Proverbi sui mesi dell’anno – una raccolta di proverbi e detti popolari sui mesi dell’anno, per bambini della scuola d’infanzia e primaria.
Gennaio Non c’è gallina nè gallinaccia che di gennaio l’uovo non faccia. Epifania tutte le feste si porta via. Gennaio asciutto, grano dappertutto. Gennaio ortolano tutta paglia e niente grano.
Febbraio Febbraio asciutto, erba da per tutto. Pioggia di febbraio empie il granaio. Chi vuol di avena un granaio, la semini in febbraio. A Carnevale ogni scherzo vale. A Carnevale, si conosce chi ha la gallina grassa.
Marzo Marzo asciutto e april bagnato, beato il villan che ha seminato. La nebbia di marzo non fa male, quella di aprile toglie il vino e il pane. Di marzo chi non ha scarpe vada scalzo, e chi le ha le porti un po’ più in là. Per l’Annunziata è finita l’invernata. Se marzo non marzeggia, aprile non verdeggia. Se marzo non marzeggia, april mal pensa.
Aprile Aprile, dolce dormire. Aprile freddo: molto pane e poco vino. Aprile temperato non è mai ingrato. Se tagli un cardo in aprile, ne nascon mille. Aprile e maggio son la chiave di tutto l’anno. D’aprile piove per gli uomini e di maggio per le bestie. D’aprile non ti scoprire, di maggio vai adagio. Aprile fa il fiore e maggio gli dà il colore. Aprile dolce dormire, gli uccelli a cantare, gli alberi a fiorire.
Maggio Maggio asciutto e soleggiato, molto grano a buon mercato. Se di maggio rasserena ogni spiga sarà piena, ma se invece tira vento nell’estate avrai tormento.
Giugno
Luglio
Agosto
Settembre
Ottobre Tuono dell’ottobrata, bella e calma l’invernata. Uomo di vino non vale un quattrino. Ottobre piovoso, campo prosperoso. A santa Riparata ogni oliva olivata.
Novembre A novembre si lasciano campi e orti per dedicarsi più ai nostri morti. Di novembre quando tuona è segnal d’annata buona. Novembre bagnato, in aprile fieno al prato. Per santa Caterina, o acqua o neve o brina.
Dicembre Dicembre gelato non va dispezzato. Santa Lucia è il giorno più corto che ci sia. Fino a Natale, il freddo non fa male, da Natale il là, il freddo se ne va. Dolce invernata, poca derrata.
Tutte le opere contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.
Poesie e filastrocche: gennaio. Una raccolta di poesie e filastrocche sul mese di gennaio, di autori vari, per bambini della scuola d’infanzia e primaria.
Gennaio Quello lì che a stento arranca, tetro, livido, ingrugnato, striminzito, infagottato nella sua mantella bianca, è gennaio, il primogenito della bella fratellanza; a ogni passo della danza, batte i denti e manda un gemito. (D. Valeri)
Gennaio Vien gennaio con il saio con il fianco tutto bianco. Viene innanzi il vecchierello, e via caccia il tempo bello. Reca seco giorni brevi, nebbie, venti, ghiacci, nevi. (C. Prosperi)
Gennaio Io sono il primo di dodici figli, tutto vestito di candidi fiocchi, spargo brillanti per campi e per cigli, porto ai camini la festa dei ciocchi. Di ghiaccio e neve ricopro le vette e metto al fuoco le dolci ballate. (O. Coccia)
Gennaio Pensa a gennaio che il fuoco del ciocco non ti bastava, tremavi, ahimè! E le galline cantavano: un cocco ecco, ecco, un cocco, un cocco per te! (G. Pascoli)
Gennaio Entra gennaio e dal mantello grave scuote la neve. Assiso ai focolari narra le vecchie fiabe ai familiari. Il vischio splende, appeso all’architrave. (B. Osimo)
