono i fiumi”)

Illusione di primavera
Già nell’aria correva un respiro di primavera, sebbene alberi e siepi non dessero ancora segno di vita: la terra nera del giardinetto si rivestiva soltanto sulle cornici delle aiuole d’una lanuggine verde; ma il sole pareva più nitido e, non disturbato da nessuna frasca, proiettava più nere e precise le ombre dei pali, dei pergolati e delle persone.
(E. De Marchi, da “Ragazzi”)

Tramonto di marzo
Il sole, sembrava, scendendo fra le nebbie, una palla di rame che scomparisse in mezzo alla cenere. Ma eccolo che ritorna.
E’ un intenso color di rosa, che dal lontano occidente sale e si dilata sino a impregnare di sè gran parte del cielo. Le masse degli alberi, rese spaziate e leggere dalla nudità dei rami, si disegnano in trine leggere e trafori, delicatissime, sugli accesi riflessi degli sfondi. Il ghiaccio delle lance s’imporpora, rifrange splendori di rubini. I tronchi dei pioppi e dei salici si animano di una profonda tinta violastra. Salici di fiume, dal ceppo basso, nocchieruto, dalle grosse teste scarmigliate e irte; pioppi alti e sottili, incorporei come ombre; terra d’inverno, più vasta, perchè più spoglia, più libera perchè placata.
Ma già l’aria s’è fatta d’un grigio azzurrognolo d’ortensia; il rosso è tutto nell’acqua. Si spostano i riflessi, si spezzano le armonie: qualcosa ha da morire, e si dibatte contro la fine, pur sapendo che ha da rinascere. Qualcosa di infinitamente piccolo, d’infinitamente grande: il giorno.
(A. Negri, da “Di giorno in giorno”)

Primavera
Appena un lontano mandorlo caccia la sua fioritura, la timida nota diventa gorgheggio ed il volo saltellante di siepe in siepe di fa volo lungo e disteso di giardino in giardino. Giunge, intanto, la capinera. Seguono i richiami squillanti del merlo e del fringuello in armonia con lo squillare dappertutto dei colori.

La primavera va dal 21 marzo al 22 giugno, data da cui avrà inizio una nuova stagione, l’estate. L’arrivo della primavera si rivela, innanzi tutto, nelle mutate condizioni del clima, del cielo, della vegetazione. Il clima è più tiepido; perchè? La terra gira intorno al sole, impiegando in questo giro poco più di 365 giorni. Poichè durante questo movimento di rivoluzione la terra cambia la sua posizione rispetto al sole, ecco che cambiano anche le condizioni di riscaldamento e di illuminazione nelle varie zone della superficie terrestre.

La primavera attraverso il tatto
Sulla nostra pelle sentiamo il tepore dei raggi di sole, il vento non più gelato, ma prevalentemente tiepido, anche se qualche volta diventa violento e furioso. Sentiamo il velluto della gemma, la morbidezza dei petali del fiore, la scabrosità del tronco dell’albero che lascia cadere la vecchia corteccia, la flessuosità morbida dell’erba dei prati.

La primavera attraverso l’udito
La pioggia non è più la pioggia gelida e sferzante dell’inverno. E’ una pioggerella leggera che fruscia, che mormora. Nel suo rumore leggero sentiamo poi il canto degli uccelli: sono i primi ad annunciare l’arrivo della bella stagione. Oltre al canto degli uccelli, ecco il ronzio degli insetti che si sono svegliati dal loro sonno invernale durante il quale, spesso, hanno compiuto una metamorfosi che li ha resi perfetti, forniti di ali che, talvolta, come nel caso delle farfalle, hanno smaglianti colori.
Ascoltiamo anche il fruscio delle chiome degli alberi dove il vento di primavera suscita mille suoni. Il vento è un po’ la voce di marzo. Infine, a causa dello scioglimento delle nevi, i ruscelli fanno sentire il loro mormorio, i torrenti scrosciano, le fontane hanno una voce più sonora.

La primavera attraverso la vista
Prima di tutto osserviamo il cielo nei vari momenti della giornata: il chiarore madreperlaceo della prima luce, il roseo dell’aurora, il celeste delicato delle ore di sole, il rosso del tramonto. Notiamo poi le forme, i colori dei fiori, scopriamone le gradazioni; ammiriamo le variopinte ali delle farfalle, il verde smaltato della nuova erbetta, le sfumature delle chiome degli alberi.

La primavera attraverso il gusto
Si può assaggiare la primavera? Certo! E’ vero che in estate avremo il sapore dei frutti, ma in questa stagione possiamo sperimentare il sapore acidulo dell’erba nuova, e il dolce di un fiore. Soprattutto nei fiori degli alberi da frutto, c’è una gocciolina di nettare e ben lo sanno gli insetti che non se la lasciano sfuggire.

La primavera attraverso l’odorato
Possiamo percepire il profumo delicato della violetta, ma più in generale quello prepotente della primavera con la sua vastissima gamma di odori.

Il freddo era finito, soffiavano venti gagliardi, ma l’erba non cresceva sulle prode, nè i fiori, nè le viole. Nulla cambiava nel paesaggio: le argille si stendevano grigie tutto attorno, come sempre; qualcosa mancava, la vita stessa dell’anno e il senso di questa mancanza riempiva il cuore di tristezza. Col tempo migliore, le vie del paese erano tornate deserte: gli uomini erano tutto il giorno lontani, nei campi invisibili. I ragazzi sguazzavano, con le capre, nelle pozzanghere e dalle case giungevano alterne le voci delle donne.
Carlo Levi

La primavera comincia il 21 marzo e termina il 20 giugno. La giornate si allungano sempre di più e un tiepido sole riscalda la terra. Non c’è bisogno di indossare i pesanti abiti invernali, di tenere ben chiuse porte e finestre, di riscaldare la nostra casa: non fa più freddo…
E’ come aprire gli occhi dopo un lungo sonno e, come per incanto, come per incanto, vedere una natura nuova: sui monti la neve ha cominciato a sciogliersi e i torrenti sono gonfi e luccicanti; prati, boschi e giardini ricominciano a verdeggiare e alcuni fiori fanno capolino tra le vecchie foglie.
Gli alberi si rivestono di bottoncini verdi. Osserva questi bottoncini: essi danno piccole foglie di un verde intenso, le prime foglie nuove della primavera.
Nei giardini e nei frutteti i peschi e i ciliegi si coprono di fiori rosati e bianchi che il miracolo della natura trasforma in saporiti frutti. Di tanto in tanto una fitta pioggerellina va a ristorare le nuove pianticelle, assetate di vita. E’ una pioggerellina fine fine, lieve lievi, e le sue goccioline cadendo, rimbalzano qua e là, sugli esili fili d’erba, sulle tenere foglioline e le timide corolle dei fiori, diffondendo tutto intorno la musica della primavera.
A volte scoppiano gravi temporali che incupiscono per un attimo il limpido azzurro del cielo; ma non fanno paura e i tuoni sembrano brontolii di un gigante buono. Ritornano le rondini: dopo lunghi, estenuanti voli, riprendono possesso dei vecchi nidi. E se il nido è rotto o se le intemperie l’hanno rovinato o distrutto, le rondini non si perdono di animo: puoi vederle allora volare instancabili in cerca di terra fine, di pagliuzze, di lanuggine e lavorare con impegno alla ricostruzione del nido.
La primavera è una stagione tutta piena di voci, di movimenti, di risvegli.
Il cuculo lancia le sue sillabe gioiose sempre uguale, le galline chiocciano, gli uccelli cantano lieti sui rami; le farfalle, le formiche, i calabroni, i grilli, le api, ad innumerevoli altri insetti animano con i loro voli, i loro colori, i loro canti, il loro industrioso lavoro prati e giardini, mentre la lucertola, il riccio, la marmotta, il ghiro, escono dalle tane dove hanno trascorso, in letargo, il lungo e freddo inverno, per godersi il nuovo sole.
Nei campi un lavoro intenso attende il contadino: le tenere pianticelle di frumento devono essere liberate dalle erbacce che ruberebbero loro il nutrimento e le viti devono essere riassestate e irrorate. E’ tempo di concimazione e di semina; si seminano barbabietole, piselli, lino e canapa; si piantano gli alberelli degli olivi, dei gelsi e le pianticelle di alberi da frutta.

Perchè i fiumi si gonfiano in primavera

Col sopraggiungere della bella stagione, le acque dei fiumi diventano di giorno in giorno più abbondanti. Questo fenomeno è causato dallo scioglimento delle nevi: i vari torrenti che alimentano il fiume si arricchiscono dell’acqua che proviene da ghiacciai e nevai di alta montagna.

I lavori del contadino

Il contadino ritorna sempre più frequentemente nei suoi campi. Il lavoro da fare è tanto. Le tenere pianticelle di frumento devono essere liberate dalle erbe infestanti che ruberebbero loro il nutrimento: è il momento della sarchiatura. Vengono arati i campi che erano stati coltivati a foraggio in inverno e si preparano con concimazioni per la semina di fave, avena o granoturco. E’ tempo di sistemare i tralci delle viti sui fili zincati o su altri sostegni e di provvedere alle prime irrorazioni di sostanze antiparassitarie contro le più comuni malattie della vite (peronospora e oidio).
In primavera si provvede inoltre alla semina delle barbabietole da zucchero e da foraggio,dei piselli, del lino e della canapa.
Nei terreni preparati con scasso durante l’inverno, si piantano gli alberelli degli olivi, dei gelsi e le pianticelle degli alberi da frutta.

Il risveglio

In collina la fioritura è un mare di fragranti ondicelle rosee spumeggianti. I poggi verzicanti sono tondi e morbidi e sui vecchi tralci contorti i primi teneri viticci mettono un manto delicato.
E in pianura negli orti germogliano a perdita d’occhio in filari simmetrici le pallide lattughe e gli ispidi cavolfiori nani e i carciofini d’un verde bigio.
E gli alberi si vestono di gemme e da quelli fruttiferi i petali si staccano per posare in terra un tappeto bianco e rosa. I nuclei dei frutti gonfiano e si colorano: ciliegie e mele, pesche e pere, fichi gelosi che si tengono racchiuso il fiore nel cuore.
Tra i filari l’ortolano rovescia le zolle d’erba primaverile perchè l’erba interrata ingrassi la terra, scava solchi per far affiorare l’acqua e argina i solchetti perchè la trattengano, e dagli argini estirpa le erbacce che potrebbero rubarla alle piante.
Sulla vite i fiori minuti sbocciano il lunghi penduli corimbi. E man mano che la stagione si inoltra, il caldo aumenta e le foglie assumono una tinta più cupa.
Le susine si allungano in forma di uovo, i peruzzi in forma di perla, le pesche mettono la peluria. I fiori della vite schiudono i minuscoli petali e i duri pallini diventano bottoni verdi e i bottoni si fanno pesanti. (J. Steinbeck)

I giardini e i frutteti

Nei giardini e nei frutteti i peschi ed i ciliegi, prima ancora di rivestirsi di foglie o contemporaneamente al formarsi di queste, sbocciano in migliaia di fiori, rosati e bianchi: offrono per primi il nettare dello loro corolle alle api.

Le gemme

Gli alberi a primavera si svegliano e si preparano alla nuova fioritura. Le radici si allungano nella terra in cerca di nutrimento. L’acqua sale su per gli steli, i tronchi, i rami, ed ecco le gemme poste sui rami diventare più grosse.
Esse hanno incominciato a godere i primi tiepidi raggi di sole ed ora le loro piccole squame vischiose si aprono, lasciando intravvedere delle punte grigiastre: sono i sepali che,  come mani amorose, proteggono i bocci fiorali. In seguito le squame si curveranno all’esterno, per lasciare liberi i fiori di crescere, distendersi e ricevere tutta la luce. Intanto, da altre gemme, si libereranno le nuove foglie, dapprima delicate, poi robuste e vivaci.
Dalle gemme apicali, quelle poste sulle punte, usciranno i nuovi rami che daranno all’albero una chioma più abbondante.

Nelle gemme

E’ incredibile quanta roba sia rinchiusa nelle gemme. In quest’astuccio di squame, in uno spazio talora così piccolo, dove noi non sapremmo farci entrare neppure un seme di canapa, si trovano foglie a dozzine e interi grappoli di fiori. Il grappolo nascosto dentro una gemma di lillà possiede più di cento fiori. E tutto trova posto nella stretta valigia, senza che nulla sia lacerato od ucciso. Se si togliessero ad una ad una dal loro posto le diverse parti di una gemma, se si disfacesse la valigia, chi avrebbe l’abilità di rifarla?
Le foglie sono speciali per collocarsi nel minor posto possibile: assumono la forma di cornetti, si arrotolano, si piegano in due per lungo e per largo, si raggomitolano, si pieghettano o si chiudono a ventaglio. Osservate in primavera le gemme prossime a schiudersi: vi potranno insegnare a fare un giorno la vostra valigia!

Sveglia nel bosco

Il tepore di primavera e l’odore dell’erbetta nuova sono giunti fin nelle tane profonde, dove gli animaletti del bosco dormivano il lungo sonno. E i ricci, i tassi, i ghiri, gli scoiattoli si sono risvegliati. Sono usciti magri e affamati, hanno cercato subito il buon cibo fresco e si sono messi a mangiare avidamente.
Lassù tra il verde, seduto sul ramo d’un grosso faggio, un ghiro sta divorando alcune gemme appena schiuse.
Uno scoiattolo sgranocchia una pigna trovata per terra. La tiene agilmente con le zampine anteriori, mentre i denti aguzzi lavorano senza posa.

Nei pascoli alpini

Sui monti non sono ancora giunte le mandrie di mucche e le greggi belanti, eppure i pascoli solitari son già pieni di vita. Dalle tane profonde e foderate di fieno sono uscite le marmotte, dopo il letargo invernale. Il loro mantello bruno – grigio è un po’ sciupato, e lascia vedere il corpo molto dimagrito per il lungo digiuno. Ora corrono a frotte nelle vallette tranquille, mangiando a sazietà, mentre una di loro sta di guardia sopra un sasso. Se appena scorge qualche pericolo, lancia un fischio e tutte spariscono nelle tane.
La pernice, il gallo cedrone, le cornacchie riempiono l’aria di fruscii d’ali. Anche per gli uccelli di montagna è giunto il momento di preparare il nido e di covare.
Di notte, poi, escono numerose le arvicole, i piccoli topi della montagna, e la lepre alpina si aggira timorosa tra i cespugli, alla fioca luce lunare. Rizza le orecchie e annusa spesso l’aria con sospetto. Potrebbe giungere improvvisamente l’ermellino brigante, che azzanna e uccide senza pietà. Potrebbe piombare dal cielo qualche rapace notturno, e chi si salverebbe più dai forti artigli? Per questo occorre essere pronti a fuggire veloci, in ogni istante.
Nella montagna alta, intanto, camosci e stambecchi riposano sicuri negli anfratti, in attesa delle prime luci dell’alba, quando usciranno a brucare l’erba fresca di rugiada.

Tornano gli uccelli migratori

Nelle terre calde dell’Africa settentrionale le rondinelle, tutte chiuse nel loro bell’abito nero e bianco, si preparano a partire per il viaggio di ritorno, ora che è tornata la primavera.
Le rondini voleranno sopra deserti, mari, pianure, montagne. Un istinto meraviglioso le guiderà per migliaia di chilometri, e farà sì che esse riconoscano i nidi che ogni anno le aspettano.
Anche le gru, le anatre e le oche selvatiche, gli stornelli, i chiurli, le cicogne, le allodole, i vanelli e i falchi sono uccelli migratori.
Le gru cinerine, cioè di color cenere, volano formando nel cielo una grande V. Il loro volo è lento e maestoso. Lo sai che possono raggiungere perfino i 9.000 metri di altezza? Potrebbero cioè da sole, con il solo battito delle forti ali, posarsi sulla più alta montagna della Terra.
Le anatre selvatiche invece hanno un volo rapidissimo. Possono compiere in un’ora anche centoventi chilometri, quanti cioè ne fa un’automobile.
Gli storni invece formano in cielo delle grosse nubi nere, poichè volano in gruppi foltissimi e molto serrati.
Mettendo attorno alle zampe di alcuni uccelli migratori degli anellini di alluminio, con le indicazioni del luogo da cui ebbe inizio il volo, si è saputo, per esempio, che le cicogne dei paesi del nord Europa passano l’inverno nell’Africa del sud, dopo aver compiuto un viaggio di ben diecimila chilometri, senza neppure l’aiuto dei punti cardinali.

Come fanno ad orientarsi gli uccelli migratori?

Cose veramente straordinarie sanno fare gli uccelli migratori: si è notato per esempio che la rondine torna non solo nello stesso luogo, ma persino nello stesso nido che ha abbandonato l’anno precedente.
Come fa ad orientarsi in un percorso che è spesso di migliaia di chilometri?
Purtroppo non si è ancora in grado di rispondere con esattezza, e il problema dell’orientamento degli uccelli migratori rimane tuttora uno dei più appassionanti per la scienza moderna.
Si è supposto che gli uccelli sappiano calcolare per istinto l’angolo che la  loro strada deve avere in ogni istante rispetto alla direzione della luce solare.

Proserpina e la primavera

Proserpina era la figlia di Cerere, la buona dea che insegnava agli uomini come si fa a crescere il frumento. Ella aveva il capo coronato di spighe di frumento e portava con sè l’abbondanza e la gioia. Proserpina, sua figlia, era leggiadra e fresca come un fiore.
Un giorno Proserpina si trastullava in un prato con le compagne. Verde era l’erba e quieta l’aria, imbalsamata di profumi. Ad un tratto la terra si aprì accanto a Proserpina. Ne uscì un magnifico carro tirato da neri cavalli, e sul carro sedeva Plutone, che afferrò Proserpina, la rapì e la portò nel suo regno buio e tetro. Egli voleva che Proserpina, gentile e mite, diventasse la regina dell’inferno.
Invano Cerere cercò la sua cara figliola. Come pazza girò tutta la terra. Intanto non aiutava il lavoro degli uomini e trascurava i campi, che attendevano la sua benedizione.
Così i campi inaridivano e non davano più una spiga di frumento. Mancava il pane e la fame rattristava gli uomini.
Quando Cerere seppe che Proserpina era stata rapita da Plutone, supplicò che le fosse resa.
Plutone, allora, raccolse a consiglio tutti gli spiriti dell’inferno. Fu deciso che Proserpina potesse sì ritornare da sua madre, purchè non avesse assaggiato nulla dei cibi dell’inferno.
Per fortuna Proserpina, che era desolata di essere lontana da Cerere e di non rivedere la dolce terra bella di fiori, non aveva voluto mai toccar cibo. Solo, avendo visto delle bellissime melegrane rosse, ne aveva colto una.
“Allora” disse Plutone, “Proserpina deve rimanere qui!”
“No” dissero gli spiriti dell’inferno, “Proserpina dovrà stare quaggiù per tre mesi all’anno: e ne trascorrerà nove con la madre”.
E così fu fatto.
Ed ogni primavera, Proserpina, fresca e gentile, ricompare sulla terra; e il suo ritorno segna il primo germogliare del tenero frumento, il primo sbocciare dei fiorellini profumati. (E. G. Camillucci)

La primavera

Spunta da ogni dove, tra il verde del prato bucato dalle primule e dalle margheritine, all’angolo delle case dove sta il vecchio fico, nei bottoni dei cespugli, sui pennacchi nudi delle piante che si punteggiano di gonfie protuberanze, sotto i nostri stessi piedi, nell’aria che accarezza i nostri volti e rinfresca i nostri pensieri. Tutto intorno a noi pare voglia innalzarsi e volare: tutto tende all’alto,  e gli stessi uccelli sfrecciano più rapidi, e le prime rondini scivolano a larghe volate, che pare non abbiano mai a finire. Un profumo sottile e grato è nell’aria; un colore nuovo, che rinnova perfino le facciate delle case, i boschi e le valli.

Incanto della primavera

La primavera apre le grandi porte del cielo al sole, alla gioia, a tutte le cose belle. Le porte spalancate sono le nubi, che vanno sempre più lontane, diventano più lievi. Sulla terra, tutto si risveglia, tutto sorride, tutto canta, tutto si tinge di meravigliosi colori. Anche nel cuore delle persone più infelici rinasce la gioia, la letizia. Nel cuore dei bambini, nei loro volti, nei loro giochi sono già comparsi allegria ed esultanza.

Primavera nella valle

Il sole brillava, ma più ancora brillava il verde della vallata perchè ogni filo d’erba rifletteva la luce, e tutti i prati erano pieni d’oro e di verde, e macchie gialle, rosse e azzurre facevano capolino dalle siepi, dove i fiori si davano un gran daffare per le api. I mandorli e i biancospini erano fioriti, e più in basso i meli primaticci venivano su splendidi, in quattro file ben ordinate dietro la fattoria.
La mandria di mucche nere era tutta nel fiume immersa fino al ventre nell’acqua fresca e tranquilla; e le code mandavano spruzzi bianchi, ricadendo nell’acqua dopo aver scacciato le mosche; e più in su, le pecore non alzavano un momento il muso dall’erba tenera. Quando il vento riprendeva fiato, si sentivano brucare. (R. Llewellyn)

Nel mondo degli animali
Riprende la piena attività di molti animali in terra, nel mare, nei fiumi e nei laghi. Degli animali terrestri, il cervo perde le corna e si isola, le talpe sono in attività febbrili, le volpi cominciano ad uscire dalla tana.
Fra gli uccelli tornano le beccacce, gli storni e i colombi selvatici; le pernici volano a coppie; il merlo gira intorno alle macchie; l’allodola comincia a far udire il suo canto. Si possono vedere in volo anitre, cicogne, corvi e cornacchie. (D. Forina)

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Poesie e filastrocche sulla PRIMAVERA

Poesie e filastrocche sulla PRIMAVERA – una raccolta di poesie e filastrocche sulla primavera, di autori vari, per bambini della scuola d’infanzia e primaria.

Coniglietti a primavera
Tre coniglietti
in fila breve
nasini al sole,
code di neve.
Tre coniglietti
fanno tre salti
e poi rosicchiano
foglie giganti.
Tre coniglietti
in lieta schiera
danzano in tondo:
è primavera!
(K. Jackson)

Bosco di primavera
Vola un profumo lieve
dal biancospin di neve;
splendon rugiade d’oro
sul mirto e sull’alloro.
Canta la cinciallegra
e il bosco si rallegra.
Fa uno starnuto il riccio
e la gazza il suo bisticcio,
ma c’è un garofanino
che sboccia lì vicino
e cinguetta capinera:
per dir che è primavera. (M. L. Magni)

Le foglioline
Dicon le foglioline appena nate,
al vecchio tronco: “Nonno, l’hai sentite
le rondini? Che splendide giornate!
Vedi? Non siam più tutte aggrinzite!
Ci siamo tese come le manine
carezzose dei bimbi; e i freschi venti
ci fanno vispe come farfalline,
e il sole ci fa tutte rilucenti. (C. Del Soldato)

Primavera
Nell’aria gli uccellini
nell’acqua i pesciolini
in terra i frutti e i fiori
di splendidi colori.
In cielo tante stelle,
ah, quante cose belle!

Le foglioline
Dicon le foglioline appena nate,
al vecchio tronco: “Nonno l’hai sentite
le rondini? CHe splendide giornate!
Vedi? Non siamo più tutte aggrinzite!
Ci siam tese come le manine
carezzanti dei bimbi: e i freschi venti
ci fanno vispe come farfalline,
e il sole ci fa tutte rilucenti”. (C. Del Soldato)

Primavera
Ecco ecco che è arrivata
primavera scapigliata,
primavera bella bella,
primavera pazzerella.
Son fioriti i biancospini,
nasceranno i rondinini
dentro i nidi verdi e gialli;
danzaranno i loro balli
le farfalle
bianche e gialle. (L. Galli)

Primavera
La nube rosata
che vaga nel cielo
ravviva l’aurora
del tiepido aprile.
Nei campi odorosi
di tenera erbetta
macchie di fiori
multicolori.
Le rondini sono
tornate ai nidii,
rifatti e puliti,
dell’altro autunno.
Incanto di mille
ridenti colori:
incanto
di primavera. (A. Russo)

Si sveglia la primavera
Quando il cielo ritorna sereno
come l’occhio di una bambina,
la primavera si sveglia. E cammina
per le mormoranti foreste,
sfiorando appena
con la sua veste
color del sole
i bei tappeti di borraccina.
Ogni filo d’erba reca un diadema,
ogni stilla trema.
Qualche gemma sboccia
un po’ timorosa,
e porge la boccuccia color di rosa
per bere una goccia
di rugiada… (U. Betti)

Primavera
Tre coniglietti
in fila breve
nasini al sole,
code di neve.
Tre coniglietti
fanno tre salti
e poi rosicchiano
foglie giganti.
Tre coniglietti
in lieta schiera
danzano in tondo:
è primavera! (K. Jackson)

Primavera
Primavera, primavera,
dolcemente scendi giù;
ben ti avverte in sulla sera
il cucù col suo cù, cù!
Ben ti avvertono nei prati,
dove l’erba rifiorì,
tanti grilli indaffarati
notte e giorno a far crì, crì!
A tal musica le piante,
metton fiori tutte quante. (Yambo)

Primavera
Lucciole belle venite da me,
son principessa, son figlia di re
ho trecce d’oro filato fino fino
ho un usignolo che canta sul pino
una corona di nidi alle gronde
una cascata di glicini bionde
un rivo garrulo limpido fresco
fiori di mandorlo, fiori di pesco
ho veste verde di vento cucita
tutta di piccoli fiori fiorita
occhi di stelle nel viso sereno
dolce profumo di viole e di fieno
e per il sonno dei bimbi tranquilli
la ninna nanna felice dei grilli (R. Pezzani)

San Benedetto
Ecco le rondini,
San Benedetto!
Rondini e rondini
che cercano i nidi
per ogni tetto
con striduli
gridi.
Cantano: “E’ primavera!”
E sfrecciano nei cieli
dalla mattina a sera.
Cantano: “E’ primavera!
E spuntano steli
su dalla terra nera.
Cantano : “E’ primavera;
è rinata
la vita,
è ritornata
la gioia ch’era
solo smarrita!”

Primavera
Primavera vien danzando,
vien danzando alla tua porta.
Sai tu dirmi che ti porta?
Ghirlandette di farfalle
campanelle di vilucchi,
quali azzurre, quali gialle;
e poi rose, a fasci, a mucchi. Angiolo Silvio Novaro

Primavera
Quando tornan le rondini alle gronde
e di voli e di nidi empion la sera,
arriva la festosa primavera. (E. Pesce Gorini)

La Primavera
Di nuovo è tornata la Primavera.
C’è luce di giorno e di sera.
I giardini si riempiono di fiori.
Tornano i bambini a giocare fuori.
Di nuovo la verde raganella
canta la sua storiella.
Ma chi abita in città
non la sa
sa solo che fa cra-cra. (A. Grossi)

Primavera
Primavera… tutta gridi
d’uccellini dentro i nidi,
tutta fiori nel vestito
nuovo nuovo, fresco fresco,
rosa e lieve come il pesco,
per miracolo fiorito.
Primavera, ridi, ridi,
ridi al sole, ai fiori, ai nidi. (Giardina)

La buona novella
Il vento l’ha contata a un fil d’erbetta,
e l’erba la contò alla farfalletta.
La farfalla la disse ad un bambino:
“Non lo sai dunque? Ciccicì, ciccì!
La buona e bella primavera è qui! (R. Fumagalli)

Primavera
Le campanelle
raccontano alle stelle
che il sole, che il sole
fa nascere le viole…
A nuovo vestite
spuntano le margherite,
primule e mughetti,
cespugli e cespuglietti,
piante e piantine,
erbette fine fine…
E il sole ad ogni fiore
dà il suo colore.
Rosse le rose,
gialle le mimose,
candidi i gigli,
e tutti son suoi figli. (Lina Schwarz)

Primavera
Ecco ecco ch’è arrivata
primavera scapigliata,
primavera bella bella,
primavera pazzerella,
con il sole,
con le viole,
con i gridi,
con gli stridi
dentro i nidi.
Son fioriti i biancospini,
cresceranno i rondinini
dentro i nidi verdi e gialli;
danzeranno i loro balli
le farfalle
bianche e gialle. (L. Galli)

Primavera
Ed ecco che un susino
bianco sbocciò sul verzicar del grano.
Come un sol fiore gli sbocciò vicino
un pesco, e un altro. I peschi del filare
parvero cirri d’umido mattino.
Uscìano le api. Ed or s’udiva un coro
basso, un brusìo degli alberi fioriti,
un gran sussurro, un favellar sonoro.
Dicean del verno, si facean gl’inviti
di primavera. Per le viti sole
era ancor presto, e ne piangean, le viti,
a grandi stille, in cui fioriva il sole. (G. Pascoli)

Filastrocca di primavera
Filastrocca di primavera
più lungo è il giorno,
più dolce la sera.
Domani forse tra l’erbetta
spunterà la prima violetta.
O prima viola fresca e nuova
beato il primo che ti trova,
il tuo profumo gli dirà,
la primavera è giunta, è qua.
Gli altri signori non lo sanno
E ancora in inverno si crederanno:
magari persone di riguardo,
ma il loro calendario va in ritardo. (Gianni Rodari)

Note di primavera
La capinera prova una canzone
ricamata di trilli e poi cinguetta
come una scolaretta.
I grilli bisbigliano graziose parole
alle margherite, vestite di bianco.
Spuntano le viole…
A notte le raganelle
cantano la serenata per le piccole stelle. (Ugo Betti)

Primavera
“Primavera tutta bella,
che cos’hai nella cestella?”
“Io vi porto biancospini,
nidi nuovi d’uccellini,
erbe e fiori lungo i fossi,
alberelli bianchi e rossi,
cori di ranocchi e rane,
dolci suoni di campane. (Romana Rompato)

Risveglio
La primavera
si desta, si veste,
corre leggera
per prati e foreste.
Guarda un giardino,
ci nasce un fioretto,
guarda un boschetto,
c’è già un uccellino.
Guarda la neve,
già scorre il ruscello;
viene l’agnello,
si china e ne beve.
Guarda il campetto,
già il grano germoglia.
Tocca un rametto,
ci spunta una foglia.
Canta l’uccello
nel folto del rovo:
“Il mondo è bello
vestito di nuovo!”. (Renzo Pezzani)

Primavera in città
Primavera è venuta in città
e nessuno ancora lo sa.
Lo sa solo quel bambino
che laggiù in periferia
ha trovato un fiorellino
nel bel mezzo della via.
Ma anche gli altri la vedranno
e nel cuor la sentiranno
e perfin la grossa gru
resterà col naso in su
per veder la primavera
che nel ciel passa leggera.

La prima viola
E’ nata la prima violetta
tra la fresca erbetta
del prato
e ha detto, facendo l’inchino:
“Cantate!
Il bel tempo è vicino!”. (B. Marini)

La prima margherita
Si risvegliò la prima margherita
su l’erbe nuove, sopra il verde stelo.
Ancora tutta chiara e infreddolita
levò la testa per guardare il cielo:
vide venir la primavera e allora
gridò: “Fiorite, o sorelline, è l’ora!”. (Hedda)

Primavera
Viene la primavera
da una terra lontana.
Mette nell’aria un trillo.
Per la valle e la piana
tornata è primavera. (Renzo Pezzani)

Pioggia primaverile
La pioggia imminente
la sente
la rondine bassa
che passa.
Gocciò la campana:
la rana
di fuor dal paese
l’intese.
Nel cielo già lieve
vien greve
la nube e sul concio
fa il broncio.
Poi tac; picchietta
con fretta
sul fieno, sul grano
del piano.
Or ecco, d’un fiato
il prato
di gocciole intride,
sorride. (L. Carpanini)

Piccola nuvola di primavera
Dopo l’acquata le nuvole, pronte,
pigliano il volo, scavalcano il monte.
Or con la gonna di velo sottile,
la più pigra s’impiglia al campanile.
“Lasciami con codesta banderuola;
mi strappi tutta! Son rimasta sola!”.
Ma il campanaro senza discrezione
le risponde col campanone!
Che sobbalzo, che sgomento!
Per fortuna c’era il vento
che con tutta galanteria
la piglia e se la porta via.
La porta a spasso lieve lieve
sul torrente, sulla pieve;
tutto il mondo le fa vedere,
tetti rossi, maggesi nere…
Quanti bimbi lungo il rio!
E che brillio di vetri e foglie.
Quante vecchie sulle soglie!
Che festa, che chiacchierio!
Bimbi e rondini a strillare
e bucati a salutare. (Ugo Betti)

Goal
Giocano a calcio i grilli
e non lasciano tranquilli
i fiori circostanti.
Han scelto come palla una mimosa gialla.
Il grillo centravanti
la passa ad un terzino
che, con uno zampino,
le fa fare un bel volo
ad un palmo dal suolo.
Vicino a un paracarro
ci sta compar ramarro
che segue la tavolata
a bocca spalancata.
Compiuto il suo tragitto,
la palla poco esperta
finisce a capofitto
dentro la bocca aperta
del ramarro che dice:
-“Goal”- e tutto felice
per l’improvvisa pappa
ingoia il fiore e scappa. (L. Folgore)

Primavera
Se vien primavera,
con danza leggera
tesori disserra,
dal sen della terra
ed ecco la viola,
profuma l’aiuola
l’anemone bianco,
si culla al suo fianco
a crescer s’affretta,
la tenera erbetta
e lieve si china,
la margheritina.

Canti di primavera
Se vuoi sentir cantare la primavera,
fanciullo, va’ nel prato, chiudi gli occhi.
Verranno i grilli al calar della sera:
terran concerto insieme coi ranocchi.
Tra i fili d’erba terran concerto
in mezzo al prato, sotto il cielo aperto.
Se primavera vuoi sentir cantare,
ad occhi chiusi resta ad ascoltare. (M. Castoldi)

Primavera
Primavera è ritornata,
col vestito a più colori
ha la testa inghirlandata,
e un gran cesto di bei fiori
nidi e trilli lieta porta,
e un festoso cinguettare
la natura ch’era morta,
si ridesta al suo passare
con la voce più sincera,
ogni cuore ti saluta
chiara e dolce primavera, benvenuta!

Gioia
Mi svegliano al mattino
canti d’uccelli e mormorii di fronde.
Spalanco i vetri al sole: ed ecco il vento
entra col sole e intorno mi diffonde
il profumo dell’orto e del giardino.
O buon sole, o buon vento,
alberi, uccelli e fiori, vi saluto!
Ringrazio Dio del bene che mi date,
ringrazio Dio che il bel tempo è venuto
e grido con gli uccelli e son contento! (Milly Dandolo)

Primavera
Quando tornan le rondini alle gronde
e di voli e di gridi empion la sera,
arriva la festosa primavera. (E. Pesce Gorini)

Primavera
La primavera mi piace davvero
perché mi vesto più leggero
gioco fuori, mangio gelati
faccio le corse in mezzo ai prati.
Vado a passeggio con mamma e papà
questa è la vera felicità! (E.Severini)

Il vestitino bianco
Ben tornata, primavera,
che vesti di bianco i bambini
e fai cantare le capinere
nei giardini!
Anche la mamma povera, pel suo bambino,
vuol cucire un vestitino.
E cuce cuce, tutta la sera. U. Betti

Primavera
L’albero che sta innanzi alla marina
a primavera di fiori s’indora;
ci vien la lodoletta ogni mattina,
e si mette a cantar la bella aurora. (Canto popolare)

La filastrocca della primavera
Ecco ecco ch’è arrivata
primavera scapigliata,
primavera bella bella,
primavera pazzerella,
con il sole,
con le viole,
con i gridi,
con gli stridi
dentro i nidi.
Son fioriti i biancospini,
nasceranno i rondinini
dentro i nidi verdi e gialli;
danzeranno i loro balli
le farfalle
bianche e gialle. (L. Galli)

La buona novella
Il vento l’ha contata a un fil d’erbetta,
e l’erba la contò alla farfalletta.
La farfalla la disse a un passerino
e il passero la disse a un bambino:
“Non lo sai dunque? Ciccicì, cicì!
La buona e bella primavera è qui!” (Rosa Fumagalli)

Primavera
Viene la primavera
da una terra lontana.
Mette nell’aria un trillo.
Per la valle e la piana
tornata è primavera. (R. Pezzani)

Il risveglio dei fiori
Un bel mattino, ai primi dell’aprile,
un leprottino trepido e gentile
perlustrò la campagna, zolla a zolla
per ridestar dal sonno ogni corolla.
La pratolina, tutta bianca e rosa,
sollevò la faccina sonnacchiosa
e borbottò tra il sonno: “Chi mi desta?
Chi mi ha dato un colpetto sulla testa?”
Ma poi, vedendo splendere il bel sole,
si mise a dar la sveglia anche alle viole.
I giacinti, ricciuti e sbarazzini,
tornarono a fiorire nei giardini.
Gli anemoni leggiadri e gli asfodeli
fecero un bell’inchino sugli steli,
e in disparte, il vanesio tulipano,
si lustrò la corolla piano piano.
E tutti insieme, fiori e fiori e fiori
sciorinarono al sole i bei colori
era a vedersi una leggiadra schiera
simbolo eterno della primavera. (M. Dandolo)

La primavera si desta
La primavera
si desta, si veste
corre leggera
per prati e foreste.
Guarda un giardino
ci nasce un fioretto.
Guarda un boschetto
c’è già un uccellino.
Guarda la neve
già scorre un ruscello,
viene l’agnello
si china e ne beve.
Guarda il campetto
già il grano germoglia.
Tocca un rametto
ci spunta una foglia.
Canta l’uccello
nel folto del rovo:
“Il mondo è bello
vestito di nuovo!”

Primavera
Un ramo di pesco
vestito di rosa
un cantico fresco
nell’aria odorosa
un nido, un grido
il sole, tre viole
un soffio di vento
un rosso di sera
e il cuore è contento
perchè è primavera. (L. Caramellino)

Primavera
Se vien primavera
con danza leggera
tesori disserra
dal sen della terra.
Ed ecco la viola
profuma l’aiuola,
l’anemone bianco
si culla al suo fianco;
a crescer s’affretta
la tenera erbetta
e lieve si china
la margheritina.
Fra peschi rosati
che ornano i prati
trascorre giulivo
il garrulo rivo.
Nel cielo d’opale
è un fremito d’ale.
Ovunque si svela
la primavera
che vita ne adduce
su raggi di luce.

Primavera

Ed ecco che un susino
bianco sbocciò sul verzicar del grano.
Come un sol fiore gli sbocciò vicino
un pesco, e un altro. I peschi del filare
parvero cirri d’umido mattino.
Usciano le api. Ed or s’udiva un coro
basso, un brusio degli alberi fioriti,
un gran sussurro, un favellar sonoro.
Dicean del verno, si facean gl’inviti
di primavera. Per le viti sole
era ancor presto, e ne piangean, le viti,
a grandi stille, di cui fioriva il sole. (G. Pascoli)

La prima

Venne col vento, si posò, la prima,
sul comignolo antico e salutò.
Era già l’ombra della sera; in cima
ai greppi s’accendevano i falò.
Festeggiavano ai monti il santo buono
che ha un nome di bel tempo e di ventura,
e la campana gli sgranò col suono
tre corone di lodi, alla pianura.
Niuno seppe che dolcezza s’era
raccolta sulla casa quella sera,
sulla casetta placida dell’ava
dove la prima rondine posava. (Teresah)

San Benedetto

San Benedetto!
San Benedetto!
Fiori nei prati,
rondini al tetto!
Ecco s’avanza
il fraticello
agile e lieve
come un uccello.
Tiene celati
tutti i suoi doni:
rondini brune,
nidi, farfalle,
margheritine
candide e gialle.
Passa, lasciando
lungo la via
un’olazzante
tiepida scia:
note festose
di lieti canti,
tutti i sorrisi,
tutti gli incanti.
Ridono i bimbi.
Saltan giocondi,
li bacia il sole
coi raggi biondi.
San Benedetto!
San Benedetto!
Fiori nei prati,
rondini al tetto! (L. M. Martorana)

Giorno d’arrivo

Giorno d’arrivo il tuo, San Benedetto,
ecco una prima rondine che svola.
E trova i pioppi nella valle sola,
la grande pieve, il nido piccoletto. (G. Pascoli)

La primavera

Quando il cielo ritorna sereno
come l’occhio di una bambina,
la primavera si sveglia. E cammina,
per le mormoranti foreste,
sfiorando appena
con la sua veste
color del sole
i bei tappeti di borraccina.
Ogni filo d’erba reca un diadema,
ogni stilla trema.
Qualche gemma sboccia
un po’ timorosa,
e porge la boccuccia color di rosa
per bere una goccia
di rugiada.
Nei casolari solitari,
i vecchi si fanno sulla soglia
e guardano la terra
che germoglia.
A notte le raganelle
cantano la serenata per le piccole stelle.
I balconi si schiudono
perchè la notte è mite,
e qualcuno s’oblia
ad ascoltar quel che voi dite
alle piccole stelle,
o raganelle
malate di malinconia. (U. Betti)

Gemme
Ed ecco sul tronco
si rompono le gemme:
un verde più nuovo dell’erba
che il cuore riposa:
il tronco pareva già morto,
piegato sul declivo.
E tutto mi sa di miracolo:
e sono quell’acqua di nube
che oggi rispecchia nei fossi
più azzurro il suo pezzo di cielo,
quel verde che spacca la scorza
che pure stanotte non c’era. (S. Quasimodo)

Albero in fiore
E dove li tenevi,
alberino lucente,
i fiori che ora levi
e non pesano niente?
Eri, a gennaio, brullo:
la neve ti vestì.
Stamane, al primo frullo,
il corpo ti fiorì.
Ora, il cielo sereno
guardi, tutto un chiarore…
Di gioia vieni meno?
Ringrazi Iddio Signore?
Passa la brezza e coglie
petali e poi li sperde
per zolle ancora spoglie,
sul primo fiato verde.
Un attimo… e non sei.
Ma la tua luce dura
in fondo agli occhi miei,
candida fioritura. (M. Castoldi)

Il ciliegio
Ho un ciliegio nell’orto
(proprio sotto il murello)
vecchio rugoso e storto
che rinnova il mantello
a ogni primavera;
e tra le nuove foglie
quando viene la sera,
i passeri raccoglie.
Nel sussurrar del vento
tra il cinguettar vivace,
parla sereno e lento:
“Son vecchio ma mi piace
allargare i miei rami
nell’aria cilestrina
udir questi richiami
di sera e di mattina…” (G.  Fanciulli)

Nell’orto
Questa notte, un miracolo pare,
è passato qualcuno nell’orto:
stavan mute le stelle a guardare.
Non sembrava il bel mandorlo morto?
Non sembrava il bel mandorlo secco?
Ma qualcuno con mano leggera
ha posato farfalle a ogni stecco
per poi ratto fuggire. Chi era?
E stamane, ne chiaro mattino,
un bambino riguarda stupito,
e gli pare un sorriso divino
il bel mandorlo nuovo e fiorito. (T. Stagni)

Tempi belli
…Ora comincia
il tempo bello. Udite un campanello
che in mezzo al cielo dondola? E’ la cincia.
Comincia il tempo bello.
Udite lo squillar d’una fanfara
che corre il cielo rapida? E’ il fringuello.
Fringuello e cincia ognuno già prepara
per il suo nido il mustio e il ragnatelo;
e d’ora in ora primavera a gara
cantano uno sul pero, uno sul melo. (G. Pascoli)

Maltempo
Sono stanco.
Stanco di questa pioggia
che viene giù minuta
insistente
noiosa.
Stanco del fango
di queste sporche gore.
Stanco del vento
che fischia tra le imposte
ed urla minaccioso
tra gli alberi del bosco.
Stanco del rombo
del torrente
che croscia
lontano nella valle
con lavorio di massi.
Stanco del freddo
che mi raggela il sangue
e mi perfora l’ossa.
Stanco di questa nebbia
che occlude gli orizzonti
ed imprigiona il sole.
Stanco forse perchè
ho tanta
voglia di sole!  (M. Macchione)

Nuovo tempo
Stamane per le strade di campagna
il cielo è dentro le pozzanghere.
La pioggia di tre giorni ristagna,
un biondo vento soffia in su le nuvole.
Mussole e lini bianchi
palpitano sulle siepi.
I rametti già così stanchi,
in vetta d’improvviso gemmano.
Le passere lascian la pigrizia,
sbucano dal loro ciuffo di piume,
nuove alla nuova delizia
saltellando il capo scuotendo.
Dalla terra odore di essenze.
Tra il verde, rado stupore di case. (M. Dazzi)

Primavera è nell’aria
Stanotte s’è messa in cammino
la primavera nell’aria.
D’intorno, sul capo, la svaria
un velo di stelle turchino.
Il suo profumo è un sospiro
diffuso sui freschi giardini.
La terra non ha più confini,
il mare non ha più respiro.
L’alba sorride cogli occhi
dalle lunghe ciglia di cielo.
Vibra negli orti ogni stelo
come se una mano lo tocchi.
Le strade hanno tenui tremori
di verde lungo i fossati.
Gli alberi si sono svegliati
con bianche ghirlande di fiori. (G. Villaroel)

Primavera
C’è tra i sassi, ieri non c’era,
l’erba, che trema come un verde fuoco:
l’ha perduta nel gioco
la giovane primavera.
La pecorella, vestita di lana,
ora strappa le tenere foglie,
e, per ogni ciuffo che coglie,
batte un tocco di campana.
A quel suono fiorisce il pesco;
si schiudono le finestrelle
e le rondini dal cuore fresco
giungono dalle stelle.
Ogni cosa ha la sua festa
(poichè brilla come bandiera
il bucato alla ringhiera)
e le ragazze un fiore in testa.
L’acqua chiocca nella peschiera
rotonda come una secchia
e l’allodola dentro vi specchia
il suo canto di primavera. (R. Pezzani)

Primavera
Quando il cielo ritorna sereno
come l’occhio d’una bambina
la primavera si sveglia. E cammina
per le mormoranti foreste,
sfiorando appena
con la sua veste
color del sole
i bei tappeti di borraccina.
Ogni filo d’erba porta un diadema,
ogni stilla trema.
Qualche gemma sboccia
un po’ timorosa,
e porge la boccuccia color di rosa
per bere una goccia
di rugiada…
Nei casolari solitari
i vecchi si fanno sulla soglia
e guardano la terra
che germoglia.
A notte le raganelle
cantano la serenata per e piccole stelle.
I balconi si schiudono
perchè la notte è mite,
qualcuno s’oblia
al ascoltare quel che voi dite
alle piccole stelle,
o raganelle
malate di malinconia. (U. Betti)

Pioggia primaverile
La pioggia imminente
la sente
la rondine bassa
che passa.
Gocciò la campana:
la rana
di fuor del paese
l’intese.
Nel cielo già lieve
vien grave
la nube e sul concio
fa il broncio.
Poi tac; picchietta
con fretta
sul fieno, sul grano
del piano.
Or ecco, d’un fiato
il prato
di gocciole intride,
sorride. (L. Carpanini)

Anche il mare
Anche il mare ha la sua primavera:
rondini all’alba, lucciole la sera.
Ha i suoi meravigliosi prati
di rosa e di viola,
che qualcuno invisibile, là, falcia,
e ammucchia il fieno
in cumulo di fresche nuvole. (C. Govoni)

E’ primavera
Il sole batte, con le dita d’oro,
alle finestre. Uno squittio sottile
è sui tetti. Nell’orto la fontana
ricomincia a cantare. E’ primavera.
Le chiese, in alto, con le croci accese,
i monti immensi con le cime rosa,
le strade bianche con gli sfondi blu.
E’ primavera. E’ primavera. Il cielo
spiega gli arazzi delle nubi al vento.
L’albero gemma. Verzica la terra.
Nel cortile la pergola è fiorita.
Ai balconi: le donne in vesti chiare.
E’ primavera. E’ primavera. E il mare
ha un riso azzurro e un brivido di seta. (G. Villaroel)

Dove vai San Benedetto
Stamattina a casa mia
si fermò San Benedetto;
mi svegliò con la poesia
delle rondini sul tetto,
del colore d’un suo fiore,
delle gocce di rugiada
sull’erbetta della strada.
Dove vai, San Benedetto?
Sopra i rami nudi e brulli,
dolci frutti
d’ali al vento.
Lungo i cigli fior vermigli.
Tra le pietre del muretto
son sbocciati a cento, a mille,
campanelle,
fiori bianchi, fiori a stelle…
Dove vai, San Benedetto?
Se n’è andato il buon vecchietto
con il sacco ed il bastone.
Mi ha lasciato una canzone:
la dolcissima poesia,
fresca, fresca, come un fiore,
delle rondini sul tetto,
delle gocce di rugiada
sull’erbetta della strada. (C. Ronchi)

Attesa
Son disseccate ancor tutte le aiuole;
nervosa ancor la terra, umida e ghiaccia,
ma il vento le nuvole discaccia
e riappare sfolgorante il sole,
che col fecondo palpito l’abbraccia;
già nei cespugli mammole, viole
spuntan, timide di sentirsi sole;
qualche gemma sui rami irti s’affaccia.
(D. Garoglio)

Disgelo
Case nel sole: una striscia di giallo,
di scialbo giallo, su prati nevati.
(Alberi, dietro: alti pioppi sfumati
dentro un sottile pulviscolo d’oro).
Lucide chiazze di cupo viola
sui tetti bianchi; la neve si sfa.
Finestre aperte; bucato a festoni;
donne affaccendate… E’ l’inverno che va…
(D. Valeri)

Stagione incerta
E’ presto ancora: v’è del gelo ai fossi,
della brina sugli embrici del tetto,
quasi inverno… ma già si allunga il giorno
e là dietro la siepe
s’alza un palpito bianco di farfalle;
poi verranno le rondini dal mare;
e al tempo benedetto delle messi
(rosso il trifoglio, bionde, alte le spighe)
l’allodoletta trillerà sul grano.
Oh, come corre rapido il pensiero!
Già coglie il fiore non ancora nato,
affretta arrivi e voli.
Ma per ora non v’è che questo incerto,
liquido cielo, questa terra spoglia,
quest’odor d’erba nuova e di bucati.
(A. Brondi)

Bel mare
Un bel mare, così, tutto nuovo,
verdino come il grano dei campi,
con bianchi sbuffi di spume e lampi
di diamanti sulla sabbia d’oro,
un bel mare così, sotto un cielo
grigio lanoso, gonfio di sole
che sta per rompere come un fiore
di giaggiolo dal suo nodo di velo,
un mare così basta a far primavera;
e subito par che la gioia ritorni…
Il rombo delle onde è come un cuore
che batta ovunque, che batta forte.
Morto ogni ricordo di morte;
perchè c’è il mare, perchè c’è il sole.
(D. Valeri)

Primavera vicina
Più morbida, più lieve
l’aiuola, ecco, s’inturgida;
candide come neve
ondeggian le campanule,
un vivo odor di fuoco
va dispiegando il croco;
il suol di sangue stilla,
lo smeraldo sfavilla.
Le primule si gonfiano
con borioso piglio;
mentre l’astuta mammola
s’asconde ad ogni ciglio,
un alito possente
scuote la vita intera.
E’ viva, è qui presente
ormai la primavera.
(J. W. Goethe)

Primavera imminente
Nel bianco cespuglio chi canta?
Il rossignolo.
Ingannato dal suo desiderio di primavera
ha scambiato gli ultimi fiocchi di neve
per i fiori di pruno.
(Sosei – celebre bonzo del secolo IX)

Tutte le opere contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.

Poesie e filastrocche il papà

Poesie e filastrocche il papà una raccolta di poesie e filastrocche, di autori vari, per bambini della scuola d’infanzia e primaria.

Il babbo
Povero babbo! Stanco, scalmanato,
tutte le sere torna dal lavoro,
ma per cantar la nanna al suo tesoro
ha sempre un po’ di forza e un po’ di fiato.
L. Schwarz

Festa del papà
Tanti auguri babbo caro
di salute e d’ogni bene
or che sono un o scolaro
li so far come conviene.
Se sapessi, babbo mio,
in cucina che da fare
un gran moto, un tramestio
un andare e ritornare.
Già ti annuncio in confidenza
(tanto tu non lo dirai)
che un budin nella credenza
c’è, ma grande, grande assai.
Che tripudio, che contento!
Ah, se fosse ognor così
che giulivo movimento
caro babbo, che bel dì.

Il padre
Mio padre non è morto,
mio padre cammina con me,
sento ancora il suo passo.
Sento che s’accosta ai libri,
toglie la bibbia dallo scaffale:
da tanto la sua immagine è scomparsa,
ma mio padre è sempre con me.
Sotto la lampada egli siede la sera,
e tiene il libro in mano:
e a volte chiede piano
se ho trovato la pace.
A volte lo sento parlare,
ma non vedo il suo viso,
mi sembra d’essere ancora bambino
e ascolto le parole d’Isaia.
E se siedo alla notte sulla soglia,
e la luna percorre il dorato sentiero,
sento che siede accanto a me
come un tempo sedava. (E. Wiechert)

A mio padre
Padre, se anche tu non fossi il mio
padre, se anche fossi un uomo estraneo
per te stesso egualmente t’amerei.
Chè mi ricordo d’un mattin d’inverno
che la prima viola sull’opposto
muro della tua camera scopristi
e ce ne desti la novella allegro.
Poi la scala di legno tolta in spalla
di casa uscisti e l’appoggiavi al muro.
Noi piccoli stavamo alla finestra.
E di quell’altra volta mi ricordo
che la sorellina, bambinetta ancora,
per la casa inseguivi minacciando
(la caparbia avea fatto non so che).
Ma raggiuntala che strillava forte
dalla paura, ti mancava il cuore:
chè avevi visto te inseguir la tua
piccola figlia, e tutta spaventata
tu vacillando l’attiravi al petto,
e con carezze dentro le tue braccia
l’avviluppavi come per scamparla
da quel cattivo ch’era il tu di prima.
Padre se anche tu non fossi il mio
padre, se anche tu fossi un uomo estraneo
fra tutti quanti gli uomini già tanto
pel tuo cuore fanciullo t’amerei. (C. Sbarbaro)

Padre
Padre, un giorno ti condurrò per queste
vie, con queste mani che reggevi
un giorno nelle tue. T’indicherò
come facevi, i seminati, i colli,
le case sparse, quasi con le tue
stesse parole; e tutto sarà nuovo
per te, come per me in quei lontani
giorni, e sorriderai col mio sorriso.
Allora io non avrò più l’innocenza,
ma la ritroverò negli occhi tuoi,
e sarà, padre, il tuo ultimo dono. (T. Colsalvatico)

A mio padre
Caro papà che te ne stai rinchiuso
in quell’ufficio sempre a lavorare
esci a vedere il sole,
vieni anche tu un po’ fuori a respirare.
Fai quattro passi, arriva alla stazione,
arriva al bar a prendere un gelato,
mettiti un po’ a giocare
in mezzo a noi, sopra un grande prato.
Se stai fra noi, papà, ritornerai
felice, e tante noie scorderai.
(A. Valsecchi)

Poesie e filastrocche il papà Tutte le opere contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.

Dettati ortografici MARZO

Dettati ortografici MARZO – Una collezione di dettati ortografici di vari autori sul mese di marzo, per la scuola primaria, adatti alle classi dalla prima alla quinta.

Sui rami si gonfiano le gemme; tornano gli uccelli migratori. Il sole sorge più presto e tramonta più tardi; a qualche giornata ancora fredda si alternano giornate tiepide e assolate. Il contadino teme la grandine che può mettere in pericolo i raccolti e le fioriture delle piante da frutto che in questo mese si riempiono di corolle delicate.
Marzo era il primo mese del calendario romano ed era consacrato a Marte, dio della guerra, da cui prese il nome.

Marzo comincia. Il suo nome viene da Marte, l’antico e sempre minaccioso dio della guerra. Come uscendo dal letargo invernale, il pagano guerriero, proprio in questo mese, si accingeva a percorrere la terra. Per gli antichi, la guerra era un’avventura primaverile. Si attendeva marzo, il mese dedicato al dio bellicoso, per dar fiato ai corni e muovere gli eserciti che invadevano i campi come le acque del disgelo. (P. Bargellini)

Marzo. Il cielo di marzo è mutevole; qualche giorno è di un gentile azzurro con nuvolette bianche e morbide, qualche giorno è tempestoso e freddo come se l’inverno volesse tornare indietro.

Il vento. Spesso soffia forte, sbatacchia finestre e porte, scuote violentemente i rami degli alberi e sfoglia i fiori delicati del mandorlo e del pesco. Ma qualche volta è gentile come una carezza.

Primi fiori.  Nei prati sbocciano le pratoline bianche orlate di rosso, tra l’erba si nasconde la violetta, sui rami dei mandorli e dei peschi c’è tutta una fioritura di stelle bianche e rosa.

Primavera. E’ primavera. Il cielo è dolcemente azzurro, il vento tiepido, gli alberi sono fioriti, gli uccellini cinguettano preparando il nido per i piccini che verranno.

E’ ora. Una violettta si affacciò e chiese: “E’ ora?”. Una margheritina aprì il suo collettino bianco, orlato di rosso, e domandò: “E’ ora?”. Una farfalla picchiò alla porta della sua prigione e disse: “E’ ora?”. “Avanti, avanti!” esclamò allegramente un bel raggio di sole.

Marzo. E’ un mese pezzerello, ora ride e ora piange. Ecco il sole che splende nel cielo sgombro di nubi; subito dopo il tempo s’imbroncia e giù acqua a catinelle!

Primi tepori. La campagna è ancora spoglia, pure a guardare bene i rami, si possono vedere le gemme avvolte nella loro peluria, ma pronte a dischiudersi ai raggi tiepido del sole.

Marzo. Fra le zolle di terra ecco i fili d’erba affacciarsi timidamente e nell’aria c’è un leggero odore di fiori non ancora sbocciati, ma che presto si schiuderanno al dolce vento di primavera.

Marzo. Non bisogna voler male a questo mese pazzerello: basta un giorno di sole ed ecco i mandorli fioriti miracolosamente ecco le violette che odorano fra l’erba, ecco le pratoline che riempiranno i prati di stelle.

Marzo. Marzo è pazzo. Ora piove, ora c’è il sole. Via le nuvole ed ecco l’azzurro; via l’azzurro ed ecco le nuvole. Marzo è un mese pazzerello; ora ride e ora piange.

Marzo è il mese dei venti e delle piogge. I giorni continuano ad allungarsi; la temperatura aumenta; si hanno, però, frequenti burrasche. I campi e i prati si fanno verdi e cominciano a coprirsi di fiori. Fioriscono gli anemoni, le primaverine, le pervinche e soprattutto i pioppi e, in genere, tutte le piante amiche del vento. Fanno pompa dei loro fiori i mandorli, i ciliegi, i susini. Nelle siepi compaiono i candidi fiori dei prugnoli e dei biancospini. (L. Vaccari)

Il tiepido vento si marzo giocava a cacciare, con furia scherzosa, le nuvole chiare. Le arruffava, le scapigliava, le lacerava a frange, a cirri, le fugava dai colli, le inseguiva, le disperdeva e trascorreva lontano. Ma subito dopo ritornava col suo lungo ululo festoso; s’aggirava per il cielo mulinando nel sole gli ultimi fiocchi di nubi. (V. Brocchi)

Il vento di marzo si aggirava per il cielo mulinando nel sole gli ultimi fiocchi di nubi, li sbandava, scuoteva gli alberi sui colli, rapiva petali di fiori novelli, godeva di farli sperdere nella limpidezza dell’aria; li lasciava piovere sulle piazze e sulle vie, metteva un tintinnio a tutti i vetri. (V. Brocchi)

A marzo guardati attorno. Osserva il ramo di un albero: vedrai tanti piccoli bottoni verdi, ancora accartocciati, stretti stretti. Sono le gemme che aspettano un’ora di tepore per aprirsi. Da quelle gemme verranno le foglioline verdi e tenere, verranno i fiori gentili del mandorlo e del pesco. Guarda sul prato. Vedrai l’erba che, improvvisamente, è spuntata ed ha ricoperto la terra con un morbido tappeto verde. Le siepi, già brulle e spoglie, si coprono, da un giorno con l’altro, di una fioritura candida e fitta. E’ il biancospino che ha fretta, che vuol fiorire, che dice: “Primavera è qui che viene”.

Marzo era un fantasticone, bizzarro, che pareva fatto apposta per far impazzire la gente. Bello e gagliardo, con gli occhi azzurri, che qualche volta si oscuravano per un repentino corruccio, capelli a ciocchette del color della viola, era sempre con le gambe in aria a correre, a far dispetti, a gridare per il cielo come un indemoniato, scagliando acqua e qualche volta anche grandine, sui fiori e sugli alberi spaventati, (F. Perri)

Terzo mese dell’anno, primo della primavera, fu il primo mese dell’anno fino a Numa Pompilio che premise il gennaio e il febbraio. Era dedicato a Marte che, forse, in origine era dio della vegetazione primaverile, ma ben presto, fu considerato dio della guerra. Il sole entra nell’Ariete. Marzo è, qualche volta, ventoso e freddo, ma cominciano le belle giornate di primavera, i fiori sbocciano e le erbette smaltano i prati.

Era il marzo temperato e sereno, coi primi fiori degli alberi da frutto e delle siepi di biancospino. Le prode stellate di margheritine e di primule, sapevano di violette nascoste fra i cespi dell’erba; il grano era tenero sul campo. Bello era il mondo nella bella giornata del mese bellissimo; l’allodola, perduta in canto ed in luce nell’alto del cielo, s’incantava lassù, nel mentre gli uccelletti di minor volo cinguettavano d’ogni parte il loro canto contento più umile. (R. Bacchelli)

Verso la metà di marzo, il cielo era turchino; un vento tiepido attraversava la foresta e arrivava alle case. La neve si scioglieva; larghi spacchi vi si formavano, subito riempiti di acqua bruna, e, per la china, cento improvvisi ruscelli scorrevano. Dalle potenti spalle degli abeti cadevano larghi drappi bianchi. Ovunque era fruscio, mormorio d’acqua. (G. Fanciulli)

Marzo è matto. Ormai si è fatto questo nome, chi glielo leva più? Eppure, vorrei vedere un altro al posto suo, così a cavalcioni tra inverno ed estate, fra caldo e freddo e, da una parte, lo tira il vento di febbraio, dall’altra, il cielo d’aprile gli fa l’occhiolino. C’è ancora il gelo nei crepacci della montagna e già nei prati, le violette hanno fretta di venir su. E quel povero marzo corre di qui, di là, aiuta le gemme a schiudersi, spazza il cielo dalle nuvole, si dà da fare da tutte le parti… Si capisce che qualche volta, gli vengono le bizze e fa il matto. Troppe esigenze per questo povero mese! E l’umore cambia.

Il malumore di marzo dura poco, ed eccolo ridere fra le lacrime, eccolo fare una smorfia buffa e saltabeccare fra i prati di nuovo tutti in fiore. Poi, appena vede una rondine, si quieta. E sta a guardarla che guizza per l’aria, veloce come una freccia e dice: “Mi par di riconoscerla. Dev’essere quella dell’altro anno”. E la rondine grida che sì sì, è lei e dice trovato a marzo e a tutte le cose.

Marzo è matto. Un giorno ride pazzamente e si sente allegro come un fringuello; allora è tutta una meraviglia: peschi fioriti, viole sbocciate, cielo sereno, venticelli scherzosi e tiepidi… Ma poi marzo si stanca e arriva il malumore. E allora son dolori: venti strapazzoni che spogliano quei poveri rami di pesco, pioggia a dirotto e tutti si rintanano in casa dicendo: “E’ tornato l’inverno!”.

Il cielo di marzo
Il cielo di marzo è mutevole. Qualche volta manda la pioggia e persino un po’ di nevischio, ma spesso è azzurrino, quasi trasparente, con nuvole leggere, ben diverse da quelle compatte e bigie dell’inverno. Il sole è ormai tiepido e al suo dolce calore, si schiudono i primi fiori.

Il mese del risveglio
Marzo è il mese della primavera, quando tutto si risveglia, piante e animali e perchè no? L’uomo. Infatti, anche l’uomo, con l’arrivo della bella stagione, sente rinnovate le sue energie, ha desiderio di camminare, di sgranchirsi le gambe tenute troppo tempo a impigrirsi nel chiuso, di buttar via gli indumenti pesanti, di guardarsi attorno e godere di quanto la natura gli offre in questo ridestarsi del creato.

Marzo, il cui nome deriva da Marte, il dio a cui i Romani lo avevano dedicato, fu il primo mese dell’anno romano fino all’anno 601 dalla fondazione di Roma. Nel nostro calendario è il terzo, ma nel calendario astronomico è sempre il primo perchè in questo mese il sole entra nell’Ariete, che è il primo segno dello Zodiaco. Nel plenilunio di marzo si celebra la Pasqua. In questo mese, e precisamente il 21, ha luogo l’equinozio di primavera in cui la notte e il giorno sono di uguale lunghezza.

E’ arrivato marzo e con lui la primavera. E’ un mese un po’ pazzerello, ci porta sole e solicello, vento e venticello, qualche temporale o una pioggerellina che bagna la terra e la sveglia dal suo lungo sonno invernale. Ecco infatti le gemme sui rami degli alberi, i primi mandorli fioriti, le siepi di biancospino piene di stelline bianche e profumate; tra l’erbetta tenera spuntano le margherite col cuore d’oro e le timide violette. Il grano spunta e sembra un morbido tappeto verde.

In marzo, in alcuni paesi, si possono osservare le migrazioni di stormi di uccelli che vengono dai luoghi caldi per recarsi al  nord dove usano fare il nido.  L’uccello migratore delle nostre regioni è principalmente la rondine. Tra l’erba possiamo osservare il brulichio degli insetti che escono dalle loro tane, o che hanno addirittura cambiato aspetto e cominciano a volare, a succhiare, a riprodursi secondo il loro ciclo vitale. Qualche farfalla già vola tra i primi fiori.

Quali sono questi primi fiori? Innanzi tutto le pratoline: bianche, orlate di rosso, sono le più audaci e le più allegre; al primo raggio di sole tiepido, le vediamo sbocciare miracolosamente tra l’erba e si chiudono non appena il sole mette il broncio. Altri fiori dell’acerba primavera: le primule, gli anemoni e la trionfatrice della stagione: la violetta. E’ il simbolo della modestia; è di un bel colore, profumatissima, di una forma graziosa, eppure si cela tra l’erba, non ostenta nè la sua bellezza, nè il suo colore, nè il suo profumo. Soltanto chi la sa cercare la trova e può godere delle sue belle virtù.

I colori di marzo sono il bianco del mandorlo, il rosa del pesco, il viola della violetta, il violaceo dell’anemone, il bianco orlato di rosso della margheritina, il rosso viola della primula, il giallo della giunchiglia. Cogliamo i fiori a volontà, specie i fiori dei prati che sono di tutti e di nessuno, ma attenzione a non troncare i rami fioriti degli alberi, perchè ogni fiore diventerà un frutto. Vi sono frutti commestibili e frutti che non si mangiano, ma ogni fiore diventa frutto. Il fine di ogni fioritura è quello di preparare il seme per dare origine a una nuova pianta. Infatti, dentro ogni frutto, c’è il seme.

Gli uccellini cominciano a cinguettare; prima degli altri, i passeri, i quali cominciano già a pensare al nido. Il passero fa il nido sotto un tegolo, al riparo. Gli altri uccellini lo fanno, in genere, tra i rami degli alberi. Hai mai visto un nido? E’ intrecciato di rametti come se fosse tessuto. Questo meraviglioso lavoro è fatto dagli uccelli col becco e le zampette. Poi la femmina lo imbottisce di lanuggine che trova nei fiori di pioppo, di salice e nel cardo. Ma gli uccelli non si peritano di strappare anche qualche filo a un lembo di stoffa, di afferrare al volo qualche piumetta e qualche fiocco di ovatta. I piccoli devono stare morbidi e caldi.

Non tutti gli uccelli fanno il nido tra i rami degli alberi: ve ne sono alcuni che si accontentano di un crepaccio, di un buco nel muro, alcuni che lo fabbricano con due foglie cucite insieme abilmente con fili d’erba per mezzo del becco, altri, come i rapaci, non fanno che un rozzo groviglio di rami in una anfrattuosità della roccia.

Marzo è matto, dice il proverbio, perchè il cielo è mutevole: qualche giorno è di un gentile azzurro con nuvolette bianche e morbide, qualche giorno tempestoso e freddo come se l’inverno volesse tornare indietro. Il vento spesso soffia forte, sbatacchia le finestre, scuote violentemente i rami degli alberi e sfoglia i delicati fiori del mandorlo e del pesco. Ma anche il vento è necessario perchè rinnova l’aria e la purifica, trasporta il polline da un albero all’altro e passando da un fiore ad un altro della stessa specie, lo trasforma in frutto. Tra i benefici del vento dobbiamo mettere anche quello di portare le nuvole qua e là e di modificare, quindi, il clima, con le piogge che derivano da questo movimento del vapore acqueo. In alcune regioni il vento viene utilizzato per muovere le pale dei mulini e si ha così un’energia che non costa niente.  Quando però il vento assume la forza di un ciclone può arrecare danni gravissimi: svelle da terra interi alberi, fa crollare muri e soprattutto sconvolge il mare causando naufragi e disgrazie.

Dicono che marzo è pazzo; ma che deve fare il poveretto, se è a servizio di due padroni che lo comandano a piacer loro? Se è l’inverno che ordina, marzo deve mandare giù la pioggia e scatenare il vento che strapazza i rami pieni di gemme; se è la primavera che lo chiama a sè, allora ecco che sparge i fiori sui prati, mette in fuga le nuvole, intiepidisce l’aria, invita i bambini all’aperto.

Sereno a volte e limpido come un immenso specchio azzurro, anche il cielo partecipa alla festa della natura. Ma talvolta, all’improvviso, il cielo si oscura e assume il color cinerino dell’autunno: la nuvolaglia nasconde il sole e una pioggia fitta e insistente cade sulla terra. Un broncio di breve durata. Dopo la pioggia il sole torna a splendere più luminoso e più caldo.

Al torrente è arrivata tanta acqua dai nevai che si sfanno, e la sua voce canta più alta fra i ciottoli, parla più tenera fra i salici… Per tutta la valle scende un vento fresco, non freddo; scioglie gli ultimi nodi dell’inverno, porta il fumo dei camini, il suono delle campane e le prime libere canzoni. (G. Fanciulli)

Il torrente sussultava in fondo alla valle, fra i peschi e i mandorli fioriti. E tutto era puro, giovane, fresco, sotto la luce argentea di quel gran cielo mite, sul cui orizzonte i profili morbidi dei monti, ancora coperti di neve, si stendevano come file di colombi addormentati. (G. Deledda)

Quando l’inverno muore lentamente nella primavera, nelle sere di quei bei giorni limpidi, lieti, senza vento, in cui si tengono spalancate per le prime volte le finestre e si portano sulle terrazze i vasi di fiori, le città offrono uno spettacolo gentile e pieno di allegria e di poesia. A passeggiare per le vie, si sente di tratto in tratto nel viso un’ondata d’aria tiepida, odorosa. Di che? Di quali fiori? Di quali erbe? Chi lo sa! Sono profumi indistinti e sconosciuti, che sanno di freschezza, di giovinezza e di vita (E. De Amicis)

Lungo le rive dei fossi si aprono i primi fiori e sui pendii dei colli, altri, di colori più intensi, azzurri o gialli. Sulle cime dei monti gli ultimi filoni di neve sfumano in nere nubi. Il verde del frumento si accresce, ed altri campi, si fanno gialli di ravizzone. Biancheggiano i susini, i peri, alterni al rosa dei peschi. Le galline hanno un canto diverso, appare la prima farfalla, e gli uccelli cantano tra gli alberi che ancora non danno ombre. Finisce l’inverno, si entra in primavera; certi anni il passaggio viene come velato da un lungo periodo di piogge, ritorna il sole e sui rami si scopre la frutta già segnata senza esserci accorti dei fiori. (G. Comisso)

Ora la primavera avanza. La rondine dà la sveglia ai pigri, e la collina si veste da sposa con quei suoi bianchi filari di ciliegi fioriti, che sembrano da lontano lunghi festoni serpeggianti, tesi lungo i pendii per un corteo di angeli. E accanto al bianco dei ciliegi, ecco la meraviglia rosea dei peschi. E’ un succedersi di bianco e di rosa, di superbe macchie vivissime sul verde, ormai deciso, della campagna. E’ questo il momento più bello della primavera, che avanza regalmente con profumi, colori e tepori, con ronzii e cinguettii. Le gemme spuntano, ingrossano, scoppiano in fronde di un verde tenero e, a poco a poco, l’impeto interno della terra madre si sfoga in una vegetazione lussureggiante, e la campagna, la collina e il monte si vestono si un manto imperiale. (A. Dusso)

Il trepido vento di marzo giocava a cacciare con furie scherzose le nuvole chiare. Le arruffava, le scapigliava, le lacerava a frange, a cirri, le fugava dai colli, le inseguiva, le disperdeva e trascorreva lontano. Ma, subito dopo, ritornava col suo ululo festoso; s’aggirava per il cielo mulinando nel sole gli ultimi fiocchi di nubi, li sbandava, scuoteva gli alberi sui colli, rapiva petali di fiori novelli, godeva di farli sperdere nella limpida aria; li lasciava piovere sulle piazze e sulle vie; metteva un tintinnio a tutti i vetri. (V. Brocchi)

Appena giunto in città, il venticello di marzo cominciò a soffiare in tutte le direzioni, allegro, invadente, felice di scorrazzare. Chiudeva ed apriva le imposte, sbatacchiava usci, il monello, come se fosse stato a casa sua. Faceva tremare i grandi cristalli delle vetrine, e si trastullava tra i vestiti dei passanti e distribuiva loro sulla faccia i biglietti del tram gettati a terra. (Lunarino)

Dettati ortografici MARZO – Tutte le opere contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.

Poesie e filastrocche su FEBBRAIO

Poesie e filastrocche su FEBBRAIO – una collezione di poesie e filastrocche, di autori vari, per bambini della scuola d’infanzia e primaria.

Febbraio
E’ febbraio un monellaccio,
molto allegro e un po’ pagliaccio
per le piazze e per le sale,
accompagna il carnevale
se fra i mesi suoi fratelli,
ve ne sono di più belli
il più allegro e birichino,
sempre è lui, il più piccino.

Febbraio
Oh febbraio piccolino,
non è vero che tu sia
proprio un mese malandrino.
Fra i tuoi giorni di bufera
e di freddo, tu ci porti
un pochin di primavera.
Se nel cielo ride il sole,
spuntan subito, sul greppo,
una primula e due viole.
Poi tu allunghi la giornata
più di un’ora e ci regali
qualche bella mascherata.
Non sei dunque malandrino,
o febbraio piccolino. (T. R. Correggi)

Febbraio
Se ti dicon, febbraietto,
che sei corto e maledetto,
non avertene per male:
è un proverbio che non vale.
Il tuo gelido rovaio,
un ricordo di gennaio,
presto viene e presto va
e paura non ci fa.
Oh, nemmen quella tua neve
ci sgomenta, così lieve
che un respiro di tepore
basta a scioglierne il rigore.
E se ancor ti coglie il gelo
e s’addensan nubi in cielo,
basta un raggio del tuo sole
a dar vita alle viole.
Poco dura la bufera
se alle porte è primavera;
non è vero, febbraietto,
che sei corto e maledetto. (F. Castellino)

Febbraio
Febbraio, bizzoso,
cattivo, cattivo,
perchè tante nubi?
Perchè tanto gelo?
Eppure nel cuore
tu sogni e racchiudi
il tenero azzurro
d’un lembo di cielo
e porti negli occhi
un raggio di sole
ch’è più luminoso
più bello che mai.
Febbraio bizzoso,
dov’è primavera?
Oh, dimmelo piano!
Tu ridi: lo sai. (G. Aimone)

Febbraio
E’ febbraio un monellaccio,
molto allegro e un po’ pagliaccio:
ride, salta, balla e impazza,
per le vie forte schiamazza
per le piazze e per le sale
accompagna il carnevale.
Se fra i mesi suoi fratelli
ve ne sono dei più belli,
il più allegro e birichino
sempre è lui, ch’è il più piccino. (M. Vanni)

Il mandorlo di febbraio
Avevo udito dire all’ortolano:
“Mandorluccio, non fare l’imprudente,
tra breve il garbinel più non si sente
e ripiglia a fischiare il tramontano.”
Avevo anch’io timore di febbraio,
mese corto e malnato, mese amaro,
ed anch’io te l’avrei voluto dire:
“Non fiorir, mandorluccio, non fiorire!”
Ma quando stamattina giù ho guardato
nell’orto in faccia al sole t’ho veduto
tutto rami d’argento tra il saluto
e il volo degli uccelli, lì incantato
t’ho detto tra di me: “Hai fatto bene!”
La bellezza è così, vien quando viene;
la bellezza non bada al tempo, o caro,
mio bianco mandorluccio di febbraio. (C. De Titta)

Febbraio
Ecco qua il più piccino,
gaio, breve, mingherlino,
tutto trilli e sonatine,
canti, balli, mascherine,
tutto frizzi ed allegria
che spumeggia e corre via.
Ecco, appena cominciato
già è passato…
In un soffio se ne va
e di tutto quel frastuono,
nulla, nulla resterà. (Hedda)

Febbraio
Se ridi, o febbraio piccino,
col sole sia pure d’un dì,
è un riso che dura pochino,
pochino pochino così.
Appena quel tanto che basta
a fare cantare le gronde
dell’acqua mutevole e casta
che lascia la neve che fonde.
Ma basta quel primo turchino,
quel po’ d’intravvista speranza
a dare una nuova fragranza
al cuore e al destino. (R. Pezzani)

La prima viola
E’ nata la prima violetta
tra la fresca erbetta
del prato
e ha detto facendo l’inchino:
“Cantate,
il bel tempo è vicino!” (B. Marini)

Vien febbraio
Vien febbraio
mese gaio
che folleggia
che passeggia
con la maschera sul viso,
con la celia, col sorriso
che fa il chiasso per le strade
mentre ancor la neve cade. (Malfatti Petrini)

Febbraio
Caro alla vita è il mese di febbraio,
che ama impazzar, folletto, per le strade
e sparge lieto in tutte le contrade
il cieco ardore del suo cuore gaio. (B. Da Osimo)

Febbraio
Nuvoli, vento, neve, acqua, tempesta!
E’ arrivato febbraio, febbraietto!
“Ah, febbraietto, corto e maledetto”
gli gridan tutti: “Vattene alla lesta!”
Corre via febbraietto e sembra dire:
“Allegri, chè l’inverno è per finire!”
E allegro per il colle e per il piano,
ora pota le viti il buon villano,
mentre le vie, le piazze cittadine,
empie un gaio vociar di mascherine. (U. Ghiron)

Febbraio
Cosa ci porti, corto febbraio?
Sì, dietro l’uscio v’è primavera
con la sua veste dolce e leggera,
col suo sorriso limpido e gaio.
Tu ci riporti le mascherine,
coi lieti giorni di carnevale;
empi di canti le gaie sale
e la tua gioia par senza fine.
C’è chi ti dice: “Febbraio amaro”
perchè, talvolta, di pioggia e neve
non sei tu il mese certo più avaro,
col tuo cappuccio di nubi, greve.
Ma cosa importa? Fresca e leggera
a te dappresso, bionda nel sole.
tutta sorriso, tutta viole,
ecco che appare la primavera. (Zietta Liù)

Febbraio
Corro lieto nel bosco
a cogliere viole:
qua e là penetra il sole;
qua e là si fa più fosco…
C’è qualche bacca rossa
sulle stecchite fratte,
odor d’erbe disfatte,
odor di terra smossa;
e al lume dell’aurora,
brina gelata e bianca.
Come farfalla stanca,
vien qualche fiocco ancora…
Ma indugia, innanzi sera,
talvolta, uno splendore
che annunzia già il tepore
di dolce primavera. (C. Allori)

Febbraio

Nè amato nè inviso
tu giungi, o febbraio:
ci mostri il tuo viso
più triste che gaio.
Sorridi talvolta,
ma è un riso di scherno
nell’aria sconvolta
dal rigido inverno.
E il timido sole
che splende non piace:
c’è sempre chi vuole
scaldarsi alla brace. (L. Ruber)

Febbraio

Il sol ruppe la neve e alla costiera
in quel giorno brillò la prima volta
un mite verde. Ed ecco, il cuore ascolta
l’uccello che promette primavera.
Respira già quest’aria cristallina
nascosta dalle foglie macerate,
la mammola. Viole son nate
nel sol di quest’angelica mattina. (R. Pezzani)

Solicello di febbraio

Solicello di febbraio
che sorridi lieve lieve,
sulle siepi e sulle case
già si liquefa la neve.
Dopo i giorni cupi e tetri
il tuo raggio com’è gaio
com’è dolce il tuo tepore
solicello di febbraio!
Tu, riscaldi i poverelli
solicello chiaro e mite
più non tremano gli uccelli
sulle piante intirizzite
e i vecchietti freddolosi
siedon già sulle panchine
mentre sciamano s’intorno
variopinte mascherine.
Solicello di febbraio
già la livida bufera
si allontana e cede il passo
alla rosea primavera;
già si schiudono le gemme
canta il passero sul tetto
solicello di febbraio
solicello benedetto! (P. Ruocco)

Speranza

C’è un grande albero spoglio
in mezzo all’orto; pare
che soffra e non si possa
coprire e riscaldare.
Vola sui rami nudi
un passero sperduto
e cinguetta più forte
in segno di saluto.
Geme l’albero: “Un tempo
fui giovane e fui bello;
candidi fiorellini
erano il mio mantello…
Il passero cinguetta:
“O vecchio albero, spera…
Si sciolgono le nevi;
verrà la primavera. (M. Dandolo)

Febbraio
Questo è febbraio: tipo di mese
corto e amaro, spesso scortese.
Folate fredde taglian la faccia,
Agli usci aperti danno la caccia;
van brontolando dentro i camini,
fermano il volo degli uccellini,
e, se furiose soffian sul mare,
lo fan di spume tutto arricciare.
Neanche un fiore sopra la terra…
E quelle rose? Sono di serra.
Forse lontano, sotto i bei cieli
del mezzogiorno, gemmano i meli,
ma a tramontana con l’aria greve
neppure l’ombra di un bucaneve.
E’ meglio quindi stare al riparo…
Questo è febbraio corto ed amaro. (G. Folgore)

Febbraio

Febbraio è sbarazzino.
Non ha i riposi del grande inverno,
ha le punzecchiature,
i dispetti
di primavera che nasce.
Dalla bora di febbraio
requie non aspettare.
Questo mese è un ragazzo
fastidioso, irritante
che mette a soqquadro la casa,
rimuove il sangue, annuncia il folle marzo
periglioso e mutante.
(V. Cardarelli)

Fine di febbraio
Un azzurro nel fosco dischiuso
ricomincia gioia ai miei occhi;
tre nubi una nube che si sfiocchi
basta anch’essa al mio amore illuso;
un barlume d’oro che piova
su zolle nerastre grasse,
è come se ricreasse
il mondo, e aprisse una vita nuova.
Stagione benigna e vivace,
che tutto è attesa e annuncio divino,
e il cuore si crede vicino
al suo vero e alla sua pace.
Domani… domani lo vedremo,
caduta la tenda oscura,
il volto della gioia più pura,
il riso del bene supremo.
(Ma domani sarà la solita festa
di sole, di turchino, di verde,
in cui la vita inebriata si perde…
E dell’anima che cosa resta?)
D. Valeri

Febbraio
Corro lieto nel bosco
a cogliere viole;
qua e là penetra il sole;
qua e là si fa più fosco…
C’è qualche bacca rossa
sulle stecchite fratte,
odor d’erbe disfatte,
odor di terra smossa;
e, al lume dell’aurora,
brina gelata e bianca.
Come farfalla stanca,
vien qualche fiocco ancora…
Ma indugia, innanzi sera,
talvolta uno splendore
che annuncia già il tepore
di dolce primavera.
(C. Allori)

Tutte le opere contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.

Dettati ortografici FEBBRAIO

Dettati ortografici a tema: il mese di febbraio. Una collezione di dettati ortografici sul mese di febbraio, di autori vari, per la scuola primaria

Dettati ortografici FEBBRAIO

E’ un mese allegro, pieno di mascherine, di coriandoli, di stelle filanti e di frittelle. L’inverno di fa ancora sentire, ma se guardate bene, vedrete una gemma che sta per schiudersi sul ramo di un albero, vedrete un fiorellino che timidamente sboccia, vedrete un tiepido raggio di sole che cerca di farsi strada fra le nuvole.

La campagna è ancora spoglia, ammantata di brina; pure, se guardate attentamente, vedrete una gemma, nel cavo di un ramo, che sta per schiudersi; vedrete sul piano le prime margheritine e sull’orlo del fossato sentirete il profumo delle prime violette. E il pesco e il mandorlo, fra poco, avranno la loro veste fiorita.

Il ghiaccio intorno alla fontana si è sciolto, le piantine rialzano il capo e mettono un bocciolino con la speranza di farlo presto schiudere. La siepe si copre di gemme e fra qualche giorno il biancospino fiorirà. Anche i mandorli e i peschi sono pronti: al primo raggio di sole tiepido si copriranno della loro bella veste fiorita.

Primi tepori
Fra le erbe del prato, le violette non sono ancora sbocciate. Se ne sente, però, il profumo. anche l’aria odora un po’ di primavera. Gli uccellini cinguettano; pensano al nido. Gli insetti cominciano a ronzare; qualcuno ha messo già le ali, dopo la lunga invernata passata sotto terra.

Molta gente borbotta contro questo piccolo mese. Febbraietto, corto e maledetto! Eppure, è proprio febbraio che porta le mascherine, e che soprattutto porta i primi tepori, più luce al giorno, qualche gemma, e persino qualche fiore. E allora, un po’ di pazienza per i suoi bronci che sono seguiti sempre da un lieto sorriso!

Parla febbraio: “Nei campi che cosa si fa? Non troppo, ancora, ma c’è la speranza del marzo vicino. I contadini si preparano sapendo che, dopo di me, verranno subito i primi tepori. Essi pensano a potare le viti, a scortecciarle per distruggere gli insetti dannosi. Nei luoghi dove il clima è meno freddo, i pastori cominciano la tosatura delle pecore”.

La terra è ancora brulla, gli alberi nudi e stecchiti. Pure, se osservate bene, vedrete un leggero spolverio verde sui rami, sui cespugli. Sono le gemme che aspettano un raggio di sole per potersi schiudere. Se guardate fra le erbe del prato, forse troverete una violetta, la prima, che però, nel suo linguaggio, vi dirà che la primavera non è lontana.

Febbraio è il mese più breve perchè ha soltanto ventotto giorni e ventinove negli anni bisestili. Febbraio era, nel calendario romano antico, l’ultimo mese dell’anno. Il primo mese era marzo, da Marte, il dio della guerra. Il nome deriva da “februare” che vuol dire purificare, espiare; il mese, infatti, era dedicato alla purificazione. I nostri antenati usavano espiare per sè e per i defunti e purificare gli animali mediante cerimonie che si svolgevano sul Colle Palatino. A noi, febbraio porta la bella festa del Candelora e l’allegria del Carnevale.

Se provate a fare una passeggiata in campagna, quante cose di riveleranno ai vostri occhi che voi nemmeno pensavate! Spunta già il grano, e lieve lieve, morbido morbido, copre la terra di un mantello verde non appena la neve la lascia libera. E se guardate sulle siepi, troverete certi bocciolini duri e pelosi che aspettano soltanto un raggio di sole per aprirsi. E’ il biancospino, e tra qualche giorno, vedremo che fioritura candida e profumata sopra le siepi rinsecchite! Gli uccellini cinguettano: sono allegri anche loro. Cominciano a trovare qualcosa di più da mettere nel becco: gli insetti, le larve fanno capolino dalla terra e sono proprio dei bocconi saporiti.

Febbraio è il mese più corto dell’anno, un mese ancora freddo, ma che ci mostra i primi avvisi di primavera. Il suo nome deriva dal latino “Februarius” da “februus” che vuol dire purificante, purgante. In questo mese gli antichi romani facevano, infatti, i sacrifici di espiazione durante le feste dei Lupercali, istituite a quanto si dice, da Romolo, in onore della lupa che lo aveva nutrito.

Febbraio fu aggiunto agli altri mesi da Numa Pompilio e con esso terminava l’anno, che cominciava con marzo. Febbraio consta solo di ventotto giorni e, negli anni bisestili, ventinove. Gli anni centenari sono bisestili soltanto se possono dividersi per 400.

Il mese di febbraio è l’ultimo mese dell’inverno e secondo il proverbio, che “il più duro da scorticare è la coda” anche febbraio ci riserva spesso le più crude manifestazioni del freddo. Imperano ancora il gelo, il vento e qualche volta anche la neve. Però, se guardiamo attentamente intorno a noi, vedremo già qualche manifestazione della primavera imminente.

Il cielo di febbraio è spesso nuvoloso e grigio, ma con qualche squarcio di azzurro che si fa sempre più grande e frequente con il progredire del mese. Le giornate si allungano.

Sui rami delle piante possiamo notare a partire da febbraio gli ingrossamenti che daranno luogo alle gemme; qualcuna, anzi, ha già la gemma ben visibile: il pioppo, il ligustro, il biancospino. Osservando queste gemme vedremo che questi germogli ben riparati da un rivestimento che può variare da pianta a pianta. In qualcuno c’è addirittura una morbida pelliccetta pelosa che tiene riparato il prezioso contenuto, in altri c’è un rivestimento di scaglie dure e coriacee che lo difendono dal vento gelido e dagli sbalzi di temperatura; in altri ancora l’involucro della gemma è rivestito di resina impermeabile che difende il germoglio dalla pioggia.

A fine febbraio, se la temperatura non è troppo cruda, c’è l’esplosione dei fiori di mandorlo e di pesco che illeggiadriscono la campagna con un’improvvisa manifestazione primaverile. Ed ecco la prima violetta, la prima margheritina, la primula…

La vita animale in febbraio è ancora sopita, ma presto si manifesterà. Dove sono gli insetti? Morti, oppure sotto terra, nascosti nella corteccia degli alberi sotto l’aspetto di crisalidi, oppure ancora nell’uovo; ma ecco le prime mosche, i primi bruchi avventurosi, ecco le formiche, ecco il guizzo di una lucertola che si è svegliata in anticipo! La lucertola, come gli altri rettili, è rimasta immersa nel letargo perchè, avendo il sangue a temperatura ambiente, non potrebbe resistere al freddo invernale. Ma il primo raggio di sole l’ha destata dal suo intorpidimento anche perchè qualche insetto è sbucato fuori e il primo appetito si potrà saziare.

In febbraio i tassi, le marmotte, i ghiri, i pipistrelli non si sono ancora destati; restano immersi nel letargo, durante il quale le funzioni vitali rallentano al massimo permettendo all’animale di rimanere digiuno per lunghi mesi. Ma col primo pallido sole di febbraio, c’è da giurarlo, anche loro cominciano a sentire il sangue muoversi, cominciano a sentire gli stimoli della fame e presto anch’essi sbucheranno fuori dalle loro tane.

La terra è ancora umida e fredda, pure, se guardi con attenzione, vedrai qualche filo d’erba spuntare nelle fessure, vedrai qualche ramo che presenta i piccoli rigonfiamenti dove si nascondono le future gemme, vedrai, forse, una pratolina sbocciare timidamente sulla zolla ancora spoglia. Sono gli indizi dell’arrivo imminente della primavera. Non lasciarti sfuggire questi segni: ne ricaverai una grande gioia pregustando in anticipo il bel sole che verrà, il rigoglio della natura che ancora non appare, ma che un giorno, non lontano, esploderà in tutto il suo vigore, e la sua bellezza.

Febbraio è l’ultimo mese d’inverno. Ancora è freddo, la nebbia pesa sulla campagna, il vento soffia gelido, e spesso la neve cade ancora dal cielo a ricoprire la terra. Febbraio, quando te ne andrai? Sei il più piccino dei mesi, ma sei forse il più cattivo. Non ne possiamo più di freddo, di nebbia, di neve. Desideriamo, con tutto il cuore, il tiepido sole di primavera, le prime violette, le pratoline candide che sembrano stelline cadute sul prato. Febbraio, vattene via lesto! Vogliamo la primavera!
E’ ancora freddo; spesso il vento soffia gelido fra i rami nudi degli alberi. Pure, se guardi con attenzione, vedrai qualche coraggioso filo d’erba spuntare nelle fessure sui muri, vedrai qualche insetto avventuroso tentare i primi voli, vedrai qualche squarcio di azzurro nel cielo grigio e forse, chissà, potrai trovare sulla riva di un fosso una violetta profumata che è sbocciata per darti il saluto della primavera che si avvicina.

Febbraio è un mese di passaggio fra l’inverno e la primavera. Per questo è così instabile, capriccioso e infido. Anche se ha qualche giornata di sole, non dargli retta: rallegrati, ma tieni il tuo cappotto e il tuo berretto. Anche se un mandorlo fiorisce coraggiosamente, gioisci della sua fioritura gentile, ma non ti sorprendere se l’indomani il vento stizzoso lo avrà spogliato. E se trovi una violetta sul bordo di un fosso, prendila come un saluto del bel tempo che verrà.

Dicono i contadini: “Febbraio febbraietto corto e maledetto”. Ma perchè, povero piccolo mese? In fondo anche lui porta le gioie di un’acerba primavera: qualche violetta sbocciata sull’orlo di un fosso, qualche pratolina fra l’erba, le mimose pronte a sbocciare e soprattutto la fioritura dei mandorli e dei peschi. Non maledire questo mese anche se è ancora freddo e nebbioso. Vedrai, in marzo, che cosa ti ha preparato febbraio.

Gli alberi stendono al cielo i loro rami nudi e rinsecchiti. Pure, se li osservi con attenzione, vedrai dei piccoli rigonfiamenti che si fanno, di giorno in giorno, più turgidi e verdi. Sono le gemme che ancora non germogliano, ma lo faranno non appena un raggio di sole più tiepido le sveglierà dal loro sonno invernale. Sono rivestite da una folta pelliccetta, oppure da squame dure e coriacee; ma ben presto il loro rivestimento si aprirà per dar luogo al fiore, alla foglia, al rametto giovane della primavera.

Il vento, la neve, la pioggia, sono gli strani amici di febbraio. Sembra che il mese non abbia voglia di stare troppo a lungo in questa compagnia; e per questo, forse, è il mese più corto dell’anno e passa via così rapido per la sua strada ghiacciata, sotto gli alberi ancora coperti di brina. Che fatica per il povero febbraio con le sue scarpe rotte dalla fretta di correre, con il suo mantello sdrucito dal vento! Ma febbraio prende la sua fatica allegramente. (F. Palazzi)

Se osserviamo bene, vedremo i primi sintomi del risveglio della natura. Le gemme sono ancora coperte di scaglie resinose e impermeabile che le proteggono dal freddo, ma nei posti più soleggiati, sputano ciuffi d’erba verde, lungo le prode sbocciano le violette timide, i ranuncoli gialli. Sulle zolle ancora nude ecco le pratoline bianche col collarino rosso che si schiudono all’apparire del sole, per richiudersi subito non appena il sole scompare. E’ la primavera che si annuncia.

Non ti fidare se febbraio ti regala qualche bella giornata. Ecco che, dopo il tepore, un vento gelido accumula di nuovo le nuvole della pioggia. E se il mandorlo e il pesco una mattina ti sorprendono con la loro leggiadra fioritura, non è difficile che, l’indomani, i fiori siano tutti a terra e gli alberi più spogli di prima. Ma, anche nei suoi capricci, febbraio precede la primavera e te lo dice con i suoi timidi tentativi durante i quali fa sbocciare un fiore, squarcia le nubi e accoglie festosamente un bel raggio di sole.

L’albero che ha perduto nell’inverno tutte le foglie, sente la carezza del primo sole: “Svegliati, dunque! E mettiti al lavoro! Che cosa aspetti ancora? La buona terra è pronta a darti i suoi ricchi umori. Io ho tiepidi raggi. L’aria ti sussurra attorno una dolce canzone.”. L’albero ode le care voci e chiama dal suo cuore i teneri germogli. (G. Camillucci)

Il mese di febbraio è l’ultimo mese dell’inverno e spesso ci riserba le più crude manifestazioni del freddo. Imperano ancora il gelo, il vento, e spesso la neve. Pure, se guardiamo attentamente intorno a noi, vedremo già qualche manifestazione della primavera imminente. Il cielo spesso nuvoloso e grigio, ha talvolta uno squarcio d’azzurro che, col progredire del mese, si fa sempre più grande e più luminoso. Le giornate sono più lunghe e, talvolta, ci arriva un soffio profumato che sa di bosco e di giardino anche se boschi e giardini sono ancora spogli e addormentati.

Primavera? Siamo ai primi di febbraio e ancora ne ha da cadere di neve, ancor da pungere di freddo. Pure, adesso che ci penso, e guardo meglio in giro, l’annuncio della primavera non è solo sulla bocca della fioraia all’angolo della strada. Forse nelle nubi; forse nel vento; o nell’erba dei giardinetti che hanno il cancello sul marciapiede; o fra le connessure delle pietre; ma, insomma, è. Gioca con me a nasconderello; dove si appiatti non potrei dire, nè dove sbuchi per tornare a rintanarsi; non dice, promette, e poi fugge. (Ada Negri)

Febbraio è un mese infido, volubile. E’ un mese invernale, e vuol sembrare invece un mese di primavera; e lo dice anche. Il due febbraio si festeggia la Candelora, così chiamata per le offerte di candele che si fanno alla Madonna in quel giorno. Ebbene, febbraio fa cantare: “Oggi è la Candelora, dell’inverno semo fora”. Sì, in qualche giorno del mese c’è infatti un sole luminoso e quasi tiepido che ci consola; e sulle rade dei fossi spuntano già le prime violette dell’anno… ma poi, il giorno dopo, ecco che fischia la tramontana e riprende a fioccare la neve. (F. Palazzi)

E’ spuntata la prima viola sull’orlo della strada, sotto la siepe, piccola, scura, profumata! E’ venuta a dire che tra poco torneranno le rondini a rifare il nido, che tutti gli alberi, uno dopo l’altro, si copriranno di gemme di fiori, di frutti. E’ venuta a dire al contadino che i lavori dei campi lo aspettano. E’ venuta a promettere ai poverelli, che quest’inverno hanno tanto sofferto, che non farà più freddo. Tra poco il sole tiepido scalderà la terra e la terra tornerà rigogliosa con l’aiuto della natura e il lavoro dell’uomo. (L. Steiner)

Brillano al sole le nevi; sgrondano i tetti. Riponete, ragazzi, slitte e pattini; finito ormai è quest’affanno dell’inverno. L’abete ha sciorinato lungo il clivio la sua ombretta celeste. Non più sentieri ghiacciati, Non più sizze che taglian le orecchie. Ora tutto s’allenta, s’espande, si dona. Com’è dolce questa prima luce dell’anno! Muri e tetti si rallegrano, l’ombra del fico si disegna sul muro con una tenerezza nuova. (C. Linati)

Un giorno di sole riappare, dapprima timido, freddo, poi manoa mano più caldo; che aria di festa! I prati ritornano soffici, si sciolgono i ruscelli e riprendono a cantare. I ragazzi, felici, invadono le strade gridando, e i poveri sorridono… Ma il gelo, ahimè! Non si è dato per vinto. Di nuovo vittorioso torna signore delle cose. Tutto di nuovo è freddo, silenzioso, immobile. I bambini sono tornati nelle case; i poveri tremano. Quanto durerà ancora il regno del gelo? (G. Fanciulli)

Parla febbraio: “Nell’antico calendario romano io avevo ventinove giorni; me ne tolsero uno per regalarlo ad agosto e, da allora, me lo rendono solo negli anni bisestili; non riesco, però, ad averne mai più di ventinove, e rimango sempre il più corto dei dodici fratelli. Dicono che sono cattivo: Febbraio, febbraietto corto e maledetto. Allora cerco di portare un poco di allegria con il carnevale; e la gente si diverte più che può senza curarsi del mio freddo.” (M. Toscano)

Parla febbraio: “E nei campi, che cosa si fa? Non troppo ancora, ma c’è la speranza del marzo vicino; i contadini si preparano, sapendo che, dopo di me, verranno subito i primi tepori. Essi pensano a potare le viti, a scortecciarle per distruggere gli insetti dannosi. Le greggi, seguite dal vigile pastore, risalgono i colli in cerca delle prime erbette. Si comincia la tosatura delle pecore; la lana è la prima preziosa raccolta dell’annata.” (M. Toscano)

Oh valletta, che ancora non è primavera e tu di sorridere tenti già! Lascia che io riveda com’è quel bel verde che quasi negli occhi l’immagine più non ne trovo! Rimirati, o valletta, raccogliere ad una ad una le piccole dolci tue cose… Quelle prime tue primule uscite a sentire se il sole è già tiepido, l’aria meno grigia, quel tuo timido verde che torna cercando fra gli aridi ciuffi il sentiero. (F. Chiesa)

Piove, e sembra un gran pianto del cielo. L’asfalto delle strade cittadine luccica; e luccicano gli ombrelli, i cappucci dei cappotti impermeabili. Nei campi, i fossi gonfi d’acqua borbottano. I fiumi corrono limacciosi in piena e portano innanzi quanto hanno rapinato dalle prode. Le case quasi spariscono tra i veli della pioggia, tra i vapori che salgono dalla terra e lentamente vanno a confondersi alle nuvole grige. Non finirà mai più? Si sta bene al chiuso, all’asciutto, al caldo. E per fortuna febbraio è corto. (G. Fanciulli)

Il giorno della Candelora la primavera si è affacciata nei cieli ed ha sbandierato il suo gonfalone di raso celeste. Dalle piazze, dalle vie, dagli abbaini, dai fondachi, tra le tende e dietro i vetri, gli uomini l’han vista, l’hanno sentita; i giovani non un guizzo di gioia nella pupilla… Già ci investe la luce. Questa è per tutti gioia e potenza. I giorni sono più lunghi… Fa meno freddo. Ognuno di noi ha uno scopo da raggiungere, immediato: la primavera. (A. Bucci)

Nel lungo inverno la terra pare come morta, ma non è così. Essa dorme il suo sonno tranquillo e riposante; dormono anche molti animali nelle loro tane. Dorme la terra, ma pure nel sonno, come una madre amorosa, copre sotto il suo manto milioni di semi che come lei dormono, e li difende dal freddo e li prepara per il risveglio primaverile. (G. Cives)

Mi ricordo bene di certe corte e ventose giornate di gennaio e di febbraio, quando si camminava via lesti per le strade dure, ghiacciate, che risuonavano sotto i passi, fra i muri asciutti che rimandavano gli echi, sotto le sfilacciature bianche delle nuvole alte. A forza di camminare tornavo a casa coi piedi brucianti e il viso acceso, tutto vibrante e vigoroso come se tornassi da una vittoria. (G. Papini)

Quando sul salice appaiono le prime infiorescenze, non c’è dubbio: la primavera ha ripreso possesso di questo vecchio mondo. Le gemme sono le sue messaggere. Durante l’inverno, le gemme cominciano a far capolino. Poi lentamente s’ingrossano, e sui rami spogli si vedono piccole protuberanze coperte di scaglie color bronzo, marroncino, e d’un delicato verde. Alcune di esse sono lisce, altre lanuginose, o ruvide, o increspate, come protette da corazze di vari colori e di varie forme. (D. Culross Peattie)

Le scaglie che rivestono le gemme non servono a proteggerle dal freddo, come si crede. Durante l’inverno le gemme sono fredde, addirittura ghiacciate, poichè spesso nell’interno si formano cristalli di ghiaccio. Le scaglie servono a proteggere le gemme dal vento gelido. Poi, mentre la neve resiste ancora sulle cime dei monti e Febbraio sferza ogni cosa col vento e le piogge violente, la temperatura delle gemme aumenta, e una mattina, all’improvviso, tutto intorno a noi s’è rivestito di verde, e il miracolo della primavera si rinnova. (D. Culross Peattie)

Febbraietto corto e freddo, in ogni luogo ci mise la febbre. Tutta la terra ha un nascosto bollore. Sale alle cime la linfa e le gemme già si ingrossano e friggono. Continuano le piantagioni e la potatura. L’accetta lavora in pieno per togliere il vecchio e il superfluo ed aiutare il nuovo. La cattiva accetta rovina gli alberi. Il belar degli agnelli empie la campagna dove mandorli e peschi cominciano a fiorire; e dalle masserie fuma l’odor delle ricotte. Carnevale passa tra risa e divertimenti. (F. Lanza)

E’ il mese più breve perchè ha soltanto 28 giorni e ventinove negli anni bisestili. Febbraio era, nel calendario romano antico, l’ultimo mese dell’anno. Il primo mese era Marzo, da Marte, il dio della guerra. Il nome deriva da “februare” che vuol dire purificare, espiare: il mese infatti era dedicato alla purificazione. I nostri antenati usavano espiare per sè e per i defunti e purificare gli animali mediante cerimonie che si svolgevano sul Colle Palatino. A noi, febbraio porta la bella festa della Candelora e l’allegria del Carnevale.

Se provate a fare una passeggiata in campagna, quante cose si riveleranno ai vostri occhi che voi nemmeno pensavate! Spunta già il grano, e lieve lieve, morbido morbido, copre la terra di un mantello verde non appena la neve la lascia libera. E se guardate sulle siepi, troverete certi bocciolini duri e pelosi che aspettano soltanto un raggio di sole per aprirsi. E’ il biancospino e, fra qualche giorno, vedrete che fioritura candida e profumata sopra le siepi rinsecchite! Gli uccellini cinguettano: sono allegri anche loro. Cominciano a trovare qualche cosa di più da mettere nel becco: gli insetti, le larve fanno capolino dalla terra e sono proprio dei saporiti bocconi.

D’inverno, bisce e lucertole sono tutte sparite, sprofondate nei crepacci e nascoste sotto i sassi a dormire profondamente. Ma quando un raggio di sole tiepido batte sul loro rifugio, il sangue scorre più veloce, i battiti del cuore si fanno più rapidi e comincia a farsi sentire l’appetito. Coraggio, facciamo capolino! Chissà che non ci sia qualcosa da divorare tanto per non morire di fame. Il grasso del corpo che questi animali hanno consumato durante il loro letargo è ormai tutto finito e c’è bisogno di rinnovare le provviste!

Dettati ortografici a tema: il mese di febbraio

Il primo raggio di sole ha destato la lucertola che fa capolino dal suo rifugio, palpitante sotto la sua leggiadra corazza verde. Tassi, ghiri, marmotte sono ancora in letargo, il lunghissimo sonno durante il quale le funzioni vitali si sono rallentate al massimo permettendo all’animale di vivere senza mangiare e senza muoversi e di sopportare il freddo intenso. Ma il loro sangue comincia a scorrere più veloce, il cuore batte più svelto e l’appetito comincia a farsi sentire. Presto, al primo sole di primavera, li vedremo far capolino dalle loro tane, baffi vibranti e naso al vento per sentire il primo avviso di primavera.

Febbraio febbraietto, corto e maledetto! Ma perchè maledetto, povero, piccolo mese, così allegro, così spensierato, sempre in vena di mascherarsi e di andare a ballare? Per qualche stizzone di gelo più forte, ora che la gente cominciava a gustare il tepore del primo sole? Ma insomma, anche febbraio è un mese dell’inverno e anche lui ha il suo bravo diritto di avere piogge, freddo, geli e magari qualche nevicata. Ma, in compenso, guardate quante maschere! E quante stelle filanti! E quanti coriandoli! Una continua festa!

Il cielo fa ancora il broncio, ma non gli date retta: non vedete un riflesso azzurro nelle pozzanghere? E se cercate bene sulle prode dei fossi, chissà che non troviate una violetta, magari una sola, ma così profumata, così gentile che vi metterà in cuore una grande allegrezza. E poi, anche se febbraio vuol fare il cattivo, non durerà molto. Ha solo ventotto giorni, qualche volta ventinove, e presto ci dirà addio. E poichè è il più piccino, bisogna pure perdonargli qualche bizza!

Il secondo mese dell’anno è caro ai bimbi per le allegre ricorrenze del carnevale. Pantalone, Arlecchino, Balanzone, Pulcinella, Gianduia, Rugantino, Stenterello… scherzano e ridono per le vie delle proprie città, fino al giorno delle ceneri, al quale seguirà la Quaresima, periodo di raccoglimento e di penitenza che precede di quaranta giorni la Pasqua. La terra incomincia a scuotersi dal torpore invernale.  Le giornate si sono allungate e il sole si mostra più spesso nel cielo. Spuntano le prime margherite, fioriscono le mimose. Il grano incomincia a verdeggiare nei campi. Il contadino semina rape, piselli, lattughe, cipolle. Il nome febbraio deriva dalla parola latina “februare”, che vuol dire purificare, perchè, anticamente, era questo il tempo in cui il corpo veniva purificato per renderlo degno di avvicinarsi ai templi degli dei. I romani lo avevano dedicato a Giunone.

Tutte le cose dormono ancora il lungo  sonno invernale. I ghiaccioli pendono dalle grondaie e i comignoli fumano dalla mattina alla sera. Il gelo sembra padrone del mondo.
Ma un giorno il sole riappare: un sole dapprima timido, freddo, poi a mano a mano più caldo.
Che aria di festa! I prati tornano soffici, i ruscelli si sciolgono e riprendono a cantare. I ragazzi, felici, invadono le strade gridando, e i poveri sorridono. Appaiono i primi fili d’erba, nuovi nuovi. Ma il gelo, ahimè, non si è dato per vinto. Di nuovo vittorioso, torna signore delle cose. Tutto di nuovo è freddo, silenzioso, immobile. I bambini sono tornati nelle case; i poveri tremano. (G. Fanciulli)

Brillano al sole le nevi, sgrondano i tetti. Riponete, ragazzi, slitte e pattini: finito è ormai quest’affanno dell’inverno. Non più sentieri ghiacciati, non più ventate che tagliano le orecchie. Ora tutto si allenta, si espande, si dona. Come è dolce questa prima luce dell’anno! Muri e tetti s’allegrano, l’ombra del fico di disegna sul muro con una tenerezza nuova. Riponete, ragazzi, slitte e pattini! Andiamo ai primi lavori. (C. Linati)

Il più breve mese dell’anno, spesso, giunge con furia di vento, di freddo e di neve. Ma dopo alcuni giorni, dove sono le nubi? Non c’è più che un po’ di nebbia, rada rada, che lascia vedere il cielo sereno.
Allora, la neve e il ghiaccio cominciano a sciogliersi e i ruscelli riprendono il loro cammino.
Allora, ai margini delle strade di campagna, tra foglie secche e teneri fili d’erba, si scoprono cespi di primule, macchie di crochi, ciuffi di violette.
Timido annuncio della bella stagione.

Il mese allegro è spesso il mese più freddo dell’anno. L’inverno fa sentire ancora i suoi rigori, ma le sponde dei fossi, le prode dei campi mostrano fili d’erba nuova e boccioli che aspettano un raggio di sole per aprirsi.
Poi, febbraio è un mese allegro. La gente si diverte ed è contenta perchè è carnevale, ma soprattutto perchè l’inverno sta per finire.