Gennaio Quando nasce nessun mese è così gaio come il piccolo gennaio: lo saluta ancora in fasce, l’allegria di San Silvestro piena d’estro. Del nuov’anno egli è il primo pargoletto, il più atteso, il prediletto, e per questo onor gli fanno e ciascun se lo propizia e lo vizia. Quanto a quello che crescendo saprà fare, quello è invece un altro affare: forse porta, il bricconcello, raffreddori, sdruccioloni e geloni. Strano artista, egli fa sui vetri e i rami candidissimi ricami ed appende, in gaia vista, sulle gronde e sui poggioli i ghiaccioli. Con la gerla dei regali l’accompagna la Befana, una cuccagna! Ma lo segue poi la Merla, che la neve reca e geli più crudeli… Ma si deve confessar, siamo sinceri, che anche il gelo ha gran piaceri: ha battaglie con la neve, slitte, pattini; oggidì fin gli sci. Dunque sia benvenuto, sor gennaio: non ci punga col rovaio, ed il buon esempio dia ai suoi undici fratelli ridarelli! (F. Bianchi)
Gennaio Cerchi il fuoco e porti indosso umor nero, vento e gelo; col tuo sguardo incanti il fosso, col tuo fiato appanni il cielo. Tardi il mondo in te raggiorna, ma la sera assidua cala silenziosa come un’ala sulla terra disadorna. Per il freddo che tu porti prati e boschi sembran morti, ma di sotto la tua neve vita nuova il grano beve. (R. Pezzani)
Gennaio Eccomi qua, bambini, io son gennaio il primo di una lunga compagnia triste, imbronciato, qualche volta gaio voi m’incontrate spesso per la via. Voglio aprirvi un pochino il mio fardello nascosto sotto il candido mantello: ghiaccio, neve contiene, ma in fondo in fondo, c’è come a maggio il raggio più giocondo.
Gennaio Nevica: l’aria brulica di bianco; la terra è bianca, neve sopra neve; gemono gli olmi a un lungo mugghio stanco, cade del bianco con un tonfo lieve. E le ventate soffiano di schianto e per le vie mulina la bufera; passano bimbi; un balbettio di pianto; massa una madre; passa una preghiera! (Giovanni Pascoli)
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Poesie e filastrocche I MESI DELL’ANNO – una raccolta di poesie e filastrocche a tema, di autori vari, per bambini della scuola d’infanzia e primaria.
Mesi Gennaio porta il ghiaccio sul mantello febbraio è corto e porta freddo e neve marzo ha con sè il tempo poco bello aprile vien con fiori ed aria leve maggio ha i fiori e il tempo mite giugno fa biondeggiar le messi d’oro luglio porta i bagni e lunghe gite agosto al contadin porta lavoro settembre mette il vino nelle botti ottobre getta il seme nella terra novembre porta le lunghe notti dicembre abbraccia l’anno e lo sotterra.
L’anno, i mesi e i giorni Io so, bimbo, d’un albero che cresce in tutti i siti, i sami suoi son dodici, di foglie rivestiti. Ad ogni ramo pendule stan trenta foglioline, addentellate al margine da ventiquattro spine. Trapunte d’or, di porpora, sa un verso scintillanti, son nell’opposta pagina oscure e scoloranti. Ed ogni notte staccasi dall’albero una foglia infin ch’ei nudo all’aria rimane di sua spoglia. Ma in quell’istante spuntano le gemme a cento a cento e i rami si ricoprono di nuovo vestimento. Così per anni e secoli quella vicenda dura; e l’albero fatidico del tempo è la misura. (E. Berni)
I dodici fratelli Gennaio vien tremando col cappotto e lo scaldino vien febbraio schiamazzando in costume d’Arlecchino marzo porta vento a iosa, una rondine e due viole porta aprile un pesco rosa che ti desta al nuovo sole maggio canta e da lontano, tre usignoli fanno coro giugno tiene nella mano una spiga tutta d’oro luglio porta ceste piene di susine e pesche bionde porta agosto due sirene che si specchiano nell’onde se settembre si fa bello con tre pampini di vite reca ottobre un gran fardello di castagne abbrustolite poi novembre viene stanco per la nebbia che l’assale vien dicembre tutto bianco con l’abete di Natale. Sono dodici fratelli che si tengono per mano tutti buoni tutti belli, anno nuovo ti aspettiamo. (G. Noseda)