Il cielo è nuvoloso: ogni tanto qualche lembo di azzurro, qualche sprazzo di sole; e poi da capo il grigiore freddo e uggioso. Il vento soffia, sibila, stride, scuote le porte, forza le imposte, fa tintinnare i vetri e rabbrividire i bambini. Le montagne si risvegliano, e incominciano a scuotere la canizie dal capo: la neve a poco a poco si discioglie; giunge di lontano il fragore dei torrenti che precipitano a valle. Qua e là verdeggiano gli olivi.
I ragazzi sgambettano allegri di stanza in stanza e scendono volentieri a rincorrersi per le strade e per la campagna. (G. Berlutti)

La nebbia, e le nuvole, cariche di pioggia e di neve, sono rimaste sorprese. Chi sono quegli uccelli scuri e fischiettanti, che volano nella bufera, sicuri e ad ali aperte? Nessun altro uccelletto ha ancora avuto il coraggio di tornare. Ma gli storni sì. Eccoli. Si posano. Vanno  popolare le aie deserte.
Nella fredda notte, il gelo è ancora feroce. Ma lo storno dorme accanto a un camino tiepido. Nella mattina, il gelo ha fatto luccicare di ghiaccio e di brina i campi e i rigagnoli. Poi viene il sole. Il gelo si nasconde nell’ombra. E lo storno vola fuori a fischiettare.

Il vento, la neve, la pioggia sono gli strani amici di febbraio. Sembra che il mese non abbia voglia di star troppo a lungo in questa strana compagnia: e per questo, forse, è il mese più corto dell’anno, e passa via così rapido per la sua strada ghiacciata, sotto gli alberi coperti di brina e di ghiaccio.
Che vitaccia fa il povero febbraio, con le scarpe rotte dalla fretta di correre, con il suo mantello sdrucito dal vento! Ognuno ha, nella vita, la sua sorte di lavoro, la sua razione di fatica. Ma febbraio prende la sua fatica allegramente. I mesi dell’anno hanno bisogno anche di lui per scaricare il freddo bagaglio dell’inverno. Febbraio corre. Per nascondere la sua fatica si è messo sul volto la maschera del carnevale. (O. Vergani)

La terra si era addormentata. Una lunga pioggia leggera è scesa a cullare la fine del suo sonno. Lei sentiva, ma ancora non si svegliava. Dolce dormire. Sorrideva dietro le palpebre chiuse, a sentirsi frugare tra l’erba, a sentirsi toccare le violette nascoste. Picchiettandola con le lunghe dita leggere, la pioggia le faceva il solletico e le diceva piano piano: “Svegliati”. E mormorava: “Svegliati”. E poi: “Su, su, è l’ora, vestiti”.
E la terra fingeva ancora di dormire, perchè nulla era più dolce di quella carezza leggera e di quel dormiveglia.
Alla fine ha aperto gli occhi delle margheritine, ed è rimasto un odore di terra bagnata nei giardini. (A. Campanile)

Si sente nell’aria l’alito della primavera: il rigore dell’inverno si è spezzato. Il bel tempo dura da una settimana e i giorni si succedono uguali, pieni di lavoro; la sera si ritorna a casa soddisfatti. In questi giorni mi sento insolitamente allegro: sono buono e garbato con tutti.
Nei campi le voci risuonano chiare e festose. Verrebbe voglia di abbracciare tutta la gente che fatica sulla terra. Anche gli uccelli, sentendo il tepore dell’aria, sono in festa.
E’ stata una bella giornata, ma con le prime ombre della sera il freddo si è fatto pungente. Passando nel querceto, sento i ruscelli fiottare; gli alberi spogli nel chiarore lunare hanno una rigidità spettrale. (F. Seminara)

Quando l’inverno muore lentamente nella primavera, nelle sere di questi bei giorni limpidi, lieti, senza vento, in cui si tengono spalancate per le prime volte le finestre e si portano sulle terrazze i vasi dei fiori, le città offrono uno spettacolo gentile e pieno di allegria e di poesia. A passeggiare per le vie si sente, di tratto in tratto, nel viso, un’andata d’aria tiepida, odorosa.
Di che? Di quali fiori? Di quali erbe? Chi lo sa!
Son profumi indistinti e sconosciuti, che sentono di freschezza, di gioventù, e di vita. (E. De Amicis)

Il 19 febbraio si festeggia San Biagio. San Biagio, prima di essere eletto vescovo, faceva il medico. Durante la persecuzione di Licinio, si nascose in una caverna dove curava le bestie che a lui accorrevano. Scoperto e condotto davanti al magistrato, fu condannato a morte.
Mentre veniva condotto al supplizio, avrebbe guarito un fanciullo che stava per soffocare per aver inghiottito una spina di pesce. Grazie a questo prodigio, Biagio viene invocato specialmente per i mali di gola ed il giorno della sua festa viene, appunto, benedetta la gola con l’apposizione di due candele benedette da parte del sacerdote.

Secondo la legge di Mosè, quaranta giorni dopo la nascita di un bambino, ogni mamma si presentava al Tempio per la purificazione, recando un’offerta. Anche la Madonna presentò Gesù al Tempio ed offrì due tortore. In alcuni paesi, si ricorda la purificazione di Maria con una processione nella quale i fedeli portano candele benedette. Per questo motivo, il 2 febbraio viene detto la “Candelora”.

Il passero pigola tra le fronde sempre verdi e fa capolino dalla volta di un tegolo, rannicchiato, irsuto come un riccio. Poveri passeri! Li vedete fatti dalla necessità doppiamente domestici, spiccarsi tratto tratto dai comignoli, venire a stormi dalla campagna tutta coperta, svolazzarvi tra le gambe, cercando qualche cosa da beccare. Intanto quella pietosa bimba sbriciola agli affamati uccelletti il panino della sua colazione. (A. Stoppani)

Il mese di febbraio
In febbraio proseguono le feste del Carnevale. Pantalone, Arlecchino, Balanzone, Pulcinella, Gianduia, Rugantino, Stenterello, scherzano e ridono per le vie delle proprie città, fino al giorno delle Ceneri, al quale seguirà la Quaresima, periodo di raccoglimento e di penitenza che precede di quaranta giorni la Pasqua.
Le giornate si sono allungate, il sole si mostra più spesso nel cielo. Spuntano le prime margherite, fioriscono le mimose.
Nei tempi antichi questo era l’ultimo mese dell’anno. I Romani lo chiamarono così da verbo latino “februare” che significa purificare. Infatti era questo il periodo delle purificazioni di fine anno. Anzitutto debbo dirvi che purificare per i Romani era un atto al quale essi attribuivano un gran valore, ai fini di procacciarsi il favore degli dei.
E volete sapere in che modo effettuavano queste purificazioni? O col fuoco, portando in giro grandi fiaccole nelle cerimonie religiose, o con l’acqua, con la quale effettuavano abbondanti aspersioni sulle cose e sulle persone. Ecco perchè all’ingresso dei loro templi si trovavano sempre grandi recipienti ricolmi di limpide acque.

Febbraio
Il vento, la neve, la pioggia sono gli strani amici di febbraio. Sembra che il mese non abbia voglia di star troppo a lungo in questa strana compagnia e, per questo, forse, è il mese più corto dell’anno e passa via così rapido per la sua strada ghiacciata, sotto gli alberi ricoperti di brina e di ghiaccio. Che vitaccia fa il povero febbraio con le scarpe rotte dalla fretta di correre, con il suo mantello sdrucito dal vento! Ognuno ha, nella sua vita, la sua sorte di lavoro, la sua razione di fatica… ma febbraio prende la sua fatica allegramente e la nasconde sotto la maschera del Carnevale.
(O. Vergani)

Febbraio
Febbraietto corto e freddo in ogni luogo mise la febbre. Tutta la tera ha un nascosto fervore. Sale alle cime la linfa e le gemme già ingrossano. Continuano le piantagioni e la potatura, e si zappa la vigna che poi bisogna impalmare.
E’ l’epoca giusta per gli innesti.
Dissodata la terra, si piantano le viti nuove; si riparano le conche e i muretti.
I seminati vogliono pioggerelle e nelle giornate belle, vi si passa la zappa.
Il belare degli agnelli e dei vitellini empie la campagna, che già mandorli e peschi cominciano a infiorare.
Carnevale passa con risa e divertimenti.
L’inverno prima d’andarsene intirizzisce marine e montagna; ma non hai tempo di volgerti indietro, che marzo ti passa avanti.
(F. Lanza)

Il febbraio dell’aquila
Era stato un inverno terribile; il novilunio aveva illuminata la campagna, nascosta completamente sotto un’infinita coltre di neve, covando i germi delle messi sotto un’insolita parvenza di morte.
I rami degli abeti innumerevoli parvero allora braccia stanche di una cappa troppo pesante; e i grandi alberi, digradanti in fila lungo il confine aspro e scosceso della foresta, furono simili a schiere di frati minori che vanno per via.
Sui rami nevosi la luna accendeva riflessi d’oro e d’argento; non un soffio di brezza agitava il grande esercito dei giganti pietrificati dal gelo.
In quelle lunghe notti, l’aquila dormiva, col fiero capo nascosto sotto un’ala enorme o abbandonato sul petto gonfio di penne, nell’incavatura di due rupi in bilico sull’abisso; e fin lassù arrivavano, così alto era il silenzio, gli urli lamentosi e strani delle volpi e di qualche lupo affamato.
I gioghi s’incoronavano di spettacolari ammassi di nuvole; e in grembo a quelle scoppiarono folgori secche e abbaglianti; e raffiche impetuose di venti furibondi agitarono e sbatterono, per l’anfiteatro delle montagne, fitti velari d’acqua, che si polverizzava sulle frasche, nascondendo ogni cosa.
I leprotti non uscivano più dai covi; le starne rimanevano nascoste nel cavo dei grandi alberi sventrati, in imezzo alle alte piante, i pollai erano chiusi.
non vi era possibilità di caccia e l’aquila languiva.
Per quanto capace di un digiuno di due, tre settimane, troppo frequenti erano ormai i periodi nei quali il colossale nido rimaneva sprovvisto di cibo. L’aquila aveva covato tre aquilotti: uno lo uccise, perchè troppo debole, poi ne uccise un altro, perchè troppo vorace…
(F. Paglieri)

Disgelo
Brillano al sole le nevi; sgrondano i teti, l’abete ha sciorinato lungo il declivio la sua ombra celeste. Non più sentirsi ghiacciati, non più ventate che tagliano le orecchie.
Com’è dolce questa prima luce dell’anno! Muri e tetti si rallegrano, l’ombra degli alberi si disegna per terra e sul muro con una tenerezza nuova.
E andiamo ai primi lavori. C’è il fosso da ripulire sotto il campo d’avena, la cavedagna che vuol essere riassettata alla falda del poggio.
Un’occhiata al pronto marcito sebbene verdeggi sull’orlo; poi scalzeremo un po’ di bosco ed a sera faremo il frutteto. Voi, ragazzi, riponete slitte e pattini: finito è ormai quest’affanno dell’inverno.
(C. Linati)

Non è ancora primavera
Primavera? Siamo ai primi di febbraio e ancora ne ha di cadere, di neve; ancora da pungere, di freddo. Pure, adesso che ci penso, e mi guardo meglio in giro, l’annuncio della primavera non è solo sulla bocca della fioraia all’angolo della strada. Forse nelle nubi, forse nel vento, o nell’erba dei giardinetti che hanno il cancello, sul marciapiede, o fra le pietre: ma, insomma, c’è. Gioca con me a nascondino: dove si nasconda non potrei dirlo, né da dove sbuchi fuori per poi tornare a rintanarsi; non dice nulla, promette e poi fugge.
(A. Negri)

Primavera precoce
Il temporale della sera precedente aveva fatto sulla natura l’effetto di una bastonata secca sulla testa di un uomo, cui tutte le idee si imbrogliano: la natura, intontita, aveva scambiato febbraio con aprile.
Quel giorno non c’era più niente a posto. Il cielo era d’un colore tenero di cobalto, tutto limpido; un vento tiepido vi correva, e sembrava che lo spazzasse e lo riscaldasse. I colori vivaci, rossi e azzurri, che per tanti giorni non si erano più visti, ora si stendevano dappertutto: il sole, allegro pittore, spennellava franco e denso le strade, le case e gli uomini.
Gli alberi erano ancora nudi, ma una brezzolina li faceva tremolare: e in rapido tremolio rammentava il bisbiglio inquieto delle prime foglioline.
(Gatti)

Presagi di febbraio
E’ quasi mezzogiorno, e dappertutto c’è un gran silenzio. Non odo che un fracasso di treno lontano, laggiù dalla parte di Firenze, qualche canto di gallo; e il taglio secco delle forbici, e questo squillo del pennato dei portatori, che mi rammenta dolcemente gli inverni della mia collina, della mia infanzia…
Ma col sole ecco la dimoia e la mota. I rigagnoli corrono; le primavere, i ranuncoli e anche gli anemoni mettono la testa fuori dalle zolle credendo che sia aprile. Infatti fa quasi caldo e non vedo che un po’ di neve rosea in cima alle lontane montagne pistoiesi, mentre i pettirossi cantano qui accanto, nelle siepi di sanguine, e le cince fra le chiome rossissime dei salici.
Un contadino che saluto mi dice che questa stagione non vale nulla per i raccolti. Ma io sono felice. Tutta la terra ai miei piedi, pare una pedana di seta, ricamata a colori pallidi, ma caldi e luminosi.
(A. Soffici)

La certezza della primavera
Era un ramo d’annunciazione.
Non pensai più che a una cosa: dopodomani è marzo…
Presto dimoia: le prode dei fossi sono  brune di mammole sotto la neve che sta per sciogliersi: gli alberi dietro quell’apparenza arcigna e stecchita, covano le gemme. Che ti immaginavi? Che l’inverno non dovesse finire mai?
Ancora, dunque, la certezza della primavera: giornate che si allungano, aria che si riscalda, prati che rinverdiscono, primule senza gambo che, se le vuoi cogliere, le strappi da terra e tutto: così fresca, la terra, nelle mani. E ancora gli alberi da frutto che si fanno bianchi e rosa come le nuvole. E ancora, ancora, per noi, forza da riprendere, lavoro da compiere, promesse da mantenere, anime da conoscere: vita, insomma, da vivere.
Per qualche istante non ebbi negli occhi che lo splendore del ramo di pesco: nel cervello, che pensieri simili ad esso.
La gioia di quella fioritura diveniva, in me, gioia di sentirmi al mondo.

In cerca della primavera
Sono condotto su una stradaccia di fango secco che va serpeggiando tra rocce sconnesse, incrinate e corrose dai ghiacci; tra scoscendimenti biancazzurri, scarniti e scavati dalle piogge; tra pietraie sinistre cosparse di tumuli erbosi e di arbusti dove, si dice, le volpi hanno le tane e le vipere i covi.
E poi vado avanti su prode molli e franose, su sentieri invasi dalle felci intirizzite e dai rovaio spogli…
Ma finalmente ecco aprirsi davanti una valletta verde e benevola. Sembra davvero, dopo tanta ostilità selvaggia e tanto affannoso strapazzo, una raccolta sala ospitale, con i suoi tappeti d’erba fitta e asciutta, con i suoi giacigli di foglie secche, con i suoi cerchiellini di fiori acerbi e primaticci e, soprattutto, con le sue rustiche mense di pietra umida e oscura…
Sopra una di queste tavole c’è un incavo naturale della pietra dove è rimasto un monticello di neve che fa pensare a una ciotola di sale bianchissimo… Intorno l’aria è gelata, il silenzio è perfetto, la solitudine definitiva, ma il bel cielo in alto mi appare più vicino, più amico…
(G. Papini)

L’arrivo dello scirocco
Al termine di ogni inverno arrivava lo scirocco col suo rombo profondo che l’alpigiano ode con tremore e spavento, mentre in paesi stranieri lo bramano con struggente nostalgia.
Uomini e donne, montagne, selvaggina e bestiame lo sentono molte ore prima che si avvicini. La sua venuta, quasi sempre preceduta da freschi venti contrari, si annuncia con un sibilo caldo e profondo. Per qualche istante il lago verdazzurro diventa nero come l’inchiostro e all’improvviso si incorona di spume candide e irrequiete: tranquillo e silenzioso fino a qualche minuto prima, incomincia a tuonare con l’accanita risacca di un mare contro la riva.
Nello stesso tempo tutto il paesaggio si rannicchia per paura. Sulle cime che di solito sognano in remote lontananze si possono ora contare i macigni, e nei villaggi che normalmente sembrano macchie brune laggiù in riva al lago si distinguono ora tetti, cornicioni e finestre. Tutto si restringe, monti, prati, case, come un gregge impaurito. Poi incominciano i fischi rabbiosi e la terra trema. Onde del lago sollevate si disperdono nell’aria come fumo e, specialmente di notte, si ode la disperata battaglia tra l’uragano e le montagne. Poco tempo dopo si sparge la notizia di torrenti colmati, di case divelte, di barche fracassate, di padri e di fratelli dispersi.
(H. Hesse)

Scende, tra le nebbie, il sole
Il sole sembrava, scendendo fra le nebbie, una palla di rame che scomparisse in mezzo alla cenere. Ma eccolo che ritorna.
E’ un intenso color di rosa, che dal lontano occidente sale e si dilata sino a impregnare di sé gran parte del cielo. Le masse d’alberi, rese spaziate e leggere dalla nudità dei rami, si disegnano in trine e trafori, delicatissime, sugli accesi riflessi degli sfondi. Il ghiaccio delle lance s’imporpora, rifrange splendori di rubini. I tronchi dei pioppi e dei salici si animano di una profonda tinta violastra.
Salici di fiumi, dal ceppo basso, largo, nocchieruto, dalle grosse teste scarmigliate e irte: pioppi alti e sottili, incorporei come ombre: terra d’inverno, più vasta, perchè più spoglia, più libera, perchè placata.
Ma già l’aria s’è fatta d’un grigio azzurrognolo d’ortensia: il rosso è tutto nell’acqua. Si spostano i riflessi: si spezzano le armonie: qualcosa ha da morire, e si dibatte contro la fine, pur sapendo che ha da rinascere. Qualcosa di infinitamente piccolo, di infinitamente grande: il giorno.
(A. Negri)

Tramonto
I tramonti duravano ore e ore, come se la giornata si rifiutasse di terminare, e quel sole infantile, già mezzo nascosto tra le montagne azzurre, stesse troppo bene in cielo. Erano tramonti lentissimi, pieni di tutti i colori più meravigliosi; dove il rosso del fuoco passava all’arancione, e al giallo; e a uno strano verde mattino pieno d’incanto e al viola dei fiori, chiaro chiaro come le prime violette di primavera, e poi sempre più cupo e notturno. Quei colori scendevano dalle nuvole, si muovevano dolcemente, riempivano l’aria e sembrava la facessero densa come un’acqua trasparente.
D’un tratto, in quell’aria visibile, apparivano i pipistrelli, e svolazzavano silenziosi, in cerchi incerti, neri come la notte prossima, e così lontana.
(C. Levi)

A catafascio nel gelo
Mentre dalla finestra del mio studio guardo la strada illividita dall’inverno, spazzata dal gelido tramontano, deserta, vedo venire in bicicletta, correndo in senso inverso, due uomini rimbacuccati, i quali rasentano a testa bassa l’alto ciglio della siepe per ripararsi dal vento che taglia loro la faccia paonazza.
Arrivati proprio davanti a me senza essersi visti l’un l’altro, essi si cozzano con violenza e vanno entrambi a catafascio con le loro biciclette contro il ciglio indurito del gelo.
Restano un momento lì a gambe all’aria, come istupiditi; poi, in silenzio, si distrigano dalle loro macchine, si rimettono in piedi, si tastano tutto il corpo, si scuotono la terra e gli stecchi dagli abiti, raccattano il cappello; infine, presa per il manubrio ciascuno la sua bicicletta, ne stringono fra i ginocchi la ruota davanti per raddrizzarla.
Nel fare questa operazione, uno di loro dice: “Andavo a testa bassa, non vedevo”.
“Sono cose di poca importanza” risponde l’altro.
Tutt’e due inforcano di nuovo la bicicletta e se ne vanno pedalando, ognuno per il suo verso.
(A. Soffici)

Le prime passeggiate
Era un loro modo di passare il pomeriggio, ora che le giornate cominciavano a farsi più lunghe e c’era già per aria come un presentimento di primavera, andarsene con un libro o un lavoro in campagna. O nelle pinete verso l’interno, dove il profumo della resina creava un’aria rarefatta e remota: oppure lasciandosi il borgo alle spalle e prendendo il viottolo che portava al mare.
Anche qui c’era una pineta, ma più limitata e raccolta, e il paesaggio diventava arido, forse per le vicinanze delle cave di pietra. C’erano larghe zone incolte, avvallamenti ruvidi e cunette folte di verde, qua e là: i cespugli delle ginestre, la lava seccata e indurita, il binario dei carrelli per il trasporto delle pietre, un’aria di brughiera; e più giù il mare, con un modesto cantiere allestito nelle rovine d’una torre saracena.
Le case coloniche erano rade, calcinate di bianco, ma con l’intonaco screpolato dalle intemperie del luogo aperto aumentavano la desolazione del paesaggio più che mitigarne l’asprezza con una nota di umanità.
(M. Prisco)

Giochi sulla spiaggia
Siamo rimasti sulla spiaggia tutta la mattina. Ogni minuto Luigino aveva una nuova idea. Inventai anch’io un gioco che piacque molto. Ciascuno, a turno, faceva il cacciatore e con la palla cercava di colpire gli altri che fuggivano. Chi era colpito aveva l’obbligo di buttarsi a terra mentre la caccia continuava. Se il cacciatore mancava il bersaglio, un altro poteva raccogliere la palla e diventare a sua volta cacciatore. Vinceva chi restava solo fra i caduti. Naturalmente Luigino era il più bravo. Anche Marie era bravissima. Non avrei mai creduto che fosse così svelta ad abbassarsi per schivare il colpo ed acciuffare la palla che rotolava via. S’era accesa in viso e quando aveva la palla era implacabile.
Hai voglia di fuggire!
Ti veniva dietro, instancabile. Per correre più veloce s’era tolta le scarpe e ti arrivava addosso in quattro salti. E, infine, pam, il suo tiro faceva sempre centro.
Negli intervalli fra un gioco e l’altro sedevamo in faccia al mare. La sabbia era tiepida e faceva piacere starsene lì a crogiolarsi al sole.
(M. Cancogni)

Piove
Sembra un gran pianto del cielo. L’asfalto delle strade cittadina luccica… Nei campi i fossi gonfi d’acqua borbottano. I fiumi in piena corrono limacciosi e portano quanto hanno rapinato dalle prode. Le case quasi spariscono tra i veli della pioggia… E per fortuna febbraio è corto…
(G. Fanciulli)

Dettati ortografici FEBBRAIO – Tutte le opere contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.

Recita per Carnevale – CARNEVALE IN RIMA

Recita per Carnevale – CARNEVALE IN RIMA – Personaggi: Meneghino, Colombina, Arlecchino, Pinocchio, Pierrot, Brighella, Pantalone, le damine, le comari, Balanzone, le pettegole, pagliacci e Gianduia…

Meneghino
Io sono Meneghino
ed ecco la mia Cecca.
Di questa gran Milano
le maschere noi siamo.
Siamo persone serie
e sodo lavoriamo
ma quando è carnevale
saltar, ballar vogliamo!
Oh, chi ci tiene allora,
vogliamo far buon sangue
almeno per un’ora!

Colombina
Ed io son Colombina
la moglie di Arlecchino
un buon uomo, sapete,
ma il carattere, ahimè,
non c’è, non c’è, non c’è.
Cerco sotto i colori
smaglianti del vestito
ma invano: se n’è ito!
Mi infurio qualche volta
faccio baruffa, e poi
accetto il mio destino,
e pace sia con noi!

Arlecchino
Non badarci, cara mia
non crucciarti per me,
quello che oggi è stato,
domani è già passato…

Pinocchio
Fate largo, fratelli,
fate largo al mio naso,
vedete che sventura?
La fata mi ha punito
perchè senza volerlo
qualche volta ho mentito.
Il trascinarmi attorno
questa lunga appendice
è cosa ben penosa
e mi rende infelice!
Oh, la brutta bugia!
Dobbiam tutti lottare
per ricacciarla via.
Ma questo non è il giorno
di pianto e di lamento
il signor carnevale
esige cuor contento.
In me voglio fidare
per poter l’allegrezza
di nuovo ritrovare.

Pierrot
Oh, quale quale incanto
questa sera di luna!
Invita a passeggiare
a cantare, a suonare.
Mi trema qui nel cuore
la dolce serenata
che nasce dall’amore
per una bella fata.

Brighella
Non perderti nel canto
fratello tristolino
ci metti una gran voglia
di fare un sonnellino.
Andiamo, andiam, brighiamo,
che oggi è carnevale
non si deve sognare
ma saltare e ballare.

Pantalone
Oh, non corriamo troppo!
Mi voglio divertire,
ma con calma, fratelli.
Mi fareste soffrire
se dovessi affannarmi:
amo la vita quieta
senza scosse funeste,
il mio cuor non è fatto
per le grandi tempeste.
Vi seguo piano piano
fratelli burrascosi
chi sa camminare piano
va sano e va lontano.

Damina
Permetti a una damina
che composta vuol stare
di farti compagnia
nel tuo tranquillo andare?
Io pure amo le cose
gentili e misurate
mi fan rabbrividire
le genti non pacate.

Comari
Oh, dio, che schizzinosa!
Guarda, guarda, sorella,
non sembra una pavona
con quella veste bella?

Balanzone
Voi siete criticone
mie piccole comari
badate solo a voi
e non ai vostri pari.
Il dottor Balanzone
la sa lunga, sapete?
Voi criticate solo
quello che non avete.

Pettegola
Mio caro Balanzone
oggi si può parlare
non fare il dottorone
vogliamo ridacchiare.

Pagliaccio
Chi non ha voglia, cari,
di smascellarsi un poco
oggi dalle risate?
Questi istanti son rari!
Eccomi qui per questo
un salto, un bel balletto,
un capitombolino
un piccolo scherzetto,
fan ridere un pochino.
Io tutti ve li faccio
per obbedire sempre
al mio umor di pagliaccio.
Se poi divento triste
me ne vado lontano
a piangere da solo
in luogo fuori mano.
Ma ora son pagliaccio
e ridere vi faccio!

Gianduia
Sì, sì, ridiamo pure
io da Torino vengo
per ridere con voi.
Mi dicono “Bugiardo”
ma non è vero affatto
e lo prova questo oggi
il miracolo che ho fatto.
E’ l’amore che mi muove
oh miei cari fratelli
perchè lo stare insieme
è un piacere tra i più belli.
Balliamo dunque amici
e godiamoci uniti
senza turbarle mai
queste ore felici!

di E. Minoia

Commedia dell’arte – recite con le maschere tradizionali italiane

Commedia dell’arte – recite con le maschere tradizionali italiane. Questi brevi dialoghi, pensati per le recite scolastiche, sono anche degli ottimi strumenti per esercitare la lettura in modo divertente. Facendo in modo che ogni bambino legga solo la voce di un personaggio, si stimolano tutti i bambini a seguire il testo mentre legge il compagno, e si migliora nella lettura a voce alta la capacità di cogliere l’intonazione e l’espressività data dai segni di interpunzione e dal contenuto del testo stesso. E’ inoltre una bella attività per viaggiare tra le Regioni italiane attraverso le maschere della Commedia dell’Arte.

Ho raccolto tutti i copioni in formato ebook, qui:

Questi sono i dialoghi 

Commedia dell’arte – Scherzo di Carnevale

La scenetta si svolge su una piazza da fiera tra Brighella, venditore di cialde, e Arlecchino.

Brighella: (davanti al banco delle cialde) Da Brighella, orsù venite; e le cialde sue sentite, fatte al gusto bergamasco, da condir con un buon fiasco!
Arlecchino: Anche tu alla bancarella, e che vendi, buon Brighella?
Brighella: cialde, cialde ancor fumanti, ma per te saran pesanti (tra sè) Ci scommetto che Arlecchino non ha il becco di un quattrino!
Arlecchino: belle, invero!… (tra sè) Che disdetta rimaner sempre in bolletta!
Brighella: Bella gente; cialde uguali, fan passare tutti i mali; e la spesa e ben meschina: cento lire una dozzina! E, su dodici, ecco qua: una in dono se ne avrà!
Arlecchino: (tra sè) Una in dono? O intesi male? Che pensata originale!
Brighella: Arlecchino, vuoi comprare? Vieni avanti, è un buon affare!
Arlecchino: Dimmi ancor… dodici cialde…
Brighella: cento lire… calde calde!
Arlecchino: E una cialda… hai detto tu…
Brighella: La regalo in sovrappiù!
Arlecchino: (servendosi di una cialda ed allontanandosi in fretta) Allor senti, buon Brighella, per intanto prendo quella e, per le altre a pagamento, tornerò un altro momento! (mangia la cialda fra le risa del pubblico)
Brighella: il furfante m’ha giocato… Ah, il citrullo che son stato!


Bugie

Brighella: avevo lasciato sul tavolo un bel pezzo di torrone. E’ sparito! Ehi, Arlecchino. Ma che guancia gonfia! Che ti succede?
Arlecchino: un terribile mal di denti. Ahi! Ahi!
Brighella: un momento fa stavi bene, però…
Arlecchino: improvvisamente ho sentito un gran male e il dente si è gonfiato!
Brighella: il dente? Vorrai dire la guancia
Arlecchino: Sì, la guancia destra
Brighella: ma non è la sinistra? A proposito: c’era qui un pezzo di torrone avvelenato per i topi…
Arlecchino: Avvelenato? (sputa il torrone) Aiutooooo!

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Commedia dell’arte – L’imbroglione bastonato

Scena 1 Una stanza in casa di Brighella. Sulle pareti di fondo la porta d’ingresso. La stanza è arredata con poche seggiole spagliate e un tavolino zoppicante. All’aprirsi del sipario, Brighella è in scena, seduto in terra, intento a rattopparsi le scarpe. Si ode bussare all’uscio.

Colombina: E’ permesso? (entra appoggiandosi ad un grosso ombrello)
Brighella: (alzandosi) avanti, avanti. Che cosa comanda?
Colombina: sta qui di casa un certo Arlecchino?
Brighella: sì, abita qui; ma in questo momento non c’è
Colombina: va bene, l’aspetterò. (si siede)
Brighella: Madamigella, il mio amico Arlecchino è uscito per un affare di premura; non so quando tornerà. C’è il caso che rientri molto tardi
Colombina: non importa. L’aspetterò lo stesso. (Si accomoda meglio sulla seggiola che scricchiola)
Brighella: Se intanto vuole dire a me di che cosa si tratta…
Colombina: Non vi prendete pena, brav’uomo. Quello che ho da dire, lo dirò al signor Arlecchino in persona quando si degnerà di tornare. Devo dirgli due paroline… (accompagna le ultime parole con un gesto minaccioso dell’ombrello).

Scena 2
Pulcinella: si può? (entra appoggiandosi ad un grosso bastone)
Brighella: Avanti… oh, caro Pulcinella, qual buon vento ti porta?
Pulcinella: (minaccioso) vento di bufera, caro Brighella
Brighella: che dici? Non comprendo…
Pulcinella: Mi capisco da me… C’è quella buona lana di Arlecchino?
Brighella: Sì, non vedo l’ora di vederlo (alza l’ombrello in maniera minacciosa)
Pulcinella: capisco. Ed io non vedo l’ora di suonarlo! (agita il grosso bastone)

Scena 3 (si odono per le scale i passi di Arlecchino che sale cantando)
Arlecchino: Fior di mortadella! Voglio mangiare e bere un anno intero, in barba a Colombina e Pulcinella…
(Colombina e Pulcinella balzano in piedi e si mettono ai lati della porta: appena Arlecchino entra, lo prendono a ombrellate e a bastonate cantando):
Colombina e Pulcinella: Fior di imbroglione! Va’ a lavorar invece di rubare! E balla intanto al suono del bastone!

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Commedia dell’arte – Castelli in aria

Rosaura: (la padrona) Colombina! Colombina!
Colombina: (la cameriera) Eccomi, signoara, Che c’è?
Rosaura: un cliente, un cliente di riguardo!
Colombina: e com’è?
Rosaura: com’è, com’è! Vai di là! Vallo a servire e lo vedrai. Ma spicciati e trattalo bene
Colombina: volo! (esce)
Rosaura: che cliente! Che vestiti!
Colombina: (rientra esultante) Signora, signora! Mi ha ordinato anguilla al forno, vino di bottiglia…
Rosaura: dici davvero? Ma questo è un gran cliente! Servilo subito, per carità
Colombina: lasci fare a me, signora. Qui si diventa ricche! (esce di corsa)
Rosaura: uno, due, tre, mille pasti. E dopo quello…
Colombina: (rientrando) Ecco, è servito. M’ha detto grazie con un cenno del capo. Pareva un duca!
Rosaura: sai che ti dico? Che se a quel cliente piacerà la nostra tavola, ritornerà
Colombina: e porterà con sè gli amici
Rosaura: duchi e marchesi
Colombina: conti e baroni
Rosaura: principesse, dame eleganti Colombina: vedremo splendere monili e anelli
Rosaura: sarà la ricchezza. Trasformeremo la trattoria. Diventerà un albergo di prima classe
Colombina: ed io sarò la direttrice della servitù
Rosaura: le mie colleghe mi invidieranno. Ma non importa. Una splendida gondola mi porterà in sogno lungo la Riva degli Schiavoni
Colombina: (affacciandosi alla porta di fondo) Signora!
Rosaura: che c’è? Colombina: (coprendosi gli occhi con le mani) Il cliente! Ha mangiato tutto!
Rosaura: beh, che c’è di male?
Colombina: ha mangiato tutto e se n’è andato senza pagare!
(Rosaura sviene)


Commedia dell’arte –  Il grano d’oro

Atto 1 (Nella casa di Arlecchino; una stanza assai povera)
Arlecchino: signor dottore, sto molto male
Dottore: dove, figliolo mio, dove?
Arlecchino: nelle tasche
Colombina: ha il vizio di tenerle sempre vuote
Dottore: vediamo… uhm! E’ un vuoto spaventoso! (esamina una tasca…). Ma che cos’è questo seme?
Arlecchino: sarà un chicco di grano, o di miglio, avanzato da quelli che offro ai piccioni sulla piazza
Dottore: (esamina il seme) Ma no, ma no… Questo è un grano d’oro… Granum auriferum… perbacco! Vale un tesoro!
Arlecchino: Un tesoro? Davvero? Qua, qua…
Dottore: Granum auriferum… rarissimo. Preziosissimo. Avete un vasetto? Un po’ di terra?
Colombina: sì sì
Dottore: pianterete questo grano, e in capo a sei mesi la pianta vi darà tanti pomi, tutti d’oro!
Arlecchino: oh, pomidori!
Dottore: dico che saranno pomi fatti d’oro. Però perchè la pianta dia il suo frutto, bisogna annaffiarla…
Colombina: con l’acqua fresca?
Arlecchino: con la malvasia?
Dottore: no, col sudore della fronte. Tu poi, Colombina, ascoltami bene. (parla sottovoce a Colombina)

Atto 2 (la medesima stanza, che ha un aspetto meno misero. Sul davanzale della finestra c’è un vasetto con una piantina)
Brighella: (entrando) C’è Arlecchino?
Colombina: è a lavorare
Brighella: anche oggi? Povero amico mio, è ammattito. Perduto. Spacciato.
Colombina: voi siete un uomo perduto, che passate i giorni all’osteria e vorreste trascinare anche gli amici alla rovina!
Brighella: badi come parla, signora Colombina, io sono un servo onorato
Colombina: non vi dico nè sì nè no, ma sono contenta che Arlecchino non frequenti più la vostra compagnia. Ah! Eccolo che viene!
Arlecchino: (entrando in furia) Lasciatemi passare, che il sudore si raffredda!
Brighella: e per non raffreddarti vai sotto la finestra?
Arlecchino: (curvo sul vasetto del davanzale) Devo provvedere all’innaffiatura del mio grano dorifero
Brighella: grano? Dorifero? E con che cosa lo annaffi?
Arlecchino: col sudore, caro, col sudore della fronte!
Brighella: povero amico mio! E’ davvero ammattito! (esce di corsa)

Atto 3 (la stanza non ha più quell’aria di povertà che prima faceva male. Vi è qualche mobile nuovo, e le tendine candide fanno allegria)
Arlecchino: eppure, comincio a credere che Brighella abbia ragione. Per questo grano indorifero io lavoro dalla mattina alla sera. Lustro le scarpe ai forestieri, spazzo le strade, porto lettere urgenti, scarico le tartane, spolvero le insegne delle botteghe, scaccio le mosche… tutti i mestieri. E lui? (guardando il vasetto sul davanzale). Il signor grano ha messo fuori un palmo di piantina, e ancora nemmeno un pomo
Colombina: il dottore ha detto che ci vorranno sei mesi, caro Arlecchino
Arlecchino:  e proprio oggi scade il semestre
Colombina: ma davvero?
Arlecchino: verissimo, difatti ecco qui il dottore
Dottore: buongiorno, amici
Arlecchino: dottore, se è venuto per verdere il suo grano dorifero sta fresco! Per ora niente.
Dottore: comincerò col visitare le tue tasche… Ehi! Andiamo molto meglio! Qui ci sono tre monete d’argento!
Arlecchino: oh, a furia di sudare, ne è passato di denaro nelle mie mani!
Colombina: è un bel gruzzolo, eccolo qui! (va al cassetto, ne trae un rotolo di monete e lo mostra)
Arlecchino:  possibile? Tutto questo denaro è nostro?
Colombina: sicuro. Da quando non vai più all’osteria e lavori, io ho seguito con impegno i consigli del buon dottore. Cioè ho messo in serbo gran parte dei tuoi guadagni, mentre non ti ho fatto mancare nulla; e ho anche potuto pagare i debiti e abbellire un poco questa casa.
Dottore: come vedi, il granum auriferum ha mantenuto la promessa. I suoi pomi sono nati nelle tue tasche.
Arlecchino:  Ho capito! Bellissima cura…


Il naso di Cirano

Cirano: Sbrigati! O rispondi! Perchè mi guardi il naso?
seccatore: (sbigottito) io…
Cirano: (andandogli addosso) perchè ti confondi?
seccatore: (retrocedendo) vostra grazia s’inganna!
Cirano: dimmi… è molle  e cascante come la proboscide, forse, di un elefante?
seccatore: io… non…
Cirano: è adunco come il becco di una civetta?
seccatore: io…
Cirano: forse alla punta c’è qualche pustoletta?
seccatore: ma…
Cirano: qualche mosca forse vi passeggia o vi dorme? Che c’è di strano?
seccatore: oh!
Cirano: forse c’è un fenomeno straordinario?
seccatore: ma di non porvi gli occhi mi ero fatto un dovere!
Cirano: e perchè non guardarlo, se è lecito sapere?
seccatore: io…
Cirano: vi disgusta, dunque?
seccatore: signore…
Cirano: il suo colore vi fa pena?
seccatore: signore…
Cirano: vi par di forma orrenda?
seccatore: ma niente affatto!
Cirano: e allora, perchè fate quel muso? Lo trovate forse un po’ troppo diffuso?
seccatore: ma io lo trovo invece piccolo, impercettibile…
Cirano: Come! Mi accusate di una cosa così ridicola? Possibile? Piccolo il naso mio?
seccatore: cielo!
Cirano: enorme il mio naso? Vilissimo camuso, siate ben persuaso che di quest’appendice mi glorio e mi delizio; capita che un gran naso sia il vero e proprio indizio di un uomo buono, affabile, cortese, liberale, di coraggio e di spirito, quale io sono e quale non vi sarà mai lecito di credervi, marrano! Perchè l’ingloriosa faccia che la mia mano si degna di cercare sul vostro collo è priva… (lo schiaffeggia)
seccatore: ahi! ahimè!
Cirano: … di fierezza, di slancio, d’inventiva, di lirismo, di genio, di grandezza morale, di naso insomma. Come quella… (lo rivolge per le spalle, aggiungendo il gesto alla parola) … che il mio stivale viene a cercarvi sotto le terga!
seccatore: (fuggendo) aiuto!
Cirano: avverto, a chi trovi faceto il centro del mio viso! E se il burlone è nobile, a punirlo provvede, davanti, e un più in alto, la spada  e non il piede!

(E. Rostand-Cirano di Bergerac)

Il seccatore

Pantalone sta leggendo un libro. Bussano alla porta d’ingresso e Arlecchino va ad aprire; poi, con sgambetti e piroette, farà da spola tra il visitatore e il padrone.
Cavaliere di Ripafratta: vorrei parlare col tuo padrone, è in casa?
Arlecchino: non lo so Cavaliere di Ripafratta: e allora fammi il favore di andare a vedere
Arlecchino: non occorre, adesso glielo domando. (A Pantalone) Padrone, c’è di là un tale che vorrebbe parlare con lei, che cosa gli dico?
Pantalone: Auff! Non si può stare un momento tranquilli. Digli che non ci sono.
Arlecchino: Sta bene. (al cavaliere)Il mio illustrissimo signor padrone, Pantalone dei Bisognosi, in casa non c’è.
Cavaliere di Ripafratta: ne sei certo?
Arlecchino: Certissimo. Me l’ha detto lui.
Cavaliere di Ripafratta: ebbene, io sono il Cavaliere di Ripafratta. Digli che devo assolutamente parlargli. Si tratta di un affare che urge e che non può essere rimandato.
Arlecchino: glielo dico subito! (A Pantalone) Quel tale dice di essere il Cavaliere di Ripafritta e che si tratta di un affare che urge
Pantalone: quel tale è un seccatore! Gliel’hai detto che non sono in casa?
Arlecchino: gliel’ho detto, ma vuol parlare lo stesso
Pantalone: digli che non posso riceverlo, che sto poco bene, che sono a letto ammalato.
Arlecchino: Signorsì. (al cavaliere) Eccellenza, il mio padrone non può riceverla perchè sta poco bene. E’ a letto ammalato.
Cavaliere di Ripafratta:  oh, mi dispiace. Ma sono capitato a proposito. Ho studiato medicina e mi basterebbe tastargli un momentino il polso, per sapere di che malattia è affetto. Va’ a dirglielo.
Arlecchino: Vado. (a Pantalone) Il Cavaliere ha fatto un grande discorso.
Pantalone: insomma, non vuol andarsene?
Arlecchino: no, non vuol andarsene. Ma gli basterebbe tastarle il polso.
Pantalone: vorrebbe tastarmi il polso? Digli che ho una malattia contagiosa. Digli che ho gli orecchioni e se mi viene vicino se li prende anche lui. Vai, corri.
Arlecchino: corro con tutte le mie gambe. (al cavaliere) Il mio padrone ha le orecchie asinine e se uno lo tocca diventa un asino anche lui
Cavaliere di Ripafratta: niente paura! E’ una malattia che ho avuto anch’io da bambino e chi l’ha avuta una volta non la prende più. Ma digli che, per fortuna, ho con me una pomata prodigiosa e se mi permette di spalmargliela, guarisce all’istante.
Arlecchino: E’ una vera fortuna! (a Pantalone) Dice che ha una marmellata speciale da mettere sulle orecchie Pantalone: questa è una vera persecuzione! Io voglio essere lasciato in pace. Digli che sono moribondo e sto dettando il testamento
Arlecchino: è una buona idea. (al cavaliere) Il mio padrone è occupatissimo a fare il testamento e deve farlo in fretta perchè sta per morire
Cavaliere di Ripafratta: il questo caso potrei essergli utile come testimone e metter la firma sul documento. Va’ subito a dirglielo
Arlecchino: (a Pantalone) dice che potrebbe far da compare
Pantalone: digli che sono morto Arlecchino: (al cavaliere) il mio padrone è morto
Cavaliere di Ripafratta: sono veramente addolorato. Vengo a recitare una preghiera per lui. (Passa imperterrito davanti all’esterrefatto Arlecchino)


Commedia dell’arte – Fabrizio e Succianespole (Arlecchino)

Fabrizio:Ehi Succianespole!
Succianespole: Signore…
Fabrizio: E’ acceso il fuoco?
Succianespole: gnor no
Fabrizio: come stiamo in cucina?
Succianespole: Bene
Fabrizio: perchè non è ancora acceso il fuoco?
Succianespole: perchè non c’è legna
Fabrizio: non mi star a far lo scimunito, chè oggi ho da dar pranzo a un’eccellenza
Succianespole: ci ho gusto
Fabrizio: Succianespole, che cosa daremo a pranzo a sua eccellenza?
Succianespole: tutto quello che comanda vostra eccellenza
Fabrizio: quante volte mi faresti arrabbiare con questa tua flemmaccia maledetta!
Succianespole: io sono lesto
Fabrizio: lo sai fare il pasticcio di maccheroni?
Succianespole: gnor sì
Fabrizio: un fricandò alla francese?
Succianespole: gnor sì
Fabrizio: una zuppa con l’erbucce?
Succianespole: gnor sì
Fabrizio: con le polpettine?
Succianespole: gnor sì
Fabrizio: e coi fegatelli arrostiti?
Succianespole: gnor sì
Fabrizio: hai denari da spendere?
Succianespole: gnor no
Fabrizio: ti ho pur dato uno zecchino!
Succianespole: quanti giorni or sono?
Fabrizio: lo hai già speso?
Succianespole: gnor sì
Fabrizio: e il tuo salario che ti ho dato, l’hai speso?
Succianespole: gnor sì
Fabrizio: e non hai più un quattrino?
Succianespole: gnor no
Fabrizio: maledetto sia il gnor sì e il gnor no. Si sente altro da te che gnor sì e gnor no?
Succianespole: insegnatemi che cosa ho da dire
Fabrizio: bisogna pensare a trovar denari
Succianespole: gnor sì
Fabrizio: quante posate ci sono?
Succianespole: sei, mi pare
Fabrizio: sì, erano dodici, se le ho impegnate restano sei. Siamo in quattro, impegniamone due.
Succianespole:  gnor sì
Fabrizio: vai al Monte e spicciati
Succianespole: gnor sì
Fabrizio: non mi fare aspettare due ore
Succianespole:gnor no
Fabrizio: andremo a spendere quando torni
Succianespole: gnor sì
Fabrizio: c’è vino?
Succianespole: gnor no
Fabrizio: c’è pane?
Succianespole: gnor no
Fabrizio: gnor sì, che tu sia bastonato
Succianespole: gnor no…

(Carlo Goldoni)

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A Carnevale ogni scherzo vale

Brighella: (solo, parla fra sè) Non so che cosa darei per potermi pappare una di quelle scatole di cioccolatini che al solo vederle in vetrina ti fan scendere giù per la gola una certa acquolina…
Arlecchino: (che giunge in quel momento) Ciao, Brighella. Ho piacere di incontrarti. Può darsi che tu mi possa aiutare. Senti, ho assoluto bisogno di duecento lire che mi servono subito. So che tu sai trovare il modo di farle saltare fuori. E non lo farai gratuitamente, s’intende. Guarda qui: una scatola di cioccolatini che mi è stata regalata due giorni fa per il mio compleanno. E’ tua, se mi dai duecento lire. Eh, che ne dici?
Brighella: (che fa gli occhi lucidi nel vedere l’oggetto dei suoi sogni) Perdinci, Arlecchino, che bella scatola! Cioè, no, non è poi tanto bella… e duecento lire sono duecento lire…
Arlecchino: ehi, ma dico? Non lo sai che una scatola simile la pagheresti duemila lire in un negozio come si deve? E tu fai il tirchio per duecento… bene… bene… o prendere o lasciare. Decidi.
Brighella: per avere duecento lire, io le avrei. Me le ha regalate mio zio proprio ieri per un servizio che gli ho reso. Ma dartele proprio tutte… non potresti accontentarti di 150?
Arlecchino: sei matto? O 200 o non se ne fa niente. Per l’ultima volta: accetti o non accetti?
Brighella: (che non resiste alla dolce tentazione) E va bene, eccoti le 200 lire.
Arlecchino: ed eccoti la scatola. (consegna la scatola e poi se ne va di gran corsa)
Brighella: (senza metter troppo tempo in mezzo rompe la carta che avvolge la scatola, rompe la scatola stessa, e ahimè! Che cosa trova? Gusci di castagne, di noci e di nocciole) Aiuto! Al ladro! Gente, venite! Mi hanno rubato 200 lire! E’ stato Arlecchino! Pigliatelo!
Un ragazzo: (fra il gruppo di alcuni che si sono avvicinati alle sue grida) Ehi, Brighella! Cosa dici? Come è andata? Come ha fatto Arlecchino a rubarti 200 lire?
Brighella: Non è in verità che me le abbia proprio rubate. Ma io gliele ho date in cambio di una scatola di cioccolatini. Ed ecco invece che cosa ho trovato! (mostra le bucce)
Ragazzo: Ah, ah, furbo Arlecchino! Più furbo di te che credi di esserlo tanto. Non sai che siamo a Carnevale? E che a Carnevale ogni scherzo vale? Smettila di fare quella faccia e fatti furbo, un’altra volta!


Commedia dell’arte –  Arlecchino e l’oste

Arlecchino, a cavallo del suo asino, viaggia da qualche ora lungo una strada di campagna. Ha in tasca soltanto dieci soldi ed è affamato. Trova finalmente un’osteria e vi entra…
Oste: cosa volete?
Arlecchino: Tre soldi di minestra, tre di pane, tre di salame e tre di vino (L’oste gli mette in tavola quanto ha ordinato)
Arlecchino: (dopo aver mangiato) se ho più fame di prima, devo pagare lo stesso il conto?
Oste: ciò che si mangia si paga, poco o tanto che sia
Arlecchino: giusto. Quanto devo pagare?
Oste: dodici soldi in tutto
Arlecchino: Ohibò, qui c’è un imbroglio.
Oste: come sarebbe a dire?
Arlecchino: il conto è presto fatto: tre di minestra, tre di pane e tre di salamino. Nove in tutto.
Oste: e il vino?
Arlecchino: ah, dico bene. Tre di pane, tre di minestra e tre di vino.
(L’oste comincia a perdere la pazienza e.. continuando a tenere alzate tre dita della mano destra, ripete sottovoce: “Tre di minestra, tre di pane…”.
Arlecchino posa sul tavolo nove soldi e si allontana col ciuco, lasciando l’oste immerso nei suoi calcoli
Arlecchino: (parlando all’asino) Vecchio mio, allegria! M’è rimasto un soldo per comprarti un po’ di biada!
Oste: (nella bettola, facendosi portavoce con la mano) E il salamino?
Arlecchino: (gridando da lontano) Se lo incontra me lo saluti tanto!


Commedia dell’arte – Dialogo di Arlecchino e Pantalone

Arlecchino: oh, come sono stanco! Non ho proprio voglia di far nulla!
Pantalone: Arlecchino!
Arlecchino: Uh, è già qui! Un’idea! Mi fingerò sordo e così non lavorerò
Pantalone: Arlecchino Arlecchino, va’ subito a prendermi la medicina!
Arlecchino: Come? Devo andare in cucina? Pantalone: Ma che cucina! La medicina ho detto. Corri a prenderla in farmacia!
Arlecchino: quale Lucia? Non ne conosco io di Lucia!
Pantalone: ma cosa dici, Lucia! Sei diventato matto?
Arlecchino: il gatto? Queste è bella!
Pantalone: Mattooo!
Arlecchino: No, mi son venuti gli orecchioni e sono diventato sordo…
Pantalone: che cosa?
Arlecchino: no, non la rosa! Sordo!
Pantalone: sei diventato sordo? Ora prenderò il bastone e ti farò guarire!
Arlecchino: no, no! Aiuto! Vado subito in farmacia!

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Commedia dell’arte –  Pulcinella e le frittelle

Rosaura: Pulcinella!
Pulcinella: ai suoi ordini, signora
Rosaura: ascoltami bene. Ora verrà Colombina. Mentre io parlerò con lei, tu sorveglierai le frittelle perchè non brucino
Pulcinella: (facendo un inchino) Ma con piacere, signora. (Suona il campanello)
Rosaura: Ecco la mia cara Colombina! Va’ va’ Pulcinella! (Questi fa un altro inchino ed esce. Entra Colombina)
Colombina: Rosaura mia, come sei bella! Che abiti splendidi!
Rosaura: anche tu Colombina sembri una regina
Colombina: non facciamoci troppi complimenti, amica mia. Andiamo piuttosto sul balcone per vedere le mascherine… (si ode un urlo di Pulcinella che arriva in scena tenendosi una mano sulla bocca)
Colombina e Rosaura: Che cosa hai fatto,  Pulcinella?
Pulcinella: (continua a tenersi una mano sulla bocca e gira intorno, mugolando)
Rosaura: vuoi dire che cosa hai fatto? Pulcinella: (parlando male) Sorvegliavo le frittelle e mi… mi… mi sono scottato la lingua
Colombina: Come?
Pulcinella: mi sono scottato la lingua.
Rosaura: Ah, briccone! Tu mangiavi le frittelle, altro che storie! Via di qua, prima che ti bastoni! (Pulcinella scappa gesticolando)
Colombina: Perdonalo, Rosaura
Rosaura: sì, lo perdonerò, tanto si è già punito da solo.


Il bugiardo sbugiardato

Arlecchino: ciao Brighella Brighella: ciao Arlecchino, che fai da queste parti? E come sei vestito bene!
Arlecchino: la fortuna, caro mio, sono un signore
Brighella: vedo… che ti è capitato?
Arlecchino: viaggio in incognito Brighella: che nome ti sei preso?
Arlecchino:  Conte dei Talleri
Brighella: Uhm… bello. E che fai?
Arlecchino: nulla. Sono ricco.
Brighella: beato te…ora vado, ho fretta.
Arlecchino: sempre a piedi, eh Brighella? Io invece, carrozze e cavalli.
Brighella: come mai sei solo e a piedi?
Arlecchino: ehm… aspetto. Così, per mio piacere e diletto
Brighella: Arlecchino, oh, mi scusi. Signor Conte dei Talleri…si ricordi di me, del povero Brighella
Arlecchino:  non dubitare
Pantalone: (di dentro) Arlecchino! Arlecchino! Ma dove si è cacciato quel servitore fannullone?
Arlecchino: Santo cielo, il mio padrone…
Brighella: ma come? Non sei qui per piacere?
Arlecchino: povero me. Bisogna che vada subito. Per forza! Addio, Brighella…
Brighella: addio signor bugiardo,conte dei Talleri!

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Commedia dell’arte – I due fannulloni

Narratore: Arlecchino e Pulcinella sono a letto. Fa molto freddo e un colpo di vento a un tratto spalanca la porta…
Arlecchino: per favore, chiudi la porta
Pulcinella: Già… è un favore che volevo chiederti io
Arlecchino: ma io mi sento male. Devo avere la polmonite
Pulcinella: mi alzerei subito, ma ho un gran mal di testa, quattordici geloni e l’appendicite
Narratore: il vento soffia alla porta: uh! Uh! Arlecchino e Pulcinella ficcano il capo sotto le coperte. Intanto entra il Dottor Balanzone
Balanzone: perbacco! Mai visto gente che dorme con la porta aperta con questo freddo. Ma i padroni dove sono?
Arlecchino e Pulcinella: siamo qui sotto.
Balanzone: perchè non avete chiuso la porta?
Arlecchino: io ho la polmonite
Pulcinella: e io l’appendicite
Balanzone: bene bene, sono arrivato al momento buono… Prendo i ferri e in quattro e quattr’otto…
Arlecchino: i ferri? Aiuto!
Pulcinella: i ferri? Aiuto!
Narratore: e i due fannulloni saltano dal letto e scappano a gambe levate…


Discussione aritmetica

Arlecchino: prima di tutto pensiamo a mangiare, sacco vuoto non sta ritto
Pulcinella: pensiamo a mangiare e a bere, a bere e a mangiare
Colombina: mettetevi a sedere e vi servo subito: quanti siete?
Gianduia: io uno, Arlecchino due, Pulcinella tre, Pantalone quattro, Stenterello cinque, Meo Patacca sei, e io sette. Siamo sette, sette precisi.
Meo Patacca: e invece siamo cinque: Stenterello, Pantalone, Pulcinella, Arlecchino e tu. Dico cinque, e se non ci credi ho qui il mio bastone che conta meglio di tutti
Gianduia: e allora se siamo cinque due di noi restano senza mangiare
Stenterello: io sarò uno dei due, perchè non ho quattrini
Pantalone: che importa se non hai quattrini? Non sai che pago sempre io? Ma Colombina, com’è questa faccenda? Hai portato cinque porzioni e io sono rimasto senza… eppure mi avevano contato!
Meo Patacca: Vuol dire che a tavola c’è qualcuno che prima non c’era
Gianduia: dicevo bene! Eravamo sette, e pagherei per sapere chi è lo stupido che se ne è andato.