I mesi dell’anno Gennaio porta pasqua epifania, febbraio sciala in maschera per via, marzo per mano tien la primavera, aprile d’ogni verde s’imbandiera. Maggio i giardini sogna delle fate, giugno dispensa l’oro dell’estate, luglio ed agosto nella gran calura godon beati la villeggiatura. Settembre s’affaccenda per il vino, ottobre rompe ricci di castagne, novembre fa canute le montagne, dicembre esulta davanti al Bambino. (I. Drago)
I mesi dell’anno Gennaio mette ai monti la parrucca, febbraio grandi e piccoli imbacucca; marzo libera il sol di prigionia. April di bei color gli orna la via; maggio vive tra musiche d’uccelli, giugno ama i frutti appesi ai ramoscelli; luglio falcia le messi al solleone, agosto, avaro, ansando le ripone; settembre i dolci grappoli arrubina, ottobre di vendemmia empie la tina; novembre ammucchia aride foglie in terra, dicembre ammazza l’anno e lo sotterra. (A. S. Novaro)
I mesi dell’anno Gennaio porta gelo e nevicate, febbraio grandi balli e mascherate, marzo arriva col vento e le viole, aprile ha l’erba per le capriole. Maggio ci dà le rose profumate, giugno le spighe dal bel sol dorate, luglio ha le trebbie e sempre gran lavoro, agosto buone frutta rosse e d’oro. Settembre mette l’uva giù nel tino, ottobre cambia il mosto in un buon vino, novembre butta giù tutte le foglie, dicembre per il fuoco le raccoglie. (O. Turchetti)
I mesi Aprendo la sua porta gennaio tira tira. Febbraio gamba corta, lo segue e gira gira. Va marzo pazzerello col vento nel cestello. E sparge i fiori aprile, sì gaio e sì gentile. Il maggio par che voli fra rondin e usignoli. Poi giugno va beato di spighe inghirlandato. E luglio porta il sacco di candida farina. Agosto ha la sua sporta di frutta sopraffina. S’aggirano settembre e ottobre dentro il tino. E mesto va novembre coi fiori e il lumicino. Dicembre chiude l’anno in una stanza oscura. Ma, furbo, capodanno, vi scopre una fessura. Gennaio fa passare per poi ricominciare il giro giro tondo che dura quanto il mondo. (F. Manisco)
Girotondo di dodici fratelli Girotondo, girotondo! Quanti sono? Una dozzina. La farandola mulina senza posa intorno al mondo. Quello lì che a stento arranca, tetro, livido, ingrugnato, striminzito, infagottato nella sua mantella bianca, è gennaio, il primogenito della bella fratellanza; a ogni passo della danza, batte i denti e manda un gemito. Tien per mano il più piccino della schiera e il più furbetto; febbrarin carnevaletto, detto pure il ventottino. Lo vedete quant’è buffo nel vestito d’Arlecchino, lo vedete il birichino come ride sotto il ciuffo? Un sentore di viole… ecco marzo pazzerello, piedi nudi e giubberello ricci al vento e viso al sole. E’ una gioia rivederlo; e, se a tratti si fa mesto, pur si rasserena presto, e fischietta come un merlo. Si trascina appresso un bimbo dolce, pallido, gentile. Pratolino, ovvero aprile, che di foglie al capo ha un nimbo. Bello e caro quel biondino. Ma più bello e più lucente, ma più caro e più ridente, questo qui che gli è vicino. Maggio, eterno amor del mondo, per guardarti, per goderti, si vorrebbe trattenerti arrestando il girotondo. Lascia almeno che odoriamo le tue rose inebrianti; benedici tutti quanti con quel tuo fiorito ramo! Sei già andato! Ecco al tuo posto sopraggiungere i fratelli tuoi più simili, i gemelli buoni: giugno, luglio, agosto. Nudi sono come l’aria, ma ciascun porta un suo fregio: l’uno un ramo di ciliegio che di frutti ondeggia e svaria, il secondo ghirlandette di papaveri fiammanti; spighe, il terzo, barbaglianti, in manipolo costrette. Bravi e validi figlioli, rosolati al solleone; saltan come in un trescone di gagliardi campagnoli. Ma quest’altro, avviluppato dentro un nuvolo di veli azzurrini come i cieli, è un fanciullo delicato. E’ settembre, occhi di sogno, cuore di malinconia: spande intorno una malia, ch’ha il profumo del cotogno… Malinconica non pare quella faccia rubiconda che vien dopo, ed è gioconda la canzon ch’odo cantare: “Sangue chiaro e sangue fosco dà la vigna, e noi beviamo l’uno e l’altro, e salvi siamo!” Matto ottobre, ti conosco. Ahi, quei due che vengon ora, musi lunghi, brutta cera da ammalati, veste nera ci predicon la malora! Tien novembre un ramo secco all’occhiello del gabbano, e dicembre nella mano più non porta che uno stecco. Nei tasconi del loro saio racan freddo e amare pene… Ma vedete, ora chi viene? Di bel nuovo è qui gennaio… Girotondo, girotondo, sono dodici ragazzi, buoni e tristi, savi e pazzi: e nel mezzo è il vecchio mondo. (D. Valeri)
I mesi dell’anno Gennaio porta il ceppo e la Befana febbraio carnevale e tramontana; marzo le pratoline e le viole; le rondinelle aprile e il dolce sole; salutan maggio gli uccellini in coro; giugno ha tra il fieno lucciolette d’oro; luglio è biondo di grano al solleone; agosto porta frutte dolci e buone; settembre ha l’uva d’oro e di rubino, ottobre poi la pigia dentro il tino; novembre porta i fiori al camposanto, dicembre culla i semi sotto il manto. (E. Bossi)
I mesi dell’anno Vien gennaio freddoloso con la barba di ghiaccioli sotto il ciel cupo e nevoso. I suoi undici fratelli son febbraio, marzo, aprile, maggio, giugno, luglio, agosto, poi settembre il più gentile ed ottobre col suo mosto ed infin novembre brullo e dicembre ultimo nato che riporta nel cuore di ognuno il bambino tanto sognato. Che simpatica famiglia reca sotto il suo mantello! Nessun mese si somiglia e a suo modo ognuno è bello.
I mesi dell’anno Gennaio infreddolito chiamò febbraio intirizzito marzo, il burlone svegliò aprile dormiglione. Maggio aprì i suoi fiori giugno uscì coi suoi colori, luglio portò calura, agosto recò l’arsura, settembre andò al mare e non aiutò ottobre a vendemmiare. Vicino al camino novembre aspettava l’ultimo, dicembre.
I mesi dell’anno Va a sciare il buon gennaio veste in maschera febbraio marzo ha tante rondinelle d’april piove a catinelle con le rose giunge maggio con le spighe giugno il saggio ci fa luglio soffocare si riposa agosto al mare a settembre piace il mosto ha già ottobre a scuola un posto con le nebbie vien novembre gioia e feste canta dicembre.
I mesi dell’anno Dice gennaio: chiudete l’uscio dice febbraio: io sto nel mio guscio marzo apre gli occhi e inventa i colori aprile copre ogni prato di fiori maggio ti porge la rosa più bella giugno ha nel pugno una spiga e una stella luglio si beve il ruscello d’un fiato sonnecchia agosto all’ombra sdraiato settembre morde le uve violette più saggio ottobre nel tino le mette novembre fa di ogni sterpo fascina verso il presepe dicembre cammina.
I mesi dell’anno I bimbi lo sanno che i mesi dell’anno tra grandi e piccini son dodici in tutto. Se ognuno ha il suo fiore se ognuno ha il suo frutto nessuno è tra loro più bello o più brutto. Son tutti fratelli ognuno ha un mestiere chi cura i piselli chi porta un paniere chi pota, chi innesta, chi ara, chi miete, chi porta una brocca di acqua a chi ha sete; chi versa uno scroscio di pioggia lucente. Nessuno sta in ozio guardando la gente. Più bella famiglia nessun vedrà mai. Son dodici mesi, e tutti operai. (R. Pezzani)
Girotondo dei dodici mesi Girotondo sul nevaio con gennaio e con febbraio e per marzo pazzerello girotondo con l’ombrello. Girotondo al campanile con la Pasqua dell’aprile e per maggio ciliegino girotondo col cestino. Giugno ai campi, luglio al mare girotondo da sudare. Fugge ai monti agosto in fretta girotondo sulla vetta. Con settembre ottobre vola girotondo per la scuola e novembre, ecco, è già qui girotondo con gli sci. Poi, vestito di Natale, fa dicembre il gran finale e saluta capodanno girotondo tutto l’anno.