Commedia dell’arte – Meglio tardi

(una camera da letto) Scena I
Silvestro: chi bussa?
Dottore: sono io, il dottore
Silvestro: entrate
Dottore: m’hanno detto che state male e son venuto a trovarvi
Silvestro: roba da poco, dottore, un po’ di tosse
Dottore: vediamo… (gli poggia l’orecchio sul petto) …sè, tosse e un po’ di bronchite. Un male di stagione
Silvestro: di stagione o no, se non c’era stavo meglio e potevo curare i miei affari
Dottore: oh, quelli possono anche aspettare
Silvestro: lo dite voi! Con l’aria che tira in paese. Questi assassini non si decidono mai a rendermi i miei soldi.  A farseli prestare sono tutti buoni. Ma a renderli, ti voglio!
Dottore: pagheranno, pagheranno, state sicuro. Intanto prendete queste goccioline prima dei pasti. Faranno miracoli, vedrete. Ora debbo andare.
Silvestro: speriamo bene. Arrivederci,  dottore.

Scena II
Silvestro: chi bussa?
Fedele: Sono Fedele, il vostro amico fedele
Silvestro: vieni, vieni
Fedele: ho qui con me i soldi che vi devo. Ma vorrei riavere quella ricevuta che vi firmai.
Silvestro: non ti fidi? Amico fedele davvero!
Fedele: già… insomma, sapete, da un momento all’altro potreste morire e io non voglio pagare due volte
Silvestro:cosa, cosa, cosa? Io, morire? Ti piacerebbe, eh… Piacerebbe a tutti voi!
Fedele: ma che dite? Io voglio solo la mia ricevuta
Silvestro: (tira fuori da sotto il materasso una borsetta di pelle e con fare misterioso tira fuori un fogliettino) Tieni, Fedele amico fedele. Tieni, ma non farti più vedere, fila

Scena III
Silvestro: chi bussa?
Michele: sono Michele
Silvestro: non conosco Micheli, io
Michele: come? Sono Michele, il becchino
Silvestro: cosa?
Michele: ho saputo che stai male e allora sono venuto a prendere certe misure…
Silvestro: rendimi i miei soldi piuttosto
Michele: e se poi morite?
Silvestro:via di qua. Cani, cani. (grida, ma la tosse lo interrompe)

Scena IV
Silvestro: il dottore, o il becchino… anche l’amico non si fida più. Ma perchè? Cos’ho fatto, che mi lasciano qui solo, come un povero lebbroso. Eppure sono nato anch’io in questo paese. E li conosco tutti meglio di chiunque altro. Se mi volessero un po’ di bene, chi sa quanti sarebbero venuti a tenermi compagnia. Si giocherebbe un po’ a carte… Non si parlerebbe d’affari… Povero Silvestro!
(Mentre sta con la borsetta delle ricevute fra le mani, bussano alla porta)

Scena V
Silvestro: chi bussa?
Don Luigi: Sono don Luigi, il parroco
Silvestro: venite proprio a proposito. Prima il dottore, poi il becchino e ora il prete.
Don Luigi: Perchè dite così, signor Silvestro? Io non sapevo che eravate malato. Son passato di qui e mi son ricordato che non ci vediamo da un pezzo, noi due, e intanto in paese la gente mormora sempre di più contro di voi
Silvestro: ma cosa vogliono, infine!
Don Luigi: Vogliono che vi comportiate più da cristiano! Ecco cosa vogliono. E poi, detto fra noi, cosa volete farne dei vostri soldi? Prima o poi dovrete lasciarli. Se sapeste quanti poveri vi bacerebbero le mani se… Non avreste più paura del dottore, del becchino e del prete. Pensateci signor Silvestro, non è ma tardi per cominciare a fare il bene
Silvestro: ma non vedete che nessuno si cura di me. Mi lasciano solo qui, come un cane arrabbiato
Don Luigi: Volete scommettere che domani avrete la casa piena di gente? Datemi le vostre ricevutine…
Silvestro: (con voce commossa) Tenete, tenete, e pigliate anche quei soldi là nel cassetto del tavolo. Dateli a chi vi pare. Voi sapete più di me e farete meglio. Ma vi prego, non mi abbandonate più. E ditelo, ditelo ai miei compaesani. Silvestro vuol bene a tutti, capito? Anche ai debitori che non pagheranno più!

(U. Grimani)

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Commedia dell’arte – Le lettere per la mamma

Pantalone: (solo) Arlecchino! Arlecchinooo!
Arlecchino: (entra) Eccomi, illustrissimo signor padrone
Pantalone: me lo sai dire perchè quando ti si chiama non rispondi subito? Me lo sai dire?
Arlecchino: signornò, illustrissimo padrone, non lo so
Pantalone: non ho mai visto un servitore infingardo come te. Ora ascoltami bene. Mi ascolti?
Arlecchino: Signorsì, illustrissimo signor padrone.
Pantalone: ho fatto un po’ di ordine nei cassetti della mia scrivania. Tu adesso prendi quella cartaccia e la butti nelle immondizie. Hai capito?
Arlecchino: signorsì, ho capito. Devo buttare via tutta quella cartaccia. Ma proprio tutta?
Pantalone: Sì, tutta. E’ roba che non serve più: vecchi giornali, vecchi conti del lattaio, vecchie lettere
Arlecchino: anche le lettere devo buttar via?
Pantalone: certamente, anche le lettere Arlecchino: signor padrone, queste lettere…
Pantalone: ebbene?
Arlecchino: potrei…
Pantalone: che cosa?
Arlecchino: queste lettere potrei tenermele io?
Pantalone: vuoi tenerle tu? E cosa vuoi farne?
Arlecchino:  è una storia un po’ lunga. Quando io partii da Bergamo… Lei sa che io sono di Bergamo?
Pantalone: Lo so, continua
Arlecchino: dunque, quando io partii da Bergamo, la mamma era molto triste. Mi disse: “Arlecchino mi raccomando, mandami ogni tanto una lettera”…
Pantalone: e tu gliel’hai mandata?
Arlecchino: No
Pantalone: e perchè?
Arlecchino: perchè io non so scrivere e penso che adesso potrei forse mandarle una di queste, ogni tanto…


Commedia dell’arte –  In piazza

Pulcinella: Dove vai, amico Arlecchino?
Arlecchino: Il mio padrone mi ha detto di comperargli due chili di orecchiandoli ben tirati
Pulcinella: Quand’è così, eccoti servito! (gli tira più volte le orecchie)
Arlecchino: Ahi! Ahi! Mi hai fatto male!
Pulcinella: (ridendo) Sono questi gli orecchiandoli ben tirati!
Arlecchino: (piagnucolando) Un’altra volta ci faccio andare il padrone a comprarli.
Pulcinella: Bravo. Ora sentiamo Brighella, che intenzione ha. Ehi, Brighella, non saluti neppure?
Brighella: (capo chino, come se cercasse qualcosa per terra) Mi è accaduta una grave disgrazia. Ho perduto  una moneta d’oro.

Dettati ortografici CARNEVALE

Dettati ortografici CARNEVALE – Una collezione di dettati ortografici sul Carnevale, di autori vari, per la scuola primaria.

Benvenute, mascherine di Carnevale! Quando arrivate voi, mettete il sorriso sulle labbra di tutti. Siete allegre nei vostri costumi variopinti e scherzate sempre. Ecco Pulcinella col suo camiciotto bianco e il grosso naso nero, ecco Arlecchino col suo vestito multicolore, ecco Rosaura e Colombina, graziose e smorfiose. Ogni paese ha la sua maschera, tutte allegre, con una gran voglia di fare scherzi e di divertirsi.

Quando le mascherine, una volta all’anno, vengono fuori, ne combinano di tutti i colori. Ecco Pantalone, veneziano, con la sua barbetta a punta. Arlecchino nel suo vestito a toppe di tutti i colori, minaccia, col suo bastone, di dar botte a tutti. Balanzone, dottore di Bologna, di dà molta importanza, ma nessuno si cura di lui e dei suoi purganti. Tutte le maschere sono allegre, festose, e la gente le vede volentieri.

Quando Carnevale dà la libertà alle maschere, è una festa dappertutto. La gente si diverte a tirare coriandoli e stelle filanti che si attaccano ai rami degli alberi e vanno da un balcone all’altro. I passeri si fermano a guardare, incuriositi, e non sanno che cosa accade. E’ Carnevale, passerotti, l’epoca in cui gli uomini fanno festa, mentre per voi, uccellini spensierati, è Carnevale tutto l’anno!

Il Carnevale è un periodo di allegria tra il Natale e la Quaresima; praticamente ha inizio il giorno di Sant’Antonio abate, il 17 gennaio, ma generalmente la festa si limita agli ultimi tre giorni e in particolare al cosiddetto “martedì grasso”. Nelle chiese di rito ambrosiano il Carnevale termina con la prima domenica di quaresima.

Tutti si riversano nelle strade e nelle piazze ad ammirare le maschere. Durante gli ultimi due giorni si vedono le strade affollate di maschere vestite nelle fogge più strane. Per le maschere tutto serve; si vuotano i canterani e si sciorinano gli indumenti delle bisnonne, le divise militari. E poi barbe, nasi, pance e gobbe fuor di squadra. (U. Vaglia)

Ecco i grandi carri mascherati! Ecco i pupazzi giganteschi che tentennano la testa e spalancano la bocca enorme! E’ carnevale che passa per le strade. Guardatelo: è vestito di cento colori, ha manciate di coriandoli sui capelli, ride come un matto e si diverte a prendere in giro la gente. Ma non è cattivo: non vuole che si facciano scherzi pericolosi. (M. Mortillaro)

Sin dall’antichità, i popoli istituivano varie feste di tripudio con riti festosi e travestimenti. Nel Medioevo risorsero le antiche tradizioni e in Italia fu famoso il carnevale di Venezia a cui partecipavano il doge, la Signoria, il Senato e gli Ambasciatori. L’antica usanza delle maschere, che ha origine antichissima, raggiunse il massimo splendore in Italia, nelle principali città. Infatti quasi tutte le regioni hanno la loro maschera caratteristica.

In febbraio comincia il lieto periodo del Carnevale, che può dirsi la festa dei bambini perchè, in genere, sono loro che tramandano ancora la tradizione delle maschere. I Greci e i Romani usavano maschere tragiche o comiche che i loro attori tenevano sul viso durante la rappresentazione. Nel settecento, su questi modelli, altri tipi di maschere furono escogitati e introdotti nel teatro. Nacquero così le maschere italiane, e si può dire che ogni regione abbia la sua.

Per Carnevale si usano alcuni dolci caratteristici: le castagnole, gli struffoli, le ciambelle, la cicerchiata, le chiacchiere e i crostoli: nomi particolari di ogni regione che ha i suoi usi e le sue ghiottonerie.

Non tutti sono d’accordo sull’origine del nome “Carnevale”. Secondo alcuni esso deriva dal primo giorno di quaresima in cui s’inizia il digiuno e l’astinenza e significherebbe “togliere la carne”. Secondo altri, siccome in latino “vale” significa “addio”, Carnevale significherebbe “addio alla carne”. Il periodo carnevalesco era, in origine, compreso tra il Natale e la Quaresima. In seguito si iniziò il giorno seguente l’Epifania per terminare il giorno delle Ceneri. Oggi il Carnevale ha inizio comunemente il 17 gennaio, festa di Sant’Antonio abate, e finisce il giorno che precede le Ceneri.

Il carnevale le chiamò e le maschere accorsero. Uscivano una volta all’anno, ma quando uscivano, che baldoria! Il più allegro era Arlecchino, col suo vestito di tanti colori e la sua mascherina nera. Aveva sempre voglia di bisticciarsi, ma allegramente, s’intende. Il suo fido amico era Pulcinella, vestito di bianco, con un nasone che faceva venire allegria.

Dopo trentun giorni di cammino, anche gennaio, sentendosi morire, chiamò forte: “Febbraio! Febbraio! Piccolo fratello, tocca a te!”. Ed ecco che, con tintinnii di sonaglietti, colpi di grancassa e scrosci di risa, spuntò febbraio, il più sbarazzino e il più piccolo dei dodici fratelli. Si trascinò dietro il Carnevale con cortei di maschere e mascherine. Intanto la coltre di neve che copriva la terra aveva di già qualche strappo, perchè febbraio, capriccioso, lasciava che il sole giocasse a rimpiattino con le nubi. La terra si vestiva di puntine verdi e offriva i primi fiori di mandorlo e le prime viole. (G. Nuccio)

Febbraio è anche il mese delle allegre gazzarre, delle maschere, delle frittelle. Che bel tripudio di carri mascherati per le strade e per le piazze! Arlecchino, Pulcinella, fanno a gara a chi grida di più. Dalle finestre piovono i coriandoli: verdi, gialli, rossi, violetti e le stelle filanti corrono da balcone a balcone, girano attorno ai fili elettrici, si aggrovigliavano in matasse e ricadono in bizzarri festoni. (Palazzi)

I ragazzi si misero i nasi finti, maschere di cartone da pochi soldi, e cominciarono ad andare su e giù facendo schiamazzo con i dischi di terracotta, le trombette colorate, i pezzi di legno usati come maschere. La brigata infastidì parenti e amici, con i suoi coriandoli. Alla fine, dopo essere saliti nelle proprie case, i bimbi gettarono un ponte di stelle filanti da finestra a finestra, attraverso la strada. Ma la notte piovve, e il ponte crollò. (V. Pratolini)

Pulcinella giaceva sul letto. Era malato. Da una parte stava il notaio, che scriveva il testamento; dall’altra i parenti, che piangevano in silenzio. Pulcinella diceva: “A Carminella lascio la roba della casa e gli oggetti d’oro…”. Carminella, a quelle parole, rispondeva con un singhiozzo. “A Gennaro, a Mariuzza lascio…”. “Dov’è tutta questa roba che tu lasci, o Pulcinella?”. “Dov’è?” rispose il malato, “io la lascio, sta a loro cercarsela!” (I. Drago)

Una delle stelle filanti che dondola dalla ringhiera di un balcone, un pugno di coriandoli che il vento ha spinto nel rigagnolo, l’eco degli schiamazzi di un’allegra brigata che poco fa è scomparsa dietro l’angolo di una casa… e nella livida alba di febbraio, in questo scenario di “festa finita” ecco presentarsi, quasi irreale, la figura dello spazzino. Intanto, una finestra illuminata all’ultimo piano del caseggiato, si spegne, mentre un’altra, al primo piano, si accende. C’è chi si corica dopo una nottata di baldoria, chi si alza per mettersi a lavorare. (B. Mercatali)

Carnevale è passato. E dei giochi buffi, delle burle, dei carri mascherati, degli sberleffi e delle matte risate di questa favola che si ripete ogni anno, non rimane che poca carta colorata sospinta dalla scopa dello spazzino. Una trombetta di cartapesta, infiocchettata di striscioline di carta rossa, prende a rotolare adagio verso una pozzanghera. Lo spazzino la raggiunge e la prende. Poi, sorridendo, se la porta alle labbra. Ma il suono che ne esce è breve e stonato, sgradevole; e allora l’ometto scaraventa il giocattolo nel resto della spazzatura. (B. Mercatali)

Giorno di carnevale
In piazza San Carlo, tutta decorata di festoni gialli, rossi e bianchi, s’accavallava una grande moltitudine; giravan maschere d’ogni colore; passavano carri dorati e imbandierati, della forma di padiglioni, di teatrini e di barche, pieni d’Arlecchini e di guerrieri, di cuochi, di marinai e di pastorelle; era una confusione da non saper dove guardare; un frastuono di trombette, di corni e di piatti turchi che laceravano le orecchie; e le maschere dei carri trincavano e cantavano, apostrofando la gente a piedi e la gente alle finestre, che rispondevano a squarciagola, e si tiravano a furia arance e confetti: e al di sopra delle carrozze e della calca, fin dove arrivava l’occhio, si vedevano sventolare bandierine, scintillar caschi, tremolare pennacchi, agitarsi festoni di cartapesta, gigantesche cuffie, tube enormi, armi stravaganti, tamburelli, crotali, berrettini rossi e bottiglie: pareva tutti pazzi. (De Amicis, Cuore)

Il carro
Andava dinanzi a noi un carro magnifico, tirato da quattro cavalli coperti di gualdrappe ricamate d’oro, e tutto inghirlandato di rose finte, sul quale c’erano quattordici o quindici signori, mascherati da gentiluomini della corte di Francia, tutti luccicanti di seta, col parruccone bianco, un cappello piumato sotto il braccio e lo spadino, e un arruffo di nastri e di trine sul petto; bellissimi. Cantavano tutti insieme una canzonetta francese, e gettavan dolci alla gente, e la gente batteva le mani e gridava. (De Amicis, Cuore)

Platero e il carnevale.
Com’è bello, oggi Platero! E’ il lunedì grasso, e i bambini che si sono vestiti chiassosamente da pagliacci e da guappi, gli han messo la bordatura moresca, tutta ricamata di rosso, verde, bianco e giallo in ricercati e complessi arabeschi. Acqua, sole e freddo. I coriandoli di carta vanno rotolando parallelamente sul marciapiede sotto la sferza del vento… Quando siamo arrivati in piazza han preso in mezzo Platero in un cerchio tumultuante, e poi, tenendosi per mano, hanno cominciato a girare allegramente intorno a lui. Tutta la piazza non è più che un concerto allusivo di ottone giallo, di ragli, di risate, di canzoni, di tamburelli e di mortai. (J. R. Jimenez, da Platero y yo)

Il giorno delle frittelle
Quando le donne fanno le frittelle, non è detto che stiano sempre in cucina. Qualche volta escono di casa, corrono a più non posso, e sempre correndo, girano le frittelle nella padella. Questo succede ogni anno, il martedì grasso, a Olney in Inghilterra. Le donne si allineano nella piazza del paese, tutte hanno con sè una padella con dentro una frittella calda, e devono voltare la frittella almeno tre volte prima di giungere alla porta della chiesa, all’altra estremità della piazza. Pronte…via! Le frittelle saltano, i piedi volano. Una donna vestita di blu è quasi arrivata alla chiesa, sta per voltare la frittella per la terza volta e… sì! Ce l’ha fatta! Ha vinto! Ora riceve il premio: un bacio dal campanaro. E la frittella? La mangia il campanaro, ma se glielo chiedi, può darsi che te ne dia un pezzetto.

L’aria si rincrudì e comiciò a venir giù un brutto piovigginio con qualche farfalluccia di neve. Ma erano gli ultimi giorni di carnevale, e al brutto tempo chi ci badava? In quasi tutte le osterie si ballava a più non posso. Non passava notte, senza che fossimo destati da baccani, cantate, liti giù in strada. Qualche mascheraccia bislacca compariva di tanto in tanto, con un codazzo di marmocchi dietro. Si sentiva, attraverso l’aria fosca, un odore di gran baldoria, che dava alla testa. (F. Chiesa)

Sera di carnevale
Certe sere di carnevale vi accorgete che è Carnevale perchè, nel rincasare, pensando ai casi vostri incontrate a ogni passo sparati bianchi, code di vestiti dorati su scarpini metallici…
…che gesta, ora, che allegria e che splendore nella casa, poc’anzi silenziosa e triste!
Una piccola regina sta nascendo a poco a poco dall’ammasso dei veli e dei nastri, mentre un principe un po’ scapestrato lotta col bottoncino del colletto che non vuole entrare nell’asola.
Chi pensa più alla miseria di tutti i giorni? Chi ha voglia di cenare? Le patate, abbandonate e neglette, giacciono in fondo a un oscuro tegame, in cucina. (A. Campanile)

Il carnevale
Non c’è ormai alcun dubbio, in base agli studi di eminenti glottologi, che Carnevale deriva da carnem levare, e prove sicure di questa etimologia ci vengono anche dal termine siciliano carnilivari e da quello spagnolo carnestoltes. Carnevale, all’origine, indicava il giorno da cui sarebbe coniciato il periodo della quaresima, durante la quale non si sarebbe più mangiata carne, perchè dedicato a penitenza e digiuni. Prima che tale periodo di privazioni incominciasse bisognava approfittarne per fare baldoria.
La vita moderna, offrendo ormai durante il corso dell’anno divertimenti e spettacoli, ha attenuato di molto i motivi di interesse per il carnevale che un tempo si presentava come l’unica, intensa stagione di godimento. Tuttavia, questo periodo di baldorie non è scomparso del tutto. Anzi, per particolari condizioni psicologiche e sociali, in alcuni luoghi si è conservato e talvolta con una reviviscenza alimentata anche da ragioni turistiche.

Carnevale nella via
Quest’anno il carnevale sarebbe passato lontano dalla nostra strada se non ci fossero stati i ragazzi a ricordarne l’esistenza e a mettersi nasi e baffi finti e maschere di cartone da pochi soldi, ad andare su e giù facendo il più possibile schiamazzo con i fischi di terracotta, le trombette colorate, i pezzi di legno usati come nacchere. In questo, Giordano è un maestro. Egli stringe i due legnetti della stessa misura fra indice e medio e fra medio e anulare della destra ed è capace perfino di eseguire il Rataplan verdiano… Giordano aveva quest’anno una maschera di cinese, e Gigi quella di un vecchio con la barba bianca. Musetta si era accontentata di un apparato naso-baffi-occhiali, più adatto ad un avvocato che a una bambina. A Piccarda, suo fratello aveva comperato un cono stellato con sul dietro dei riccioli di stoppa, per cui ella era il Mago Merlino. (V. Pratolini)

Carnevale a Nuoro
Le vie erano affollate; mascherate barocche e variopinte andavano su e giù, tra un nugolo rumoroso di monelli che urlavano improperi e parole scherzose. Maschere sole, vestite a vivi colori, passavano, seguite dallo sguardo indagatore e beffardo degli operai e dei borghesi: passavano signore, bimbe, serve dai corsetti scarlatti; gruppi di paesani un po’ brilli si pigiavano in certi tratti del Corso; e musiche malinconiche di chitarra e fisarmonica salivano e vibravano in quell’aria tiepida e velata che rendeva i suoni più distinti come in un crepuscolo d’autunno. (G. Deledda)

Il carnevale di Viareggio
Il carnevale è sempre un periodo di gaia baldoria e di spensieratezza, ma in nessun luogo come a Viareggio la gioia di questa festa invernale prorompe in modo così clamoroso. Nella bella cittadina balneare toscana si svolgono sfilate di carri, che restano indimenticabili per chi le ha viste. Il martedì, ultimo giorno di carnevale, e le tre domeniche precedenti, il meraviglioso viale che si snoda lungo il mare, fra la pineta foltissima e la sabbia dorata della riva, si anima come per incanto. Folla e folla accorre dalle città vicine e lontane per godersi questo spettacolo.
Come si affaticano per mesi e mesi, i Viareggini, a fabbricare giganteschi pupazzi, uno più buffo dell’altro; a costruire carri grandiosi che rappresentano navicelle, castelli o aeroplani; a guarnirli in modo originale così che la gente, vedendoli sfilare lungo i corsi, non può trattenere le grida di meraviglia.
Ci sono le maschere isolate che sfilano a piedi, portando in capo buffi testoni enormi, fra un lancio continuo e instancabile di coriandoli, di stelle filanti, di caramelle. E intanto le bande suonano, la gente grida, canta, ride… (L. Bindi Senesi)

Carnevale per le strade
La città si animava; si animava il vento, la neve per le strade. E, all’improvviso, pur dentro il buio, il colore dei costumi, dei coriandoli.
Fummo in mezzo alla piazza con attorno bambini dai cappelli a cono con la mezzaluna d’argento. Le mascherine ci sfioravano, scherzavano, ridevano. Pareva che non importassero il freddo, la neve, il vento: senza rumori che non fossero musica o viva voce o risa.

Un carnevale in piena estate
Il carnevale di Rio è una festa di Piedigrotta moltiplicata per cento: eso esprime la gioia di vivere, la volontà di dimenticare almeno per quattro giorni tutti i guai di questo mondo…
La città assume l’aspetto di un immenso palcoscenico durante l’allestimento di un grande spettacolo. E quando l’ora scocca, la Fiesta esplode. Donne e uomini, brasiliani e stranieri, tutti sono spettatori e attori della sagra sfrenata. Per quattro giorni ogni altra attività è sospesa, ogni strada e ogni piazza sono teatro di uno spettacolo disordinato e pittoresco che si rinnova continuamente. E’ quasi un punto d’onore non ritornare a casa durante le notti carnevalesche. Il cielo di Rio si trasforma in una crepitante fornace da cui piovono in continuazione scintille multicolori, e la città in un’enorme cassa armonica risuonante… di motivi che poi prenderanno le vie del mondo…(M. Procopio)

Maschere tradizionali

Quando le mascherine, una volta all’anno, affollano le strade, sono allegre  e ne fanno di tutti i colori. Ecco Pantalone, veneziano, con la sua barbetta a punta; Arlecchino, col suo vestito a toppe, minaccia, col suo bastone, di dar botte a tutti.
Balanzone, dottore di Bologna, si dà molta importanza, ma nessuno si cura di lui e dei suoi purganti. Preferiscono Gianduia, che è di Torino, patria dei cioccolatini e delle caramelle. Gianduia ha un viso festoso e un codino ridicolo legato con un fiocchetto. Ma il più buffo è Pulcinella, napoletano, vestito di un camiciotto bianco; ha un gran naso nero e scherza su tutto.

Carnevale in Calabria
Carnevale è il re dei ghiottoni, e ricompare tutti gli anni, in febbraio, a morire d’indigestione nelle piazze dei paesi tra lo scherno del popolo. E’ proprio il mese in cui si ammazza il maiale. L’aria è piena di grugniti e di fumo grasso delle caldaie spalmate di sugna. Per le strade, ad ogni imbocco, è drizzato su due forche il maiale, fra i curiosi che notano quanto pesa, e guardano le lunghe strisce di grasso incise sulla cotenna senza una goccia di sangue, bianche. Intanto i cani si danno attorno a fiutare il sanguinaccio cremisi.
Poi arriva Carnevale, con delle strabilianti decorazioni di salsicciotti, e catene e cordoni di salsicce. E’ destinato a morire di indigestione e di ridicolo, ma fino all’ultimo crederà di guarire mangiando fette di grasso.
Il popolo intanto balla per le piazze e per le strade: il contadino si è messo un abito a falde da avvocato, e il signore si veste da contadino.
Tutto il paese, una volta tanto, si scambia la parte e il vestito, e fa un gran ridere di ritrovarsi così, come se davvero avesse mutato fortuna. Poi, Carnevale, in groppa a un asino, ben imbottito di paglia, è buttato in mezzo alla piazza e dato alle fiamme. La massaia copre i vasi di sugna e appende i rocchi di salsicce che consoleranno le lunghe stagioni di lavoro.
(C. Alvaro)

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Poesie e filastrocche Carnevale

Poesie e filastrocche Carnevale – una collezione di poesie e filastrocche, di autori vari, per bambini della scuola d’infanzia e primaria

Pranzo e cena
Pulcinella ed Arlecchino
cenavano insieme in un piattino:
e se nel piatto c’era qualcosa
chissà che cena appetitosa.
Arlecchino e Pulcinella
bevevano insieme in una scodella,
e se la scodella vuota non era
chissà che sbornia, quella sera. (G. Rodari)

Il vestito di Arlecchino
Per fare un vestito ad Arlecchino
ci mise una toppa Meneghino:
ne mise un’altra Pulcinella,
una Gianduia, una Brighella.
Pantalone, vecchio pidocchio,
ci mise uno strappo sul ginocchio,
e Stenterello, largo di mano,
qualche macchia di vino toscano.
Colombina che lo cucì
fece un vestito stretto così.
Arlecchino lo mise lo stesso,
ma ci stava un tantino perplesso.
Disse allora Balanzone,
bolognese dottorone:
“Ti assicuro e te lo giuro
che ti andrà bene il mese venturo
se osserverai la mia ricetta:
un giorno digiuno e l’altro bolletta.” (G. Rodari)

La maschera
Vent’anni fa mi mascherai pur io!
E ancora tengo il muso di cartone
che servì per nasconder quello mio.
Sta da vent’anni sopra un credenzone
quella maschera buffa, ch’è restata
sempre con la medesima espressione,
sempre con la medesima risata. (Trilussa)

Pagliaccio
Ed ecco un flauto si mette a suonare.
Allora un pagliaccio rosso
coperto di campanellini
esce a ballare con lazzi ed inchini!
E tenta una capriola…
fa finta di farsi male…
ride…
Si rizza con un salto mortale!
Poi s’arrampica, come fa il gatto
per acchiappare i pipistrelli!
E poi fa finta di ruzzolare,
perchè ridano tutti quanti. (U. Betti)

L’allegra mascherata
Che risate che allegria
per la via!
Con tamburi di cartone,
con lustrini di… stagnola,
i monelli
van cantando a squarciagola.
Son vispi come uccelli
che han trovato
l’usciolino spalancato
dell’aerea prigione.
Chi s’è tinto di carbone,
chi s’è tutto infarinato,
chi strombetta per la via…
che allegria! (M. Castoldi)

Burattini
Son di legno, son piccini,
sono svegli e birichini,
semre buoni ed ubbidienti,
sempre allegri e sorridenti,
son delizia dei bambini:
viva, viva i burattini.
Pulcinella ed Arlecchino,
Stenterello e Meneghino,
e Brighella e Pantalone,
Facanappa e Balanzone,
fanno ridere i bambini:
viva, viva i burattini.
Quando alcun non li molesta,
dormon tutti nella cesta,
se ne stanno in compagnia,
sempre in pace ed armonia,
come tanti fratellini,
viva, viva i burattini. (E. Berni)

Il gioco dei “se”
Se comandasse Arlecchino
il cielo sai come lo vuole?
A toppe di cento colori
cucite con un raggio di sole.
Se Gianduia diventasse
ministro dello Stato
farebbe le case di zucchero
con le porte di cioccolato.
Se comandasse Pulcinella
la legge sarebbe questa:
a chi ha brutti pensieri
sia data una nuova testa. (G. Rodari)

Maschere
Sono una maschera dotta e sapiente
chiacchiero molto, concludo niente!
Son di Bologna un gran dottore,
mi sottopongono ogni malore,
ed io con l’abile mia parlantina
sputo sentenze di medicina.
Curo il malato col latinorum
per omnia saecula saeculorum!
Sono una maschera multicolore
di professione fo il servitore.
Mia prima origine fu bergamasca,
ma non avendo mai un soldo in tasca
vissi a Venezia come emigrante.
Son litigioso, furbo, intrigante,
ma sono il principe dei birichini!
Sono una maschera sempre affamata
biancovestita e mascherata.
Mia patria è Napoli, dove perfetti
nascono i piatti degli spaghetti.
Son della terra delle canzoni,
son del paese dei maccheroni,
son specialista in bastonate:
quante ne ho prese tante ne ho date! (D. Volpi)

La trombettina
Ecco che cosa resta
di tutta la magia della fiera:
quella trombettina,
di latta azzurra e verde
che suona una bambina…
Ma, in quella nota sforzata,
ci son dentro i pagliacci bianchi e rossi,
c’è la banda d’oro rumoroso,
la giostra coi cavalli, l’organo, i lumini.
Come, nel gocciolare della gronda,
c’è tutto lo spavento della bufera,
la bellezza dei lampi e dell’arcobaleno;
nell’umido cerino d’una lucciola
che si sfa su una foglia di brughiera,
tutta la meraviglia della primavera. (C. Govoni)

Armi dell’allegria
Eccole qua
le armi che piacciono a me:
la pistola che fa solo “pum”
(o “bang”, se ha letto
qualche fumetto)
ma buchi non ne fa…
Il cannoncino che spara
senza fare tremare
nemmeno il tavolino…
il fuciletto ad aria
che talvolta per sbaglio
colpisce il bersaglio
ma non farebbe male
nè a una mosca nè a un caporale…
Armi dell’allegria!
Le altre, per piacere,
ma buttatele tutte via! (G. Rodari)

Le maschere
Io sono fiorentino
vivace e birichino;
mi chiamo Stenterello
l’allegro menestrello.
Cantando stornellate
fo far mille risate.
Ed ecco qua Brighella,
la più brillante stella
del gaio carnevale
quando ogni scherzo vale…
Arrivo io ballando,
scherzando e poi saltando.
Mi chiamano Arlecchino
e sono il più carino.
Mi chiamo Pantalone:
il vecchio brontolone;
ma in tutto onor vi dico:
“Io sono vostro amico”.
Ed io son Pulcinella!
La maschera più bella.
Oh oh, che ballerino,
somiglio ad un frullino… (S. Antonelli)

Carnevale
E’ arrivato carnevale
con coriandoli e stelline
e graziose mascherine.
Van cantando per la via
in allegra compagnia
Arlecchino e Pulcinella
Balanzone con Brighella,
e Rosaura e Colombina.
Con le maschere la gente
se la spassa assai beata:
è stagione spensierata
va passata allegramente. (L. Borselli)

Che allegria!
Guarda, mamma, nella via
quanta gente e che allegria!
Che bizzarre mascherate,
dalla banda rallegrate!
Quante voci, quanti fiori
quanta gioia inonda i cuori!
Vedo Cecca e Meneghino,
Scaramuccia ed Arlecchino,
e quell’altro? Ah, è Trivella,
che dà il braccio a Pulcinella!
E quel goffo Pantalone
con i baffi… di cartone?
Or s’avanzano bel bello
e Pagliaccio e Stenterello…
Senti, senti, mia mammina,
che gazzarra! Una ventina
di giocondi fanciulletti
mascherati da folletti. (G. Pisani)

Viva le maschere
Viva le maschere! Evviva! Evviva!
Io ti conosco, maschera bella:
tu sei Gianduia, tu sei Brighella,
qui Colombina con Pantalone,
quindi Arlecchino con Pulcinella.
O mascherine, chi ve l’ha fatto
quell’abituccio tutto a colori
quell’abituccio che ci ricorda
la primavera coi mille fiori?
Chi ve l’ha messa nel fondo del cuore
quell’allegrezza che a tutti date?
O mascherine, grazie di cuore
per tanta gioia che ci portate. (A. Caramellino)

Volta la carta di carnevale
Volta la carta di carnevaletto
quattro salti e uno sgambetto.
C’è Arlecchino “venessiano”
Pulcinella “nabbolidano”
c’è Gianduia piemontese
Pantalone bolognese.
C’è Rosaura e Colombina
cameriera sopraffina,
Meneghin vien da Milano
Sor Tartaglia gli è toscano.
L’uno mangia maccheroni
l’altro grossi panettoni,
uno suona il mandolino
l’altro al fianco ha lo spadino,
ma son tutta una brigata
bella, allegra, indiavolata,
che si bacia, che s’azzuffa,
che combina una baruffa,
ma che alfin allegramente,
ricomincia come niente
il più gaio girotondo
che rallegra tutto il mondo. (C. Gasparini)

A carnevale
Pensato han tutti e due che in carnevale
ogni burletta vale.
E per fare un bella mascherata,
la camera dei nonni han saccheggiata.
Lui s’è pigliato il panama, il bastone,
un solenne giubbone;
ed una grossa pipa con la canna,
certamente più lunga di una spanna.
Lei s’è messa una gran cuffia trinata,
la vestaglia fiorata,
ha preso un ombrellino del Giappone
e con gli occhiali legge un giornalone.
Così a braccetto, come due sposini,
vanno a far chiasso in casa dei cugini,
perchè ogni burla vale
nella lieta stagion di carnebale

Mascherata
Carnevale pazzerello,
sei davvero tanto bello!
Tu porti sulla via
un pochino d’allegria.
Coi coriandoli e le stelle,
mascherine gaie e belle
fanno smorfie e sorrisini,
fan balletti e fanno inchini.
C’è Pierrot e Pierottina,
Arlecchino e Colombina,
Rugantino e Pantalone
con Tartaglia e Balanzone;
Stenterello e Meneghino
vanno a spasso con Gioppino;
e si vede Pulcinella
fare chiasso con Brighella.
Carnevale pazzerello,
sei davvero tanto bello. (T. Romei Correggi)

Carnevale
Il febbraio pazzerello
ci ha portato Carnevale
a caval di un asinello
e con seguito regale:
Pantalone e Pulcinella
e Rosaura e Colombina,
Balanzone con Brighella
e Pieretta piccolina.
A braccetto con Gioppino,
che dimena un gran bastone,
van Gianduia e Meneghino
sempre pronti a far questione.
Arlecchin chiude la schiera,
che, fra canti e balli e lazzi
lieta va, da mane a sera,
con gran coda di ragazzi.
Va, tra salti e piroette,
seminando per la via,
di coriandoli una scia,
tra un frastuono di trombette. (L. Re)

Teste fiorite
Se invece dei capelli sulla testa
ci spuntassero i fiori, sai che festa?
Si potrebbe capire a prima vista
chi ha il cuore buono, chi la mette trista.
Il tale ha in fronte un bel ciuffo di rose:
non può certo pensare a brutte cose.
Quest’altro, poveraccio, è d’umor nero:
gli crescono le rose del pensiero.
E quello con le ortiche spettinate?
Deve aver le idee disordinate,
e invano ogni mattina
spreca un vasetto o due di brillantina. (G. Rodari)

Canzoncina
Danza lieta, mascherina,
danza fino a domattina!
Son coriandoli le stelle!
E i panini son frittelle.
Sono tutti sorridenti,
sono tutti assai contenti.
Lo sapete che Arlecchino
fu vestito, poverino,
con cenci regalati
dai bambini fortunati?
Arlecchino sorridente
è l’immagine vivente
dell’aiuto che può dare
chi anche agli altri sa pensare.
Danza lieta, mascherina,
danza fino a domattina!

Il girotondo delle maschere
E’ Gianduia torinese
Meneghino milanese.
Vien da Bergamo Arlecchino
Stenterello è fiorentino
veneziano è Pantalone
con l’allegra Colombina.
Di Bologna Balanzone
con il furbo Fagiolino.
Vien da Roma Rugantino,
pur romano è Meo Patacca,
siciliano il buon Pasquino
di Verona Fracanapa. (G. Gaida)

La giostra
Eccola nella piazza della chiesa,
eccola sorta come per incanto!
Chi non l’avea desiderata tanto?
Chi non l’avea tanto sognata e attesa?
Bella la giostra! E’ tutta luce e argento,
tutta specchi, bagliori, oro, turchesi,
così come quei fantastici paesi
ch’io vedo solo quando mi addormento. (M. Moretti)

Carnevale
Carnevale vecchio e pazzo
s’è venduto il materasso
per comprare pane e vino
tarallucci e cotechino.
E mangiando a crepapelle
la montagna di frittelle
gli è cresciuto un gran pancione
che somiglia ad un pallone.
Beve e beve e all’improvviso
gli diventa rosso il viso
poi gli scoppia anche la pancia
mentre ancora mangia, mangia…
Così muore carnevale
e gli fanno il funerale
dalla polvere era nato
ed in polvere è tornato. (G. D’Annunzio – Filastrocche del mio paese)

Maschere
Rosaura geme
Florindo freme,
Lelio domanda, Pantalon nega;
Brighella stringe
solida lega
con Arlecchino;
chè, se Cavicchio
trova Batocchio
presso un crocicchio,
gli strizza l’occhio
e stretto il patto,
saldo il contratto.
Pierrot non vede…
egli strimpella
la serenata…
e Colombina
che l’ha sentito
fruscia in sordina
nel vano scuro
della vetrata…
E là, premendosi
la man sul cuore,
trepida ascolta… (G. Adami)

La mascherina povera
Lazzi
e schiamazzi
fanno i ragazzi
tutti un po’ pazzi.
E il bimbo va
col cappello del nonno,
la giacca del papà,
stanco, pieno di sonno,
per la grande città.
Lazzi e schiamazzi
fanno i ragazzi.
e il bimbo è lì
aria di funerale
a godersi così
il suo “bel” carnevale. (A. Novi)

Mascherine
Bentornate, mascherine,
nell’allegro girotondo!
Arlecchini e Colombine
in un palpito giocondo.
Trallalera, trallalà.
Ogni lieto scherzo vale:
benvenuto carnevale
che vi porta tutte qua.
C’è bisogno d’un sorriso
dopo tante tante pene,
che c’illumini un po’ il viso.
Vi vogliamo tanto bene. (Zietta Liù)

Carnevale
Che fracasso!
Che sconquasso!
Che schiamazzo!
E’ arrivato carnevale
buffo e pazzo,
con le belle mascherine,
che con fischi, frizzi e lazzi,
con schiamazzi,
con sollazzi,
con svolazzi di sottane
e di vecchie palandrane,
fanno tutti divertire.
Viva viva carnevale,
che fischiando,
saltellando,
tintinnando,
viene innanzi e non fa male,
con i sacchi pieni zeppi
di coriandoli e confetti,
di burlette e di sberleffi,
di dispetti,
di vestiti a fogge strane,
di lucenti durlindane,
di suonate,
di ballate,
di graziose cavatine,
di trovate birichine!
Viva viva carnevale,
con le belle mascherine! (M. Giusti)

Stornellate di carnevale
Fior di melone!
Giochiamo e divertiamoci ben bene:
è carnevale! Evviva Pantalone!
Fior di mortella!
A carnevale tutto il mondo balla;
la maschera più gaia è Pulcinella!
Fior di cedrina!
Anche Rosaura danza la furlana,
con Florindo e la vispa Colombina!
Fiore di grano!
Arrivano Tartaglia e Rugantino;
facciamo girotondo: qua la mano!
Fiore di spino!
Ogni viso sia lieto e il cor sereno.
Viva, viva, Brighella ed Arlecchino! (V. Masselli)

Carnevale
E’ tornato carnevale.
Quante belle mascherine
per per strade e per le sale!
Son tesori di damine
in merletti e crinoline,
con la cipria sui musetti.
Castellane e gnomettini,
pellirosse e gnomettini,
che si scambiano gli inchini:
“Colombina, i miei rispetti”
“Un saluto ad Arlecchino!”
“Ciao, Brighella!”
“Pierottino, vuoi confetti?”
“Mi regali una ciambella?”
Ora fanno un girettino
per le strade, per le sale
per mostrare il costumino,
dell’allegro carnevale.
Poi la sera stanche, alfine,
delle chicche e dei balletti,
tutte a nanna, mascherine,
a sognare gli angioletti. (V. S. Pagani)

Carnevale
Mascherine, mascherine,
per i bimbi e le bambine
son venute da lontano,
nel costume antico e strano
Pulcinella ed Arlecchino,
Pantalone e Colombina
facce buffe, occhio ridente,
saltan tutte lietamente
tra i bambini e le bambine,
benvenute mascherine! (G. Vaj Pedotti)

Carnevale
Chiuso nel suo cappottino,
sta nella terra il semino
sogna le cose più belle:
sono dei fiori o son stelle?
Fuori c’è un mare di gelo,
vento tra i rami del melo
cime coperte di neve,
che scende placida e lieve
ad un tratto il silenzio si rompe:
tra rumori e squilli di trombe
mille canti si sentono fuori,
nelle strade frastuoni e colori
mascherine allegre cantate,
che l’inverno ha le ore contate
ricordate voi tutte al semino,
che il suo sogno è davvero vicino.

La canzone delle mascherine
Un saluto a tutti voi:
dite un po’: chi siamo noi?
ci guardate e poi ridete?
Oh, mai più ci conoscete!
Noi scherziam senza far male.
Viva, viva il Carnevale!
Siamo vispe mascherine,
Arlecchini e Colombine,
diavolini,
follettini,
marinari,
bei ciociari,
comarelle,
vecchiarelle:
noi scherziam senza far male.
Viva, viva il Carnevale!
Vi doniamo un bel confetto,
uno scherzo, un sorrisetto:
poi balliamo,
poi scappiamo.
Voi chiedete:
“Ma chi siete?”
Su, pensate,
indovinate.
Siamo vispe mascherine,
Arlecchini e Colombine,
diavolini,
follettini,
marinari,
bei ciociari,
comarelle,
vecchiarelle:
noi scherziam senza far male.
Viva, viva il Carnevale! (A. Cuman Pertile)

Viva carnevale
La stagion di carnovale
tutto il mondo fa cambiar.
Chi sta bene e chi sta male
carneval fa rallegrar.
Chi ha denari, se li spende;
chi non ne ha, ne vuol trovar;
e s’impegna, e poi si vende
per andarsi a sollazzar.
Qua la moglie e là il marito,
ognun va dove gli par;
ognun corre a qualche invito
chi, a giocar e chi a ballar.
Par che ognun di carnovale,
a suo modo possa far,
par che ora non sia male
anche pazzo diventar.
Viva dunque il carnovale,
che diletti ci suol dar.
Carneval che tanto vale,
che fa i cuori giubilar. (C. Goldoni)

Mascherine
Ecco qui le mascherine
tutte vispe tutte belle
mascherine pazzerelle
che vorrebbero danzar.
Io vo’ fare un bell’inchino
un bacetto io vo’ mandar.
Una gaia piroetta
con bel garbo io voglio far.
Ecco qui un girotondo
pieno di grazia e di allegria
che saluta tutto il mondo
prima ancor di andare via.
L’allegria non fa mai male,
viva viva il carnevale!

 Pulcinella

Sono una maschera sempre affamata,
biancovestita e mascherata.
Mia patria è Napoli, dove perfetti
nascono i piatti degli spaghetti.
Son della terra delle canzoni;
son del paese dei maccheroni.
Son specialista in bastonate:
quante ne ho prese, tante ne ho date.

Rugantino

Sono la maschera più brontolona,
anche se arguta, semplice e buona.
Se ti facessero ‘na prepotenza,
chiamami subito: corro d’urgenza!
Faccio una strage, faccio macelli,
specie col vino de li Castelli!
Se dopo tutto vengo alle mani
c’è poco da rugà, semo romani.

Meneghino

Sono una maschera innamorata
della città che m’ha creata.
Porto nel cuore la Madunina
e canto sempre ogni mattina,
col panettone in una man,
ch’ el me’ Milan, l’è un gran Milan.
Contro i ribaldi e gli oppressori
in ogni tempo feci fuori.

Balanzone

Sono una maschera dotta e sapiente:
chiacchiero molto, concludo niente.
Son di Bologna un gran dottore:
mi sottopongono ogni malore
ed io con l’abile mia parlantina
sputo sentenze di medicina.
Curo il malato col latinorum
per omnia saecula saeculorum.

Carnevale viene

Viva viva Carnevale
che fischiando
saltellando
tintinnando
viene avanti e non fa male,
con i sacchi pien di zeppi
di coriandoli e confetti,
di burlette e di sberleffi,
di dispetti,
di vestiti a fogge strane,
di lucenti durlindane,
di suonate,
di ballate;
di graziose cavatine,
di trovate birichine.
Viva viva Carnevale
con le belle mascherine. (M. Giusti)

A carnevale ogni scherzo vale

Pensato han tutti e due che in Carnevale
ogni burletta vale.
E per fare una bella mascherata,
la camera dei nonni han saccheggiata.
Lui s’è pigliato il panama, il bastone,
un solenne giubbone;
ed una grossa pipa con la canna,
certamente più lunga di una spanna.
Lei s’è messa una gran cuffia trinata,
la vestaglia fiorata.
Ha preso un ombrellino del Giappone
e con gli occhiali legge un giornalone.
Così a braccetto, come due sposini,
vanno a far chiasso in casa dei cugini,
perchè ogni burla vale
nella lieta stagion del Carnevale.

Il gioco dei se

Se comandasse Arlecchino
il cielo sai come lo vuole?
A toppe di cento colori
cucite con un raggio di sole.
Se Gianduia diventasse
ministro dello stato
farebbe le case di zucchero
con le porte di cioccolato.
Se comandasse Pulcinella
la legge sarebbe questa:
a chi ha brutti pensieri
sia data una nuova testa. (G. Rodari)

Ecco le maschere

Io sono fiorentino
vivace e birichino;
mi chiamo Stenterello
l’allegro menestrello.
Cantando stornellate,
fo’ far mille risate.
Ed ecco qua Brighella,
la più brillante stella
del gaio Carnevale,
quando ogni scherzo vale…
Arrivo io ballando,
scherzando e poi saltando.
Mi chiamo Arlecchino
e sono il più carino.
Mi chiamo Pantalone,
il vecchio brontolone;
ma in tutto onor vi dico:
“Io sono vostro amico”.
Ed io son Pulcinella
la maschera più bella.
Oh oh, che ballerino
somiglio ad un frullino. (S. Antonelli)

 Burattinaio al lavoro

Da paese a paese egli cammina
portando la baracca sulle spalle
da paese a paese, dalla valle alla collina.
E quando incontra un piccolo villaggio
egli si ferma per quei tre marmocchi
chiama Arlecchino che straluni gli occhi per suo vantaggio
chiama la reginetta e il suo bel paggio
che si facciano ancor qualche moina
e Brighella cuor d’oro e Colombina rosa di maggio;
e raccattato qualche buon soldino
dal capannel che un poco si dirada,
egli continua sull’aperta strada il suo cammino. (M. Moretti)

Il vestito di Arlecchino

Stan le allegre mascherine
strette intorno alla lor mamma
ch’è davvero molto stanca:
da più giorni taglia e cuce
cuce e taglia senza posa
variopinti costumini
per Gianduia e Meneghino
Pulcinella e Pantalone
Stenterello e Rugantino
ma pel povero Arlecchino
nulla ancora ha preparato…
E’ domani Carnevale
tutte insiem le mascherine
dovran vispe folleggiare;
e lei, povera mammina,
cerca e fruga dappertutto
fruga e cerca sempre invano.
Cassettoni ha ribaltato
armadietti e cassapanche,
neppur l’ombra di una pezza
per il povero Arlecchino
le riesce di trovare…
Ma un’idea meravigliosa
le balena all’improvviso:
coi ritagli avanzati
degli altri vestitini
tutto a scacchi un abituccio
potrà ancora preparare.
Mezzanotte è già suonata,
ma felice veglia ancora
quella mamma industriosa,
chè il più allegro dei vestiti
Arlecchin potrà indossare! (G. Martinelli)

Tutte le opere contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.

Maschere da colorare di Carnevale – schede e free ebook

Maschere da colorare di Carnevale – schede e free ebook – schede delle principali maschere tradizionali italiane, con descrizione e disegno da colorare, in formato ebook e in formato pdf, pronte per il download gratuito e la stampa.

 Questo è il contenuto delle schede:

qui le schede in formato ebook:

Altro materiale sulle maschere tradizionali italiane

IL CARNEVALE materiale didattico
In febbraio comincia il lieto periodo del Carnevale, che può dirsi la festa dei bambini perchè, in genere, sono loro che tramandano ancora la tradizione delle maschere. I Greci e i Romani usavano maschere tragiche o comiche che i loro attori tenevano sul viso durante la rappresentazione. Nel settecento, su questi modelli, altri tipi di maschere furono escogitati e introdotti nel teatro. Nacquero così le maschere italiane, e si può dire che ogni regione abbia la sua…

Il Piemonte ha Gianduia, montanaro dalle scarpe grosse e dal cervello fino.
Meneghino, milanese, è un golosone impertinente, ma anche cordiale, sincero, generoso.
A Bergamo c’è Gioppino, sornione e trasognato, almeno in apparenza, perchè, se qualcosa non gli va, eccolo a roteare il suo bastone e a distribuire sonanti cariche di legnate.
Arlecchino ha un abito fatto di pezze di tutti i colori, cento ritagli di stoffa offertigli dagli amici per potersi confezionare un indumento che non possedeva.
Pantalone è di Venezia. Vestito di rosso, col mantello nero, secondo la tradizione è piuttosto avaro ma, come capita spesso agli avari, è a lui che si estorcono i denari per pagare i debiti agli altri.
Talvolta gli si accompagna Colombina, maliziosa e pettegola, che fa il paio con la sua amica
Rasaura, anch’essa di lingua lesta e di movenze aggraziate e civettuole.
Compagno inseparabile di Rosaura è Florindo, azzimato e lezioso.
Bologna la dotta ha per esponente Balanzone, sputasentenze, spaccone e bonario, sempre pronto a distribuire purganti e pillole.
Stenterello è fiorentino: arguto e di lingua appuntita, non risparmia motti da levare il pelo, così come è in uso tra gli abitanti della sua città.
Roma ha Rugantino, anche lui spaccone, ma di cuor d’oro.
Pulcinella è la maschera tipica di Napoli; vestito di un bianco camicione, ha una maschera nera con un grosso naso caratteristico. E’ buffo, sornione, arguto e… scroccone.
Reggio ha Fagiolino, Modena Sandron, Verona Facanapa …
… e si può dire che ogni regione ha la sua maschera, sempre allegra, ridaciana e arguta. Ogni maschera usa il dialetto caratteristico della città in cui vive e rappresenta un personaggio che riassume in sè i vizi e le virtù dei suoi cittadini.
… continua qui:

Dettati ortografici LA NEBBIA

Dettati ortografici LA NEBBIA – Una raccolta di dettati ortografici sulla nebbia, di autori vari, per la scuola primaria.

Dettati ortografici LA NEBBIA

La nebbia
Si cammina adagio: non si vede a un palmo dal proprio naso; un odore acre alle narici penetra in gola, l’aratro scricchiola. Il vomere affonda nella porosa bambagia; i rumori giungono attutiti, come echi; gli oggetti appaiono all’improvviso, come ombre sorte dal nulla: la nebbia avvolge tutto, grava su ogni cosa.

La nebbia
Minuscole goccioline scendono dal cielo e rimangono sospese nell’aria. E’ la nebbia. Come un velo sottile si adagia sulle cose e ruba ai colori la loro vivezza. Tutto diventa grigio ed uniforme. Qualche volta riesce a nascondere ai nostri occhi tutto ciò che ci circonda. E allora ci sembra di camminare soli e che intorno a noi si muovano fantasmi. (A. Cittigno)

La nebbia
Non è ancor giunta la sera, ma è quasi buio. Tutto il cielo è occupato da cumuli di nebbie grige posate in cima il monti, da cavalloni di nuvole nere ed immote. Bigio e nero dappertutto. Nella valle un gran silenzio sinistro: s’ode soltanto lo sfruscio del fosso in piena e quello delle foglie gocciolanti che sbattono insieme e fanno un rapido sussurro marino. Giù per le strade in discesa scorre l’acqua motosa in solchi gialli. Poi la nebbia dei fondi, a strati compatti, vien su dalla valle, varca i crinali dei poggi, si rompe, si riaffittisce, ricopre tutto e finalmente si sfalda o fugge, lasciando brandelli fumosi attorno agli alberi fradici. (G. Papini)

La nebbia
E’ un ammasso di vapore acqueo visibile, che si forma sulla superficie della terra e del mare. E’ grigia, compatta, oppure leggera come un velo. In genere non fa male alla vegetazione, ma se il navigante la incontra sul mare, se l’autista vi si trova immerso senza poter più distinguere la strada, allora la nebbia può trasformarsi in un pericolo anche grave.