I mesi Cari amici il tempo vola vanno i mesi a malincuore presto giugno mietitore verrà a chiudere la scuola a trovare sotto il sole fra boschetti, prati, aiuole, ecco luglio un po’ monello con agosto suo fratello. Porteranno tanti doni profumati, freschi, buoni! Poi settembre canterino farà festa nel vigneto ed ottobre ancor più lieto pigerà l’uva nel tino. Oh, davvero il tempo vola bimbi miei, si torna a scuola! Di novembre poverello parleranno le castagne poi dicembre vecchiarello stenderà sulle montagne un gran manto di candore darà gioia ad ogni cuore e in un canto di bontà anche l’anno finirà.
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Poesie e filastrocche: Capodanno. Una collezione di poesie e filastrocche, di autori vari, per bambini della scuola d’infanzia e primaria.
Capodanno Filastrocca di Capodanno fanno gli auguri per tutto l’anno: voglio un gennaio col sole d’aprile, un luglio fresco, un marzo gentile, voglio un giorno senza sera, voglio un mare senza bufera, voglio un pane sempre fresco, sul cipresso il fiore di pesco, che siano amici il gatto e il cane, che diano latte le fontane. Se voglio troppo non darmi niente, dammi una faccia allegra solamente. (G. Rodari)
L’anno nuovo Indovinami, indovino tu che leggi nel destino: l’anno nuovo come sarà? Bello, brutto, o metà e metà? “Trovo stampato nei miei libroni che avrà certo quattro stagioni, dodici mesi, ciascuno al suo posto, un carnevale e un ferragosto, e il giorno dopo del lunedì sarà sempre un martedì. Di più per ora scritto non trovo nel destino dell’anno nuovo: per il resto anche quest’anno sarà come gli uomini lo faranno”. (Gianni Rodari)
L’anno nuovo Con il tren di mezzanotte puntualissimo, in orario, ecco il nuovo calendario. E’ arrivato un treno merci con un solo passeggero piccolissimo, ma fiero. Tra gli evviva dei ragazzi l’anno nuovo mostra, gaio, il duo grande bagagliaio, pien di gioia e di dolori, di successi, ed amarezze. Su, ragazzi, son per voi, queste merci, e si vedrà chi ben scegliere saprà. (E. Zedda)
Calendario nuovo Nel chiudo tuo blocco trecento sessanta più cinque foglietti: un libro che sfogliasi lento nel volger di un anno. Puoi dire che cosa ci aspetti nei dì che verranno? Ignoro se belli o se brutti ma so che dipende dall’uomo di far che ogni giorno sia buono. (A. Fucili)
Anno nuovo Anno nuovo! Ed ogni anno una promessa una promessa che per via si perde, e che ogni anno, purtroppo, è ancor la stessa. Si promette, si tenta… Ed io non so, non so capir perchè crescan le gambe ed il giudizio dei bambino no! Ma questa volta, per quest’anno nuovo quello che si promette si farà: a cominciar da oggi mi ci provo, mamma, e il tuo bimbo ci riuscirà. (Zietta Liù)
Anno nuovo Anno nuovo anno nuovo, qui alla porta già ti trovo rechi forse nel cestello un impulso buono e bello? Porti agli uomini l’amore, che riscaldi a tutti il cuore? Anno nuovo non scordare la salute nel tuo andare e la pace porta teco che nel mondo abbia un’eco veglia sempre sui miei cari, serba loro doni rari ed a me concedi, senti, di poter farli contenti Se benigno il volto avrai, benedetto tu sarai.