La nebbia
Una nebbia fitta fitta da tagliare col coltello. Le grandi lampade elettriche paiono lumini ad olio; le persone a tre metri di distanza sembrano fantasmi vaganti; i veicoli procedono lenti fra uno scampanio, uno strombettamento, un gridio che le nebbia affievolisce. I passanti camminano a tratti lesti quando credono di vederci, lenti quando temono di inciampare: si riuniscono in gruppi se devono passare dall’altra parte della via. Attraversare una piazza è un’impresa: non mancano quelli che temono di sbagliare strada. Ognuno col bavero rialzato, con le mani affondate nelle tasche o nel manicotto, pensa alla sua casetta tiepida e illuminata. (P. Bianchi)

La nebbia
Improvvisamente si udì la sirena di un autocarro lacerare la cortina di silenzio e di nebbia che avvolgeva il paesaggio: con un sibilo acuto, e prolungato, da parere che volesse preparare la strada al veicolo come un alfiere mandato avanti a sgombrare il cammino… Poi si udì il respiro affannato del motore, lo sfrigolio delle ruote contro il fango della strada, e il veicolo apparve alla svolta traballante e un po’ tardo. L’autocarro avanzava con faticosa lentezza, le piogge dei giorni passati avevano reso cedevole il fondo stradale: aveva acceso i fari sebbene non fosse ancora scuro, sicchè le due grandi luci appena proiettavano a terra, senza illuminare la via, uno scialbo e corto riflesso sul quale si adagiava l’autocarro avanzando. Anche il rumore del motore sembrava adesso un suono quasi senza significato e come spaesato nell’abbandono dei campi che si stendevano ai lati della strada rotta, allagati dall’acqua caduta abbondante, nelle trascorsi notti. (M. Prisco)

Dettati ortografici LA NEBBIA
Nebbia e gelo
Una nebbia leggera leggera imgombra l’orizzonte. E’ una nebbia uguale, soffice, trasparente, quasi un velo che nasconde, ma dà una bellezza nuova al paesaggio. Tutto tace nella campagna. I torrenti sono gelati; le mandrie fumano sdraiate nelle tiepide stalle; i cani giacciono accovacciati; i gatti fanno le fusa accosciati in un angolo del focolare. Solo si vedono di lontano i corvi disegnare una larga macchia nera sulla distesa dei campi deserti; e, di tratto in tratto, a voli brevi, i passeri si slanciano dai comignoli fumanti al piano, e lo scricciolo dal cespuglio alla siepe. (A. Stoppani)

Dettati ortografici LA NEBBIA
La nebbia

Specie nelle regioni settentrionali le nebbie non mancano. Tutto acquista un carattere strano: pare che ogni cosa perda la sua reale consistenza e non sia presente che nei suoi contorni.
Le persone fanno pensare ad ombre vaganti; i suoni sono attutiti; la vita, il movimento, tutto rallenta; nelle vie di città automobili, autobus avanzano con prudenza per scansarsi a vicenda. Problematico e difficile il camminare per i pedoni che si urtano sui marciapiedi ed attraversano timorosi le strade.
Nelle campagne, quando la nebbia le avvolge, regna silenzio. I rumori non giungono lontano, i contadini stanno volentieri nelle stalle. Qui ora è il loro lavoro, poichè nei campi non vi è più nulla da fare se non andare a far legna nei boschi, lungo le sponde dei fossati fiancheggiati da alti alberi, lungo i filari sostenuti da olmi e da gelsi.
E nelle stalle i contadini riparano attrezzi o intrecciano canestri e ceste.
Il sole tenta di comparire, ma i suoi raggi vengono assorbiti dalla spessa coltre di nubi.

I giganti grigi

Uscire di casa con la nebbia è il più gran desiderio di Filippo.
La nebbia viene; e Filippo esce.
La nebbia lo accoglie, gli fa strada: cancella ogni ostacolo davanti a lui. I paracarri, i pioppi, il fosso sono scomparsi. Tutto è bello: ma Filippo non sa più dov’è.
Vorrebbe correre a casa, ma la nebbia gli si stringe attorno. Non è più nebbia. E’ diventata giganti grigi, silenziosi, che lo guardano, immobili. Per fortuna, una voce chiama Filippo. E’ la voce della mamma. Filippo esce dal cerchio dei giganti. Non erano che nebbia. (M. L. Magni)

Sera di nebbia
Una nebbia fitta fitta da tagliare col coltello. Le grandi lampade elettriche paiono lumini a olio; le persone a tre metri di distanza sembrano fantasmi vagolanti; i veicoli procedono lenti tra uno scampanio, uno strombettamento, un gridio che la nebbia affievolisce. I passanti camminano a tratti, lesti quando credono di vederci, lenti quando temono di inciampare; si riuniscono in gruppi se devono passare dall’altra parte della via. Attraversare una piazza è un’impresa: non mancano quelli che temono di sbagliare strada. Ognuno col bavero rialzato, con le mani affondate nelle tasche o nel manicotto, pensa alla sua casetta tiepida e illuminata. (Piero Bianchi)

Nebbia in montagna
Grande era la nebbia. Sulla montagna deserta non si vedevano ne bestie ne uomini. Null’altro che un grigiore infinito. Un fumo freddo saliva tra i piedi, passava sotto le braccia, entrava nella bocca e negli occhi. Il silenzio era così grande da parer sovrumano. Come se tutto il mondo, con tutte le sue cose e le sue voci, fosse piombato nell’abisso senza fine. (G. Zoppi)

Nebbia
La nebbia bassa avvolgeva tutte le cose. Ci si vedeva soltanto a pochi passi di distanza, altrimenti tutto era confuso in una caligine densa, grigia, che smorzava il rumore dei passi e le voci dei passanti. Le lampade accese avevano un alone biancastro e la loro luce era tenue, diafana e blanda.

Nebbia in campagna
Una nebbia leggera leggera ingombrava l’orizzonte. E’ una nebbia uguale, soffice, trasparente, quasi un velo che nasconde, ma dà una bellezza nuova al paesaggio. Tutto tace nella campagna. Solo si vedono di lontano i corvi disegnare una larga macchia nera sulla distesa dei campi deserti.; e di tratto in tratto, a voli brevi, i passeri si slanciano dai comignoli fumanti al piano, e lo scricciolo dal cespuglio alla siepe. (A. Stoppani)

Nebbie e brine
Pesanti, si stendevano ora sui campi le nebbie autunnali, restavano più a lungo appese ai cespugli e agli alberi. Sembravano nubi spesse, bianche come il latte e c’era da chiedersi se non fossero scese dal cielo notturno o non fossero uscite dal seno della terra.
Quando finalmente si dissiparono, dopo lunga esitazione, brillò nel bosco un limpido sole, poi fu una mattina dorata, e i prati scintillarono candidi, perchè la brina li aveva ricoperti.

Dettati ortografici LA NEBBIA – Tutte le opere  contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.

Dettati ortografici SPORT INVERNALI

Dettati ortografici SPORT INVERNALI – Una collezione di dettati ortografici sugli sport invernali: slitta, sci, pattini da ghiaccio, la seggiovia, alpinismo, ecc…

La seggiovia
E così, anche a me, una bella mattina, venne incontro l’aereo seggiolino rosso. L’uomo lo frena un attimo sulla voltata. “No, sulle ginocchia il sacco, non dietro le spalle!”. E subito mi trovai con le gambe pendule nella montagna vuota. Abbassai e fermai il paletto di sicurezza, aggiustai il sacco come l’uomo aveva detto, e mi guardai attorno. Giù a terra la mia ombra che mi seguiva, sotto il sole già alto, pareva come raggomitolata.
(M. Valgimigli)

La slitta
Non abbiamo notizie precise su chi ci ha insegnato l’uso della slitta. Di slitte ne esistono di varie forme e grandezze. Alcune di esse sono perfino munite di enormi vele. Le slitte servono come mezzo di trasporto o di diletto o di gare sportive. Lo sport praticato con questi veicoli è sano e dà l’ebbrezza della velocità, e non c’è campo da neve che non abbia la sua slittovia dove si scivola, o meglio si vola, come il vento.

Pattini da ghiaccio
Anticamente il pattinaggio era usato come mezzo di locomozione in alcuni paesi del Nord dove, per il freddo intenso, durante i mesi invernali, le strade erano ricoperte da una pericolosa lastra di ghiaccio. I pattini, costituiti da una lamina di acciaio fissata alla scarpa, pare abbiano avuto la loro origine in Olanda, ma vennero quasi contemporaneamente usati nei paesi finnici e baltici; più tardi in Inghilterra e in Germania assunsero il ruolo di vero e proprio sport. Oggi il pattinaggio su ghiaccio è in uso in tutto il mondo; è anzi uno dei giochi sportivi preferiti dai bambini per l’ebbrezza della velocità che consente di raggiungere.

Campi da sci
I campi offrono uno spettacolo magnifico. Che animazione! Che festa degli occhi e del cuore! Neve abbagliante a perdita d’occhio, le Dolomiti si ergono gigantesche contro il cielo, i ghiacciai scintillano sotto l’apparizione fugace del sole. Lungo i pendii è un continuo incrociarsi di sciatori che gridano ogni tanto: “Pista! Pista!”. Si improvvisano piccole gare, e coloro che sono giunti in fondo alle discese tornano pazientemente ad inerpicari arrancando con gli sci sulla neve soffice, annaspando un po’ di traverso alla maniera dei gamberi. C’è un bambino paffutello e impettito che fila come una rondine su due minuscoli sci che sembrano giocattolo. Dal bordo dei campi assiste una folla variopinta e lieta che batte i piedi per difendersi dal freddo.
(F. Malagodi)

Dettati ortografici SPORT INVERNALI
Allievi sciatori

A vederli, gli allievi alle prime prese con gli sci, vien voglia di tenerli, perchè appena li hanno allacciati pare debbano saettare via , e quando si rizzano ti viene di sostenerli, se no cadono da tutte le parti, o non si muovono, come se gli sci li avessero incollati al terreno… Altri, che hanno potuto, chissà come, prendere una volata dall’alto, si mettono a gridare come disperati: “Pista! Pista!”. Pare che tutto il mondo debba essere riservato a loro, che tutti debbano fuggire davanti a una valanga. Ti volti, e vedi lo sciatore che ha già fatto un capitombolo fragoroso, che sprizza neve e che arriva in fondo prosaicamente seduto… E questo quando arriva bene… Per la strada ha perduto tutto: berretto, racchette, tutto quello che si può perdere, tranne quello che non si perde mai in questi casi: l’allegria.
(G. Cenzato)

La slitta
Un urlo, uno stridore, una rabbia forsennata, un’unghiata sulla trincea gelata. Il tempo di girare la testa per accompagnare con lo sguardo il grande pazzo giocattolo, e già non lo vedi più, e già la voce rugginosa si è spenta, perchè la slitta è arrivata in fondo alla discesa, laggiù, oltre i colonnati degli abeti che scendono fra le nevi della montagna, affondando pesantemente i tronchi bruni nell’abbagliante candore.
(O. Vergani)

Com’è bello sciare
Il silenzio della montagna è rotto da un vociare giocondo. Sciamano i giovani sciatori lungo i pendii. Massimo e Maria sono felici; si agganciano gli sci, si avvolgono nella pesante sciarpa di lana, e via sulla neve. Scivolano leggeri. Risate… e risate… e ruzzoloni! Non è nulla, non si sciupano i vestiti sul soffice tappeto. L’aria è fredda, ma asciutta. Scintilla la vetta nel sole; non si può sciare lassù, dove la neve si è mutata in ghiaccio. Ma il sole già discende e gli sciatori lasciano la montagna che, nel luccicare delle prime stelle s’addormenta, tutta incappucciata di bianco e lasciata in silenzio.

Davanti al ghiacciaio
Era una conca selvaggia, con alcune lastre di macigno. Io mi sedetti, poi mi stesi sulla più lunga. Davanti erano i ghiacciai, giù in fondo, dalla parte opposta, l’azzurreggiare dei laghi, a picco sotto di me, la valle scintillante di acque e di sole. La vetta della Margna mi sorgeva accanto, nell’ombra del cielo, chiudendo da questo lato la vista, con la sua forma di trono d’argento.
(G. A. Borghese)

Sulle vette del K2
Il paesaggio era fantastico, quasi incredibile: un gran variare di vette e di montagne e sopra a loro un cielo azzurro, profondo. I colori dei monti variavano dal celestino al pallido oro, a tratti prendevano tonalità rosa che subito sfumavano nel verde tenero per poi tornare al celeste dominante delle nevi e dei ghiacci eterni.
(R. Lacedelli)

Lo sport della montagna
L’alpinismo è l’arte di comprendere, di ammirare la natura nelle sue manifestazioni più sublimi e pittoresche. E’ un ottimo sport perchè oltre a tutto il corpo, mette in esercizio l’intelligenza e l’anima. Sui monti il corpo di fa più forte; sulla cima conquistata si trova compenso alla fatica; nella conquista del monte ci si abitua alle privazioni. Sulla montagna si trova il coraggio per sfidare i pericoli, ma si imparano anche la prudenza e a la capacità di superarli.

Dettati ortografici SPORT INVERNALI
Storia degli sci

Nel museo di Oslo, in Norvegia, sono raccolti gli sci di tutti i tempi e di ogni Paese, dalla ‘scarpa da neve’ agli sci dei campionissimi di oggi.
Nei Paesi Nordici, infatti, dove la neve ricopre la terra per mesi e mesi, dove i popoli, abituati a una vita nomade, rimanevano isolati per lunghi inverni, nacque la ‘scarpa da neve’ in epoche antichissime: era una larga fasciatura, avvolta attorno al piede, costruita con strisce di pelle e che, allargando la superficie del piede, consentiva di non affondare nella neve.
In seguito, le strisce di pelle furono sostituite da assicelle di legno o da archi di rami intrecciati e si usarono anche delle rozze racchette.
Questi antenati degli sci servivano soltanto per camminare, poi ci si accorse che era più facile scivolare: si faceva meno fatica e si andava più veloci.
Uno storico romano narra che le migrazioni dei popoli nordici venivano effettuate con due assicelle assicurate ai piedi: una era lunga 140 centimetri e larga 20 e serviva per prendere la spinta; l’altra era più lunga e sottile e serviva per scivolare.
Nel 110 gli sci erano quasi simili a quelli moderni e, per prendere la spinta, si usava un lungo bastone. Erano adoperati anche dalle donne e dai bambini.
Da semplice mezzo di locomozione, lo sci servì ben presto anche per la guerra: i Finnici e i Norvegesi li usarono nelle guerre del secolo XIII e i Finnici, nel 1939, si difesero energicamente contro i Russi proprio per la possibilità di rapidissimi spostamenti mediante gli sci. Durante l’ultima guerra mondiale, poi, lo sci fu usato abitualmente sul fronte russo-tedesco.
La diffusione dello sci come attrezzo sportivo si ebbe invece agli inizi dell’Ottocento, e le prime gare si ebbero in Scandinavia. Nel 1885 il lappone Tuorda vinse la prima gara di gran fondo percorrendo 220 chilometri in 21 ore. Si ebbero presto anche gare di salto con gli sci e un norvegese sbalordì tutti saltando 23 metri.
L’introduzione dello sci nelle Alpi è relativamente recente: nel 1883 un medico svizzero fece venire gli sci dalla Norvegia e, nello stesso anno, un giovane, il pioniere dello sci alpino, Guglielmo Paulke, ebbe in regalo due sci norvegesi. Rapidamente lo sci si diffuse nella Svizzera, poi nell’Austria, infine in Francia e in Italia, dove si diffuse dapprima in Val di Susa.
Ora, si sa, lo sci è diffusissimo, come svago e come sport, e l’Italia ha campi da sci in ogni zona montana, alpina e appenninica. Ne è derivata anche un’industria alberghiera di eccezionale importanza che ha letteralmente salvato l’economia di molti paesi condannati alla stasi completa nel periodo invernale.
Sì, dalla ‘scarpa da neve’ a oggi, bisogna dire che lo sci, della strada, ne ha fatta.
(G. B. Fabian)

Dettati ortografici SPORT INVERNALI
Sulla neve

E’ arrivata, finalmente, la candida visitatrice e ha già coperto i monti col suo soffice mantello.
Sci, sci! Febbrilmente si tolgono dall’angolo dove sono stati durante l’estate. Una spazzolata alla tuta, una spalmata di grasso agli scarponi, e via, per i campi, a sciare!
Diamo un’occhiata al principale strumento di questo simpatico sport.
Fino al secolo scorso lo sci non era conosciuto in Italia, paese dal molto sole e dalla poca neve. Fu uno svizzero che, stabilitosi a Torino, sentì una forte nostalgia delle lunghe e ripide discese, e visto che la neve d’era, si fece mandare dal suo paese un bel paio di sci e via, per il parco del Valentino e per le colline torinesi, a sciare con molta soddisfazione.
Era uno spettacolo e la gente accorreva a veder quel “bel matto” che volava sulla neve. Dopo pochi anni i “matti” furono parecchi e nel 1901 fondata la prima associazione sciistica.
Le nazioni nordiche, dove la neve copre la terra per la maggior parte dell’anno, conoscevano questo sport da duemila anni almeno. A Oslo, in Norvegia, nel Museo dello Sci, esiste un’asta pietrificata che pare risalga all’epoca degli antichi Romani.
Il primo ad introdurre lo sci in Europa, fu il grande esploratore Nansen che attraversò la Groenlandia sciando. Egli descrisse il suo viaggio, durato 37 giorni, in un libro che fu letto da molti. I primi sci italiano furono costruiti sul modello di quelli norvegesi.

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Dettati ortografici IL GHIACCIO E LA BRINA

Dettati ortografici IL GHIACCIO E LA BRINA – Una collezione di dettati ortografici sul ghiaccio e la brina, di autori vari, per la scuola primaria: ghiaccio, gelo, brina, …

Il ghiaccio
Il ghiaccio è duro, trasparente come un cristallo. Si è formato sulla superficie delle pozzanghere, nel fossato, intorno alla fontana, nei crepacci. Sembra che non voglia andarsene mai più, che niente riuscirà a scioglierlo. Ma appena un raggio si sole si poserà sulla superficie ghiacciata, prima ne trarrà barbagli luminosi e poco dopo non ci sarà più ghiaccio, ma un rivolo d’acqua corrente.

La brina
Stanotte il gran freddo ha coperto di brina tutta la campagna. Sembra un ricamo di gelo, con i suoi aghi sottili, i suoi merletti e i suoi ricami. Povere piante, sotto la sua stretta gelata! Le vedremo, presto, con le foglie accartocciate, gli steli appassiti, non più piante rigogliose, ma povere erbe bruciate dal gelo!

Il gelo
Quand’è il momento, la notizia vola in casa, di stanza in stanza, tra colpi alle porte e grida di “Il gelo! Il gelo!” ed anche i più pigri gettano via le coltri e corrono alla finestra. Gli incanti del gelo si formano di solito nel silenzio e nel buio della notte. Una pioggerella sottile cade per ore e ore sui rami spogli degli alberi, e gela. In breve, tronchi, rami e ramoscelli sono rivestiti di ghiaccio solido e puro e gli alberi sembrano come di cristallo. Il tempo si rasserena verso l’alba, lasciando un’aria pura e frizzante, un cielo senza traccia di nuvole, e tutto è immobile; non c’è alito di vento… Infine il sole lancia un fascio di raggi fra gli alberi spettrali e li trasforma in uno splendore di brillanti. (M. Twain)

Il gelo
Uno sguardo al termometro: la colonna del mercurio è scesa sotto zero, all’aperto. E’ il tempo di Mago Gelo che si diverte a decorare le siepi stecchite con gocce ghiacciate iridescenti; a mettere alle grondaie frange di ghiaccioli corti e lunghi; a disegnare sui vetri bellissime felci argentee contornate da foglie di cardo e da stelline dalle mille fantastiche forme; a far sbocciare sugli alberi rigidi fiori di ghiaccio.

Brina
Sui rami, sui tronchi scheletriti, sulle piante che non hanno più nè fiori nè foglie, in una sola notte essa depone tutte le sue stelle. E i giunchi e le canne si ammantano di bianchi fiorellini scintillanti, aggruppati gli uni agli altri, graziosissimi. E così ogni piantina, ogni filo di erba. Dovunque una goccia di rugiada che abbia potuto fermarsi, si è trasformata in migliaia di minuti cristalli sfavillanti. Talvolta sono interi campi che per una forte brinata appaiono coperti di una fioritura candida. E non solo sugli alberi o sull’erba essa si diverte a ricamare le sue trine leggere. Spesso una massa di delicati fiori non è altro che la bizzarra guarnizione depositata dalla brina sopra una pietra qualunque. Le betulle sono rivestite di candidi ghiaccioli scintillanti come argento al pallido e prezioso solicello invernale. (M. Rinella)

La brina
La natura ha mutato veste: smesso il verde, smesse le mille tinte, ha indossato una veste candida e lieve. La brina penetra ovunque, riveste con un magico velo. Le piante hanno rimesso, quasi per incanto, la chioma: ma quella chioma è canuta. I fiori e le foglie son di cristallo; ogni fronda è come un vezzo di diamante; ogni erbetta un serto di gemme. (A. Stoppani)

Dettati ortografici IL GHIACCIO E LA BRINA
Paesaggio invernale

Soffiava la tramontana: faceva un freddo del diavolo. Il sole scendeva pallido, scialbo, verso ponente. I ruscelli erano gelati. L’erba alle prode scricchiolava. I salici, con le rame spoglie, rosseggiavano. I pettirossi ed altri uccelli saltellavano, svolazzavano senza paura, da un ramo all’altro. Non si vedeva anima viva pei campi; solo qualche povera donnetta che equilibrava sulla testa il grembiule ripieno di legna secca, o qualche vecchio cencioso che cercava le lumache ai piedi d’una siepe morta. (Mistral)

La brina

La brina è un’artista meravigliosa. Sui rami scheletriti, sulle piante spoglie, sui cespugli inariditi e secchi, in una sola notte sa creare una bianca fioritura mirabile, di una bellezza fantastica e delicata.
I giunchi, le canne, ogni pianticina, ogni filo d’erba, ogni sasso, ogni pietra si vestono di bianchi fiorellini scintillanti, aggruppati gli uni agli altri, graziosissimi. Ovunque una gocciolina di rugiada ha potuto fermarsi, si è trasformata in centinaia di minuti cristalli sfavillanti.

La brina
La notte è stata gelida e serena. La mattina, tutte le piante sono ricamate di bianco. E’ la brina, la fredda sorella della neve; ma, al contrario di questa che giova alle piante e le ripara del gelo, la brina le ferma tutte nel suo gelido abbraccio, le ricama di un merletto ghiacciato, le copre di un sudario di morte.

Dettati ortografici IL GHIACCIO E LA BRINA
Una brinata

Che meravigliosa brinata! Tutto investe, tutto penetra la brina. Le piante hanno, quasi per incanto, rimesso la chioma: ma questa è chioma canuta. I fiori e le foglie sono di cristallo. Ogni fronda è una collana di gemme. Che sono mai quelle filze di cristallini che descrivono una curva così vaga fra i rami e sono tese come brandelli di merletto, dall’uno all’altro ramoscello? (A. Stoppani)

Scherzi del ghiaccio
Un vitello era solito sgambettare nella stalla. Imparò a fare giri e mezzi giri. Un giorno d’inverno, nonostante il ghiaccio, lo lasciarono uscire con il grosso bestiame per andare a bere.
Tutte le mucche si avvicinarono all’abbeveratoio con prudenza. Il vitello invece corse sul ghiaccio: la coda dritta, le orecchie abbassate, e si mise a girare in tondo. Fin dal primo giro gli mancò il piede e la sua testa picchiò sull’abbeveratoio.
“Quanto sono disgraziato! Potevo fare piroette nella paglia che mi arrivava al ginocchio e non cadevo, mentre qui, dove tutto è liscio, sono caduto!”.
Una vecchia mucca gli disse: “Se tu non fossi un vitello sapresti che là dove si galoppa con maggiore facilità è più difficile trattenersi dal cadere”-
(L. Tolstoi)

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Poesie e filastrocche sulla NEBBIA

Poesie e filastrocche sulla NEBBIA – una raccolta di poesie e filastrocche sulla nebbia per la scuola d’infanzia e primaria, di autori vari.

Nella nebbia
Stupore!
Ognuno sta solo:
un albero non sa dell’altro,
ognuno è solo. (H. Hesse)

La nebbia
Questa mattina all’alba
il sole tutto intorno
mandò una luce scialba,
e poi che fu nascosto,
parve più lento il giorno,
monotono e piovoso.
Sopra la terra il cielo
si abbassa col nebbione
l’avvolge in denso velo;
come ombre son le cose,
come ombre le persone
passano frettolose,
e ogni viso imbronciato,
anche senza parole
dice: “Sarei beato
di rivedere il sole”. (R. Calleri)

Nella nebbia
E guardai nella valle: era sparito
tutto! Sommerso! Era un gran mare piano
grigio, senz’onde, senza lidi, unito.
E c’era appena, qua e là, lo strano
vocio di gridi piccoli e selvaggi;
uccelli sparsi per quel mondo vano.
E alto, in cielo, scheletri di faggi,
come sospesi, e sogni di rovine
e di silenziosi eremitaggi.
E un cane uggiolava senza fine,
nè seppi donde, forse a certe peste
che sentii, nè lontane nè vicine. (G. Pascoli)

Nebbia
Nebbia, forse sei di festa
con quel lungo velo in testa?
Con un velo così fino
che ti scende fino al piede?
C’è là in fondo un lumicino,
ma si vede e non si vede;
ma la casa non c’è più;
è scomparso il campanile.
Anche il bosco di laggiù.
anche il gregge, anche l’ovile.
Con due salti, ecco, mi celo
nel grigiore del tuo velo. (D. Mac Arthur Rebucci)

La nebbia
La nebbia avvolge ogni cosa;
tutto è coperto da un velo;
un’aria c’è misteriosa
sospesa fra terra e cielo.
E vanno lievi i passanti
nascosti dentro la bruma:
figure vaghe, sognanti,
in quei vapori di spuma.
Il velo fitto s’aduna
così diafano, ovattato;
sembra il sole un’altra lua
tanto è scialbo ed ammalato.
E il berretto d’un piccino,
con la nappa in rossa lana,
dondolante palloncino,
nella nebbia s’allontana. (V. Seganti Pagani)

La nebbia
Sopra la terra il cielo
si abbassa, e col nebbione
l’avvolge in denso velo;
come ombra son le cose
come ombre le persone
passano frettolose,
e ogni viso imbronciato
anche senza parole
dice: “Sarei beato
di rivedere il sole”. (R. Calleri)

Pastello
Dal grigio della nebbia fitta fitta
traspaiono cipressi
ombre nere
spugne di nebbia.
E di lontano diradando lento
viene un suono di campana
quasi spento. (A. Palazzeschi)

Nebbia
Come nuvola caduta
la nebbia è sulla città.
Una torre galleggia sperduta,
sola in bianco mare.
Ma fa che il sole appaia,
fa che torni a brillare
sui tetti e sulla ghiaia!
Dal nulla emergerà
la ben nota contrada
e il cielo rivedrà
l’asfalto della strada. (M. Castoldi)

Nebbia d’inverno
Ho visto la nebbia stamane!
S’alzava fumando contenta,
portando, così sonnolenta,
le cose vicine, lontane.
Lontane, lontane, nel nulla.
Difatti inghiottiva golosa
la strada, la piazza, ogni cosa.
Del mondo restava più nulla.
Ma, in alto, che cielo d’incanto!
Vedevo l’azzurro sfumato
con l’oro del sole levato
tra il cielo e la nebbia soltanto. (L. Davanzo)

 Nebbia
Le fate del bosco
han fatto sparire
sotto veli bianchi
la montagna!
Anche le fronde,
i tetti, il campanile,
il velo della pioggia
li allontana.
Oh, come il mondo
è lieve e si svapora
in questa luce bianca
inargentata!

Nebbia
La nebbia, che bel bello
s’addensa, una bambagia,
lentamente s’adagia
su tutto il paesello,
e il mondo alfin s’appiatta
in quella bigia ovatta.
Forse, forando il velo
soffice, la sottile
punta del campanile
giunge a vedere il cielo?
Ma nel grigiore avvolti
siam tutti, anzi sepolti.
D’un tratto ecco il prodigio;
l’aria di muta e in breve
un venticello lieve
spazza l’uggioso bigio.
Spunta di già un pezzetto
d’azzurro; oh benedetto!
Il sol di nuovo brilla.
Il campanil gigante
e le strade e le piante
e il cuor, tutto scintilla.
Il mondo è un caro viso
su cui torna il sorriso. (F. Bianchi)

Poesie e filastrocche sulla NEBBIA – Tutte le opere contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.

Famiglie di parole – Primi esercizi di lettura

Famiglie di parole – Primi esercizi di lettura. Per famiglie di parole si intendono parole che finiscono nello stesso modo, variano tra loro solo per il suono iniziale.

Di seguito una breve lista di parole italiane di questo genere. Ho scelto, trattandosi di primi esercizi di lettura, solo parole bisillabe.

Famiglie di parole

-ASO caso, naso, raso, vaso

-ALA cala, gala, pala, sala

-ERA cera, nera, pera, sera, vera

-TTO atto, etto, otto

-ATTO batto, fatto, gatto, matto, patto, ratto, tatto

-OTTO botto, cotto, dotto, lotto, motto, sotto, rotto

-ETTO detto, getto, letto, netto, petto, retto, tetto

-ASSO basso, lasso, masso, passo, sasso, tasso

-OSSO dosso, fosso, mosso, posso, rosso

-ESA fesa, pesa, resa, tesa (con aggiunta di due lettere iniziali anche chiesa, fresa, presa)

-OLO bolo, dolo, molo, nolo, polo, solo, volo (con aggiunta di due lettere iniziali anche ruolo e suolo)

-OLLA bolla, colla, folla, molla, zolla ((con aggiunta di due lettere iniziali anche crolla e frolla)

-ANA lana, tana, nana, sana, vana (con aggiunta di due lettere iniziali anche liana, Diana, frana, grana, piana, plana)

-ENA cena, iena, lena, mena, pena, rena, vena (con aggiunta di due lettere iniziali anche Siena e piena)

-INO Dino, fino, Gino, lino, Mino, pino, Nino, tino, vino (con aggiunta di due lettere iniziali anche suino)

-ALLO ballo , callo, dallo, fallo, gallo, mallo (con aggiunta di due lettere iniziali anche giallo)

-ELLO bello, dello, nello, vello (con aggiunta di due lettere iniziali anche duello e quello)

-ENTE dente, gente, lente, mente, sente

-AMA dama, fama, lama (con l’aggiunta di due o più lettere anche brama, chiama, squama, trama)

-IMA cima, lima, mima, rima (con l’aggiunta di due o più lettere anche clima e prima)

-NNO anno, inno, unno (con l’aggiunta di due o più lettere anche cenno, danno, fanno, hanno, nonno, panno, sanno, senno, sonno, tonno, vanno)

Capito il principio, se ne possono trovare tantissime altre…

Con le famiglie di parole possiamo preparare questi giochi didattici:

Famiglie di parole – Primi esercizi di lettura – Progetto uno

Scrivete il finale di parola sul foglietto fisso, e le varie iniziali sui foglietti sfogliabili a libro (qui avremo c, n, r, v).

Famiglie di parole – Primi esercizi di lettura – Progetto due

Materiale occorrente: rotoli di carta igienica, carta colorata, cartoncino, colla.

Appiattite il rotolo di carta igienica piegatelo a metà e tagliate in due:

Usate una bella carta colorata sia per rivestire il rotolo, sia per chiuderlo nel senso della lunghezza e da uno dei suoi lati corti:

Preparate una striscia di cartone robusto, tagliatela in modo che sporga all’esterno e che scorra facilmente nel tubo, e fissate gli “Stop” con della carta colorata: servirà al bambino a capire quando è arrivato alla fine della proposta di lettura.

Preparate due pezzi di cartoncino nei quali scrivere il finale di parola scelto in stampato maiuscolo e stampato minuscolo, ed incollateli sul tubo (uno su un lato, uno su quello opposto).

Inserite la striscia di cartone nel tubo, scrivendo le iniziali scelte, da un lato in maiuscolo, dall’altro in minuscolo.

Si può insegnare al bambino come coprire con la mano le lettere già lette per evitare che faccia confusione…

Lavagna di sabbia Montessori – Apprendimento della scrittura

Lavagna di sabbia Montessori – Apprendimento della scrittura. Si tratta molto semplicemente di un vassoio o di una cassettina (anche il coperchio di una grande scatola) di legno o anche di plastica o cartone. La versione più ortodossa prevede l’utilizzo di sabbia blu, ma io personalmente preferisco la farina da polenta, che è più calda al tatto, più naturale, e si appiccica molto meno alle manine sudate.

Il concetto di orario scolastico e di suddivisione delle materie di insegnamento da svolgere nell’arco della giornata o della settimana, non fa parte del metodo Montessori. Se decidete di introdurre questo tipo di didattica a casa o a scuola, la prima cosa da fare è preparare l’ambiente e raccogliere la maggior parte dei materiali montessoriani di base (acquistandoli o costruendoli in proprio), in modo tale che fin dall’inizio il bambino possa scegliere a quali materie rivolgere il suo interesse. Un giorno vorrà magari dedicarsi esclusivamente alla scrittura e alla lettura, il giorno dopo lo potrete invece vedere totalmente immerso nella scienza o nella matematica.  I bambini inoltre, specie quelli più piccoli, attraversano fasi nelle quali amano ripetere all’infinito lo stesso esercizio. A volte, in queste loro ripetizioni, tendono a ripetere degli errori, magari sempre lo stesso… ma se li lasciate sperimentare, vedrete che un bel giorno l’errore scomparirà, e non è descrivibile la soddisfazione che i bambini traggono da questo processo.

Ogni bambino è diverso e cresce in modo diverso, le varie tappe di sviluppo di ognuno non vengono raggiunte affatto negli stessi tempi. Per questo nelle scuole Montessori si sceglie il modello della “pluriclasse”  e si crea un clima di collaborazione tra grandi e piccoli che è di grande aiuto per entrambi: i piccoli possono guardare verso materiali ed esercizi più difficili se ne sentono il bisogno, indipendentemente dalla loro “età anagrafica”, i grandi possono tornare a materiali ed esercizi più semplici e che possono risolvere qualche loro incertezza, e in questa scuola davvero non esiste noia.

A casa è certamente possibile ricreare questo ambiente tra fratelli. In caso contrario sarebbe importante creare occasioni di gioco simili con un gruppo di amici che abbiano da uno  a tre anni di differenza d’eta una o due volte la settimana. In ogni caso, per salvaguardare il principio anche con un solo bambino, nell’allestire il materiale bisogna sempre tenere a disposizione materiale “più facile” e materiale “più difficile”, senza mai avere fretta di utilizzare il secondo ed aspettando che sia il bambino stesso a sentirsi pronto.

(trovi altre indicazioni generali sul metodo qui; sull’apprendimento della scrittura qui .)

Lavagna di sabbia Montessori

La lavagna di sabbia Montessori è un bellissimo materiale ed è davvero economico. I bambini più piccoli possono inizialmente avere un approccio artistico e utilizzarla per il disegno libero, per creare composizioni e scenari di gioco. E’ uno strumento molto utilizzato ed apprezzato anche in campo terapeutico.

In funzione della prescrittura, possiamo preparare delle tracce su carta, possibilmente della stessa dimensione del vassoio, ed il bambino ripeterà la traccia nella lavagna. Qui alcuni esempi (prepararne uno per foglio):

Questi esercizi possono essere arricchiti aggiungendo uno specchio alla lavagna: il bambino avrà una bellissima esperienza visiva della simmetria:

E’ molto interessante utilizzare la lavagna di sabbia Montessori anche per il disegno di forme, che è invece un’arte molto coltivata nella scuola steineriana.

Questo un esempio:

Dopo aver fatto varie esperienze, un giorno possiamo proporre al bambino qualcosa di nuovo: tracciamo nella lavagna una bella “a”, pronunciando bene il suono. Se il bambino prova interesse, e non ha difficoltà a copiare i segni abbinandoli ai suoni, è il momento di introdurre le lettere smerigliate (o alfabeto tattile) e di utilizzare la nostra lavagna per esercitare la scrittura dello stampato minuscolo.

Lavagna di sabbia Montessori – Qualche video:


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DIY Montessori sand box. It is quite simply a tray or a box (also the lid of a large box) of wood or even plastic or cardboard. The most orthodox involves the use of blue sand, but I personally prefer the yellow corn flour, which is warmer to the touch, more natural, and sticks less to sweaty hands.

The Montessori sand box is a beautiful material and is really cheap. Younger children may initially have an artistic approach and use it to free drawing, to create compositions and game scenarios. It is an instrument widely used and appreciated in therapy.

As a function of pre-writing, we can prepare the track on paper, possibly the same size of the tray, and the child will repeat the track in the sand box. Here are some examples (prepare one per sheet):

These exercises can be enriched by adding a mirror to the Montessori sand box: the child will have a beautiful visual experience of symmetry:

It is very interesting to use Montessori sand box for the drawing forms, which is rather an art much cultivated in the Waldorf school.

This is an example:

After doing various experiences, one day we can offer the child something new: we draw in the sand box Montessori beautiful “A”, pronouncing good the sound. If the child feels interest, and has no difficulty in copying the signs combining sounds, it’s time to introduce the sandpaper letters (or tactile alphabet) and use our sand box for the writing exercise.
 

 

DIY Montessori sand box – Videos

Racconto per introdurre la geografia La casa giusta

Racconto per introdurre la geografia La casa giusta – Elaborato a partire da una traccia in uso nella scuola steineriana, questo racconto è un piccolo viaggio attraverso i climi e le abitazioni tradizionali di alcuni popoli della terra. Se proposto a blocchi, un po’ al giorno, si può esercitare il disegno copiato dalla lavagna e la scrittura; consigliate anche le cornicette… Ho inserito nel testo degli esempi. Se disegnate per i bambini alla lavagna partite creando un bello sfondo (sole, aria, prato…), poi passate alla cornicetta, e quindi al disegno, cercando di evitare prospettive troppo complicate per loro e troppi particolari che renderebbero noioso guardarvi. Non importa tanto il prodotto finito, quanto il processo.

C’erano una volta, tanto tempo fa, due fratellini, un bambino e una bambina, che abitavo su su in alto, nel cielo. Lassù c’era sempre qualche gioco nuovo da fare: saltare sulle nuvole bianche e gonfie come la panna montata, scivolare sul dorso della luna, fare le pernacchie ai raggi del sole, sedersi sulle stelle e giocare a nascondino…

Un giorno, il tempo era passato e loro erano un po’ cresciuti, il loro sguardo andò a posarsi sulla terra: com’era piccola rispetto a tutto il cielo, e com’era buia rispetto alle stelle, e com’era chiassosa rispetto alla luna silenziosa, e com’era fredda rispetto al sole! Ma com’era bello guardare i suoi alberi, i fiori che sbucavano dalla scura terra,  gli animali che correvano, i fiumi  e i monti, le montagne imponenti, e gli uomini, poi, che si muovevano, parlavano, ridevano… Da quando avevano scoperto la terra, i due bambini rimanevano ore ed ore a guardarla, seduti su una nuvola, e non avevano più voglia di giocare con la luna e con le stelle. Solo quando sulla terra gli uomini interrompevano le loro varie occupazioni e andavano a dormire, i bambini tornavano ai loro giochi.

Guardando e riguardando la terra, i bambini cominciarono a desiderare di scendere laggiù, ma avevano molta paura a fare un viaggio del genere da soli. Una volta arrivati, come sarebbero stati accolti? Qualcuno avrebbe avuto cura di loro? Com’erano gli uomini, buoni o cattivi? A vederli da lassù, sembravano certamente buoni, ma era proprio così? Presi da tanti dubbi, e divisi a metà tra cielo e terra, i due bambini cominciavano a sentirsi tristi.

Le stelle del cielo se ne accorsero e dissero: “Non abbiate paura… anche se scenderete sulla terra noi resteremo con voi, e potrete sempre vederci anche da laggiù”.
I due bambini, a questo punto, erano determinati a partire, ma prima di farlo decisero che era meglio chiedere un consiglio al grande mago che muoveva i venti e le correnti, faceva nascere le tempeste, scatenava i fulmini, faceva rimbombare i tuoni e  radunava tutte le nuvole trasformandole in animali dei più vari, come elefanti leoni aquile tori o pesci…

“Di cosa avremo bisogno una volta scesi sulla terra?”, gli chiesero.
“Oh, beh, di una cosa avrete bisogno di certo” rispose il mago, “Una volta sulla terra, il cielo ce lo avrete sulla testa, e le nuvole rovesciano acqua, il sole brucia e la luna è fredda… vi occorrerà un riparo dal freddo e dal caldo, dalla pioggia e dal vento, dalla grandine e dalla neve…”
“Una casa?” chiesero i bambini, “ma noi non sappiamo nulla di case…”

“Voglio aiutarvi!” , rispose il mago dopo aver riflettuto un istante, perchè quei due bambini gli erano proprio simpatici, “Venite giù con me! Io vi darò una casa sulla terra. Come la volete? Triste o allegra? Fredda o calda? Chiusa o aperta?”
“Bella!” risposero in coro i bambini.
“Bene”, disse il mago, “Venite allora sotto il mio mantello, e tenetevi forte!”

I due bambini si attaccarono stretti alle gambe del mago, sotto il suo mantello, e volarono giù tra le grida di meraviglia degli uccelli…

Volando, erano passati vicino al sole, che li aveva quasi scottati; allora il mago li portò subito nella zona più fredda che si possa trovare sulla terra. Lì atterrò, e  i bambini uscirono da sotto il suo mantello e si guardarono attorno; erano arrivati al Polo Nord, dove la terra non germoglia  e non fiorisce: vento gelido e lastre di ghiaccio  luccicante dappertutto, e un gran silenzio, interrotto soltanto dallo scricchiolare del ghiaccio, dal grido di grandi uccelli bianchi e dal verso delle foche e degli orsi. Gli uomini che vivono in questa terra sono pochi.

Il mago disse: “Ah, che bel frescuccio da queste parti, eh! Proprio quello che ci voleva! Ed ora, vediamo un po’ in che casa potreste abitare…”

Il mago fece un cenno verso qualcosa che sporgeva dalla neve, a forma di cupola, e tutti e tre si avviarono da quella parte. Seminterrata nella neve, c’era una casetta rotonda, tutta ricoperta di ghiaccio, senza porte nè finestre: l’igloo. Il mago e i due bambini entrarono, abbassando la testa, in un tunnel di ghiaccio che era accanto alla casa. Percorrendo il tunnel videro numerosi cani sdraiati e mezzo addormentati. Il tunnel finì ed essi sbucarono all’interno della casa. Lì dentro non faceva più così freddo, ma c’era un fortissimo odore di grasso e di pesce.  Tutta la casa era ricoperta di pelli, muschi e licheni.I due bambini esclamarono: “Oh, che bella questa casa!”.

Lì dentro ci si sentiva proprio bene e la cupola che faceva da tetto somigliava al cielo. Gli uomini che entravano nella casa si toglievano i grossi guanti e i giacconi foderati di pelliccia, e sorridevano. I loro occhi erano di forma allungata, avevano zigomi pronunciati e la pelle del viso spalmata di grasso. Il mago salutò i due bambini, e scomparve.

Fu un grande divertimento per loro vivere in una casa di ghiaccio. Parte del giorno la trascorrevano all’aperto giocando con le foche e coi cani, poi rientravano nell’igloo e si sdraiavano  tra le pelli di foca, addormentandosi. Se capitava che si svegliassero durante la notte, vedevano sempre la stessa pallida luce solare, che ininterrottamente, per tutte le 24 ore di ogni giornata, era sempre la stessa: il giorno non finiva mai.
Ma il tempo passò e il sole invece di esserci sempre, tramontò e l’alba non arrivava. Allora cominciarono a sentire davvero freddo! Il vento del nord cominciò a soffiare, arrivarono le tempeste di neve, le onde dell’oceano si impennarono come cavalli selvaggi. Tutti gli uomini si rintanarono negli igloo, e chiusero i cani al sicuro nel tunnel. Il maltempo durò molti, molti giorni, e la luce del sole non ricomparve: un’eterna notte si era distesa su quella strana terra  e le ore passavano sempre uguali. I due bambini avevano freddo e cominciarono ad annoiarsi. Nell’igloo c’era ben poco da fare, e non si poteva neanche star dietro a una finestra a guardare il cielo nero, la furia dell’oceano o la terra battuta dal vento. Quella casa ora sembrava loro una prigione di gelo.
“Che noia!” disse la bambina,  “potessimo chiamare in nostro amico mago…”.
“Lui ci aiuterebbe!”, rispose il bambino.

E non avevano finito di scambiarsi queste parole, che il mago apparve davanti a loro: “Cosa volete? Non siete soddisfatti della vostra casa?”
“No!” rispose il bambino, “Abbiamo freddo e qui è sempre notte! Ci annoiamo!”
“Questa terra non è adatta a noi”, continuò la bambina, “e poi… la casa non ha nemmeno una finestra per guardar fuori e vedere le stelle…”
“Bene,” disse il Mago, “allora lasciamo questo posto! Venite sotto il mio mantello!”
“Dove ci porterai?”
“Dove regna il sole, venite!”
I due bambini non si fecero certo pregare, e si infilarono zitti zitti sotto il grande mantello. Il mago uscì dall’igloo e si alzò in volo, incurante della bufera.

Viaggiarono per molto, molto tempo e, mentre volavano, l’aria di faceva sempre più calda, finchè i due bambini cominciarono a sudare sotto il mantello del mago. Per fortuna erano arrivati!
“Eccoci a terra” disse il mago.

I due bambini uscirono da sotto il mantello e si guardarono intorno meravigliati. Erano atterrati in un posto che era in tutto e per tutto l’opposto del primo: si trovavano nell’emisfero sud! Qui la pioggia poteva cadere torrenziale per giorni e giorni, il sole era splendente, e l’aria umida e calda faceva nascere dalla terra ogni genere di pianta e alberi altissimi, col tronco liscio liscio e la chioma rigogliosa molto sopra. Al polo i colori erano bianco, grigio e azzurro pallido; qui era il regno del verde e del giallo in tutte le loro possibili gradazioni e sfumature. Tanto era ricca la vegetazione, altrettanto ricca era la varietà di animali: leoni, leopardi, pantere, iene, gazzelle, antilopi, giraffe, zebre, elefanti, scimmie, uccelli d’ogni genere. Gli uomini, a differenza degli abitanti del nord, avevano la pelle scura.

“Ah, che bel calduccio fa da queste parti, vero?” disse il mago, soddisfatto, “Credo proprio che ora sarete contenti… ieri al polo e oggi qui! Adesso non ci resta che andare a cercare la vostra casa!”.
Seguito dai due bambini, il mago si inoltrò nel folto della foresta. Camminare era molto difficile, ma con un mago al proprio fianco non c’era nulla da temere, e alla fine si ritrovarono in una piccola radura circondata da alberi altissimi.

“Ecco la vostra casa!” disse il mago, indicando una costruzione rotonda come un igloo, ma tutta verde e leggera. Era una capanna fatta di rami d’albero sottili e flessibili, legati gli uni agli altri con delle liane. Al centro, un’apertura tra i tronchi indicava l’entrata. I bambini erano felici: quella sì che era una bella casa! Entrarono: il sole filtrava tra le fessure delle pareti, e l’aria profumata della foresta penetrava ovunque.
“Ah, qui staremo proprio bene!” dissero, ” e stanotte finalmente riusciremo a rivedere le stelle!”.
“Sono contento che vi piaccia” disse il mago, e scomparve.

Fu così che i due bambini si ritrovarono a vivere le loro meravigliose avventure nella foresta. Il più divertente dei giochi era lanciarsi la frutta addosso, loro e le scimmie. Ma era bello anche seguire il corso del fiume, naturalmente stando molto attenti ai coccodrilli… e ai leoni!

Eppure i bambini non erano del tutto felici, e continuavano a sentire la stessa nostalgia che avevano provato prima di scendere sulla terra.
“Se almeno non vedessimo tutto quel buio là fuori! Se la casa fosse più… più protetta, più chiusa…”, dicevano.
E la sera anche le stelle sembravano così lontane.
Passò del tempo, e anche il caldo si fece insopportabile: un’aria umida e appiccicosa saliva dalla terra, arrivò un vento caldo e gli animali si nascosero nella foresta. Gli uomini si ritirarono nelle loro capanne, chiudendosi dentro con tronchi e pelli. Cadde su tutto un cupo silenzio, una calma irreale e minacciosa si stese su uomini, alberi, animali. Il sole scomparve e si scatenò una terribile tempesta; l’acqua scendeva violentissima dal cielo e ai due bambini sembrava di essere su di una barchetta leggera in balia di un mare tempestoso.
“Oh, se almeno non fossimo soli, se ci fosse il mago qui con noi!” dissero.
“Mi avete chiamato?” disse il mago, apparendo improvvisamente davanti a loro. “Non siete più contenti neanche di questa casa?” Eppure, vi piaceva tanto…”
“Oh, sì, è bella… ma non è sicura! Noi vorremmo una casa solida che sappia resistere al vento e alla pioggia; che ci faccia sentire protetti…”

“Ho capito. Ed ora so quello che ci vuole per voi. Ritornate in fretta sotto il mantello, e partiamo!”
I bambini non se lo fecero certo ripetere, si aggrapparono alle gambe del mago, e volarono via.

Viaggiarono a lungo, verso ovest, sorvolando l’oceano immenso, finchè per la terza volta si ritrovarono a terra. Erano in un paese vasto e aperto come il respiro di un gigante: l’America! Da una parte si stendevano verdi praterie sterminate, solcate da fiumi e interrotte qua e là da grandi pinete; dall’altra una catena di monti rocciosi si elevavano in picchi frastagliati verso il cielo. In quel momento il sole stava tramontando e tutto era tinto di arancione e rosso. Quanta luce!

“Venite!” disse il mago “Vi aspetta la casa dei vostri sogni!”
E li portò su un picco roccioso, sovrastato da uno strano spettacolo: scavate nella roccia viva, una accanto all’altra e una sopra l’altra, c’erano case di pietra.
“Questa sì che è una casa!” esclamarono i bambini, “Qui dentro non ci bagneremo, nè vedremo lampi paurosi!”
“E da queste finestre potremo anche guardare le stelle.” disse la bambina.
E il bambino aggiunse: “Sembra una fortezza! E possiamo giocare ai soldati!”
“Bene!” disse allora il mago, “Sono proprio felice di avervi accontentati…”
E sparì.

I due bambini cominciarono una nuova vita. Intorno a loro vivevano uomini forti e coraggiosi, alti e dalla pelle del colore del tramonto, con lunghi capelli lisci e neri, spesso adornati di piume. Questi uomini maneggiavano armi e attrezzi, e avevano costruito loro quelle case, scavandole nella roccia, e le avevamo chiamate “pueblo”. Erano un popolo saggio e generoso, ma anche bellicoso. Coltivavano le praterie e vivevano dei prodotti della terra e di caccia. Il bambino li seguiva spesso nel loro vagabondare e aveva imparato ad andare a cavallo e rincorrere immense mandrie di bufali e bisonti selvaggi; alci, salmoni e castori erano altri animali che si incontravano facilmente in quella zona. La bambina, invece, restava al villaggio con le donne, e con loro lavorava a fare cesti e ritagliare le pelli dei bisonti per fare coperte e vestiti.
A lungo andare la bambina si stancò di vivere così.

“Le finestre qui sono buchi, vanno bene per lanciare frecce contro i nemici, ma non per ammirare il mondo!” disse un giorno.
“E se anche fosse?” rispose il bambino, “a me piace sentirmi al sicuro quando arriva il nemico!”
“Ma non si può vivere sempre con l’idea di doversi difendere! Io vorrei una casa delicata, dolce, con una bella finestra da cui guardare i fiori del giardino, un terrazzo…Vorrei vicini gentili che ti sorridono quando ti vedono…”
“Tutte cose da femmina!” disse il bambino facendo una smorfia.
“Proprio così! Questa è una casa per maschi! Un buco nella roccia per giocare alla guerra!”
I due bambini cominciarono a litigare, finchè la bambina afferrò il bambino per i capelli gridando: “Vuoi la guerra? Eccotela!”
E cominciarono a darsele di santa ragione.
“Ah, così proprio non va!” dissero in coro le stelle del cielo, “Mago, corri dai bambini!”
Ed il mago apparve tuonando: “Cosa state combinando?”
“Niente…” dissero i bambini.
“No, no! Questo posto proprio non va bene per voi! Vi porterò nel paese della grazia e della delicatezza, e lì sicuramente starete bene…”

I bambini si nascosero sotto il mantello del mago e volarono via dal selvaggio ovest.
Viaggiarono a lungo verso est, sorvolando mari e terre, poi il mago cominciò a volare più basso e i bambini videro sotto di loro tantissima acqua, l’oceano, e in mezzo all’acqua una grande terra che si stendeva meravigliosa, ricca di verde e di montagne ricoperte di neve, e di alti monti con la cima simile ad una bocca spalancata, i vulcani. Videro sciogliersi le nevi in cascate pittoresche e laghi da sogno circondati da boschi di aceri, betulle, castagni, magnolie e salici… Quella terra era molto popolata: videro città e paesi, uomini donne e bambini.

Il mago atterrò, e i bambini con lui.
Che meraviglia! Conifere di ogni specie si alternavano a magnolie, camelie, orchidee, glicini, bambù… un dolce lago azzurro, solcato da silenziose imbarcazioni, era immerso nel verde, e il verde vi si rifletteva dentro. Sulla sponda del lago, tra delicati alberelli nani, sorgeva la più deliziosa casa che i bambini avessero mai visto: col tetto a forma di pagoda, aveva le pareti di legno leggerissimo e di carta, in cui s’aprivano grandi finestre. All’interno della casa ogni cosa era delicata e leggera: c’erano piccolissimi mobili di legno laccato, tavolini bassi bassi, composizioni di fiori variopinti insieme a rami di bambù e foglie, pareti scorrevoli di carta e legno al posto delle porte. La bambina era estasiata, mentre il bambino si guardava attorno curioso. Gli uomini che le avevano costruite erano a prima vista gentili e delicati proprio come le loro case: piccoli di statura, occhi e capelli scuri, la loro legge era la cortesia.

“Qui di certo non vi verrà voglia di prendervi per i capelli” disse il mago, e come al solito scomparve.
I due bambini non osarono nemmeno salutarlo, perchè sembrava che ogni voce fosse troppo forte in quel dolce paese…
Così cominciò la loro vita nell’est, nel paese del Sol Levante.
In questa terra l’attività più strana per i bambini era prendere il tè: solo per prepararlo ci si metteva una gran quantità di tempo, poi lo si versava in delicatissime tazzine di porcellana e lo si beveva con grande serietà. Con la stessa cura dei gesti si svolgevano quasi tutti i lavori, anche coltivare il riso, l’alimento principale di quel popolo. E la stessa cura veniva messa in tutte le arti: la lavorazione della carta e del legno, l’arte della seta, la calligrafia, la ceramica, la danza, la musica e il teatro.

Un giorno i bambini andarono ad assistere ad uno spettacolo e per la prima volta videro rappresentata la lotta tra due samurai. Gli attori erano coperti dalla testa ai piedi e portavano spada ed elmo: avevano un aspetto davvero feroce. Dopo qualche minuto di calma assoluta in cui i due guerrieri erano rimasti uno di fronte all’altro immobili come statue, si sentì un fortissimo grido e cominciò la lotta: non c’era traccia di cortesia e delicatezza!
I bambini naturalmente furono molto impressionati, e tornati a casa il bambino disse: “In questo paese tutto è bello e sembra fatto di porcellana; a volte ho perfino paura a camminare perchè temo di poter rompere qualcosa o di dare fastidio…ma c’è anche qualcosa di violento e terribile… oggi quei due samurai mi hanno proprio fatto paura!”

La bambina non disse nulla.
D’improvviso la terra cominciò a tremare, sembrava stesse spaccandosi in due, ci fu un terribile rombo, e la casa si piegò e finì col disfarsi, proprio come un castello di carte. Per fortuna, essendo così leggera, non fece loro alcun male.

“Ho paura!” dicevano i bambini, “Vieni qui da noi, mago!”
E il mago comparve.
“Presto, sotto il mantello! Scappiamo!”
Si alzarono in volo e la terra divenne un’altra volta piccola piccola e lontana, in mezzo al mare…

Dopo un po’ che volavano, il mago si fermò. I due bambini sbirciarono da sotto il mantello per vedere dove erano capitati questa volta… ma si accorsero di essere ancora in alto nel cielo. Il mago era molto pensieroso.
“Caro mago, cos’hai?” chiesero.

“Vi ho portati in giro per il mondo: dalle nevi del nord, alle zone tropicali del sud, dalle vaste praterie dell’ovest, fino alle belle terre dell’est. In tutti questi posti avete conosciuto gioia, sorpresa, felicità, meraviglia, ma anche tristezza, noia, paura. Soprattutto, la vostra nostalgia non vi ha mai lasciati, in nessuno di questi luoghi. Avete abitato in case di ghiaccio, di piante, di roccia, di carta, ma niente è stato adatto a voi. Non avete ancora trovato la vostra terra, la vostra casa…”
“Non ti scoraggiare, caro mago” dissero i bambini.

“Non ti scoraggiare, caro mago” ripeterono in coro le stelle, “Tu li hai portati dal cielo alla terra, ma la casa giusta per loro può trovarla soltanto la grande maga misteriosa… portali da lei”.
Il mago accettò il consiglio delle stelle, prese i bambini sotto il mantello e insieme volarono incontro alla terra, allontanandosi dalle nuvole e via via immergendosi nel verde e nell’azzurro, finchè arrivarono davanti alla grande maga misteriosa.

Il mago baciò i bambini, li salutò e scomparve.
“Perchè siete venuti da me?” chiese la maga.
“Per avere la casa sulla terra giusta per noi. Il mago non è riuscita a trovarla…” dissero i bambini.

“Certo cari bambini, la casa giusta per voi è dove c’è chi vi sta aspettando, il vostro papà e la vostra mamma. Loro, sapete, stanno preparando per voi due casette, non una soltanto! Una casetta è piccola piccola, che ci sta dentro giusto il cuore, e l’altra è grande grande. Vedete: ogni luogo della terra è meraviglioso, come è meraviglioso ogni popolo della terra ed ogni uomo, e ogni casa è la casa migliore che per quel luogo possa esistere.   Ma casa è dove ci sono la mamma e il papà, e i vostri non erano in nessuno dei luoghi dove il mago vi ha portati, per questo non vi ci siete trovate bene…”
“E dove sono, dove sono?”, chiesero i bambini.

“Oh”, disse la maga, “vivono in un luogo della terra non troppo a nord, nè troppo a sud; non troppo ad ovest nè troppo ad est; lì non fa troppo freddo e nemmeno troppo caldo; il sole splende ma può anche cadere la neve. E’ una bella terra, il clima è temperato, è contornata da un mare azzurro e splendente sotto i raggi del sole, ma non mancano le alte vette innevate, le colline e le pianure. Anche in questa terra esistono come nelle altre che avete visitato cose brutte, ma è la vostra casa. Era lì che spingeva la vostra nostalgia…”

I GIORNI DELLA MERLA – Racconti, dettati ortografici e filastrocche

I GIORNI DELLA MERLA – Racconti, dettati ortografici e filastrocche, di autori vari, per bambini della scuola d’infanzia e primaria.

I GIORNI DELLA MERLA

Una volta i merli erano bianchi come la neve. Ma un anno gli ultimi tre giorni di gennaio furono così freddi, che gli uomini non uscivano di casa per non rimanere assiderati; i rami degli alberi scricchiolavano per il gelo e cadevano a terra spezzati; i corsi d’acqua erano gelati e gli uccellini si rifugiavano nelle case degli uomini per non morire.
Una merla, coi suoi tre piccini, si riparò nel camino di una casa. Ma, ahimè, le penne della merla e dei suoi merlotti divennero, per il gran fumo del camino, nere come la notte.
Da allora tutti i merli furono neri. I tre ultimi giorni di gennaio vengono detti anche oggi “i giorni della merla”.

I GIORNI DELLA MERLA

Quell’inverno, tanti anni fa, quando i merli erano ancora bianchi, la merla e i suoi figlioli se la videro brutta: neve, freddo e fame.
Se la merla fosse riuscita ad arrivare fino al granaio di quella casa, laggiù! Ma sì, chi aveva il coraggio con quel freddo?
Finalmente passò Dicembre e anche Gennaio si avviò alla fine. Un raggio di sole forò il cielo bianco e intiepidì l’aria.
“L’inverno è finito” disse con un gran sospiro la merla ai suoi figlioli. “Oggi voglio proprio arrivare fino al granaio”.
Proprio in quel momento Gennaio passava sotto il nido. Udì i discorsi della merla e, da quel vecchio dispettoso che era, borbottò fra sè: “Partito, vero? Ora te lo faccio vedere io!”.
La merla era arrivata al granaio, aveva fatto una buona provvista e stava per tornare indietro quando la tempesta si scatenò. Dove ripararsi?
Finalmente trovò un buon posticino riparato e caldo: il comignolo di una casa. La merla se ne stava lassù mezzo soffocata dal fumo, ma incapace di volar via. Per tre giorni durò, finchè Gennaio non partì. Allora la merla potè tornare al nido.
“Che cosa vuoi, brutto uccellaccio nero?”, le gridarono i figlioletti impauriti.
“Ma sono io, la vostra mamma!”
“Non è vero. La nostra mamma è bianca e bella, e tu sei nera e brutta!”.
La merla cercò di ripulirsi, ma non ci funiente da fare; dovette rassegnarsi. Da allora i merli sono rimasti neri, e proprio per questo gli ultimi tre giorni di gennaio si chiamano i giorni della merla.
(F. Giovannelli)

I GIORNI DELLA MERLA
Narra una strana storia
che in tempi assai lontani
c’era una merla bianca
più bianca della neve.
Volava lentamente
sui rami delle siepi
cercando qualche bacca:
aveva tanta fame!
Tirava forte il vento
sugli orti e sui giardini
pioveva senza sosta
dall’alba fino a notte:
gennaio ormai finiva
con giorni grigi e freddi.
La povera uccellina
fischiando disperata
cercava invano un seme
un piccol moscerino
un chicco di frumento
un briciolo di pane.
Infine, giunta sera,
si rifugiò al calduccio
di un alto fumaiolo:
dormì sognando il sole.
Svegliandosi al mattino
scoprì con meraviglia
d’avere nera l’ala
nerissimo il piumaggio
e il becco color d’oro.

I GIORNI DELLA MERLA – Dettati ortografici e filastrocche  – Tutte le opere contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.

Il ciclo dell’acqua La storia di Diamantina

Il ciclo dell’acqua La storia di Diamantina – Questo racconto è utile sia per illustrare il ciclo dell’acqua, sia per introdurre in geografia gli ambienti naturali montagna, collina e pianura. Andrebbe proposto a blocchi, ed ogni blocco illustrato dai bambini con matite, cerette, acquarello, ecc…  (anche copiando dalla lavagna). Questo solo a titolo di esempio:

C’era una volta, molto ma molto tempo fa, un regno immenso fatto di acqua, dove tutto era pace e armonia. Era il regno di Oceano. Custodiva tante e tante meraviglie: negli abissi più profondi e inesplorati, si nascondevano grotte misteriose e montagne di sabbia e roccia rivestite di un  mantello verde evanescente che danzava all’ondeggiare dell’acqua. C’erano giardini incantati, pieni di fiori e coralli dai colori più sgargianti, e piante grandi e piccole, alcune delle quali aprivano e richiudevano le loro chiome per mangiare e riposare.

Piccole e grandi creature si muovevano senza sosta tra quelle meraviglie. La loro pelle era simile al colore delle piante e dei fiori che le circondavano, e  lucente, e piante e creature si confondevano tra loro.

Ogni creatura aveva un nome. C’era ad esempio il polipo, con la sua grande testa allungata dalla quale spuntavano lunghi tentacoli che si muovevano in tutte le direzioni. C’era poi la medusa, leggiadra e trasparente, che si muoveva così leggera e sinuosa da sembrare una ballerina sulle punte, in perfetta sintonia coi movimenti dell’acqua. La conchiglia dell’ostrica sembrava un ventaglio colorato e custodiva al suo interno una magnifica, perfetta perla splendente. La balena era la più grande creatura del regno. Un gigante buono. Quando nuotava, attorno a lei c’erano tanti pesciolini che le tenevano compagnia. Per respirare la balena doveva, di tanto in tanto, uscire dall’acqua, ed in quel momento spruzzava dal suo dorso una gorgogliante fontana che saliva verso il cielo e poi ricadeva su se stessa aprendosi come un fiore. C’era poi il delfino, l’acrobata di quel regno. I delfini nuotavano sempre in gruppo, ed il loro gioco preferito consisteva nel balzare fuori dall’acqua, il più alto possibile, per poi rituffarsi in acqua disegnando  nell’aria archi d’argento e allegri spruzzi d’acqua.

Il colore verdazzurro del regno di Oceano gli donava un’atmosfera di sogno e di pace. In superficie tutto era un luccichio, grazie alla luce del sole:  milioni di piccole stelline sembravano posarsi a danzare sul pelo dell’acqua.

Oceano aveva moltissime figlie: le gocce d’acqua, che vivevano felici nel suo regno. Oceano si occupava amorevolmente di loro e provvedeva a tutti i loro bisogni: le nutriva, le cullava cantando per loro, le proteggeva dai pericoli. Le gocce amavano Oceano, e gli erano grate e riconoscenti per quella vita così felice e spensierata.

Un giorno, mentre tutte le piccole gocce erano impegnate a giocare tra loro, si spinsero fino alla cresta delle onde, pericolosamente troppo vicino alla superficie, e lontane dal palazzo verdazzurro di Oceano. Lì udirono una misteriosissima voce chiamarle: “Goccioline! Fatevi riscaldare dai miei raggi, vi prometto che conoscerete cose fantastiche… vi farò vedere tutte le meraviglie che esistono oltre al vostro regno…”

Le gocce si spaventarono e fuggirono via. Non appena furono di nuovo a palazzo si sentirono al sicuro, ma non riuscivano a smettere di pensare a quello che era successo, e non riuscivano a darsi una spiegazione. Di chi era quella voce? Chi le aveva chiamate? Era il caso di tornare vicine alla superficie e cercare di scoprirlo, o era meglio dimenticare tutto e lasciar perdere?

Una piccola goccia parlò: “Oh, io sono così stanca di tutta questa pace, ogni giorno uguale all’altro, ogni giorno sempre più noioso di quello prima… Questo regno lo conosco ormai fino al più piccolo granello di sabbia che contiene. Basta! Voglio qualcosa di nuovo! Voglio avventura! Voi fate come volete: io salgo!”.

A parlare era Diamantina, la più curiosa e irrequieta goccia che ci fosse mai vista nel vasto oceano. Senza esitazione, dunque, si diresse verso la superficie, e molte delle sue sorelle decisero di seguirla…

… un brivido misterioso percorse le acque, e giunse fin negli abissi più profondi dell’oceano.

Appena giunte in superficie, le piccole avventuriere si sentirono avvolte da un piacevole tepore: un raggio di sole le aveva infatti accarezzate e le stava attirando a sè con forza sempre maggiore. Diamantina e le sue compagne si lasciano andare e, piano piano, con grande gioia, si arrampicarono sul raggio di sole, lasciando sotto di sè il regno di Oceano. Man mano che salivano diventavano sempre più leggere: fluttuavano nell’aria più leggere di trasparenti farfalle, e salivano sempre più in alto, sempre più su… per la prima volta in tutta la sua vita Diamantina, fuori dal regno di Oceano, vide tutti i colori del mondo.

(disegno)

Diamantina e le sue sorelle erano così felici! Ed ecco, videro comparire mago Vento: un gigante buono che se ne stava là nell’aria e  sembrava divertirsi come un matto a gonfiare le sue guance a più non posso. Quando aprì la bocca, ne uscì una bella folata fresca che investì tutte le gocce, allora loro si diedero la mano e si strinsero, per evitare di venire sparpagliate chissà dove.  Così unite , formarono una bella nuvola bianchissima nell’azzurro del cielo, e mago Vento continuò a soffiare, spingendo la nuvola fino alla cima di un’alta montagna rocciosa.

Lassù faceva molto freddo, non si vedevano nè erba nè alberi, ma solo rocce gigantesche, immobili e solenni. Per proteggersi dal gran freddo, ed estasiate dalla bellezza di ciò che vedevano, Diamantina e le altre gocce si strinsero ancoro  più forte le une alle altre: erano nel regno di mago Gelo. Divennero per opera sua sempre più consistenti e solide e bianche, e scesero lievemente sulle montagne, trasformate in meravigliosi cristalli stellati. Si adagiarono con dolcezza al suolo formando un mantello soffice soffice e bianco bianco, e caddero in un piacevolissimo sonno che per lungo tempo le cullò su quelle alte vette.

Finalmente, un mattino, un lieve tepore le svegliò dal loro sonno, e le gocce ad una ad una si accorsero che potevano nuovamente muoversi: era arrivata la primavera.

(disegno)

Scivolarono lungo il pendio della montagna verso la valle, lungo il percorso cantavano e saltellavano e giocavano a rincorrersi, riprendendo  via via la loro trasparenza. Scorrevano sempre più veloci, e ridevano, ridevano… L’eco delle loro risa risuonava tutto intorno, e improvvisamente ebbero come l’impressione di prendere velocità e di volare nel vuoto: l’emozione le fece ridere ancora più forte! E il loro salto aveva formato un’incantevole cascata.

Lungo il percorso capitava che alcune gocce scegliessero altre strade, ma sempre accadeva che un po’ più a valle si ricongiungessero. Ritrovarono perfino le sorelle che avevano scelto per un po’ di scorrere sottoterra, per poi riaffiorare dalla roccia e riunirsi a loro come acqua di sorgente.  Quando furono di nuovo tutte insieme,  i loro mille rigagnoli erano diventati un bel torrente limpido e lastricato di sassi grandi e piccoli.

Diamantina e le altre gocce si scambiarono i loro racconti di viaggio: c’era chi aveva conosciuto la regina Stella Alpina, chi aveva spiato una cordata di coraggiosi alpinisti, chi era passata vicino a paurosissimi burroni… un profumo molto intenso le avvolgeva e felici più che mai contemplavano il verde giovane della primavera.

Diamantina per prima si fece coraggio, e chiese: “Chi siete? Perchè ve ne state lì fermi e non venite con noi?”. “Noi siamo l’erba”, risposero in coro, “non potremmo vivere separati dalla terra, che ci nutre, ci protegge, ha cura di noi. Tappezziamo la montagna formando i pascoli, e la facciamo soffice e morbida… su di noi giocano i bambini, e senza di noi mucche, pecore, caprette, morirebbero di fame”. Diamantina e le sue compagne domandarono perplesse: “Mucche? Pecore? Caprette? E che cosa sono?” . “Sono quegli animali laggiù, vedete? Quelli a quattro zampe!”.

Le gocce conobbero così gli animali, strani esseri che, a differenza dell’erba, possono correre, saltare, galoppare…

“Anche tu ti chiami Erba?”, chiese Diamantina ad un bel fiore. “Beh, non proprio… il mio nome è Calendula, anch’io appartengo alla famiglia dell’Erba, ma a me aria e luce hanno dipinto un bel fiore con i raggi del sole…”. Mentre Calendula parlava, Diamantina si accorse di un piccolo essere simile a un fiore, ma che volteggiava nell’aria. Quando lo vide posarsi su una dolce margherita, urlò: “Attento bel fiore bianco e giallo, quella cosa ti farà male!”. “Mia cara Diamantina,” rispose Margherita, “questa è nostra sorella, la Farfalla. Non vedi come somiglia a noi fiori? Le sue ali sono come i nostri petali, ma sono petali speciali perchè possono prendere la strada del cielo. La farfalla, sai, volando qua e là per il prato, raccoglie tutte le storie che racconta la natura e le passa di fiore in fiore. Ora è a me che vuole raccontare qualcosa…”

Dopo aver salutato tutti i nuovi amici conosciuti nel pascolo montano, Diamantina e le sue compagne ripresero il loro viaggio. Ad un tratto sentirono un brivido di freddo e di paura: videro attorno a loro non più il verde dei pascoli, ma una miriade di giganti maestosi ed immobili che, nascondendo la luce del sole, creavano un’atmosfera cupa e misteriosa.  Le gocce, unite nel torrente, stavano infatti attraversando un fitto bosco di pini, abeti e larici.

La luce tornò e le gocce tirarono un bel sospiro di sollievo. Avevano ripreso il loro corso naturale, quando questa volta fu un grosso sasso a sbarrar loro la strada. Alcune gocce riuscirono ad aggirarlo, passare oltre e proseguire il loro cammino; altre si fermarono a discutere a lungo davanti al masso, presero a litigare, e così divennero ben presto acqua stagnante, e il fango le imprigionò.

(disegno: montagna)

Le altre, passate il grande sasso, decisero di rallentare un po’ la loro corsa per ammirare il meraviglioso paesaggio che andava cambiando. Via via la pendenza si faceva più dolce e cominciavano ad apparire verdeggianti colline, che si susseguivano simili alle onde di un mare incantato, pronto ad offrire nuovi tesori e nuove bellezze: argentei ulivi dal tronco contorto, filari di viti, frutteti, tappeti di terra coltivata, boschetti di castagni e querce, fiori variopinti. Tante casette colorate erano sparse qua e là tra il verde. Le gocce si beavano di tutte queste meraviglie.

Diamantina e le sue compagne di viaggio si guardavano intorno felici, e la loro attenzione presto si concentrò su una specie di prato verde sospeso in alto. “Forse è un prato che vola, una specie di grande farfalla…” disse Diamantina a voce alta.  “Ma che sospeso! Ma che farfalla!” disse un grosso vocione da contrabbasso, “Sono la Quercia. Le mie radici affondano nella terra, e la terra mi ha nutrita e fatta crescere così alta e maestosa perchè desiderava guardare il cielo da vicino. I miei rami servono da riparo per gli uccelli: loro cantano e volano, mentre io sto immobile a custodire la loro casa. Solo mago Vento viene ogni tanto a scuotermi un po’ le fronde: lui è mio grande amico. “

Un canto improvviso distrasse presto Diamantina: nascosto tra i fili d’erba c’era un piccolo cosino nero, ed era lui a cantare. “E tu chi sei?”, chiese Diamantina, “una capretta nana?”. “No, no!”, rispose quello. “Allora sei una mucca piccola!”. “Ma no! Sono un insetto, un grillo canterino, per la precisione, e mentre mi occupo di pulire e riordinare la tana, canto”.

“E quei fili d’erba che saltano, cosa sono?” chiese ancora Diamantina al grillo. “Sono cavallette! Non sono fili d’erba, sono insetti come me. Non stanno mai ferme, saltano, saltano… mi fanno girare la testa!”. Detto questo il grillo riprese le sue faccende e il suo canto.

(disegno: collina)

Le gocce, intanto, cominciavano a sentirsi molto stanche, dopo quel lunghissimo viaggio, ed erano confuse e stordite per la quantità di cose nuove che avevano visto lontane da casa. Rallentarono l’andatura e udirono un ronzio insistente provenire dalla riva, da un bel prato fiorito. Videro tanti piccoli esserini gialli e neri: volavano di fiore in fiore producendo il ronzio che aveva attirato la loro attenzione.

“Quelle non sono certo farfalle” pensò Diamantina, che proprio per colpa delle farfalle aveva già fatto tante brutte figure. Si avvicinò e chiese: “E voi chi siete?”. “Noi siamo le api” risposero loro, “e ci posiamo sui fiori per raccogliere il dolce nettare. Loro ce lo danno molto volentieri, perchè sanno che così noi potremo preparare la pappa reale per la nostra regina e il miele per tutti.”

Diamantina non sapeva proprio cosa fosse il miele, ma era troppo stanca per fare altre domande, così, insieme alle sue compagne, riprese il suo viaggio, muovendosi sempre più lentamente.

Il letto sul quale Diamantina e le altre gocce scorrevano non era più così ripido, ed era anche diventato molto più largo. Le gocce ora non avevano più quella voce sonora e squillante di una volta, non saltellavano, non guizzavano: scivolavano pacatamente e via via perdevano la loro limpidezza di acqua di montagna, per diventare acqua di fiume. Il fiume si allargava sempre più. Diamantina e le sue compagne si sentivano ora pesanti e stanche e provavano una grande nostalgia per il regno verdazzurro di Oceano. Attorno a loro c’erano tante cose meravigliose: le barche, le case, la vasta pianura verdeggiante, i campi dorati di grano, i filari di vite… ma Diamantina aveva perso ogni curiosità.

(disegno: pianura)

Ora le gocce scorrevano così lentamente che il tempo sembrava non passare mai…ma ecco che, in lontananza, scorsero il regno di Oceano, la loro casa. Ma come era possibile?

“Ogni fiume porta al mare, ragazze mie!” diceva Oceano, “Forza, correte, fatevi abbracciare!”

E tornate finalmente nel regno di Oceano, Diamantina potè raccontare a tutti gli abitanti del mare com’è fatta la terra: montagna, collina e pianura.

(adattamento da un racconto in uso nelle scuole steineriane)

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Il passaggio dal minuscolo al corsivo come trasformazione della forma. Una storia tutta da disegnare.

Il passaggio dal minuscolo al corsivo come trasformazione della forma. Una storia tutta da disegnare. L’anno scorso abbiamo imparato un nuovo alfabeto: lo stampato minuscolo. Vi ricordate quante avventure avevano vissuto precipitando dalla montagna? Ora vi voglio raccontare cosa è successo alle nostre letterine maiuscole e minuscole quest’estate, durante una meravigliosa notte di luna piena…

Il sole, come accade di solito in questa stagione, era andato a dormire molto tardi ed aveva lasciato il posto alla luna e alle stelle. Nell’aria calda e profumata si stagliava il canto felice dei grilli e il gracchiare delle ranocchie, che si erano messe in attività tra le ninfee dello stagno.

Le letterine maiuscole e minuscole, quella sera, erano andate a dormire prima del solito, stanche morte. Erano state tutta la giornata a prendere il sole e a fare il bagno. Qualcuna aveva anche schiacciato un pisolino pomeridiano all’ombra di un papavero. Sul far della sera erano ritornate a casa. Il sole quel giorno le aveva ben ben cucinate e si sentivano molto molto stanche e spossate. Per questo andarono a dormire prima del solito.

Le minuscole diedero il bacio della buonanotte alle sorelle maggiori, poi andarono in camera loro, si misero la camicia da notte, si tolsero le ciabatte, ed oplà, con un bel saltello eccole tutte  a letto sotto le lenzuola: ventisei lettini ben allineati l’uno accanto all’altro. Bastarono pochi minuti, ed erano tutte addormentate. Alcune sognavano beatamente, altre russavano…

…ad  un tratto, nel cuore della notte, una calda brezza estiva invase la stanza. L’aria entrava dalla finestra ed arrivava fino ai lettini, accarezzando dolcemente le letterine. Si svegliarono.

L’aria era calda. Il canto dei grilli e delle ranocchie era così allegro e distinto, che sembrava invitarle ad uscire.

Saltarono giù dal letto, si tolsero la camicia da notte, si vestirono, e in pochi minuti erano già tutte in giardino. La piccola z fu l’ultima ad uscire… chiuse piano la porta di casa, col cuore che batteva forte in gola:  temeva che le sorelle più grandi, le maiuscole, potessero svegliarsi e non dar loro il permesso di uscire: la notte, si sa, porta con sè molti pericoli… Ma le maiuscole non si accorsero di nulla.

E già le loro sorelline minuscole vagavano per il mondo, lontane da casa.

Il firmamento luccicava: c’erano molte stelle e la luna era piena. Le letterine si distesero sull’erba alta del prato e si misero ad ammirare il cielo e a contare le stelle. Erano così vicine che quasi si potevano toccare.

Poi si arrampicarono su un albero per ammirare gli uccellini che dormivano. Poi si misero a correre, ad arrivarono nei pressi di una stalla. Vi entrarono. Tutti gli animali stavano dormendo.

Entrarono poi nella casa del contadino, in punta di piedi salirono le scale fino al primo piano, si infilarono curiose nella serratura di una porta, ed in un attimo furono nella cameretta dei bambini.

Salirono sul trenino, giocarono a palla e con le costruzioni, e così fecero un bel po’ di rumore, tanto che la mamma dei bambini si svegliò. Corsa in cameretta non vide nessuno, per fortuna, perchè le letterine si erano nascoste tutte sotto i letti. Scampato il pericolo, corsero nel pollaio.

Le galline continuarono a dormire tranquillamente, ma il gallo si svegliò di soprassalto e urlò: “Chicchirichì!”

Tutte le luci di casa si accesero e le  letterine se la diedero a gambe levate!

Corsero, corsero e corsero, così tanto che arrivarono senza nemmeno rendersene conto nel bosco. Esauste e senza fiato, si fermarono a riposare.

Ed ecco, sentirono un canto. Era il canto degli gnomi che si recavano al lavoro, con le loro lanternine e i loro sacchi. Nascondendosi di tronco in tronco, presero a seguirli.

Davanti alla porta della loro caverna, gli gnomi si misero in cerchio ed accesero un bel fuoco, e proprio a causa della luce della fiamma rossa e gialla, si accorsero che qualcuno le stava spiando: le letterine erano state scoperte!

“Chi è là?” borbottarono in coro. Le poverine si misero a correre, i nani dietro… Correndo a più non posso giunsero ad un laghetto. La a, che correva avanti a tutte, si arrestò bruscamente per non cadere in acqua… ma non servì a nulla: il resto della fila non riuscì a fermarsi in tempo. L’una addosso all’altra caddero tutte nel lago.

Stavano quasi per annegare, quando a, che sapeva nuotare un po’ meglio delle altre, disse: “Non abbiate paura, teniamoci tutte per mano, e vi porterò tutte fuori…”

E così, mano nella mano, risalirono in superficie.

A causa di quel bagno fuori programma erano diventate tutte molli, ed anche per questo non smisero mai più di tenersi per mano.

Quando tornarono a casa, sempre per mano, era già mattino, e le sorelle grandi erano in giardino a bagnare i fiori: non si erano ancora accorte della loro sparizione.

Al vederle arrivare, così tutte molli e per mano, invece di arrabbiarsi cominciarono a ridere come delle matte, e non riuscivano proprio a fermarsi!

Allora la piccola a, infuriata e offesa, strappo’ la canna e innaffiò per bene tutte le sorelle maiuscole.

Poverine, adesso anche loro erano diventate molli, anche più molli delle minuscole: quasi distrutte.

La piccola a si pentì molto… Per consolare le sorelle maggiori, le minuscole le asciugarono, le coccolarono, le pettinarono ben bene una ad una, misero loro i bigodini, fecero riccioli e boccoli ad ognuna…

(adattamento da un racconto in uso nelle scuole steineriane)

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EPIFANIA E LA BEFANA dettati ortografici

Epifania e la befana – dettati ortografici sull’Epifania, la Befana e i Re Magi, di autori vari, per la scuola primaria.

L’Epifania

L’Epifania è il giorno dell “manifestazione”, poichè la stella apparve ai Magi il 6 gennaio e indicò loro la strada per raggiungere la capanna. Fu stabilita come festa nell’813, perchè a quel tempo il Natale si festeggiava per dodici giorni di seguito, e il dodicesimo era l’anniversario dell’apparizione che guidò i tre re Magi.

Nel Medioevo questo evento si rappresentava alle corti di Spagna e di Inghilterra dai sovrani stessi. In Francia si sceglieva tra i preti un re spartendo  una grande focaccia con dentro una fava: chi riceveva la fetta con la fava veniva proclamato re: “Re della Fava”. Altrove si rappresentano drammi di circostanza, come “la festa della stella”.

In Italia, da Epifania è venuta la parola Befana, che indicava un fantoccio di stracci che le donne e i ragazzi usavano mettere per scherzo alle finestre. E ancora oggi la Befana viene giù la notte della vigilia per la cappa del camino. I bambini appendono scarpette, calze e cestini che la vecchia riempie di doni.

Che grida di gioia, quando, al mattino, la casa si sveglia e i bimbi vuotano le calze e i cesti! Ma i doni che la Befana ha portato nottetempo, e che ricordano quelli dei Re Magi, riservano a volte sgradite sorprese: carbone, cenere, agli e cipolle…

La notte dell’Epifania ha, nella fantasia popolare, tinte di leggenda. Si dice che, nelle stalle, gli animali parlano e predicono il destino degli uomini.

6 gennaio: Epifania

Con questo nome, che significa apparizione della divinità, la chiesa cattolica ricorda l’arrivo alla capanna di Gesù dei Rei Magi che, guidati da una stella luminosa apparsa nel cielo, si erano messi in cammino dai lontani paesi d’Oriente. Avevano nomi strani: Melchiorre, Gaspare, Baldassarre, e portarono in dono al bambino oro, incenso e mirra.

L’oro è il metallo più prezioso. L’incenso ha il profumo soave della virtù. La mirra, che è una sostanza data da un arbusto del deserto, ha un sapore amaro ed è il segno dell’umanità.

La parola Befana, con cui si denomina spesso l’Epifania, ha un significato che di religioso non ha nulla: indica una specie di fata, vecchia e brutta, ma benefica, che, la notte del 6 gennaio, scendendo per la cappa del camino, porta i doni ai bambini che vi hanno appeso la calza.

L’Epifania in alcune regioni d’Italia

In Romagna una leggenda dice che nella notte dell’Epifania le mura diventino di ricotta; nelle Marche, nell’Abruzzo e in altre regioni si dice che gli animali acquistino la favella, ma chi osasse ascoltare e riferire morirebbe il giorno stesso.

A Palermo è nota la leggenda che i Re Magi attraversarono l’isola e fecero fiorire per incanto gli aranceti brulli per una nevicata.

In Calabria le ragazze, prima di addormentarsi la vigilia, cantano una canzoncina augurale; se sogneranno una chiesa parata a festa o un giardino fiorito, sarà per loro un anno fortunato.

In Toscana i contadini infilano il capo sotto la cappa del camino; se riescono a scorgere le stelle, stappano il vino buono perchè è segno d’annata buona; altri pronostici traggono da altri segni.

L’Epifania segna anche l’inizio del Carnevale: in Sicilia corre il proverbio “Per i tre re, tutti olè”. Ma soprattutto a Roma, in piazza Navona, la Befana presenta le più caratteristiche espressioni del folklore, anche di carattere carnevalesco.

In Austria

Nel periodo tra il primo dell’anno e l’Epifania, in molte regioni sembra di rivivere un’ingenua e delicata favola. Nelle strade, verso sera, brilla una luce lontana che, avvicinandosi, prende la forma di una stella. La portano tre uomini vestiti di bianco, che raffigurano i Re Magi; colui che impersona il re dei Mori ha il viso annerito di fuliggine. I “cantori della stella”, rischiarati dal suo calore, vanno nella notte.  Vanno di casa in casa e cantano le loro semplici canzoni popolari; poi, rifocillati e ristorati di cibo e bevande, riprendono il loro girovagare. Entrano nei cascinali, visitano cortili e stalle, mentre i contadini, col gesso, scrivono sulle porte le iniziali dei Re Magi: G M B, e invocano la benedizione divina per l’anno appena iniziato.

In Inghilterra

In Inghilterra la festa del Capodanno è simile a quella che si svolge in tutta Europa; più originale è la festa dell’Epifania. Tra le cerimonie più suggestive ricordiamo la funzione religiosa che si svolge a Londra nella cappella reale di San Giacomo: in memoria dei doni dei Re Magi, il Lord Ciambellano, in rappresentanza della Regina, presenta tre borse di denaro all’offertorio. Le borse sono per i poveri della parrocchia.

I tre Magi

Alcuni giorni dopo, tre Magi giungevano dalla Caldea. Una nuova stella, simile alla cometa che riappare ogni tanto nel cielo per annuciare la nascita di un profeta o la morte di un Cesare, li aveva guidati fino alla Giudea. Erano venuti per adorare un Re e trovano un poppante mal fasciato, nascosto dentro una stalla. I Magi non erano re, ma erano, in Media e in Persia, padroni dei re. I re comandavano i popoli, ma i Magi guidavano i re. Sacrificatori, interpreti di sogni, profeti e ministri, potevano comunicare con la divinità: conoscevano il futuro e il destino, possedevano i segreti della terra e quelli del cielo. In mezzo  a un popolo che viveva per la materia, rappresentavano la parte dello spirito. Inginocchiati, dentro ai sontuosi mantelli reali ed ecclesiastici, sulla paglia dello strame, essi, i potenti, i dotti, gli indovini, offrono anche se stessi come pegno dell’obbedienza del mondo. (C. Papini)

Re Magi

Sono i Re più dolci che siano mai esistiti. Li trovi davanti a un bambino, inginocchio e adoranti. Tre: un maestoso raduno da lasciar sgomenti. Ma re in ginocchio non fanno paura. L’abito del pellegrino ha forse sostituito il mantello di porpora? E il bordone ha sostituito lo scettro? No. Sono giunti a Betlemme con scettro e lumeggiamento di vesti, han portato le loro corone stellanti: non appena per provare a chiunque la loro identità, ma per umiliare ogni loro grandezza ai piedi del bambino. Dopo l’omaggio della semplicità, pastori e pecore, sta bene questo omaggio della regalità, cammelli e popoli. (C. Angelini)

I Re Magi

Chi erano i Re Magi? Re o principi di piccoli e lontani Stati nel cuore dell’Asia misteriosa, o filosofi che sapevano di scienza e di astronomia, o sacerdoti di un mistico culto del sole e degli astri? E venivano  dall’Arabia deserta, o dalla Mesopotamia, o dalla Persia, paesi tutti che anticamente venivano genericamente indicati tutti col nome di Oriente?

Portavano alla capanna le loro offerte, secondo la consuetudine dei Persiani, dei Caldei e si tutti i popoli orientali in genere, la quale non voleva che si comparisse davanti ai re se non con qualche dono. E le loro offerte si prestavano facilmente al simbolo: oro per sollevare dalla povertà, incenso contro l’odore della stalla, mirra per consolidare le tenere membra del bambino; mistici rimedi alla miseria, al peccato, alla debolezza.

Dettati ortografici EPIFANIA E LA BEFANA – Tutte le opere contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.

Racconto La Befana torna indietro

Racconto La Befana torna indietro – Ai tempi antichi la Befana fabbricava da sè i giocattoli, che erano fatti di legno e di maglia. Ma i bambini nuovi vedevano solamente il legno e torcevano la bocca. Perciò la Befana comprava i giocattoli di lusso nelle grandi fabbriche e i suoi rimanevano sempre in fondo al sacco, perchè non piacevano a nessuno…

La Befana, stanca stanca, tornava verso la sua casa, che è lontana, tanto lontana che, fra andare e tornare, ci vuole un anno.

Ai tempi antichi la Befana fabbricava da sè i giocattoli, che erano fatti di legno e di maglia. Ma i bambini nuovi vedevano solamente il legno e torcevano la bocca. Perciò la Befana comprava i giocattoli di lusso nelle grandi fabbriche e i suoi rimanevano sempre in fondo al sacco, perchè non piacevano a nessuno.

La Befana camminava in silenzio nel lume di luna. Ad un tratto inciampò e si fermò. Che cos’era? Un filo di pianto teso fin lassù.

“Un bambino che piange? A quest’ora?” borbottò. E riprese a camminare.

Quel filo però la tirava e non si spezzava. Allora la Befana tornò indietro. Arrivò ad un comignolo alto: due voci si distinguevano legate a quel filo di pianto. Una diceva: “Nemmeno oggi me l’hai portato il giocattolo!”. E quell’altra rispondeva: “Come potevo fare, amore mio, se non m’avanzava nemmeno un soldo!”.

La Befana, appoggiata al camino, aveva già aperto il sacco e frugava nel fondo. Tirò su due manciate di quei giocattoli che faceva lei e che ora nessuno voleva più, poi avvicinò la bocca del sacco a quella del camino e adagio adagio vuotò ogni cosa.

Allora il filo di pianto si spezzò e la sua voce si tramutò in una risatina lunga lunga che, arrivata fuori del camino, si sparpagliò nel cielo come una fioritura di stelle piccine.

La Befana, stanca stanca, riprese a camminare, ma quelle stelline sbocciate dalle risa del bambino la inseguivano come lucciole. Finchè ne prese una manciata  e le mise nel sacco.

“Farò gli occhi alle bamboline per quest’altro anno!”.

Ed era contenta.

(G. Fanciulli)

Racconto Scaramacai e la Befana

Racconto Scaramacai e la Befana  –  avevo attaccato la mia calza sotto la finestra perchè il camino nella mia capanna non c’è e tutta la notte ero stato sveglio, sperando che arrivasse la Befana. Invece, niente. Quando mi accorsi che fra poco sarebbe spuntato il giorno, pensai di farmi la Befana da solo. In un cassetto avevo quattro palline di vetro che mi erano state regalate da un bambino al quale avevo raccontato una barzelletta…

Avevo attaccato la mia calza sotto la finestra perchè il camino nella mia capanna non c’è e tutta la notte ero stato sveglio, sperando che arrivasse la Befana. Invece, niente. Quando mi accorsi che fra poco sarebbe spuntato il giorno, pensai di farmi la Befana da solo. In un cassetto avevo quattro palline di vetro che mi erano state regalate da un bambino al quale avevo raccontato una barzelletta.

Erano quattro palline con centro dei fili colorati, molto preziose. Le presi e le infilai nella calza, senza ricordarmi che nella calza c’era un buco, e così tin tin tin, le quattro palline caddero sul pavimento. Mi ero appena messo carponi per cercarle, quando la porta si aprì e, oh meraviglia delle più meravigliose meraviglie, entrò la Befana.

La riconobbi subito per il sacco che portava sulle spalle stanche, per il gran naso che le si incurvava sulla bocca, per la neve che aveva sui capelli e per gli occhi, due occhi strani e dolci che invece di sembrare da vecchia erano da bimba: ecco, due occhi di bimba in mezzo a mille rughe di vecchia.

Io ero rimasto lì, come un tonto, senza riuscire a parlare, ma lei non ci fece caso e disse: “Scaramacai, per favore aiutami…”

“In che cosa posso servirla, signora Befana?”, chiesi educatamente senza far vedere che avevo il cuore che correva come un cavallo matto perchè pensavo che lei avesse bisogno del mio aiuto per levare dal sacco un regalo grossissimo e tutto per me.

Invece la Befana disse: “Manca poco, ormai, all’alba e devo ancora fare due consegne, aiutami, sennò, da sola non ce la faccio…”

“Ma io non ho la bicicletta!” osservai senza far vedere che ero molto deluso.

“Macchè bicicletta!”, si spazientì la Befana,  “Fuori ho la scopa, avanti, sali!”

“Per far che?”, chiesi.

“Ma per volare sulle case! Su, muoviti!”

Sentii una gran tremarella scuotermi le gambe, ma come si fa a dire no alla Befana? Così, salii a cavalcioni sulla scopa, dietro di lei, chiusi gli occhi, la abbracciai forte forte, e via!

Mi sentii sollevare da terra, come una foglia secca portata dal vento, e quando riaprii gli occhi, li richiusi subito perchè vidi sotto di me la città che girava come una giostra.

Ma la Befana mi riscosse (forse aveva sentito che io mi ero stretto più forte a lei) e mi chiese: “Riesci a vedere su che strada siamo?”

Dovetti per forza riaprire gli occhi e mi accorsi che ora volavamo basso, rasente ai comignoli. Lessi chiaramente la targa della via: via della Gallina Rossa e lo dissi alla Befana.

“Bene” commentò lei, “quando passiamo sul comignolo del numero 7, sgancia il sacchetto di carbone, che c’è nel sacco…”

“Per chi è, se è lecito?” , chiesi.

“E’ per Luigino, un bimbo capriccioso”, rispose la Befana.

“Non  si potrebbe perdonargli?”

“Fa come ti dico! Conosco il mio mestiere!”

Mogio mogio, allungai la mano per prendere il carbone dal sacco, ma invece, forse per sbaglio, forse no, trovai un trenino… Lo lasciai cadere in fretta e lo vidi infilare prodigiosamente il comignolo, come guidato da un filo.

Un attimo dopo, una finestra si illuminò, si aprì, un bimbo, proprio Luigino in camicia da notte, si affacciò e lo sentimmo gridare: “Grazie Befanina!”

“Che strano…” commentò la Befana, mentre faceva compiere alla scopa una larga virata, “mi ringrazia del carbone…”

Io stavo per confessare la verità, ma lei non me ne lasciò il tempo, dicendo: “Controlla se siamo su corso Pomponio. Queste nuove targhe stradali io,  quando viene l’alba, non riesco più a leggerle…”

“Sì, ci siamo” , risposi.

“Allora, sul numero 21 sgancia un trenino elettrico…”

“E’ per un bimbo buono?”

“No, è per un vecchietto buono”

“Un trenino a un vecchietto?”

“Fa come ti dico, impertinente!”

Allungai la mano per prendere il trenino dal sacco ma, invece, forse per sbaglio, forse no, trovai il sacchetto di carbone… Con un lieve sibilo il sacchetto cadde e si infilò nel comignolo del vecchietto.

Un attimo dopo, una finestra si illuminò, si aprì, un vecchietto con la papalina in testa si affacciò, e lo sentimmo gridare: “Grazie, Befana! Avevo tanto freddo!”

“Che c’entra il freddo col treno?” borbottò la Befana, “Ma, deve essere un po’ matto…”

Non potevo più tacere: “Ecco, veramente…” mormorai, “mi sono sbagliato”

“Cos’hai fatto?” chiese la Befana con un tono di voce che non vi auguro mai di sentire.

Risposi in fretta: “Senza volere apposta, ho dato il trenino a Luigino, che sono sicuro che diventa buono, e il carbone al vecchietto che tanto lui non sa cosa farsene, invece del carbone sì, perchè i vecchi hanno sempre freddo…”

Mi aspettavo che la Befana si mettesse a urlare con la voce della tempesta, invece non disse niente.

“Peggio” pensai, “è tanto arrabbiata che adesso mi butta di sotto… addio Scaramacai…”

Invece dopo un po’ disse (ma con una voce dolce, un po’ roca): “In fondo, Scaramacai, sei un bravo pagliaccio… E io sto diventando vecchia…”

Il cielo era ormai color del latte annacquato. Si volava rapidi e in silenzio: sentivo il vento frusciare vicino alle orecchie…

“Ecco, sei arrivato” disse a un tratto la Befana e dolcemente mi atterrò davanti alla mia capanna, “Ciao, Scaramacai, scendi adesso”.

“Aspetti, signora Befana” dissi scendendo dalla scopa.

Macchè, quella era già ripartita e ormai era diventata piccola piccola e nera nera sullo sfondo del cielo biancastro.

Spinsi l’uscio della capanna. Ero un po’ triste. Che cosa ci avevo guadagnato dall’avere aiutato la Befana? Un certo indolenzimento alle gambe (é scomodo cavalcare una scopa) e forse un bel raffreddore. Entrai a capo chino e le mie orecchie furono colpite da un rumore quasi di cascata, ma non di acqua tenera, di roba dura…

Alzai il capo e guardai. Oh, che prodigio di dolcezza! Dal buco della mia calza appesa, usciva uno  zampillo colorato di caramelle, cioccolatini, torroncini, fichi secchi, castagne, confetti… Il pavimento ne era già tutto pieno, e il meraviglioso zampillo continuava, continuava, continuava…

(da “Il Corriere dei Piccoli”)

Giochi di parole: Le frasi matte

Giochi di parole: Le frasi matte. Di seguito trovate il gioco; se vi piace potete scaricarlo e stamparlo cliccando sul link in fondo alla pagina.

Provate a leggere le seguenti frasi, direte: “Ma non hanno senso, sono matte!”. Invece no. Leggetele e rileggetele attentamente: in ognuna troverete un proverbio più o meno famoso.

1. Non basta tirare le ruote se si vuole arrivare al carretto bisogna ungere anche il mercato.

………………………………………………………………………………………………

2. Quando tutti sono capaci il ciliegio è carico di lodare di fiori.

………………………………………………………………………………………………

3. Il ragazzo mangia lavora quando di quindici anni è un bambino e quando un uomo.

………………………………………………………………………………………………

4. Chi non va prende contro selvaggina a caccia voglia.

………………………………………………………………………………………………

5. Non viaggiare con un asino sciocco. Se il bambino cade il suo asino piange. Se cade il bambino il tuo bambino ride.

………………………………………………………………………………………………

6. Nel termine prudente e tenace sii nel cominciare a portare.

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7. E’ meglio mangiare un nemico arrosto con un amico che con pane secco.

………………………………………………………………………………………………

8. Il buon giudice giudica ma capisce in fretta adagio.

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9. A comprare il cane mandare non salsicce.

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10. Il cammello sciacallo aggredisce lo quando lo è morto.

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11. Difettosa nave tutti alla sono i venti contrari.

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12. Molto poso, chi mantiene promette.

………………………………………………………………………………………………

13. Tutti ma pochi pensano parlano.

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14. Lascian cani l’uscio e sempre aperto villani.

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15. Invano vecchio non abbaia cane.

………………………………………………………………………………………………

16. Un cesto ne guasta marcia una mela.

………………………………………………………………………………………………

17. Chi non vorrebbe quando fa, non quando può fare può.

………………………………………………………………………………………………

18. Il fuoco non acqua spegne lontana.

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19. Dice “non so” colui che è ignorante non mai il peggiore.

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20. Lo secco abbandonano quando il fiore è gli insetti.

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21. Parlare la migliore maniera di a uno sciocco è di lasciarlo rispondere.

………………………………………………………………………………………………

22. Tre giorni una settimana pane fame a di dì.

………………………………………………………………………………………………

23. Verità e bugia, la la punge unge.

………………………………………………………………………………………………

24. Gli occhi, la bocca il ragazzo apre goloso prima, poi.

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25. Non invidioso mangia cane mangiare lascia e non.

………………………………………………………………………………………………

26. Sincero falso nemico amico un meglio che un.

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27. Manca manca molto tutto, all’avaro al povero.

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28. Sono in padella i pesci quelli che finiscono più ingordi.

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29. E nessuno nessuno niente tutto sa fare sa fare.

………………………………………………………………………………………………

30. Un vicino del fagiano pare la gallina.

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Soluzioni
1. Non basta ungere le ruote, bisogna anche tirare il carretto se si vuole arrivare al mercato.
2. Tutti sono capaci di lodare il ciliegio quando è carico di fiori.
3. Il ragazzo di quindici anni è un uomo quando mangia e un bambino quando lavora.
4. Chi va a caccia contro voglia non prende selvaggina.
5. Non viaggiare con un bambino sciocco. Se il suo asino cade il bambino piange. Se cade il tuo asino il bambino ride.
6. Sii prudente nel cominciare e tenace nel portare a termine.
7. E’ meglio mangiare pane secco con un amico che arrosto con un nemico.
8. Il buon giudice capisce in fretta ma giudica adagio.
9. Non mandare il cane a comperare le salsicce.
10. Quando il cammello è morto, lo sciacallo lo aggredisce.
11. Alla nave difettosa tutti i venti sono contrari.
12. Chi molto promette, poco mantiene.
13. Tutti parlano, ma pochi pensano.
14. Cani e villani lascian sempre l’uscio aperto.
15. Cane vecchio non abbaia invano.
16. Una mela marcia ne guasta un cesto.
17. Chi non fa quando può, non può fare quando vorrebbe.
18. Acqua lontana non spegne il fuoco.
19. Il peggiore ignorante è colui che non dice mai “non so”.
20. Quando il fiore è secco gli insetti lo abbandonano.
21. La migliore maniera di rispondere a uno sciocco è di lasciarlo parlare.
22. A pane di tre giorni, fame di una settimana.
23. La verità punge e la bugia unge.
24. Il ragazzo goloso prima apre la bocca e poi gli occhi.
25. Cane invidioso non mangia e non lascia mangiare.
26. Meglio un nemico sincero che un falso amico.
27. Al povero manca molto, all’avaro manca tutto.
28. I pesci più ingordi sono quelli che finiscono in padella.
29. Nessuno sa fare niente e nessuno sa fare tutto.
30. La gallina del vicino pare un fagiano.

(adattamento da “Piccolo quiz”, Ermanno Libenzi, Mursia 1962)

Puoi scaricare l’esercizio qui:

Giochi di parole: Le frasi matte

Poesie e filastrocche: Epifania

Poesie per bambini e filastrocche sul tema epifania, befana e re magi; una collezione di autori vari, adatta a bambini della scuola d’infanzia e primaria.

La Befana spaziale
Su quel pianeta la Befana
viaggia a cavallo di un razzo
a diciassette stadi,
e in ogni stadio c’è un bell’armadio
zeppo di doni
e un robot elettronico
con gli indirizzi dei bambini buoni.
Anzi con gli indirizzi
di tutti i bambini, perchè
ormai s’è capito
che di proprio cattivi non ce n’è.
(G. Rodari)

La befana
La befana vien pianino
cala giù per il camino,
porta ai bimbi che son buoni
tante chicche, tanti doni.
Ma se buoni non sarete,
nella calza troverete,
come chicchi, come doni,
aglio, cenere e carboni.
(M. Maltoni)

I Re Magi
Tre Re Magi da lontano
son venuti piano piano
per veder Gesù bambino.
Una stella fra il turchino
li ha guidati col suo raggio,
li ha guidati col suo lume.
Gesù dorme e non ha piume,
non ha fuoco, non ha fiamma,
ha soltanto la sua mamma…
(L. Nason)

I Re Magi
La notte è tiepida e serena.
I Magi d’Oriente vanno, vanno
sui lor cammelli, e ancor non sanno
dove sia nato al mondo il Re dei Re.
Dice il moro:
“Io gli porto l’oro”.
L’altro gli fa eco:
“L’incenso io reco”.
Dice il terzo prono:
“La mirra gli dono”.
(M. Ronzoni)

I Re Magi
Lontano, tra il fischiare
del vento per le forre
i biondi angeli in coro:
ed ecco Baldassarre,
e Gaspare e Melchiorre
con mirra, incenso ed oro.
(G. D’Annunzio)

Epifania
I Re Magi dall’Oriente
si son messi già in cammino,
per trovar Gesù bambino,
il figliolo di Maria.
Buon Natale!
Epifania! (Anonimo)

I tre santi re
I tre santi Re Magi d’Oriente
chiedevano sostando a ogni città:
“Oh bimbe, oh donne, ci sapreste dire
la strada per Betlemme dove va?”
Né giovani né vecchi lo sapevano
ed essi riprendevano il cammino
ma una cometa dalla chioma d’oro
or li guidava come un lumicino.
La stella sulla casa di Giuseppe
ristette e i santi tre Re Magi entrar;
muggiva il bove, gridava il bambino,
ed i Re Magi presero a cantar.
(E. Heine)

La Befana
Discesi dal lettino
son là presso il camino,
grandi occhi estasiati,
i bimbi affaccendati
a metter la calzetta
che invita la vecchietta
a portar chicche e doni
per tutti i bimbi buoni.
Ognun chiudendo gli occhi,
sogna dolci e balocchi;
e Luca, il più piccino,
accosta il suo visino
alla grande vetrata
per veder la sfilata
dei Magi, su nel cielo,
nella notte di gelo.
Quelli passano intanto
nel lor gemmato manto,
e li guida una stella
nel cielo, la più bella.
Che visione incantata,
nella notte stellata!
E la vedon i bimbi
come vedono i nimbi
degli angeli festanti
ne’ lor candidi ammanti.
(G. Gozzano)

La Befana
Vien da lontano, per le vie nevose,
lascia giù, al cancello del giardino,
il somarello, e tra le sue calzette
una ne sceglie per ciascun bambino
e gliela porta: e sal dritta e sicura
per ogni stanza, sia pur chiusa e scura.
In ogni stanza di bambini buoni
entra pian piano, e il loro sonno spia:
e ai piedi del lettino lascia i suoi doni.
(P. Calamandrei)

La Befana
Quando è l’ora, la Befana
alla scopa salta in groppa
l’alza su la tramontana,
fra le nuvole galoppa.
Ogni bimbo nel suo letto,
fa l’esame di coscienza:
maledice il capriccetto,
benedice l’obbedienza.
La mattina, al primo raggio,
si precipita al camino:
un regalo ha il bimbo saggio,
il monello… ha un carboncino!
(C. Rosselli)

I Re Magi
Una luce vermiglia
risplende nella pia
notte e si spande via
per miglia e miglia e miglia.
“Oh, nuova meraviglia!
Oh fiore di Maria!”
Passa la melodia
e la terra s’ingiglia.
Cantano tra il fischiare
del vento per le forre
i biondi angeli in coro;
ed ecco Baldassarre,
Gaspare e Melchiorre,
con mirra, incenso e oro.
(Gabriele d’Annunzio)

La Befana
Con la diaccia tramontana
è arrivata la Befana
e gironzola in calzini
tra comignoli e camini
che l’aspettano impalati,
sorridenti e affumicati.
“Qui” un comignolo l’avverte
“c’è un piccin che si diverte
tutto il giorno: un fannullone!”
“Ecco, cenere e carbone!”
“Qui c’è un bimbo giudizioso?
Ecco un dono generoso,
ma al fratello negligente
lascio subito un bel niente.
C’è una bimba vanerella?
Ecco qua la paperella,
ma il giocattolo più bello
lo regalo a un orfanello:
per un attimo il sorriso
tornerà sul mesto viso.
(E. Zedda)

La Befana
Senti? Suona mezzanotte.
Dormi! Viene la Befana
con le scarpe tutte rotte
dalla casa sua lontana…
Entra: il dito sulla bocca,
con quel sacco che le pesa…
Tutto vede e nulla tocca,
vuol silenzio come in chiesa.
Vuota il sacco mano mano,
posa tante cose belle…
Torna a casa piano piano,
alla casa tra le stelle.
(Zietta Liù)

La Befana
Viene viene la Befana
vien dai monti a notte fonda.
Com’è stanca! La circonda
neve, gelo e tramontana.
Viene viene la Befana
e la neve è il suo mantello.
Ha le mani al petto in croce
ed il gelo è il suo pennello
ed è il vento la sua voce.
Ha le mani al petto in croce.
E s’accosta piano piano
alla villa, al casolare,
a guardare, ad ascoltare,
or più spesso, or più lontano.
Piano, piano, piano, piano…
(G. Pascoli)

La burla della Befana
Presso la nera cappa del camino,
una calzina in grande attesa sta.
Con il suo sacco ed il suo lumicino
a notte la Befana scenderà.
Ma un tormento sta in cuore a Tino e a Tina:
“Ci vorrebbe la calza di una donna,
la nostra è troppo corta e piccolina!”
“Appendiamoci quella della nonna!”.
Vanno al mattino i piccoli bricconi
alla scoperta dei sognati doni.
Ma che c’è nella calza lunga e nera?
Un paio d’occhiali e una dentiera…
(G. Vaj Pedotti)

I re magi
Nei paesi lontani di Uno Due e Tre
vivevano tre re
chiamati da una stella
si misero in cammino
per andare a trovare Gesù bambino.
“Stella, siamo lontani?”
“Stella, siamo arrivati?”
dicevano i re magi affaticati.
“Il nostro viaggio sarà lungo ancora?”
La stella rispondeva: “Ancora… ancora…”
E finalmente la stella si fermò
e sopra una capanna si posò
e svanì la fatica del cammino
in un sorriso di Gesù bambino.

La stella dei re magi
Era una cometina
che neanche si vedeva
ma capitò che un giorno
altissima volò
“Tu giungi qui a proposito”
le dissero lassù
e una gran coda lucida
di dietro si trovò.
E corri, e corri, e corri,
tornò a volar quaggiù
la videro i re magi
e giunsero a Gesù.

I re magi
Tre re magi, da lontano
son venuti piano piano
per veder Gesù bambino.
Una stella ha il turchino
li ha guidati nel viaggio
dolcemente col suo raggio
li ha guidati col suo lume.
Gesù dorme e non ha piume
non ha fuoco, non ha fiamma,
ha soltanto la sua mamma.

Oh magi d’oriente
Oh magi d’oriente, che siete sì belli
nello splendore dei vostri mantelli
chi vi ha insegnato la via di Betlemme?
Ce l’ha insegnata una stella splendente
nata improvvisa nel cielo d’oriente.
Vedi? La stella che ancora, lassù,
guida la gente al cuor di Gesù.

I balocchi di Titina
Sui balocchi di Titina
è discesa la sventura:
già la palla Saltellina
mostra un’ampia spaccatura.
Già il cavallo Vincilvento
alla morte è condannato
e si regge in piedi a stento
tentennante e spelacchiato.
L’automobile di latta
è ridotta una frittata
ed invano s’arrabatta
malinconica e malata.
Al pagliaccio (poverino!)
distaccata s’è la testa;
guarda questa il burattino
con un’aria afflitta e mesta.
Il bel libro adorno tutto
di bellissime figure
ora è un cencio, brutto brutto,
tutto sgorbi e spaccature,
e Titì, tutta piangente
della strage ora si pente,
nel pensar quanto lontana
sia la prossima Befana.
(Antonio Rubino)

I Re Magi
Questa notte dai lucidi paesi
dove il sol nasce sono giunti i Magi…
Han cavalcato a lungo i Re cortesi
per le notturne ambagi.
Come ai begli anni vecchio cuore, udisti
a notte il trotto dei bruni cavalli?
Sbocciarono fiori ed astri non mai visti
per i cieli e per le valli
mentre passan i vegliardi buoni!
Ed essi lungo l’aspettato viaggio
nelle scarpette, rosse, sui veroni
come rose di maggio,
han messo per voi, felici bimbi,
mani di giglio e boccucce di rosa,
i giocattoli strani, i fiori, i nimbi…
ogni più dolce cosa.
Ma ai bimbi che li udirono, da una brulla
tana, passare fra il tinnir dell’arpe,
i buoni Magi non ha dato nulla…
Quei bimbi non han scarpe!
(S. Satta)

Sempre lei
“Nonna, ai tuoi tempi c’era la Befana?”
E la nonna sorride e dice: “Sì.
Se mi ricordo! L’alba era lontana,
era ancor notte, non spuntava il dì:
ma presto andavo accanto al focolare
dov’era la mia calza ad aspettare…”
“Mamma, ai tuoi temi la Befana c’era?”
E la mamma sorride e dice: “Sì.
Era d’inverno, ma come primavera,
Mi pareva che fosse quel bel dì…
Mi alzavo quasi all’alba, in tutta fretta
e correvo a cercar la mia scarpetta…”
E passa il tempo, e il mondo avanti va:
e la Befana antica è ancora qui;
Per monti valli e isole e città
ritorna come un tempo, in questo dì;
è sempre lei, non può mutare più
perchè c’è sempre al mondo gioventù.
(A. Galante Garrone)

I Re Magi
Nella notte che odora di gelsomino e acacie,
tre re, mirando il cielo, vedono una gran brace
di stella. Il dolce lume al grande arco confitto
è un divino presagio che nei libri è già scritto.
Svegliano dal sonno un servo e gli dicono: “Presto,
metti un basto al cammello più robusto e più lesto”.
E cercando con mano felice nel tesoro
ricolmano tre scrigni di mirra, incenso e oro.
E notte e giorno vanno, alti sopra i cammelli.
Tintinna il loro passo di sonagli e gioielli.
Si piegano talora, a domandar la via.
Vanno a Gerusalemme per cercare il Messia.
Vanno per pianure dove non è casa né pianta,
né vi odora un cespuglio, né un ruscello vi canta.
Vedon fuochi di stoppie, vedon occhi di brace
accessi in mezzo ai campi come falò di pace.
Cantano insieme un inno tolto alla Scrittura
e la stella li guarda come una creatura.
Ma d’un tratto declina, così lustra che abbaglia
su una povera casa con il tetto di paglia,
e rimane sospesa come un frutto sul ramo
come a dire ai tre re: “Pellegrini, ci siamo!”
Sono giunti. Han lasciato pascolare i cammelli
e davanti alla porta han buttato i mantelli.
S’inginocchiano insieme e con gli occhi rotondi
adorano il bambino Gesù dai riccioli biondi.
poi, aprendo gli scrigni che ognun porta con sé,
fanno vedere i doni degni del Re dei Re.
(Renzo Pezzani)

Dopo Natale
Son passati i bei giorni di Natale.
Suon di zampogna, non ci culli più.
Forse tornasti ai placidi tuoi monti
insieme ai verdi abeti rilucenti?
Ma un angelo passò, lieve, e v’ha spenti.
Solo, in un canto d’una stanza buia,
un piccolo presepe ancor rimane;
ma che abbandono, che malinconia:
è secco il muschio, pendono le case,
stanchi  i pastori cadono per via.
Stanchi, sì, è vero; stanchi di portare
sopra l’esili spalle i molti doni.
Vorrebbero posarli per un poco,
vorrebbero sedersi sopra un masso
ed accendere almeno un po’ di fuoco.
Così, in tutto il minuscolo paese,
c’è malcontento e una stanchezza estrema.
Solo Gesù, nel fieno, ancor sorride,
guarda e perdona, senza nulla dire:
e non si stanca, Lui, di benedire!
(Mario Pucci)

I Re Magi
La notte è tiepida e serena.
I Magi d’Oriente vanno, vanno
sui loro cammelli e ancor non sanno
dove sia nato al mondo il re dei re.
Dice il re moro: “Io gli porto l’oro!”
L’altro gli fa eco: “L’incenso io reco!”
Dice il terzo prono: “La mirra gli dono!”.
(Maria Ronzoni)

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Giochi di parole: dov’è l’errore?

Giochi di parole: dov’è l’errore? Ti piace giocare a fare il maestro? Leggi le frasi qui di seguito: ognuna contiene, in qualsiasi forma, un errore. Trovalo, sottolinealo e scrivi di che errore si tratta, poi controlla le risposte in fondo alla pagina.

1. Da un racconto di caccia: “Era l’epoca delle migrazioni degli uccelli: nei cieli dell’Africa passavano, volando alti, stormi di cicogne e di passeri”.
Dov’è l’errore?
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2. Da un giornale sportivo: “La partita di pallacanestro era cominciata appena da dieci minuti, quando il portiere Zambelli fu ferito in uno scontro e portato fuori dal campo”.
Dov’è l’errore?
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3. Da una storia di viaggi: “Sorvegliato dalla madre, il piccolo canguro saltellava allegramente sulle sabbie del Sahara.
Dov’è l’errore?
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4. Da un compito in classe: “L’estate mi piace molto, però, quando il calore non è molto forte. Se non avrebbe fatto così caldo, mi sarei divertito di più”.
Dov’è l’errore?
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5. “Papà” domanda Giovanni, “Come si chiamava quel tale che combatteva contro i mulini a vento?” “Tarantino di Tarascona” risponde il babbo, distratto. “Ma no,” dice Pierino “si chiamava Sancio Pancia”.
Dov’è l’errore?
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6. “Dimmi i monumenti più caratteristici di alcune città” dice il maestro a Francesco. E Francesco risponde: “Il Duomo di Milano, il Vesuvio di Napoli, la torre pendente di Pisa, San Marco a Venezia”
Dov’è l’errore?
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7. Fra bambini. “Domenica scorsa sono andato a fare una gita in campagna. Avessi visto che bello! In un laghetto c’erano le rane che pigolavano, sugli alberi gli uccellini saltellavano. Mi sarebbe piaciuto restare ancora una settimana”.
Dov’è l’errore?
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8. Fra bambini: “Se tu avresti venti euro tutti tuoi” domanda Carlo a Giorgio “che cosa ne faresti?”. “Ne metterei un quarto nel salvadanaio” risponde Giorgio, “comprerei cinque euro di caramelle e con i rimanenti dieci me ne andrei al cinema”.
Dov’è l’errore?
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9. Da un racconto di viaggi: “Dopo due giorni di vagabondaggio nel Sahara, l’esploratore raggiunse finalmente un’oasi. Si dissetò al laghetto e subito si stese a riposare all’ombra di un platano”.
Dov’è l’errore?
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10. Dialogo tra bambini. Luca dice: “Io ho uno zio che è più giovane di me”. “Questo è niente” dice Giovanni, “io ho un fratello che è più vecchio dei miei genitori.”
Dov’è l’errore?
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11. Da un racconto storico: “L’imperatore Carlo Magno accolse freddamente l’inviato dei Sassoni. Quando lo vide, alzò appena gli occhi dal giornale che stava leggendo”.
Dov’è l’errore?
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12. Dialogo tra bambini. “Non vado mai al circo perchè non mi piace”, dice Lisa. “Non ci credo”, risponde Carlo, “non ci vai perchè la tua mamma non vuole”. “E invece no.” ribatte Lisa, “Se mi piacerebbe ci andrei. Anzi, la mamma voleva portarmici, ma ho rifiutato”.
Dov’è l’errore?
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13. Fra bambini. “Io leggo volentieri le poesie di Gianni Rodari”, dice Giovanni. “Io invece preferisco quelle di Alessandro Volta”, ribatte Michele.
Dov’è l’errore?
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14. Da un racconto di avventura. “Era una notte buia e senza luna. Il cacciatore strisciava sull’erba della prateria. Ad un tratto gli parve che qualcuno lo seguisse. Si voltò: era soltanto la sua ombra”.
Dov’è l’errore?
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15. Da un compito in classe. “Fra l’Italia e la Francia il confine è segnato dalle Alpi. Anche tra l’Italia e la Germania il confine è segnato dalle Alpi.”
Dov’è l’errore?
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16. Piero racconta: “Al giardino zoologico ho visto una pantera nera, un orso bruno, un giaguaro grigio e un cigno bianco.
Dov’è l’errore?
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17. Da un compito di storia. “La nave ammiraglia della flotta cartaginese ad un certo punto non potè più manovrare perchè l’elica si era spezzata.
Dov’è l’errore?
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Soluzioni:
1. I passeri non sono uccelli migratori.
2. Nel gioco della pallacanestro non c’è il portiere.
3. Nel Sahara non ci sono canguri; sono in Australia.
4. Non si dice “se non avrebbe”, ma “se non avesse”.
5. L’uomo che lottava contro i mulini a vento si chiamava Don Chisciotte.
6. Il Vesuvio non è un monumento.
7. Le rane non pigolano, gracidano.
8. Non si dice “se tu avresti”, ma “se tu avessi”.
9. Nelle oasi del deserto non crescono platani.
10. Luca può avere uno zio più giovane di lui, ma è impossibile che il fratello di Giovanni sia più vecchio dei suoi genitori.
11. All’epoca di Carlo Magno non c’erano i giornali.
12. Non si dice “se mi piacerebbe”, ma “se mi piacesse”.
13. Alessandro Volta non è un poeta, ma uno scienziato.
14. In una notte buia senza luna, i corpi non fanno ombra.
15. L’Italia e la Germania non confinano tra loro.
16. Non esistono i giaguari grigi.
17. Le navi cartaginesi non avevano eliche.

(adattamento da “Piccolo quiz”, Ermanno Libenzi, Mursia 1962)

Giochi di parole: Sulla punta della lingua

Giochi di parole: Sulla punta della lingua. Di seguito trovate il gioco; se vi piace potete scaricarlo e stamparlo cliccando sul link in fondo alla pagina.

Quando non ci ricordiamo una parola diciamo: “Ce l’ho sulla punta della lingua!” Qui trovate una serie di definizioni, per ognuna provate a trovare la parola adatta. Per aiutare un po’, diamo l’iniziale della parola da trovare.

1. Come si chiama la chioma del leone? C…………………

2. Come si chiama l’involucro della noce? G…………………

3. Come si chiamano i chicchi dell’uva? A………………..

4. Come si chiama l’oggetto che serve a disegnare i cerchi? C………………………

5. Il materiale più usato dai calzolai si chiama C……………………

6. Come si chiamano quegli oggetti sui quali girano porte e finestre? C………………

7. Il piccolo congegno per spegnere e accendere la luce elettrica si chiama I…………………..

8. Come si chiama il buchino che c’è all’estremità dell’ago? C………………..

9. Come si chiama quella specie di porta di lamiera ondulata che chiude i negozi? S…………………

10. Come si chiama un insieme di musicisti? O………………….

11. Come si chiamano le famose barche di Venezia? G……………..

12. Come si chiama la bicicletta a due posti? T…………………….

13. Come si chiamano i lacci delle scarpe? S……………….

14. Come si chiama il luogo dove si possono vedere le corse di cavalli? I………………………

15. L’uomo che cammina sul filo si chiama E………………….

1. criniera, 2. guscio, 3. acini, 4.compasso, 5. cuoio, 6. cardini, 7. interruttore, 8. cruna, 9. saracinesca, 10.orchestra, 11. gondole, 12. tandem, 13. stringhe, 14. ippodromo, 15. equilibrista

(adattamento da “Piccolo quiz”, Ermanno Libenzi, Mursia 1962)

Puoi scaricare l’esercizio qui:

Giochi con le parole: E’ arrivato un bastimento carico carico di…

Giochi con le parole: E’ arrivato un bastimento carico carico di… Per giocare bisogna leggere attentamente ogni frase: in ognuna viene descritta una certa cosa, una cosa qualsiasi che può essere la luna, o un fiammifero, o una bambola… e può essere anche una cosa viva. Però questa cosa non viene mai nominata. Dovrete indovinare voi di cosa si tratta.

1. Ha un bel nome. E’ alto e robusto. Si trova in campagna e raramente in qualche giardino di città. Non si mangiano nè le radici nè le foglie, nè i frutti, ma soltanto i semi. I suoi petali sono simili a quelli di un’enorme margherita. Il fusto sta fermo, piantato in terra, le foglie stanno ferme, ma la sua testa si muove e il suo nome deriva appunto da questo movimento.
Che cos’è?

2. Può essere grossa come la tua testa e anche di più. A molti animali non piace. In primavera non c’è. D’inverno nemmmeno. Non si cuoce. La buccia si getta via. E’ prodotto da una pianta, però cresce al suolo, perchè il fusto non potrebbe reggerne il peso. E’ verde, bianco e rosso, e i suoi semi sono quasi sempre neri. Quando la mangi, si dice che “mangi, bevi e ti lavi la faccia”.
Che cos’è?

3. Ce ne sono in ogni casa, in ogni strada. Ce ne sono di forti e di deboli, di grosse e di piccole. Possono essere di ogni colore. Non si mangiano. Ce le hanno le automobili, gli autobus e le biciclette. Anche i treni. Se cadono a terra si rompono, tante volte si guastano da sole. Si usano soprattutto di sera e di notte.
Che cosa sono?

4. Vanno a due a due, ma sono una cosa sola. Non si mangiano, di solito li portano le persone anziane. Qualche volta li portano anche i bambini. D’estate ne fanno uso quasi tutti, giovani e vecchi, uomini e donne. Sono piuttosto fragili, possono essere colorati. Quando non si usano si mettono in tasca. Quando si usano non si tengono in mano.
Che cosa sono?

5. E’ molto grossa e di solito è tonda, ma può essere anche piccola oppure di forma allungata come un serpente o anche simile a un grosso uovo. Si mangia, ma cotta. Cruda mai. Anche i suoi semi bianchi si mangiano. Cresce al suolo perchè è troppo pesante. Con la sua polpa si possono fare piatti squisiti e ottime minestre. Si mangia anche cotta al forno. Talvolta, se si vuole offendere qualcuno, si dice che la sua non è una testa, ma una…
Che cos’è?

6. Ce ne sono in ogni casa. Non si mangiano. Possono essere grandi o piccoli, quadrati, rotondi, ovali o di altra forma. Sono lisci, lucidi e fragili. Alcuni tipi più piccoli si portano in tasca o nella borsetta. Il papà ne fa uso per farsi la barba, la mamma per truccarsi. Raddoppiano quello che vedono.
Che cosa sono?

7. Hanno le gambe ma non camminano. Hanno la schiena ma non hanno la testa. Qualche volta zoppican. Non si mangiano. Possono essere di legno o di metallo. Possono essere povere o di lusso. Piacciono ai gatti e ai cani, ma gli altri animali non sanno che cosa farsene. Ce ne sono in ogni casa. Quando è ora di pranzo stanno intorno alla tavola, ma non mangiano.
Che cosa sono?

8. E’ un liquido utilissimo, di cui tutti fanno uso, ma che si beve soltanto di rado. Dove tocca lascia la macchia. Si ricava dai frutti di una pianta che cresce nei climi caldi. In certe regioni d’Italia se ne produce moltissimo. In altre niente. E’ quasi sempre dello stesso colore, salvo quando fa molto freddo. Allora questo liquido gela e cambia colore. Quando fa molto caldo, invece, può diventare rancido.
Che cos’è?

9. Tutti lo usano. Serve qualche volta anche per gli animali. Ha i denti ma non morde. Può essere di diversi materiali, anche di metallo. Ve ne sono anche di legno. Non è fragile, ma spesso si rompe. Spesso i bambini non lo vogliono usare. E’ nemico dei nodi.
Che cos’è?

10. Sono grandi come biglie. Sono rosse oppure rosa. Si mangiano. I gatti non ne vogliono. I bambini ne fanno perfino indigestione. Crescono su un albero. Molti bambini per gioco se le appendono alle orecchie.
Che cosa sono?

11. Ha quattro gambe, ma non è un tavolino. Ha le orecchie lunghe, ma non è un asino. Ha paura di tutti, ma non è un coniglio. Corre veloce, ma non è un ciclista. Mangia l’erba, ma non è una mucca. Vive nelle tane, ma non è un orso. I cacciatori la cercano spesso. I cuochi la cucinano in salmì, ma lei non vorrebbe…
Che cos’è?

12. Di solito sono lunghe e strette. Qualche volta però sono anche corte corte. Hanno l’anima nera, ma possono averla anche rosso o blu o di altro colore. Le adoperano tutti, anche tu. Qualcuno, quando è distratto, le mette in bocca, ma non dovrebbe farlo perchè non sono cose che si mangiano. Gli animali non sanno che farsene. Si usano dappertutto, anche a scuola. Le vende il cartolaio.
Che cosa sono?

13. Possono essere grandi o piccole, belle o brutte. Hanno gambe, ma non camminano. Hanno mani, ma non afferrano. Hanno occhi, ma non vedono. Hanno capelli, ma non sanno pettinarsi.
Che cosa sono?

14. Ce ne sono di tutte le misure, e un po’ di tutti i colori. Ognuno ne possiede. Non si mangiano. Agli animali non servono. Camminano a due a due, ma soltanto se qualcuno le accompagna. Si trovano sempre in basso. Non devono essere nè larghe nè strette, nè lunghe nè corte.
Che cosa sono?

15. Volano, ma non sono aeroplani. Hanno le ali, ma non sono uccelli. Pungono, ma non sono spilli. Hanno la regina, ma non il re. Fanno colazione in un fiore. Sono molto utili, ma non conviene stuzzicarle.
Che cosa sono?

16. Sono tanti fratelli che hanno la testa, ma non sanno pensare. Stanno tutti insieme in una scatolina ed escono ad uno ad uno. Non si mangiano. I bambini non dovebbero toccarli. La mamma li usa in cucina, però si possono usare anche fuori, anche per la via; a scuola di solito no. Sono piuttosto piccoli, possono esser di legno o di altra sostanza. Si irritano facilmente, e allora guai.
Che cosa sono?

17. Sono rotonde e paffute. Sono rosse oppure verdi, o anche gialle. I gatti non le vogliono, i bambini sì. Si mangiano crude o cotte. Si conservano a lungo e si mettono anche in scatola. In Italia ce ne sono molte e diverse qualità. Una cadde in testa a Newton.
Che cosa sono?

18. Ha una grande bocca, ma non ha occhi. Divora pane, torte, dolci e altri cibi, ma poi li restituisce e in buono stato. Quando è freddo non serve a niente.
Che cos’è?

19. Possono essere gialli, rossi, turchini, bianchi o di un altro colore. Possono essere profumati, o anche no. Qualcuno si può addirittura mangiare. Si possono mettere dappertutto. Bevono, ma non mangiano. Piacciono a tutti.
Che cosa sono?

20. Sono due, ma sono una cosa sola. Non sono mai di legno. Non di mangiano. Tutti le usano. Hanno due anelli, ma non hanno le dita. Ce ne sono di dritte e di curve, di grandi e di piccole.
Che cosa sono?

21. Di solito sono bianche, ma possono essere anche di altro colore. Ce ne sono di vere e di finte. Uno solo è maschile, due o più sono femminili. Si mangiano e si bevono. Si rompono sempre, ma qualche volte rompendole sono guai. Se non sono fresche non sono buone.
Che cosa sono?

22. Ce n’è di tutti i colori. E’ infiammabile. E’ utilissima. Si usa in mille modi. Non si mangia. Si mette in tasca, sui muri, nella cartella, sul banco. Ce n’è di robusta e di sottile. Non è fragile, ma si rompe facilmente. Ce l’hai sotto gli occhi.
Che cos’è?

Giochi con le parole: E’ arrivato un bastimento carico carico di…
Soluzioni

1.  girasole
2.  anguria
3.  lampadine
4.  occhiali
5.  zucca
6.  specchio
7.  sedie
8.  olio
9.  pettine
10.ciliegia
11. lepre
12. penna biro
13. bambola
14. scarpe
15. api
16. fiammiferi
17. mele
18. forno
19. fiori
20. forbici
21. uova
22. carta

(adattamento da “Piccolo quiz”, Ermanno Libenzi, Mursia 1962)

Giochi con le parole: Il pescatore di perle

Giochi con le parole: Il pescatore di perle. Tu sei il pescatore, e le perle sono parole che, per un errore di stampa, acquistano un significato tutto diverso da quello che si intendeva esprimere, ad esempio “tonto” invece di “tondo”. Leggi attentamente, e in ogni frase sottilinea la perla, e scrivi la parola giusta sulla riga di puntini.

 1. Pierino ha un brutto vizio: scrivendo si balocca, guarda volar le mosche, mette la panna in bocca.

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 2. Diede un pugno a Carletto il barbaro Gasone, Carletto glielo rese: la legge del maglione.

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 3. E’ entusiasta di Verdi, il giovane Luigini, da quando ha visto un’opera: La forza del cestino.

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 4. “Un quattro in aritmetica!”, grida lo zio Tommaso. “Francesco, questa goccia fa traboccare il naso!”

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 5. Il discolo Carletto con un martello in mano, batteva a più non posso tutti i basti del piano.

…………………………………………

 6. Il capitan Burrasca esclama: “Qui fra breve bisogna gettar l’ancora e fermare la neve!”

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 7. “A me piace il formaggio”, dice la zia Carlotta, “Ma più di tutto adoro mangiare la ridotta.”

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 8. “Non voglio andare a scuola!” piagnucola Graziella. “Ho paura dei voti che avrò sulla padella”.

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 9. Il cacciatore Massimo dice: “Che cosa strana! Ho visto sette volpi uscire da una rana”

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10. Per non studiare musica, il discolo Pierino, tagliava con le forbici sorde del violino.

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11. Il giovane Albertino è buono ma distratto; ieri, nel camminare, pestò la coda a un matto.

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12. L’esploratore Ignazio esclama: “E’ molto bello attraversare l’Africa a dorso di carrello!”

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13. Nella burrasca grida il capitan Simone: “Presto, mollate l’ancora! S’è spezzato il limone!”

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14. “Oggi è assai bello il mare!”, dice la zia Carmela. “Vorrei fare una gita sopra una barba a vela”.

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15. Ha vinto in bicicletta il corridor Siviero. E della sua vittoria si sente tutto Piero.

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16. Il prode Sigisberto dice: “Non c’è rimedio, a quel vecchio mastello bisogna dar l’assedio!”

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17. Ha fatto indigestione, mangiando troppo lesso, l’ingordo Giovannino…Salterà i tasti adesso.

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18. “Ho caldo, sudo, scoppio”, dice Gigi al compagno, “Se vuoi venir con me, andiamo a farci un ragno”

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19. A letto senza cena va il povero Leone, che ha rotto la vetrata giocando col tallone.

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20. Il cacciatore Asdrubale esclama: “Che balordo! Ho tirato ad un merlo, e invece ho preso un sordo!”

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21. “Ho trovato due perle, vieni a vedere” dice Gigi alla mamma, “Guarda, saranno pere?”

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22. Per tutta la lezione, il professor Micragna, con un pezzo di lesso scrive sulla lavagna.

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23. L’ortolano Archimede strilla: “Per tutti i diavoli! Ho seminato rape, e invece spuntan tavoli!”

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24. Tutta contenta Gaia, poichè è giorno di festa, mette il vestito nuovo ed il carrello in testa.

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25. “Per il mio compleanno”, dice Giulietta a Piera, “Ho fatto una scorpacciata. Pensa: una porta intera!”

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26. Nei lavori di casa Margherita e Carletto aiutano la mamma: le fanno sempre il tetto.

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27. Per poco con un calcio, non vola in aria Arturo. “E’ imprudente, ragazzo, tirar la corda al muro!”

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28. Seduto su un muretto Camillo, bimbo saggio, faceva la merenda con rane e con formaggio.

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29. “Durante le vacanze” dice Carlo al professore, “Ho letto un grosso libro di un fumoso scrittore”.

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30. Correndo come un matto , giunse in casa Isidoro, e grida: “Guarda mamma, il gatto ha preso un toro!”

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31. Dice il babbo a Giorgetto: “Oggi non sono in vena. Non mangi la finestra? A letto senza cena!”

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32. Diceva al giornalaio, Pippo ragazzo lesto: “Le ho dato quattro euro, e adesso voglio il pesto!”

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33. Un otto in aritmetica s’è meritato Ernesto. Mormora ancora incredulo: “Ma sogno oppur son pesto?”

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34. Col suo vestito nuovo, allegro, anzi raggiante, affermava Cirillo: “Sono proprio elefante!”

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Giochi con le parole: Il pescatore di perle
Soluzioni

1. penna-panna
2. taglione-maglione
3. destino-cestino
4. vaso-naso
5. tasti-basti
6. nave-neve
7. ricotta-ridotta
8. pagella-padella
9. tana-rana
10. corde-sorde
11. gatto-matto
12. cammello-carrello
13. timone-limone
14. barca-barba
15. fiero-Piero
16. castello-mastello
17. pasti-tasti
18. bagno-ragno
19. pallone-tallone
20. tordo-sordo
21. vere-pere
22. gesso-lesso
23. cavoli-tavoli
24. cappello-carrello
25. torta-porta
26. letto-tetto
27. mulo-muro
28. pane-rane
29. famoso-fumoso
30. topo-toro
31. minestra-finestra
32. resto-pesto
33. desto-pesto
34. elegante-elefante.

(adattamento da “Piccolo quiz”, Ermanno Libenzi, Mursia 1962)

Puoi scaricare l’esercizio in formato pdf qui:

Giochi con le parole: Il pescatore di perle

Recite per bambini – La bella Primavera e Primosole

Recite per bambini – La bella Primavera e Primosole. La recita è scritta in rima da Lina Schwarz e racconta lo scorrere delle stagioni; anche il libro illustrato di Sibylle v.Olfers  racconta di Madre Terra, delle stagioni, e dei piccoli semi…

Wurzelkinder, i bimbi radice è diventato un classico della letteratura per l’infanzia in lingua tedesca. Scritto e illustrato da Sibylle von Olfers all’inizio del secolo scorso, non ha mai perso la sua attualità. Con delicatezza e poesia le illustrazioni e il testo ci narrano dei bimbi radice che, come i fiori e le piante del bosco, si svegliano a primavera per sbocciare in estate e tornare a riposare alla fine dell’autunno. Età di lettura: da 3 anni. Io ce l’ho in tedesco, dono di una cara amica, ma ne è uscita l’edizione italiana:

Wurzelkinder, i bimbi radice

Madre Terra
(vecchia, veste un immenso mantello bruno, che copre tutto intorno a lei. Accovacciata in mezzo alla scena. Davanti a lei dorme distesa la bella Primavera)
Di notte e di giorno, di mattina e sera, sempre tu dormi, oh figlia Primavera! La Madre Terra che non si conforta che tu sia morta, ti canta la nanna, come dormissi in braccio alla tua mamma. Di notte e giorno, di mattina e sera, sempre tu dormi, oh figlia Primavera!

Il ricordo dei giorni belli
(vestito d’azzurro con una stella in fronte; entra in punta di piedi e parla sommesso…)
Ti ricordi com’era bella la figlia tua, quando rideva d’aprile, e tutto il mondo brillava di luce e i fiori sbocciavano a gara, e tutta l’aria trillava di canti d’uccelli?

Madre Terra
(singhiozza col capo tra le mani)
Oh, se era bella la figlia mia! Più bella dei fiori e più soave del canto degli uccelli! Più bella della luce stessa. Ed ora è morta, Ohimè! Ohimè!

Ricordo dei giorni belli
Ti ricordi i crepuscoli sereni, quando il cielo era tutt’una fioritura di giacinti, che la piccola falce della luna andava mietendo a poco a poco, affinchè potessero brillare le sue figlie, le stelle?

Madre Terra
(Sollevando il capo)
Ma la figlia mia era più fulgida di tutte le stelle! Ed ora è morta! Ohimè! Ohimè!
(si rimette a singhiozzare)

Ricordo dei giorni belli
Ti ricordi quando Primosole l’amò e la volle sua sposa? Andavano insieme per la foresta e sotto i loro piedi tutto rinverdiva. E la bellezza dell’una faceva sfolgorare lo splendore dell’altro; nel vederli tutto il mondo gridava: “Com’è bella la vita!”. Una cosa più meravigliosa non s’era vista mai.

Madre Terra
Ed ora è morta! Morta!

Ricordo dei giorni tristi
(vestito di grigio, con un velo nero intorno al capo)
Ti ricordi quando giunse l’estate crudele a rapir Primosole alla sua sposa? Severa, imperiosa, gridò: “Perchè indugi così tra i fiori e i sorrisi? Il mondo ha bisogno di te! Vogliono spighe i miei campi! Vogliono frutti i miei alberi! Vogliono grappoli maturi le mie vigne! Al lavoro! Al lavoro!”

Madre Terra
E Primosole partì, fedele al suo dovere

Ricordo dei giorni tristi
E partendo cantò un canto meaviglioso.

Coro
(da dietro le quinte come un eco)
Primavera, dolce amore, da te parte il tuo signore. Primosol dai raggi d’oro ha un divino suo lavoro, che gli toglie amor giocondo per amor di tutto il mondo, tutto il mondo che lo vuole: “Dammi vita, oh sole, oh sole!”

Madre Terra
Ed essa, dolcemente, soavemente, lo lasciò partire. “Va, splendi e matura!” gli disse. Gli mandò il più luminoso dei suoi sorrisi, lo seguì con lo sguardo. E poi… quand’egli dileguò nella lontananza, mi cadde tra le braccia addormentata per sempre

Tempo
(vecchio, curvo, con una lunghissima barba bianca ed una falce in mano)
Il tempo tutto ha visto, il tempo tutto sa, chi dorme si sveglierà.

Vento di tramontana
(prorompe sulla scena con violenza, urlando e sibilando, scompigliando col suo grande mantello svolazzante tutti i fiori e le foglie sparsi per terra. Davanti a lui fuggendo entrano le foglie secche e i semini)
La fine! La fine! Ecco la mia gloria, il mio trionfo! Ecco le mie ultime vittime! Oh morte! Oh gioia! Tutto è devastato! Tutto è distrutto! Non più una foglia sugli alberi. Io solo regno ormai! Io solo padrone del mondo!

Tempo
(in disparte)
Il tempo tutto ha visto, il tempo tutto sa: il male si annienterà.

Le foglie secche
Brillava magnifica la nostra foresta, trillava di giubilo ogni albero in festa. Quand’ecco il gran brivido di morte ci assale, col vento fatale. Quel soffio malefico che tutto distrugge, c’investe strappandoci all’albero e fugge. Rapite dal turbine, lontane dal ramo, disperse moriamo.

Tempo
Il tempo tutto ha visto, il tempo tutto sa: che piange sorriderà.

Madre Terra
(raccogliendo dolcemente le foglie le compone a dormire intorno al giaciglio di bella Primavera)
La madre che piange la figlia sua morta, pietosa le lacrime degli altri conforta; nel seno amorevole qui tutte raccoglie le povere foglie.

I semini
Siamo semini piccini piccini, nati e cresciuti dentro scatolini: bei scatolini fatti dai fiori…oh, come ci si stava da signori! Ed ora? Ohimè, per la ribalderia di quel ventaccio che ci spazza via, eccoci sparsi, poveri semini! Che sarà mai di noi così piccini?

Tempo
Il tempo tutto ha visto, il tempo tutto sa: chi è piccolo crescerà.

Madre Terra
(li raccoglie e li mette a dormire intorno a bella Primavera, poi li copre tutti col suo grande mantello, si accoccola e s’addormenta anche lei)
La madre che piange la figlia sua morta, pietosa le lacrime degli altri conforta; nel seno amorevole raccoglie qui insieme fin l’ultimo seme.

Ricordi tristi e ricordi belli
(insieme)
Morte, morte! Dura sorte! Ogni vita ha l’ore corte. Vien la morte e picchia forte, perchè le aprano le porte. Morte morte, dura sorte!

Tempo
Il tempo tutto ha visto, il tempo tutto sa: chi è morto rinascerà.
(esce con passo lento e misurato)

Neve
(dopo un intervallo di silenzio, entra in punta di piedi, con passo leggero e saltellante, vestita di bianco e scuotendo candidi fiocchi dalle braccia levate)
Lieve lieve, nel sonno greve, cade la neve. Fior senza stelo, bacio di gelo, scende dal cielo. Segnano l’orme sull’uniforme terra che dorme, soavi e buoni sogni e visioni, benedizioni.
(cala il sipario; si riapre con uno squillo di tromba)

Tempo
(entrando)
Il tempo ve l’ha detto, il tempo che tutto sa: chi è morto rinascerà.

Madre Terra
(altro squillo di tromba, Madre Terra comincia a muoversi, agita le braccia con movimenti lenti e misurati, sollevando come a ondate il grande mantello)
Semi! Piccoli semi! Svegliatevi dal sonno! Su, su, piccoli dormiglioni! Il tempo torna, è l’ora, è l’ora!
(Li tocca uno ad uno carezzandoli)

Tempo
Il tempo ve l’ha detto, il tempo che tutto sa: chi dorme si sveglierà.

Semini
(Si sfregano gli occhi e si stiracchiano)
Dal sonno ci svegliamo, semini più non siamo. Guardate, ormai si mette germogli e radichette. Miracolo stupendo! Mentre stavam dormendo, ognun di noi s’apriva; or siamo piante, evviva!
(ora sono adorni di foglie sul capo e di radici ai piedi; agitano le fronde con le mani e si contemplano con meraviglia)

Madre Terra
(Da sotto il mantello escono fiori, altri entrano da fuori scena e insieme formano un semicerchio intorno a bella Primavera)
Bravi! Bravi! Come siete germogliati bene! Bravi semini, ed ora a voi foglioline! A voi fiori! Su tutti, da bravi! Margheritine, violette, primule, campanelline. E voi miosotodi, crochi, ranuncoli, reseda, anemoni, lillà, amorini… Lesti, piccini, pronti a fiorire! Il tempo torna, e Primosole già sento venire!

Primosole
(Inizia a parlare da fuori, finchè arriva dalla bella Primavera e la bacia… lei comincia a muoversi)
Primavera, dolce amore, fa ritorno il tuo signore! Primosole dai raggi d’oro ha compiuto il suo lavoro, e ritorna a lei che l’ama, che nel sonno ancor lo chiama, che da lui baciata vuole ridestarsi al mondo, al sole.

I fiori e i semi
(in girotondo)
Margheritini, violette, primule, campanelline, e voi miosotidi, crochi, ranuncoli, reseda, anemoni, pronti alla festa! Vien Primosole, e bella Primavera si ridesta!

Bella Primavera
(si alza)
Son desta o sogno ancor? Non ero morta! Dolce era il sogno. Accanto ognor gli fui nel lungo viaggio; sempre fui sua scorta, la fida scorta che vegliò su lui.

Primosole
Io ti sentii, soave compagnia, mentre seguivo la mia lunga via. Sentivo il tuo pensiero, o dolce sposa, che mi spronava all’opera gloriosa.

Bella Primavera
Ed io sentivo nel sonno profondo l’anima mia più forte e più sicura, e ti dicevo: aiuta, aiuta il mondo! Dà luce e vita, vai, splendi e matura!

Primosole
Fu la potenza del tuo santo amore, che luce e vita diede al mio calore, fu la dolcezza del tuo cuor profondo, che mi diede la forza di illuminare il mondo.

Primavera e Primosole
(insieme)
Come una madre mi ha di te nutrito, t’ho di me nutrito, sia benedetto il dì che ci ha riunito.

Tempo
(si inginocchia guardandoli con reverenza)
Il tempo che tutto ha visto, il tempo che tutto sa, dinanzi a tal miracolo sente l’eternità.

Fiori e semi
(si inginocchiano in semicerchio guardandoli)
Come risplendono, come sono belli! Spiri di zefiri, voli d’uccelli, sorrisi d’angeli, passano su loro.

Madre Terra
(getta il mantello e appare ringiovanita)
E contemplandovi forme leggiadre, v’intona un cantico la Terra Madre: “Al mondo, amandovi, donate amore!”

Rugiada
(dopo un silenzio, entra con passo leggero)
Su voi la rada gocciola cada della rugiada. E’ il ciel che manda questa sua blanda sacra bevanda. Ogni creatura goda la pura rinfrescatura, che il mondo invita a nuova vita.
(cala il sipario)

Testo: Lina Schwarz
Illustrazioni: Sibylle v.Olfers (Etwas von den Wurzelkindern, edizioni Esslinger)

Della stessa autrice (solo in lingua inglese):

THE STORY OF THE WIND CHILDREN 

MOTHER EARTH AND HER CHILDREN 

THE STORY OF LITTLE BILLY BLUESOCKS

THE STORY OF THE SNOW CHILDREN 

 

THE PRINCESS IN THE FOREST

THE STORY OF THE BUTTERFLY CHILDREN

Recite per bambini – I nani

Recite per bambini –  I nani. Una recita in rima che narra della fine dell’amicizia tra uomini e nani… Faustino,  il re dei nani, chiede in sposa la bella Matilde, e così ha inizio la storia…

Il re dei nani Faustino siede sul suo trono; attorno a lui stanno molti nani…

Faustino: Sul mio trono manca, a me vicina, gentile e generosa una regina

Primo nano: Fra picchi e vette andai a cercare, oh re, ma nessuna ne trovai degna di te.

Secondo nano: Nei pascoli e nei boschi io pur cercai, ma donna di te degna non trovai.

Terzo nano: Io scesi fino al piano; in un paese vicino al nostro, vidi un re cortese. Ed una principessa bella e buona, che sembra degna della tua corona. E’ Matilde, di mirabile bellezza, garbata e dolce, tutta gentilezza.

Faustino: Dal padre di Matilde dunque andate, e di Faustino ambasciatori siate. Dite che chiedo d’ottenerla in sposa e sempre mi sarà cara e preziosa.

I nani: Sarà come tu chiedi, o re Faustino

Faustino: Andate, e non sostate nel cammino.

Davanti al castello di Matilde…

Poldo: Omuncoli, chi siete? Che cosa pretendete?

Primo nano: Noi ti chiediamo di lasciarci entrare, perchè con il tuo re dobbiam parlare.

Poldo: Nemmeno per idea, via via, smammare. Da questa porta non vi lascio entrare.

Secondo nano: Di re Faustino siamo ambasciatori, fateci entrare, e coi dovuti onori.

Poldo: Ma senti questi nani, che villani! Ma guarda che sfacciati! Chi dunque vi ha chiamati?

Terzo nano: Messaggio portiamo, ma non certo a te. Fa’ il tuo dovere, e portaci dal re.

Poldo: Va bene, allora entrate, e col mio re parlate. Potessi comandare, vi farei bastonare e mettere alla porta, gente di razza corta!

Ildebrando: O Poldo, perchè tanto rancore? Sono esseri di senno e di valore, che non hanno meritato le tue offese. Devi imparare ad esser più cortese!

Nella stanza del trono…

Primo nano: Oh re potente, innanzi a te mi inchino, siamo inviati qui da re Faustino.

Re: Di lui m’han detto che è potente e saggio, or dite la ragion del vostro viaggio.

Secondo nano: Il re Faustino, nostro buona sovrano, della figliola tua chiede la mano.

Re: Son grato al vostro re per la proposta, che mi lusinga assai: ma la risposta da mia figlia soltanto può venire, che è libera di scegliere e di agire.

Terzo nano: Di re Faustino ambasciatori siamo, e la richiesta sua ti trasmettiamo; Matilde bionda, bella, generosa, del nostro re vuoi essere la sposa?

Matilde: Signori, la richiesta assai mi onora, e di respingerla invero m’addolora; ma son giovane molto, impreparata ad essere regina, e affezionata alla terra nativa, alla mia gente… Piangerei nel lasciarla, amaramente… Ma dite al re che grata assai gli sono, e del rifiuto mio chiedo perdono.

Re: La decisione di mia figlia accetto, ma dite al re che molto lo rispetto, per la saggezza sua e il suo valore.

Primo nano: Oh, sire, noi partiamo col dolore, di portare un rifiuto a re Faustino, ma cortese tu fosti, e a te mi inchino.

Secondo nano: Noi pure, sire, molto ti onoriamo, e alla bella Matilde ci inchiniamo.

Davanti al castello di Matilde… 

Poldo: Guardali i cavalieri, che andavan tanto fieri! Direi che l’ambasciata è stata sfortunata…

Terzo nano: Tu, che sei il guardiano del castello, dovresti comperare un chiavistello da metterti alle labbra ed imparare a fare il tuo mestier senza parlare!

Poldo: Omuncolo borioso, sfacciato, vanitoso! Non creder di salvarti, verrò presto a cercarti!

Nella sala del trono di re Faustino…

Primo nano: Sventura, sventura su di noi, oh re Faustino!

Secondo nano: Trovammo la morte sul nostro cammino!

Faustino: La morte? Partiste in missione di pace!

Primo nano: Trafitto nel bosco un tuo fido ora giace.

Faustino: Notizie inattese e crudeli portate; che avvenne? In che modo? Or tutto narrate!

Secondo nano: Matilde le nozze con te rifiutò, e un servo cattivo di noi si beffò-

Primo nano: Venimmo a parole, e a mezza strada, ci diede l’assalto con lancia e con spada.

Faustino: A offerta d’amore risposta di morte? Non sanno, gli stolti, che sfidan la corte? Che sono maestro d’incanti e magia? Vendetta crudele dev’esser la mia!

Narratore: La sala risplende di luci festose , si canta, si danza… Ma cadon le rose, in magica pioggia che tutti stupisce, e al padre, non visto, Matilde rapisce…”

Nel castello di Re Faustino…

Matilde: Faustino è un ospite perfetto ed io pure lo stimo e lo rispetto, ma quando penso al padre, nel mio cuore, risuona sempre un canto di dolore

Primo nano: Abbi fede signora, certo un giorno, alla tua casa potrai far ritorno.

Nel castello di Matilde…

Fratello: Amici, una notizia assai gradita! Ho trovato Matilde! Fu rapita, per mezzo di un incanto da Faustino, che la tiene nascosta a sè vicino. Seguitemi, che andiamo a liberarla!

Ildebrando: Tutti siamo impazienti di trovarla, ma il nano è un avversario molto forte, e noi siam pochi per tentar la sorte. Chiedi aiuto al potente Teodorico, che è un eroico guerriero, e un fido amico.

Fratello: Oh re, per mia sorella ci accingiamo a un’impresa difficile e chiediamo aiuto a te, che sei l’eroe famoso, da cento lotte uscito vittorioso.

Teodorico: Ben volentieri accetto, e sono pronto, a unirmi a voi per vendicar l’affronto.

Poldo: Vi seguo nell’impresa, che ho lungamente attesa. Quella gente sfacciata dev’esser bastonata!

Davanti al castello di Faustino…

Fratello: Giungemmo all’alba in vista del giardino, ma lungo e faticoso fu il cammino.

Ildebrando: Meravigliosamente belle e profumate sono le rose, al sole dell’estate.

Teodorico: E’ questa, dunque, la gloriosa impresa? Qui non vedo nè mura nè difesa. Solo un filo di seta qui m’appare, che non posso e non voglio sorpassare. Facciamo entrare un messo nel giardino, che porti i nostri patti a re Faustino.

Poldo: Questa idea di far pace davvero non mi piace. Voglio con queste mani, schiacciare il re dei nani! (Spezza il filo e calpesta le rose)

Faustino: Guai a chi invade e offende il regno mio!

Poldo: Io non ti temo, Poldo sono io!

(Duello tra Poldo e Faustino; Poldo cade a terra sconfitto)

Fratello: Di mia sorella devi render conto.

Faustino: Non subì, stanne certo, alcun affronto. Ha delle belle sale per dimora, e uno stuolo d’ancelle che la onora.

Fratello: Mettila sull’istante in libertà, o la tua testa mozza qui cadrà.

Teodorico: Perchè tanta durezza contro il nano? E’ un nemico leale e un buon sovrano. Non permetto che qui, in presenza mia, gli si parli con tanta scortesia.

Matilde: Fratello, finalmente m’hai trovata! Ti ringrazio d’avermi liberata, però mi spiace che vi sia contesa fra te e Faustino, chè nessuna offesa ebbi da lui, che sempre mi onorò, e come una regina mi ospitò.

Teodorico: Hai parlato con senno e con giustizia, motivo più non v’è d’inimicizia. Abbiamo combattuto con onore, ora sia pace e cada ogni rancore.

Poldo: Io preferisco star per conto mio, piuttosto che venire a patti, addio!

Faustino: Ora che siamo amici, permettete che vi mostri il mio regno e le segrete ricchezze che contiene; mi sarà gradito offrirvi la mia ospitalità.

Narratore: Agli occhi stupiti dei cavalieri apparvero mirabili cose; il regno dei nani conteneva tesori inestimabili e opere d’arte di grandissimo pregio. Ebbe luogo un ricchissimo banchetto, rallegrato da canti e balli… ma a mezzanotte, mentre tutti dormivano, Poldo con una schiera di armati assalì di sorpresa il regno dei nani. Si accese una lotta terribile, ed alla fine, dopo alterne vicende, re Faustino fu vinto e fatto prigioniero. Lo chiusero in una vecchia casa solitaria e gli diedero Poldo per custode. La dura prigionia di Faustino durò per molti anni…

Poldo: Che freddo! Quanta neve!

Soldato: Vieni qui presso al fuoco. (Giocano a dadi e bevono birra)

Poldo: Che sonno! Dormo un poco seduto accanto al fuoco, tu veglia al posto mio.

Soldato: Così sia, ma ho sonno anch’io.

Faustino: Mi accosto piano piano al focolare, sulla cenere ardente consumare lascio la corda che mi tien legato… nessuno ha visto, ed io son liberato!

Faustino fugge, giunge nel giardino davanti al suo castello…

Faustino: Ecco le rose rosse del giardino, che splendono nel sole del mattino. Sono esse che han mostrato all’uomo indegno, la via per penetrare nel mio regno. In roccia muterò tutto il roseto, che diventi invisibile e segreto. Sia notte o giorno, pietra resterà, e nessun occhio umano lo vedrà.

Narratore: Ma nell’incantesimo Faustino aveva dimenticato il crepuscolo, che non è nè giorno nè notte… così ogni sera, dopo il tramonto, si rivedono le rose rosse del giardino incantato. Allora gli abitanti della montagna escono dalle loro capanne e guardano e ammirano e, per un attimo solo, nelle loro menti inconsapevoli, sorge una confusa intuizione del buon tempo passato, quando gli uomini non di odiavano nè si uccidevano, e tutte le cose erano belle e buone. 

(Di autore ignoto.)

Racconto per presentare la grammatica Misbrigo, Preciso e Giulivo

Racconto per presentare la grammatica Misbrigo, Preciso e GiulivoUn racconto per introdurre nome, verbo ed aggettivo, molto utilizzato nelle scuole steineriane.  Misbrigo è il verbo, Preciso il nome e infine Giulivo l’aggettivo…

C’erano una volta tre fratelli. Uno si chiamava Preciso, un altro Giulivo e il terzo Misbrigo. I tre fratelli vivevano in una casetta al limitare del bosco, ai margini della città, con papà Grammaticale e mamma Analisi. Ora, pur stando sempre insieme, i tre fratelli erano molto diversi tra loro.

Misbrigo era il maggiore dei tre; era forte, alto e muscoloso, e girava sempre con un martello in mano, o con altri attrezzi. Ovunque andasse, lui era di poche parole. Amava dire: “Poche chiacchiere, e lavorare!”.

Il fatto però era che lui faceva e faceva, ma non avendo un piano, un progetto, non avendo compreso bene ciò che doveva fare, e spesso faceva cose brutte e sbilenche che facevano fatica a stare in piedi.

Il più piccolo dei tre era Preciso. Lui, al contrario di Misbrigo, se ne stava sempre a fare progetti, e sapeva i nomi di tutte le cose, anche i più difficili. Era un vero vocabolario vivente. Però, stando sempre al tavolo, seduto, a fare progetti, non gli veniva mai in mente di alzarsi e mettere in pratica quello che progettava. E così rimaneva tutto nella sua testa.
Il fratello mediano, Giulivo, era ancora diverso dagli altri due. Lui non faceva, non brigava, non si dava sempre da fare come Misbrigo. Però nemmeno stava seduto a far progetti e a leggere libri come Preciso. Lui suonava strumenti musicali, dipingeva, scriveva poesie e racconti. Faceva passeggiate nel bosco e incontrava fiori e piante di cui non conosceva il nome, e li guardava, e li descriveva: “Oh, che graziosi fiorellini che pendono dallo stelo come tanti piccoli calici bianchi!”.

“Si chiamano mughetti!” diceva allora Preciso, e intanto Misbrigo si era già allontanato da loro per raccogliere legna per il fuoco.

Oppure succedeva che Giulivo vedeva un albero e diceva “Oh, che forte quest’albero! Come appare nobile e potente! E che piccoli frutti ovali con un cappuccetto buffo!”.

“Ma è una quercia!” diceva preciso. E intanto Misbrigo raccoglieva le ghiande in un sacco per portarle ai maialini.

Un giorno arrivò in casa dei tre fratelli un amico del padre, il signor Bellalingua, che desiderava costruirsi una casa accanto a quella della famiglia del signor Grammaticale, e cercava per questo degli operai.

“Ah…” disse, “che bello sarebbe trovare qualche operaio davvero capace cui affidare la costruzione della nuova casa mentre io resto in città a sbrigare i miei affari!”

Il signor Grammaticale rispose: “Ma questa è una cosa che possono benissimo fare i miei figlioli!”

E così fu deciso che i tre fratelli avrebbero costruito una bella casa al signor Bellalingua, che disse: “Bene, ragazzi! Tra un mese tornerò a vedere cosa siete riusciti a fare. Se avrete fatto un buon lavoro, riceverete una grossa ricompensa.”
E fu così che Misbrigo, Preciso e Giulivo si misero all’opera per costruire la casa.

Non appena il signor Bellalingua si fu congedato, Misbrigo partì in quarta e andò sul posto dove sarebbe dovuta sorgere la casa, e cominciò a trivellare, spianare, estirpare, e tanta era la terra che spostava, scavava, accumulava, appianava, che sembrava una talpa al lavoro. S’era creato tutto attorno un nuvolone di polvere e terra, e Misbrigo stava là in mezzo che spingeva la carriola, la vuotava, correva e brigava.

Quando ebbe scavato profonde fondamenta, cominciò ad accumulare mattoni e cemento e a metterli uno sull’altro.
Preciso gli diceva: “Aspetta a cominciare! Prima bisogna fare un progetto sulla carta. Bisogna fare un disegno, pensare bene a dove mettere le sale, la camera da letto, la cantina…”. E si mise così a disegnare il progetto della casa su un grande foglio di carta.

 Ma Misbrigo non lo stava quasi a sentire e borbottava: “Tu parli, parli… ma per fare una casa bisogna lavorare, faticare, altro che far progetti!” e mentre lavorava prese a cantilenare:
“Certo a scriver tu lo sai
non succedon certo guai!
Tu sei molto intelligente
ma non si scava con la mente!
I progetti tu sai fare
io però so lavorare:
misurare, scavare, impastare,
non mi pesa dover sudare.
Inchiodare, avvitare, pestare,
livellare, segare, stuccare.
Sali, scendi, controlla tutto:
della fatica vedrai il frutto!”
Così, in quattro e quattr’otto, Misbrigo aveva scavato le fondamenta, tirato su i muri, messo il tetto, fissato le finestre.

Alla fine di tutto questo lavoro, guardò la casa: certo l’aveva fatta velocemente, e non mancava nulla, ma era tutta sbilenca, i muri erano storti, le finestre una più alta e una più bassa, gli scalini diseguali, addirittura in una stanza si era dimenticato di mettere la porta, e non si poteva proprio entrare, se non dalla finestra, che però era troppo alta.
Quando Preciso arrivò col suo progetto e vide la casa, scoppiò a ridere. Misbrigo ci rimase così male che sbattè una porta con tanta violenza che la casa crollò!

Allora Misbrigo disse a Preciso: “Non voglio più saperne di questa casa! Falla tu se sei capace, visto che sei tanto intelligente!”

Visto che Misbrigo non voleva più saperne di costruire la casa, Preciso disse: “Bene, allora mi ci proverò io.”
Così andò a prendere il suo bel progetto, lo mirò e lo rimirò, e poi disse fra sè e sè: “Bene… bene…, da dove cominciare ora? Dovrei scavare nuove fondamenta, ma come? Non sono mica una talpa, io!”.

Guardò gli attrezzi che intanto Misbrigo andava riordinando, e di ognuno conosceva alla perfezione il nome: “Ah, ecco, questo è un piccone, qui abbiamo una vanga, e questo è un martello pneumatico”. Ma gli sembravano tanto pesanti, e non aveva nessuna voglia di raccoglierli. Prese giusto in mano un piccone, ma si chiese: “Come si userà mai questo coso?”. Insomma, alla fine gli pareva talmente difficile e faticoso imparare a maneggiare tutti gli attrezzi, che ben presto rinunciò e si disse: “Forse per riuscire a maneggiare gli attrezzi ho bisogno di un progetto ancora più preciso!”.

 E così se ne andò verso casa cantilenando:
“Voglio fare un bel progetto
fondamenta muri e tetto.
Porte, finestre, poggioli e scale
tutte a ovest voglio le sale
poi le camere da letto
il salotto dirimpetto.
A nor metto la cucina
e vicino la cantina…
Si può fare a sud la stalla
per poi metter la cavalla.
Mattoni, cemento, di legno i tasselli,
calce, carriola, chiodi e martelli,
viti, chiodi, travi, bulloni,
acqua, ghiaia, sabbia e mattoni”

Intanto Giulivo arrivò da quelle parti, correndo dietro a una farfalla, e dicendo: “Che bella, che leggera, che aggraziata! Com’è vispa, colorata, dolce, delicata, tenera, svolazzante…”, e avanti così, quasi senza prendere fiato, tanto da far girare la testa. Ma quando incontrò Misbrigo, tutto rabbuiato, si fermò di colpo. Si dimenticò improvvisamente della farfalla, e disse al fratello: “Come mai sei così triste, sconsolato, rabbuiato, irritato, pensieroso? Sei forse stanco, depresso, sfinito, esausto, sfiduciato,…” e via di questo passo.

Ma prima che Misbrigo, che non ce la faceva più, potesse interromperlo, subito fu distrato da una brezza leggera, chiuse gli occhi e disse: “Ah, che brezza leggera, rinfrescante, serena, mite, carezzevole, confortante,…”
Allora Misbrigo lo interruppe dicendogli: “Ehi, Giulivo! Perchè non provi un po’ tu a costruire la casa del signor Bellalingua? Io e Preciso non ci siamo riusciti!”

“Oh, certo!”, disse Giulivo, “Posso certo fare io. Farò una casa bella, luminosa, ampia, spaziosa…”, e cominciò così a lavorare cantilenando:
“Bella, lucente, ampia, spaziosa,
profumata, pulita, odorosa,
così dev’essere questa dimora,
linda e radiosa ad ogni ora!
Soleggiata e risplendente,
confortevole e accogliente,
armoniosa nei colori,
ai balconi tanti fiori!
Rossi, verdi, gialli e bianchi,
che a guardarli non ti stanchi.”

Giulivo si mise dunque all’opera cantando. In quel mentre arrivò anche Preciso, con un suo nuovo progetto. Così, mentre Misbrigo tutto rosso in faccia, se ne stava corrucciato a guardare, e mentre Preciso cercava di dargli consigli su come mettere in pratica il suo progetto, Giulivo cominciò a costruire.

Il fatto è che non riusciva a fare granchè: prendeva un piccone per fare le fondamenta, e si fermava dicendo: “Oh! Com’è pesante, com’è appuntito, com’è lucente!”, e stava ad ammirarlo come una cosa straordinaria.

Poi doveva appoggiare i mattoni e quando ne prendeva uno se ne stava a dire: “Oh! Che solido, che squadrato, e com’è rosso, liscio, esatto, rettangolare,…” e di nuovo continuava quasi fino a restare senza fiato.

Suo fratello Preciso, calmo e tranquillo, gli diceva: “E’ semplicemente un mattone, e quello è un piccone, niente di più”.

Però con Giulivo che continuava a fermarsi, e con Preciso che non faceva altro che dare direttive e nomi alle cose, la casa proprio non procedeva. Bastava poi che passasse una formica e Giulivo si fermava e esclamava: “Oh, tu, animaletto carino, nero, infaticabile, antennuto, forzuto, svelto, leggero, agile, coraggioso, piccolino, tenero,…” e di nuovo si perdeva, senza fermarsi più.

Preciso si sistemava gli occhiali e guardava l’animaletto, e diceva: “E’ semplicemente una formica. Anzi, il suo vero nome è formiculus vulgaris, che è il suo nome in latino.”, e Giulivo ribatteva: “Ohi, che nome difficile, misterioso, latinoso, affascinante, simpatico, esatto, scientifico, ricercato, scioglilinguoso, …”.

Al vedere i due che tanto chiacchieravano e nulla facevano, Misbrigo era diventato rosso di impazienza e sembrava un peperone sul punto di esplodere. E infatti esplose: “Insomma, voi due! La volete smettere di guardare le formiche e i mattoni? I mattoni non si guardano, si prendono e si cementano in un muro… così!”.
E in tal modo cominciò a tirare su un muro.

Intanto però Preciso gli dava indicazioni su dove mettere i muri, le varie stanze, prendeva le misure delle finestre e così la casa veniva su solida e ben piantata. Giulivo poi, tutto sorridente, aggiungeva sempre un tocco di bellezza e di armonia dicendo ad esempio: “Questo balcone è troppo squadrato, spigoloso, angoloso, incassato, duro… facciamolo più arrotondato, armonioso, proporzionato, leggero, panoramico, grazioso,…” e di nuovo fino a perdere il fiato.

E insomma, lavorando di lena e collaborando tra loro, Misbrigo a faticare, Preciso a dirigere e Giulivo a far belle e varie le cose, la casa cominciò a venir sù, e talmente solida, ordinata e graziosa che raramente se n’era vista una simile.

La casa dunque era costruita. Dopo un mese tornò il signor Bellalingua, per andare ad abitarvi. Quando arrivò e vide la casa restò a bocca aperta: “Oh, ragazzi, ma avete fatto un lavoro a dir poco straordinario!”.

“Beh… modestamente…” disse sorridendo felice Giulivo, “…è effettivamente un lavoro straordinario, notevole, stupendo, bellissimo, eccezionale, fantastico, insuperabile,…” e chissà quanto sarebbe andato avanti se Misbrigo non gli avesse dato uno strattone per farlo tacere, e Preciso non gli avesse detto: “Beh, adesso non esagerare. E’ semplicemente un lavoro, niente di più e niente di meno.”

Poi Misbrigo disse: “Ma insomma, perchè ce ne stiamo qui fuori? Andiamo dentro, facciamo vedere le stanze al signor Bellalingua, cuciniamo qualcosa, accendiamo il fuoco nel camino, sistemiamo la legna…”, e nemmeno aveva finito di parlare che già era sparito dentro in casa per mettersi a fare tutte queste cose. Poi entrarono anche gli altri.
Preciso cominciò a mostrare le stanze al signor Bellalingua: “Ecco, vede, questa è la cucina. Ci sono il forno, il frigorifero, un tavolo, quattro sedie, le stoviglie, le posate, il caminetto, il forno, gli stracci, i barattoli, i fiammiferi, gli stuzzicadenti, i tappi, i centrini,…” e sarebbe andato avanti a nominare tutte le piccole e le grandi cose che stavano in casa, persino i granelli di polvere, se non fosse inciampato in Giulivo, che si era chinato per guardare un grillo che camminava sul pavimento: “Che animaletto strano, buffo, verdino, scattante, saltellante, veloce, rotondo, antennuto, simpatico, piccolino,…”. Preciso diete un’occhiata, e con molta calma disse: “E’ un semplice grillo, anzi un grillus piagnucolosus, che sarebbe il suo vero nome.”

Ma intanto Giulivo si era fatto prendere da un ragno che penzolava dal soffitto: “Oh, che leggero, penzolante, acrobatico, coraggioso, dondolante, veloce, forzuto,…”.

In quel mentre arrivò Misbrigo con una montagna di legna, accese il fuoco, pulì il tavolo, apparecchiò, cucinò, stappò le bottiglie, versò da bere, e non stava fermo un minuto.

Alla fine, quando tutti erano a tavola e finalmente ci fu un po’ di tranquillità, il signor Bellalingua riuscì a parlare. “Cari ragazzi” disse, “devo dire che non potevo proprio sperare in una casa più bella. E vorrei farvi una proposta: poichè io da solo non sarei in grado di occuparmi dell’ordine e della manutenzione della casa, perchè non ci abitate voi? Potrete prendervi una stanza a testa, e quando io verrò troverò sempre la casa in ordine, e mi sentirò sempre tranquillo e a mio agio con voi”.

Giulivo era entusiasta: “Oh, che proposta bella, interessante, avvincente, affascinante, promettente, brillante, convincente,…”. Vedendo tanto entusiasmo, il signor Bellalingua era contento, e visto che anche Misbrigo e Preciso erano d’accordo, la proposta fu accettata.

Così i tre fratelli vissero per sempre nella casa del signor Bellalingua, ognuno facendo bene quello che meglio sapeva fare, e collaborando tra loro, perchè solo grazie a questo le cose riuscivano bene e davano gioia a tutti quanti.

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Giochi con le parole

Giochi con le parole. Qualche gioco di gruppo per bambini della scuola primaria per divertirsi con le parole. Possono essere usati anche per esercitare la scrittura per autodettatura.

La parola proibita
Il bambino che sta sotto esce dalla stanza, mentre gli altri bambini si accordano in segreto sulla parola proibita.
Chi sta sotto rientra, e i bambini gli fanno delle domande, cercando di fargli usare la parola proibita, mentre un bambino conta quante volte il bambino che sta sotto dice la parola proibita.
Fino alla fine nessuno rivela la parola proibita, e chi sta sotto deve cercare di indovinarla.
Se pensa di aver capito la annuncia, e il suo turno è finito.

Sei parole proibite
Ogni bambino scrive sei parole proibite su sei pezzetti di carta, e li capovolge sul banco.
A turno si fanno domande per costringere gli avversari ad usare una delle sei parole proibite scritte sui suoi foglietti.
Quando un bambino avversario usa una parola proibita, il bambino volta il suo foglietto con quella parola e lo fa vedere a tutti.
Vince chi riesce per primo a scoprire tutti e sei i suoi foglietti.

Le sillabe finali
Esempio: “Quale -ANA ha la pelle verde e la voce gracidante?”. “La r-ANA”.
“Quale -ANA zampilla e disseta?”. “La font-ANA”.

L’ABC degli aggettivi
Esempio:
primo bambino: “Questa è un’automobile Avveniristica”
secondo bambino: “Questa è un’automobile Biposto”
terzo bambino: “Questa è un’automobile Costosa”
quarto bambino: “Questa è un’automobile Difettosa”
e così via.
Quando due bambini sono eliminati, ricominciano il gioco tra di loro con un’altro nome, mentre gli altri vanno avanti finchè rimane il vincitore.
Quelli eliminati via via si aggregano al secondo gruppo.

Variante:
“Io ho un’Arancia”
“Io ho un’Arancia nella Bisaccia”
“Io ho un’Arancia nella Bisaccia per il Cuoco”
ecc…

Cosa piace a Pierino?
Si devono scegliere parole che abbiano una caratteristica comune per differenziare ciò che piace da ciò che non piace a Pierino. I bambini devono capire qual è questa caratteristica (nell’esempio le parole che contengono delle doppie). Esempio:
primo bambino: “A Pierino piace il burro, ma non gli piace il pane. Cosa piace a Pierino?”
Se il secondo bambino non sa rispondere, il primo bambino si rivolge al terzo: “A Pierino piacciono le cravatte, ma non le cinture. Cosa piace a Pierino?”
I giocatori che rispondono con frasi che hanno nomi appropriati di cose che piacciono a Pierino, escono dal gioco. L’ultimo bambino che non riesce a dire cosa piace a Pierino perde.

Associazioni di parole
Il primo bambino dice un nome qualsiasi. Il secondo deve dire un altro nome che abbia una qualsiasi associazione col primo. Ogni bambino può contestare la risposta di un altro:
– chi impugna la risposta con successo guadagna due punti;
– chi non riesce a giustificare la propria risposta perde due punti;
– se la risposta viene giustificata con successo il bambino guadagna due punti e chi l’aveva impugnata ne perde due.

Giochi con le parole

Acquarello steineriano – Racconto: “I colori”

Acquarello steineriano – Racconto: “I colori”. Un adattamento di una storia  di ispirazione steineriana per presentare i colori…  purtroppo non conosco la fonte originale. La storia si presta ad essere illustrata con l’acquarello, o raccontata utilizzando fazzoletti o fatine colorate o pupette in lana cardata, o fogli di carta colorata trasparente da sovrapporre tra loro…

Foglio Bianco si trovava tutto spiegazzato e abbandonato in fondo ad un cassetto, da tanto tanto tempo. Era per lui una vita molto noiosa e monotona, quella. Ma un giorno, finalmente, si sentì afferrare da due piccole mani, e si ritrovò sopra ad un tavolo.

Foglio pensò: “Mi sembra un bel posto, davvero… però anche qui, mai nessuno che mi faccia compagnia!”

Proprio mentre lo pensava, si sentì cadere addosso delle gocce, e si disse: “Ecco, adesso anche la pioggia!”. Si guardò attorno, e così si accorse che, proprio lì, vicino a lui, c’era un povero triste pennello che stava piangendo… le gocce non erano di pioggia! “Cosa fai?” chiese. E Pennello gli raccontò la sua storia. Anche lui si sentiva solo, ed era davvero molto triste perchè non aveva mai nessuno con cui giocare, da tanto tanto tempo.

“Perchè non giochi c0n me?” disse Foglio a Pennello, ma questi rispose: “Come lo vorrei, ma non mi posso muovere! Sono vittima di un incantesimo. Solo il giorno in cui qualcuno riuscirà a bagnarmi i piedi potrò tornare me stesso, e se non succederà mi toccherà restarmene immobile e secco qui dentro…”

Mentre Foglio e Pennello si raccontavano i loro guai, apparve alla finestra una bellissima farfalla: si trattava della fata Fantasia, che avendo ascoltato tutto, aveva deciso di aiutare i due poveri amici. Fantasia, senza dir nulla, prese il pennello e lo immerse in un vasetto pieno d’acqua.

“Evviva! Evviva!” si mise a gridare Pennello, sul punto di impazzire dalla gioia, “Posso muovermi! Foglio, aspettami qui. Ho un’idea meravigliosa. Corro a chiamare un po’ di amici e poi è fatta… Farfallina, puoi per caso portarmi fino al sole?”

“Sì” rispose la fata Fantasia, “aggrappati alle mie ali e andiamo!”.

Il viaggio cominciò, ma giunto vicino al sole la luce era così accecante che non si potè proprio andare oltre. Allora Pennello, da una certa distanza,  gridò: “Sole! Mandami qualcuno che non posso venirti più vicino di così! Devo aiutare il mio amico Foglio!”

Il sole era ben lieto di poter aiutare i due amici, e mandò su di un carro tutto d’oro un luminosissimo folletto. “Ciao Pennello! Mi chiamo Gialloluce e sono proprio felice di venire con te sulla terra!”, disse.

tutorial:

Sulle ali di Fantasia i due tornarono da Foglio, che aspettava con ansia, e dalla gioia cominciarono a saltellare tutti insieme: Gialloluce si espandeva di qua e di là, e sprizzava felice luce da tutte le parti… nessuno era più solo!

Nella stanza dove si trovavano i tre amici, proprio vicino al tavolo, c’era un caminetto nel quale scoppiettava un bel fuoco. E, come risvegliato dal gioco di Pennello Foglio e Gialloluce, dalle mille scintille del fuoco uscì con un balzo un folletto tutto rosso, molto molto chiassoso, che con salti e capriole si avvicinò all’allegra compagnia dicendo: “Ciao! Finalmente! Io sono Rossobrucio, mi fate giocare con voi?”

 

“Vieni!” gli rispose Gialloluce, “diventeremo amici!”

tutorial:

Come se si conoscessero da sempre, Rossobrucio e Gialloluce cominciarono a cantare e ballare con Foglio e Pennello, ed ora Foglio non aveva proprio più niente dell’aspetto triste e solitario che aveva all’inizio… anzi, ad un certo punto cominciò a sentirsi fin troppo allegro: “Brucio! Scotto!” cominciò a gridare, “Fate qualcosa!”

E improvvisamente apparve una nuova amica. “Ciao Foglio!” disse, “Mi chiamo Fatarancio e compaio ogni volta che Gialloluce e Rossobrucio si incontrano. Non resisto, non c’è niente da fare! Quando li vedo insieme, devo fare anch’io i miei saltelli con loro!”

tutorial:

“Ciao Fatarancio!” dissero tutti gli amici in coro, “Benvenuta!”. E Pennello, un po’ preoccupato per l’amico Foglio che continuava a sentirsi scottare, chiese: “Tu che sei nuova, non sai mica se esiste qualcuno che possa portare un po’ di fresco?”

“Mmh…” rispose Fatarancio, “qui ci sarebbe bisogno di qualche spiritello lunare di mia conoscenza… Gialloluce, mi presteresti il tuo carro?”

E Fatarancio si mise in viaggio. Arrivata sulla luna, cercando di sopportare meglio che si poteva il gran freddo che regnava là intorno, chiese con gentilezza: “Dolce Luna, mi manderesti una delle tue ragazze sulla terra? Rosso e giallo si sono incontrati, e se non dai una mano, un caro amico passerà dei guai…”

 

Alla luna piaceva poter dare una mano, quando si presentava l’occasione, e mandò in missione Fatacielo: una fatina tutta vestita di blu leggero e pietre preziose e cristalli, che portava sempre nella sua borsetta un soffio di gelo.

tutorial:

Arrivate da Foglio, Fatacielo si mise a ballare con gli altri, e mentre ballava aprì la sua borsetta e i veli del suo vestito si gonfiarono a onde facendo mille giochi… piano piano le fiamme si calmarono e come per magia comparve un nuovo amico:  il folletto Violabenedetto! Amicizia e gratitudine erano ovunque.

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Una storia per il compleanno

Una storia per il compleanno – Un adattamento (molto alleggerito) di una storia  di ispirazione steineriana per il compleanno…  purtroppo non conosco la fonte originale. 

Giovanni abitava in una casa tutta luce: una stella. Viveva là con molti altri bambini, e insieme giocavano mille giochi sulle nuvole. La sera, stanchi, rientravano nella Casa d’Oro e mangiavano il pane delle stelle, e non serviva dormire perchè quel pane era il miglior riposo che si possa immaginare.
Tutti i giorni erano belli lassù, ma tra tutti uno fu per Giovanni davvero speciale: il giorno in cui incontrò il suo angelo. Era bellissimo. Quel giorno Giovanni aveva visto una nuvola molto diversa da tutte le altre avvicinarsi alla Casa d’Oro, e su quella nuvola c’era proprio lui. Era ancora lontano, ma già Giovanni pensava: “Che bello che è, e mi vuole bene…”
Quel giorno così si incontrarono e si riconobbero, e da allora i giochi sulle nuvole diventarono anche più divertenti.

Quando era il momento il Signore della Casa d’Oro chiamava uno dei bambini e lo faceva entrare nella stanza del trono, e così anche Giovanni un giorno si trovò davanti al Signore, che gli disse: “Caro Giovanni, è già da un bel po’ che sei qui con me nella Casa d’Oro. Ora mi piacerebbe mandarti sulla Terra, cosa ne pensi?”
“Oh, no!” disse Giovanni, “Io sto bene qui, e mi diverto un sacco col mio angelo e con tutti i miei amici… voglio restare sempre qui!”
“Lo so, Giovanni,” disse sorridendo il Signore, “ma vedi, laggiù sulla terra ci sono delle persone che ti stanno aspettando e che hanno davvero molto bisogno di te. Vorrei mandarti da loro, e mi piacerebbe che laggiù tu raccontassi di noi, della Casa d’Oro, dei giochi sulle nuvole e del pane delle stelle. Ascolteranno solo te, e solo tu puoi farlo…”
“D’accordo… va bene…” rispose allora Giovanni, “io ci andrò, ma soltanto se il mio angelo potrà venire con me!”
Molti altri giorni trascorsero tra i mille giochi sulle nuvole, infine una mattina l’angelo si avvicinò a Giovanni su di una nuvola più grande e densa delle solite, con un piccolo carretto dorato al suo fianco, dicendo: “Ora ti farò visitare tutti quei regni che fino ad ora hai visto solo da lontano, e riceverai tantissimi regali. Ecco a cosa serve il carretto!”
Ed insieme partirono per il loro lungo viaggio verso la terra.

La nuvola speciale si avvicinò al primo regno, tutto profumi e trasparenze blu. Giovanni in questo regno camminava senza nessuna fatica, come spinto gentilmente da un venticello azzurro e leggero, e presto si trovò davanti al signor Saturno, seduto sul suo trono blu e avvolto in una bellissima luce blu e nel suo meraviglioso mantello, naturalmente blu, e trapuntato di stelle. Quando il signor Saturno lo vide, aprì le braccia sorridendo, e lo invitò ad avvicinarsi.
“Caro Giovanni” disse, “benvenuto! So che stai andando sulla terra, e mi piacerebbe darti qualcosa che possa aiutarti a non dimenticare mai che sei luce di stella”. Così dicendo, tagliò un lembo del suo mantello, quel che serviva a farne uno per Giovanni, e glielo mise sulle spalle.
E gli regalò anche un piccolo scettro da re, tutto d’oro, dicendo: “Questo ti aiuterà a dare la giusta misura ad ogni cosa, e vedrai! Ti servirà molto, una volta sulla terra…”

La nuvola poi si avvicinò al secondo regno, che sembrava fatto di fiori arancioni piccoli come calendule. Il signore di questo regno, Giove, sedeva su un trono arancione e aveva una lunga barba bianca e in testa una corona a dodici punte. Sembrava molto serio e pensieroso, ma accolse comunque Giovanni con gioia e calore.
“Caro Giovanni, che piacere vederti!” disse, “stai andando sulla terra, vero? Sarà bene darti un po’ di saggezza prima che tu arrivi laggiù, perchè sai essere figlio degli uomini può essere più complicato che essere luce di stella!”
Il signor Giove mise allora sulla testina di Giovanni una piccola corona d’oro, e aggiunse: “Se laggiù ti dovessi trovare in difficoltà, pensami e io ti darò la saggezza che ti serve: brillerà sul tuo capo come una corona, e tu saprai cosa fare…”

Il terzo era un regno tutto rosso, e a differenza del regno blu e del regno arancione, non era fatto solo di trasparenza e profumo, ma ci si poteva anche camminare sopra. Il signore di questo regno, Marte, indossava una bellissima armatura e aveva al suo fianco una pesante spada di ferro. Giovanni lo vide avvicinarsi a lui sorridente, e lo trovò bellissimo.
“Ciao, Giovanni!” disse Marte, “Ma, …come farai ad arrivare sulla terra leggerino come sei? Avvicinati…”
Il cavaliere lo abbracciò e, subito Giovanni si sentì forte, molto forte. Poi gli regalò una piccola spada di ferro, simile alla sua.

Ripreso il viaggio sulla nuvola, con l’angelo sempre con lui e tutti i doni ricevuti, i due videro davanti a loro il quarto regno, ma non poterono avvicinarsi troppo. Era un regno troppo luminoso e caldo per loro.
Il signore di questo regno, che si chiamava Sole, mandò presto a Giovanni un suo messaggero, un angelo imponente e tutto vestito d’oro. Il messaggero gli diede il dono scelto per lui dal signor Sole: una spilla d’oro. Quando la indossò, per la prima volta potè sentire il battito del suo cuore.

Il quinto regno era di soffice verde, così calmo e accogliente che veniva voglia di tuffarcisi dentro e starsene lì a farsi coccolare. Venere, la regina di questo regno, fu davvero felice di vedere Giovanni. “Che piacere averti qui, caro!” disse, “Sento il tuo cuoricino battere, devi già essere stato dal signor Sole! Voglio proprio aggiungere il mio piccolo regalino al suo!”.
E così dicendo diede a Giovanni una scatolina, che conteneva tantissime piccole boccettine, tutte diverse tra loro per forma e colore. Una meraviglia!
“Prendi!” disse “dal tuo cuore alle tue mani! Con queste potrai regalare agli uomini che incontrerai sulla terra il tuo aiuto. Possono aiutare chi è triste, chi è sfortunato, chi ha paura… insomma ce n’è per ogni guaio e per ogni disgrazia, se vorrai…”

Il sesto era un regno tutto giallo, e prima di scendere dalla nuvola l’angelo disse: “Speriamo bene! Qui il signore è un certo Mercurio, e capirai! Ha l’incarico di fare il messaggero di tutto il cielo, e trovarlo in casa è un miracolo!”
Infatti dovettero aspettare un bel po’, ma quando finalmente fece ritorno, anche lui diede a Giovanni il suo dono, anzi gliene diede addirittura tre.
“Giovanni, eccoti finalmente!” disse, “Vedi? Io ho queste ali sulle spalle, sono il messaggero e mi servono a fare tutte le mie consegne, ovunque e a tutta velocità… così ho pensato che anche tu potrai fare come me, una volta sulla terra.”
Il signor Mercurio diede un piccolo bacio a Giovanni: “Ora hai Parola e Pensieri…ma prendi anche questa, ti sarà indispensabile”, e mise tra le sue mani una piccola bilancia. E subito ripartì per altre consegne.

Lasciando il regno giallo del signor Mercurio, il cielo cominciò a scurirsi e la nuvola li portò nel settimo regno, il regno della signora Luna.
Questa misteriosa e bellissima regina stava seduta sul suo trono e sembrava proprio lì ad aspettarli. Era tutta bianca e argento splendente, aveva un sorriso buono e luminoso, e teneva tra le mani uno stranissimo oggetto, che Giovanni non aveva mai visto prima.
“Ma che bello che sei!” disse “Col tuo mantello, la corona, la spada e tutto il resto … dovresti proprio vederti!”
“Ma io so chi sono, signora” disse Giovanni senza capire.
“Oh, certo…” rispose dolcemente la signora Luna “…sei Giovanni. Ma non ti sei mai visto… avvicinati ancora un po’, guardati…”, e così dicendo porse a Giovanni l’oggetto misterioso e sconosciuto che teneva tra le mani: un piccolo specchio.
Giovanni era estasiato, non riusciva a distogliere lo sguardo dallo specchio, e finì con l’addormentarsi placidamente tra le braccia della signora Luna.
L’angelo, che si trovava a pochi passi da lui, sorrise amorevolmente e insieme alla signora Luna portò sulla terra tutti i doni che Giovanni aveva ricevuto lungo il viaggio, perchè sapeva che lui da solo non avrebbe potuto farcela. Lì sulla terra li avrebbe ritrovati tutti.
Poi prese Giovanni in braccio e insieme tornarono sulla loro nuvola, per proseguire il loro viaggio.

Quando Giovanni si svegliò sulla sua nuvola, si sentiva benissimo. Sapeva che tutti i suoi doni lo stavano aspettando sulla terra, e che una meravigliosa avventura stava per cominciare. Sentiva di essere atteso e desiderato, ed era solo impaziente di arrivare.
La nuvola si fermò davanti ad una grande porta, Giovanni la aprì, e vide davanti a sè un lunghissimo ponte. Scese dalla nuvola e cominciò a camminare; il suo angelo era sempre un passo dietro di lui, anche se ora non poteva vederlo. Lontana brillava una piccola luce, e Giovanni cominciò a correrle incontro, e la luce diventava sempre più grande. Era felice.
Si accorse di essere arrivato quando la luce lo avvolse completamente e si ritrovò in una casetta piccola piccola, sì, ma con due graziose finestrelle da cui guardare il mondo. Mamma Claudia e papà Paolo l’avevano preparata per lui, proprio per lui, con tanto amore.
Si era sul finire dell’estate e in quella giornata di settembre stavano lì a guardarlo ammirati, insieme al piccolo Giacomo e alla piccola Sara, i suoi fratellini.
Da quel giorno sette anni sono trascorsi…
… felice compleanno, Giovanni!

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Racconti per Capodanno

Racconti per Capodanno – una raccolta di racconti, di autori vari, per bambini della scuola d’infanzia e primaria.

L’aeroplano sconosciuto

-Comandante, un aeroplano sconosciuto chiede di atterrare.-
-Un aeroplano sconosciuto? E come è arrivato fin qui?-
-Non so, comandante. Noi non abbiamo avuto alcuna comunicazione. Dice che sta per finire il carburante e che atterrerà anche se non glielo permettiamo. Uno strano personaggio, comandante.-
-Strano?-
-Un po’ pazzo direi. Un momento fa lo sentivo ridacchiare nella radio: “Tanto, nessuno mi può fermare…”
-Ad ogni modo facciamolo scendere, prima che combini qualche guaio.-
L’apparecchio atterrò sul piccolo campo d’aviazione, alla periferia della capitale, alle ventitrè e ventisette precise. Mancavano trentatre minuti alla mezzanotte. Già, ma non a una mezzanotte qualunque, bensì alla mezzanotte più importante dell’anno. Era la sera del 31 dicembre e in tutto il mondo milioni di persone vegliavano in attesa dell’anno nuovo.

L’aviatore sconosciuto balzò a terra agilmente e subito cominciò a dare ordini: -Scaricate i miei bauli. Sono dodici, fate attenzione. Mi occorreranno tre tassì per trasportarli. Qualcuno può fare una telefonata per me?-
-Forse sì o forse no- rispose per tutti il comandante del campo, -Prima si dovranno chiarire alcune cosette, non le pare?-
-Non ne vedo la necessità- disse l’aviatore, sorridendo.
-Io però la vedo- ribattè il comandante, -La prego, intanto, di mostrarmi i suoi documenti personali e le carte di bordo.-
-Mi dispiace ma non farò nulla del genere-. Il suo tono era così deciso che il comandante fu lì lì per perdere la calma.
-Come vuole- disse poi, -ma intanto abbia la cortesia di seguirmi-.
L’aviatore si inchinò. Al comandante parve che l’inchino fosse piuttosto esagerato. “Che voglia prendermi in giro?” pensò, “Ad ogni buon conto, dal mio aeroporto non uscirà con quelle arie da padrone del vapore”.
-Guardi- diceva intanto il misterioso viaggiatore, -che sono atteso. Molto, molto atteso.-
-Per la festa di mezzanotte, immagino?-
-Appunto, comandante carissimo-
-Io invece, come vede, sono di servizio e passerò la notte di Capodanno all’aeroporto. Se lei insisterà a non volermi mostrare i documenti, mi terrà compagnia.-
Lo sconosciuto (erano intanto entrati insieme in una saletta del campo), si accomodò in una poltrona, si accese la pipa e rivolgeva intorno occhiate curiose e divertite.

-I miei, documenti? Ma lei ne è già in possesso, comandante-
-Davvero? Me li ha infilati in tasca con un giochetto di prestigio? E adesso mi caverà un uovo dal naso e un orologio da un orecchio?-
Per tutta risposta lo sconosciuto indicò il calendario dell’anno nuovo, che pendeva dalla parete dietro una scrivania, aperto alla prima pagina.
-Ecco i miei documenti, prego. Sono il Tempo. Nei miei dodici bauli ci sono i dodici mesi che dovrebbero avere inizio tra… vediamo un po’… tra ventinove minuti precisi.-
Il comandante non si scompose.
-Se lei è il Tempo- disse -io sono un aviogetto. Vedo che le va di scherzare. Benissimo, mi terrà allegro. Le dispiace se accendo il televisore? Non vorrei perdermi l’annuncio della mezzanotte.-
-Accenda, accenda. Ma non ci sarà nessun annuncio, fin che lei mi trattiene.-
Sul teleschermo era in corso uno spettacolo di canzoni e arte varia. Di quando in quando una graziosa presentatrice consultava un grande orologio appeso dietro l’orchestra, proprio sulla testa del batterista, e annunciava: “Mancano ventidue minuti…”
L’aviatore sconosciuto pareva divertirsi un mondo allo spettacolo. Canterellava, batteva il piede a tempo con l’orchestra, rideva di cuore alle battute dei comici…
-Un minuto a mezzanotte- sorrise il comandante, -mi dispiace di non poterle offrire lo spumante. In servizio io non bevo mai.-
-Grazie, ma lo spumante non serve. Da questo momento il tempo cesserà di scorrere. Dia un’occhiata al suo orologio-
Il comandante obbedì meccanicamente. Guardò il quadrante, si accostò il polso all’orecchio. “Strano” pensò, “l’orologio cammina, ma la sfera dei secondi si è guastata e non gira più…”
Egli cominciò mentalmente a contare i secondi. Ne contò sessanta, poi tornò a guardare l’orologio: le sfere erano sempre ferme sulla mezzanotte meno un minuto. Anche sul grande orologio del teleschermo le sfere erano immobili. L’annunciatrice, con un sorriso un po’ imbarazzato, stava dicendo: “Sembra che ci sia un piccolo guasto…”
Musicisti, cantanti, comici, spettatori, come per un segnale, cominciarono a scrutare i loro orologi, a scuoterli, ad accostarseli all’orecchio, con aria sorpresa. In breve tutti si convinsero che le sfere non si muovevano più.
-Il tempo si è fermato- gridò qualcuno, scherzando. -Forse ha bevuto troppo spumante e si è addormentato prima della mezzanotte.-

Il comandante dell’aeroporto gettò uno sguardo allarmato sullo strano forestiero, il quale, dal canto suo, gli sorrise educatamente.
-Ha visto? Colpa sua.-
-Come sarebbe… colpa mia…- balbettò il comandante.
-Non è ancora convinto che io sia il Tempo? Guardi quella rosa- (ce n’era una sulla scrivania, freschissima. Al comandante piaceva tenere qualche fiore in ufficio) -Vuol vedere che cosa le succede, se la tocco?-
Lo sconosciuto si avvicinò alla scrivania, soffiò delicatamente sulla rosa: i petali caddero tutti insieme, avvizziti, secchi, si sbriciolarono, non furono più che un mucchietto di polvere…
Il comandante balzò in piedi e si attaccò al telefono…

Pochi minuti dopo la telefonata del comandante al ministro, già tutti sapevano, in America come a Singapore, in Tanzania come a Novosibirsk, che il Tempo era stato fermato in un piccolo aeroporto, perchè privo di documenti. Milioni di persone che aspettavano la mezzanotte per stappare lo spumante ruppero il collo delle bottiglie per fare prima, e si scambiarono brindisi entusiastici. Cortei festosi percorrevano le strade di Milano, Parigi, Ginevra, Varsavia, Londra, Eccetera: scrivendo Eccetera con la maiuscola vogliamo indicare tutte le città che non ci sarebbe possibile nominare una per una.

-Evviva!- gridava la gente, in tutte le lingue.
-Il tempo si è fermato! Non invecchieremo più! Non moriremo più!-
Il comandante dell’aeroporto passava il tempo al telefono. Lo chiamavano da ogni parte del mondo per dirgli:
-Lo tenga stretto!-
-Gli metta le manette!-
-Gli tiri il collo!-
-Gli metta un sonnifero nel bicchiere!-
-Macchè sonnifero: veleno per i topi, di deve mettere!-

Il ministro aveva avvertito i suoi colleghi. Una riunione del consiglio dei ministri era in corso. L’ordine del giorno: “Misure da prendere. Bisogna tramutare il fermo del Tempo in arresto o liberarlo?”
Il ministro dell’Interno tuonava: -Liberarlo? Mai non sia! Se cominciamo a lasciare andare in giro la gente senza documenti, siamo fritti in padella. Questo signore ci deve dire nome, cognome, paternità, luogo di nascita, domicilio, residenza, nazionalità, numero di passaporto, numero delle scarpe, numero del cappello; ci deve mostrare il certificato di vaccinazione, quello di buona condotta, il diploma di quinta elementare, la ricevuta delle tasse. E poi, ha ben dodici bauli: ha pagato dogana? Si rifiuta di aprirli: e se ci avesse dentro delle bombe?-
Il ministro aveva settantadue anni: capirete che aveva ogni interesse a tener fermo l’orologio…
I ministri decisero di chiedere il parere alle Nazioni Unite. Alle Nazioni Unite, a quell’ora, c’era soltanto il portiere: tutti i delegati erano in giro a far festa.

-Quanto ci vorrà per riunire l’assemblea?-
-Una quindicina di giorni. Però, se il tempo non passa, non passano neanche i quindici giorni e l’assemblea non si può riunire.-
Anche questa notizia fece il giro del mondo, contribuendo ad accrescere l’allegria generale.
Dopo un po’…
Ecco, veramente questa frase non si potrebbe scrivere: se il tempo era fermo, la parola “dopo” non aveva più senso.
Diciamo che un bambino, svegliato dal fracasso e messo al corrente dell’accaduto, sommò due più due e cominciò a protestare: -Cosa? Sarà sempre adesso? Allora io non diventerò più grande? Devo prendere per tutta la vita gli scapaccioni del babbo? Devo continuare a risolvere problemi di pizzicagnoli che comprano l’olio e si fanno calcolare dai bambini delle scuole la spesa e il ricavo? Ah, no, grazie tante! Io non lo accetto!-
Anche lui si attaccò al telefono, per dare l’allarme ai suoi amici.
I bambini non vollero sentir parole. Si infilarono il cappotto sul pigiama e scesero anche loro per le strade a fare il corteo. Ma le loro grida e i loro cartelli erano ben diversi da quelli degli altri cortei:
-Liberate il tempo!- dicevano.
-Non vogliamo restare sempre dei marmocchi!-
-Vogliamo crescere!-
-Io voglio diventare ingegnere!-
-Io voglio l’estate per andare al mare!-
-Incoscienti!- commentava un passante, -in un momento storico come questo pensano ai bagni di mare.-
-Però- riflettè un altro passante, -su un punto almeno hanno ragione: se il tempo non passa più, sarà sempre il trentun dicembre…-
-Sarà sempre inverno…-

-Sarà sempre mezzanotte meno un minuto! Non vedremo più spuntare il sole!-
-Mio marito è in viaggio- sospirò una signora, -come farà a tornare a casa, se il tempo non passa?-
Un malato nel suo letto si lamentava: -Ahi, ahi! Doveva fermarsi il tempo proprio mentre avevo il mal di testa?-
Un carcerato, aggrappato alle sbarre della sua prigione, si domandava accorato: -Non riavrò più la mia libertà?-
I contadini borbottavano: -Qua, col raccolto, si mette male… Se non passa il tempo, se non torna la primavera, gelerà tutto… Non avremo niente da mangiare-
Insomma, il comandante dell’aeroporto cominciò a ricevere telefonate allarmate:
-Beh, lo lasciate andare sì o no? Io aspetto un vaglia, me lo manda lei, se il tempo non può passare?-
-Comandante, per favore, liberi il Tempo: abbiamo un rubinetto che perde, e se non viene domattina non possiamo chiamare l’idraulico-
Il Tempo, allungato sulla sua poltrona, continuava a fumare la sua pipa, sorridendo.
-Cosa devo fare?- protestava il comandante, -Uno la vuole bianca, l’altro la vuole nera… Io me ne lavo le mani. Io la lascio andar via…-
-Bravo, grazie.-

-Ma così, senza ordini superiori… Capisce che ci rimetto il posto?-
-E allora mi tenga qui. Io ci sto benissimo.-
Un’altra telefonata:
-E’ scoppiato un incendio! Se non passa il tempo non arrivano i pompieri! Brucerà tutto! Bruceremo tutti! Abbiamo in casa vecchi e bambini… non può fare niente, comandante?-
Il comandante, a questo punto, picchiò un pugno sulla scrivania.

-Bene, succeda quel che vuol succedere. Mi prenderò questa responsabilità. Se ne vada, lei è libero.-
Il Tempo balzò in piedi: -Permetta che le stringa la mano, comandante. Conoscerla è stato un vero piacere-.
Il comandante aprì la porta: -Se ne vada, presto, prima che io cambi idea!-
Il Tempo uscì dalla porta. Le sfere degli orologi ricominciarono a muoversi. Sessanta secondi più tardi scoccò la mezzanotte, scoppiarono i fuochi artificiali. Il nuovo anno era cominciato.

G. Rodari

Racconti per Capodanno

Capodanno

Nelle vallate del comasco usavano, una volta, la notte di Capodanno, appendere alla porta dei casolari un bastone, un sacco e un tozzo di pane.
Ecco il perchè.

Molti anni fa, al tempo dei tempi, e precisamente nella notte di San Silvestro, padron Tobia stava contando il proprio gruzzolo in un angolo della sua capanna, quando bussarono alla porta. L’avaro coprì con un gabbano i suoi ducati e andò ad aprire.
Una folata d’aria gelida e di neve lo colpì in viso. Era una notte d’inverno.
Sotto la tormenta, nel nevischio, egli vide un pover’uomo che si reggeva a stento e che non aveva neppure un cencio per mantello. Padron Tobia fu molto contrariato da quella visita e domandò bruscamente allo sconosciuto: -Che fate qui? Che volete? Chi siete?-
-Sono un povero viandante sperduto e sorpreso dalla bufera, e vi chiedo in carità di poter dormire nel vostro fienile-

-Io non lascio dormire nessuno nel mio fienile. Andate, andate. Non posso far nulla per voi!-
-Datemi almeno un tozzo di pane-
-Non ho pane, andate!-
-Datemi un sacco, un cencio da mettermi al collo, che muoio di freddo!-
-Non ho sacchi! Non ho cenci!-
-Almeno una fiaccola per ritrovare il sentiero… un bastone per appoggiarmi…-
-Non ho fiaccole e non ho bastoni!-
E, chiuso l’uscio in faccia all’infelice, Tobia ritornò al suo gruzzolo, ma… sotto il gabbano, invece dei ducati, trovò un pugno di foglie secche…
Padron Tobia impazzì e terminò i suoi giorni vagando per le vallate natie e raccontando a tutti la sua disgrazia. Da allora in poi la notte di Capodanno tutti appesero alla porta del proprio casolare un bastone, un sacco e un tozzo di pane.
(leggenda comasca)

Racconti per Capodanno 

Il castello dei dodici mesi

C’era una volta un omino gentile ed educato che si chiamava Faustino. Tanto lui era perbene, quanto suo fratello era sgraziato e villano, tanto che la gente lo chiamava Rusticone.
Un giorno Faustino andò a cercar fortuna, e si mise per il mondo. Una volta, però, perse la strada e si trovò in un bosco fitto. Era buio e Faustino non si sentiva affatto tranquillo. Vide tra gli alberi un castello illuminato e pensò di chiedere ospitalità.

Bussò e un servitore lo fece entrare. Il castello era abitato da dodici signori, che accolsero gentilmente Faustino e lo fecero accomodare. I dodici signori appartenevano tutti alla stessa famiglia, ma non si somigliavano affatto. Poichè era l’ora di cena invitarono Faustino alla loro tavola.
Mentre mangiavano, uno di questi signori, guardando la pioggia che cadeva a dirotto disse: “Che brutto mese dicembre!”
“No, perchè?” replicò Faustino, “Anche l’acqua ci vuole e bisogna pure che la terra beva in inverno se vuole fiorire in estate…”

“Non dirai però che sia bello anche gennaio?” disse un signore che aveva una lunga barba bianca.
“Sotto la neve pane, signore mio! Non lo sapete?”
“Ma… febbraietto… corto e maledetto?” replicò un omino piccino che non arrivava nemmeno alla tavola, “Lo dice anche il proverbio!”
Seguì un coro di voci: tutti avevano la loro da dire. Marzo e aprile erano matti; maggio, il pane era scarso perchè la campagna ancora non dava frutto; giugno, mosche a pugno; luglio, dava fastidio per via del caldo; agosto poi meglio non parlarne, un’afa da non poter respirare; anche settembre aveva i sui difetti per le variazioni del clima ora caldo ora freddo, e Dio ci guardi da ottobre novembre e dicembre: pioggia, neve e gelo e chi più ne ha, più ne metta.

Ma, neanche a farlo apposta, Faustino pareva l’avvocato difensore di tutti i mesi dell’anno. Per lui, febbraio era quello che preparava le sorprese sotto terra; marzo il gentile portatore della primavera; aprile maggio e giugno i più bei mesi dell’anno; per non parlare del luglio che riempiva i granai. Agosto e settembre davano frutta in abbondanza; ottobre riempiva i tini; novembre era un mese benedetto per le semine. Dicembre poi, il mese più felice dell’anno per i doni che portava in occasione delle feste. Tutti, per Faustino, avevano il loro lato bello.
“Se la provvidenza li ha fatti così, vuol dire che così dev’essere!”
E quei signori sembrarono proprio contenti delle parole di Faustino che gli regalarono una bisaccia dicendo: “Ogni volta che l’aprirai, ne uscirà tutto quello che desideri!”

Figuratevi la rabbia di Rusticone, quando vide la fortuna capitata al fratello… Si fece raccontare tutto per filo e per segno, poi si mise in cammino verso il castello dei dodici signori.
Fu ricevuto gentilmente, ma quando cominciò a parlare di mesi, apriti cielo! Rusticone diceva male di tutti. Gennaio faceva morire di freddo i poveretti, febbraio faceva tremare, marzo era il mese dei raffreddori, aprile ogni giorno un barile… trovò persino il coraggio di dir male di maggio e giugno! Di luglio e agosto si lamentò per il caldo, settembre gli dava noia per via delle zanzare, rimproverò a ottobre di favorire gli ubriachi come se fosse colpa sua se gli uomini bevevano troppo; novembre era il peggiore di tutti i mesi perchè lui soffriva di reumatismi e quel mese glieli peggiorava, e infine dicembre era un mesaccio per la nebbia e per il gelo.
“Dunque, non ti piace nessun mese dell’anno?” chiese il signore più vecchio.
“Per me non ce n’è uno che faccia il suo dovere!”

“Bene!” dissero, e gli regalarono un nodoso bastone dicendo: “Battilo contro una pietra quando ti occorrerà qualcosa, e vedrai…”
Rusticone, tutto contento, se ne andò senza neppure ringraziare. Appena fuori battè il bastone sopra una pietra e questo cominciò a dargli tante botte fino a fargli gridare: “Mi piace gennaio! Mi piace febbraio!” e giù fino in fondo all’anno…
… e soltanto allora il bastone si fermò.

Mimì Menicucci

 

Racconti per Capodanno

La diligenza dei dodici mesi

C’era un freddo secco, pungente: la neve scricchiolava sotto i piedi, tutto il cielo risplendeva di stelle. Una diligenza si arrestò alla porta della città, e i viaggiatori si presentarono alla dogana.
-Io mi chiamo Gennaio- disse il primo: era rosso in viso e lieto, con una bella barba bianca, -Buon anno a voi! Venite da me domani, avrete un bel regalo e poi faremo festa. Io amo le feste, le mance e i doni, e per questo molti sperano in me: buona fortuna a tutti voi!-
Il secondo viaggiatore pareva un buontempone, e per bagaglio aveva un grosso barile: -Quando c’è questo- diceva, -non c’è pericolo che manchi l’allegria. Voglio che il prossimo si diverta e mi piace divertirmi anch’io, visto che ho poco tempo: solo ventotto giorni. Ma non m’importa, evviva!-
-Non faccia chiasso, per favore!- disse il doganiere.

-Badi a come parla!- gridò il vaggiatore, -Io sono il principe Carnevale, e viaggio in incognito col nome di Febbraio.-
Scese allora il terzo viaggiatore. Era magro quanto la quaresima, poverino, ma si dava un sacco di arie, forse perchè era astrologo e sapeva predire il tempo: portava all’occhiello un mazzolino di violette, piccole piccole e pallidine.
-Ehilà, professor Marzo!- gridò il viaggiatore che era sceso dopo di lui, -Di là c’è uno scatolone per te, credo che sia un uovo di Pasqua.-

Però non era vero niente: il quarto viaggiatore era un gran burlone, ecco tutto. Chi sia, lo potete immaginare.
Portava a spasso mezza dozzina di pesci in carta d’argento: il suo nome era Aprile. Era un tipo strano: un po’ si comportava da allegrone come vi ho detto, ma poi si metteva a piangere senza una ragione al mondo: un po’ sole, e po’ pioggia.
-In questa valigia- diceva, -ho i miei vestiti d’estate, ma non sono tanto sciocco da mettermeli, gente. Una bella sciarpa di lana, ecco quel che mi ci vuole, ma più di tutto un buon ombrello; l’ho inventato io, l’ombrello…-
Dopo di lui scese una ragazza, si chiamava Maggio, e aveva un vestito leggero, verde pastello, con le maniche corte. Al braccio, però, portava un impermeabile. Maggio aveva nei capelli un mazzolino di fiori. Come le stava bene, e com’era carina!
-Dio vi benedica- disse al doganiere, e poi si mise a cantare a mezzavoce. Era molto brava, per quanto non avesse molta scuola; usava cantare per suo piacere, confessò, mentre andava a spasso nei boschi al tempo di primavera.

-Fate largo alla signora Giugno!- disse l’uomo della diligenza. Era una giovane dama, bella e un po’ altera. Era molto ricca, e dava una gran festa nel giorno più lungo dell’anno, in modo che gli ospiti potessero gustare tutti i piatti della sua fornitissima tavola. Da vera gentildonna, aveva una carrozza tutta sua; ma viaggiava in diligenza con gli altri, perchè non dicessero che si dava delle arie. Usava il ventaglio con gran distinzione, e aveva con sè un fratello minore.
Costui era un giovanotto grassottello, in abito estivo e con un gran cappello di panama. Bagaglio ne aveva pochino, in tutto e per tutto un paio di mutande da bagno, che certo non gli erano di ingombro. Appena arrivato andò a sedersi in poltrona, e si tolse la giubba senza nemmeno chiedere permesso alle signore; rimasto in maniche di camicia, trasse un fazzolettone e se lo annodò intorno al collo. Infatti sudava molto, nonostante il freddo.

Mamma Agosto vendeva frutta all’ingrosso, ed era proprietaria di molti ettari di terreno. Grassoccia com’era e per giunta sempre accaldata, sapeva lavorare con le sue mani, quanto e più dei contadini; lei stessa andava nei campi, a mezzogiorno, per mescere ai lavoratori il vino fresco.
Dopo di lei, scese dalla diligenza un noto pittore, Settembre di nome. Tutti lo conoscono, ma i boschi più di ogni altro: sotto il suo pennello le foglie cambiano colore, si tingono di paonazzo e di terra di Siena, che sono i toni che il Professor Settembre predilige. Lui dipinge sul tralcio i grappoli d’uva, e prima di andarsene spreme nel suo boccale il vino nuovo. Quando se ne va, a braccetto con le vacanze, tutti i ragazzi lo rimpiangono.
Lo seguiva un anziano gentiluomo di campagna, il conte Ottobre, robusto nella persona e ben portante. Ottobre è sempre molto occupato con le sue terre, ma ha la passione della caccia. Se ne esce al mattino col suo cane e col fucile, e camminando per i boschi riempie il suo carniere di noci e di castagne. Se sia un buon tiratore non lo so, ma a sentir lui non c’è nessuno che lo superi. Può darsi che le sballi un po’ grosse, da buon cacciatore!

L’undicesimo viaggiatore tossiva da far pietà. Parola mia, non ho mai incontrato nessuno più raffreddato di lui! In altri tempi era assai impegnato a fornir legna per i camini e le stufe; ora, col diffondersi del riscaldamento centrale, un po’ meno. Lui naturalmente se ne lamentava, tra uno starnuto e l’altro. Novembre, così si chiamava, mi parve un buon diavolaccio, ma un tipo allegro no di certo; intorno a sè aveva un alone di nebbia.
Finalmente la diligenza sbarcò l’ultimo viaggiatore, il vecchio nonno Dicembre. Aveva in mano lo scaldino e pareva tutto infreddolito; ma gli occhi gli brillavano come due stelle e recava in mano un vasetto con un minuscolo abete.
-Crescerò questo abete- disse, -perchè il prossimo Natale tocchi con la vetta il soffitto, e l’angelo di carta che sta sulla cima voli giù, e vi si accosti all’orecchio per darvi la buona novella. Arrivederci, e siate buoni!-

Tutte le opere contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. 

Recite per bambini – Mamma Luna e i dodici Mesi

Recite per bambini – Mamma Luna e i dodici Mesi. Personaggi: la Luna, che starà in piedi su una sedia; basterà un disco di cartone bianco tenuto davanti alla faccia; i dodici Mesi, che si distingueranno perchè ciascuno  porterà un oggetto simbolico, come un ombrello, una rosa, ecc…

Luna: Figli miei, io sono la vostra mamma. Mi trovo quassù lontana, ma veglio su di voi e penso al vostro giro sulla terra. Vi chiamo ad uno ad uno coi vostri bei nomi.

Gennaio: sarei curioso di sapere perchè mi chiamo Gennaio.

Luna: ti chiami così da Giano.

Gennaio:  E Giano chi è?

Luna: Hai mai sentito parlare degli antichi Romani? Per ogni fatto, essi immaginavano che ci fosse un dio. E Giano era il dio che, secondo loro, apriva le porte.

Gennaio: (ridendo) Un dio portinaio!

Luna: Proprio così. E anche tu, caro Gennaio, sei un mese portinaio.

Gennaio: Come, come?

Luna: Sì, tu sei il portinaio, perchè apri le porte del nuovo anno. L’anno nuovo non comincia con te?

Gennaio: E’ vero, non ci avevo mai pensato…

Febbraio: E io, perchè mi chiamo Febbraio?

Luna: Tu ti chiami così perchè gli antichi immaginavano un altro dio che lavava e purificava. Si chiamava Febbraio.

Febbraio: Io sarei allora un mese lavandaio?

Luna (sorridendo): Proprio così. Tu lavi con le tue piogge e purifichi col tuo freddo.

Marzo: Anch’io prendo il nome da un dio antico?

Luna: Certo. Ti chiami Marzo dal dio Marte, che era il dio della guerra.

Aprile: E io?

Luna: Tu ti chiami Aprile, che vuol dire aprire. Durante i tuoi giorni si aprono le gemme e comincia la fioritura.

Maggio: Ma i fiori più belli sono i miei!

Luna: Sì, infatti ti chiami Maggio da Maia, la dea dell’abbondanza.

Giugno: La dea Giunone era anche più bella e ricca. E’ vero che il mio nome viene da lei?

Luna: Sì, è vero. Infatti tu sei un mese ricco di raccolti.

Luglio: E il mio nome da quale dio deriva?

Luna: Il tuo nome, caro Luglio, non deriva da un dio, ma da un uomo, Giulio Cesare.

Luglio: Giulio Cesare. Il grande condottiero romano.

Luna: Sì, e un imperatore fu Augusto

Agosto: Ho capito, il mio nome di Agosto deriva da lui.

Luna: L’hai indovinato.

Settembre: Ci voleva poco. Il mio nome è più difficile.

Luna: No, invece è facilissimo. Vuol dire settimo. Tu, anticamente, eri il settimo mese dei Romani.

Ottobre: E io allora era l’ottavo.

Novembre: E io il nono.

Dicembre: E io il decimo.

Luna: Come siete intelligenti!

Gennaio: Ma allora i nostri nomi sono tutti antichi?

Luna: Sì, i vostri nomi sono antichissimi.

Febbraio: E tu come hai fatto a sapere queste cose?

Luna (sorridendo): Oh, io sono vecchia, molto vecchia…

Marzo: Ma c’eri anche al tempo dei Romani?

Luna: Sì, e credevano che fossi anch’io una dea.

Aprile: Davvero? E come ti chiamavano?

Luna: Mi chiamavano come mi chiamo ancora: Luna.

Maggio: E’ un bel nome.

Luna: Tutti i nomi sono belli. Basta portarli con gioia.

(adattamento da B. Bargellini)

Recite per bambini – L’anno nuovo

Recite per bambini – L’anno nuovo. Un vecchio dalla lunga barba bianca sta sprofondando in una poltrona. Un bimbo entra trascinando due valigie…

Bimbo: Permesso?

Vecchio: Avanti, avanti…

Bimbo: Disturbo? Mi perdoni… sono accaldato, con questi valigioni!

Vecchio: Avanti, avanti…

Bimbo: Comodo, prego!

Vecchio: Che ragazzino svelto!

Bimbo: Beh… svelto non lo nego. E ci vuol coraggio a venire fin qua!

Vecchio: Infatti…

Bimbo: Sa? Pesavano…

Vecchio: Ne sono certo.

Bimbo: E che ne sa?

Vecchio: Il vecchio anno che muore ha certo il suo fardello d’esperienze, figliolo. E indovino quello che mi hai portato.

Bimbo: Bene, ne sono lieto e commosso. Mi risparmia, così, di diventare tutto rosso!

Vecchio: Capricci, impertinenze… vero? Bugie… dispetti…

Bimbo: Proprio così.

Vecchio: Tu vuoi guarire dei tuoi difetti, vero?

Bimbo: Sì, certamente. Mamma ne è disperata. Ed io le voglio bene, e l’ho rassicurata che con l’anno nuovo sarò proprio un ometto

Vecchio: Eh… si dice, ma poi…

Bimbo: No, no… glielo prometto.

Vecchio: Mah!

Bimbo: Sì, certo, è difficile. E chi mi aiuterà?

L’anno nuovo (entra allegro e vivace) : Io!

Bimbo: Tu! L’anno nuovo!

L’anno nuovo (all’anno vecchio) : Ciao, nonnino.

Bimbo: Sei davvero simpatico!

L’anno nuovo: Eh, ora sono carino. Poi, man mano invecchio, e buonanotte!

Bimbo: Ad esser bravo e buono, dimmi, mi aiuterai?

L’anno nuovo: Sì, ragazzo bello.

Bimbo: Ho qua due valigione piene di cose brutte…

L’anno nuovo: Io ti do quelle buone (gli porge una valigia). Ma, attento, è molto facile che di qui ti scappino tutte a gran velocità…

Bimbo: E perchè mai?

L’anno nuovo: Perchè è difficile mantenere le promesse.

Il vecchio: Forse è un po’ birichino, ma mi sembra che ne abbia di buona volontà…

Bimbo: E questo è il necessario! Anno nuovo, vedrà!

Zietta Liù

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