Buon Capodanno! Buon Capodanno! S’alza il sipario… via il primo foglio del calendario! Sui suoi foglietti scritto che hai, anno che sorgi? Letizia e guai, giornate bianche, giornate nere? No, i tuoi segreti non vo’ sapere; sopra ogni pagina che Iddio mi dona io voglio scrivere: “Giornata buona”. (L.Schwarz)
Auguri per il nuovo anno O mamma e papà, vi porti il nuov’anno salute e tesori senz’ombra d’affanno; vi porti le gioie più pure e serene! Centuplichi il bene che fate per me! (G. Soli)
Capodanno Mezzanotte suonò sopra il villaggio nella placida piazza solitaria: le ore sobbalzarono nell’aria per la tacita notte senza raggio; recava da lontano intanto il vento come un tintinno garrulo d’argento, e pel villaggio solitario errare un trotto di cavalli si sentì. La diligenza a dodici cavalli arrivava con dodici signori, e tutti, presto presto, venner fuori con valige, con scatole, con scialli: e il primo, un vecchio tremulo e bonario: “Benissimo!” esclamò “siamo in orario!” (Andersen)
Lunario Cos’è mai un anno? Un mazzolino di giorni: qualche fiore e qualche spino, fiori di campo, spini della siepe; è il viaggio da un presepe ad un presepe; un volgere di lune in grembo a Dio; un dolce ritrovarsi e dirsi addio; una nube che passa, il sol che torna; pan seminato e pane che si sforna; dodici mesi tra bagnati e asciutti; quattro stagioni cariche di frutti. Su ogni giorno stende il suo sorriso un santo che vien giù dal Paradiso. Così è fatto, mutevole, il lunario e l’anno nuovo l’ha per sillabario e si legge ogni dì fra stella e stella che per chi ama, la vita è bella. (R. Pezzani)
Anno nuovo Salutiamo riverenti il vecchio anno che se ne va col greve suo fardello e fidando muoviamo incontro al nuovo uscente dal mistero tutto bello. Porta al mondo, che tiepido t’aspetta, doni d’amore, di pace, di armonia. E così sia. (E. Minoia)
Felice nuovo anno Nella notte di magia l’anno vecchio scappa via non sei neppure addormentato che uno nuovo è già arrivato bello, ricco di giornate, sia d’inverno, che d’estate. Anno allegro e fortunato sia quest’anno appena nato!
Anno nuovo Ho incontrato per la via un vecchietto tutto bianco camminava curvo e stanco pieno di malinconia. Tristemente ha mormorato “Sono l’anno che è passato”. Saltellando poi veniva un allegro fanciullino e rideva birichino dietro l’anno che finiva; pien di gioia mi ha cantato “Sono l’anno appena nato”.
Anno vecchio ed anno nuovo Tin tin l’orologio rintocca tin tin quanti colpi ha suonato? Tin tin qual è l’ora che scocca? Tin tin qualcheduno ha bussato! Anno vecchio, tin tin, ti saluto! Anno nuovo, tin tin, benvenuto!
Sole d’inverno Capo d’anno: sì mite, e quanto sole! Io già respiro il marzo, in questa luce d’oro che so breve e bugiarda. E rido alla menzogna, ma ne godo e ad essa mi scaldo, come fan pruno e castagno cui rispunta a capriccio qualche gemma nella certezza che morrà domani prima d’aprirsi. Gemme senza fiore sui rami e nel mio cuore, gioia d’un giorno, conscia d’esser viva sol per un giorno! Non importa. E’ gioia. (A. Negri)
Il futuro Il futuro, credetemi, è un gran simpaticone, regala sogni facili a tutte le persone. “Sarai certo promosso” giura allo scolaretto. “Avrai voti lodevoli, vedrai, te lo prometto”. Che gli costa promettere? “Oh, caro ragioniere, di cuore mi congratulo: lei sarà cavaliere!”. “Lei che viaggia in filobus, e suda e si dispera: guiderà un’automobile entro domani sera”. “Lei sogna di far tredici? Ma lo farà sicuro! Compili il suo pronostico: ci penserà il futuro!” Sogni, promesse volano… Ma poi cosa accadrà? Che ognuno avrà il futuro che si conquisterà. (G. Rodari)
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Racconti per l’inverno – una raccolta di racconti, di autori vari, per bambini della scuola d’infanzia e primaria.
La signorina formica Bruna
La signorina formica Bruna è stanca di starsene a dormire tutto il giorno al caldo e al buio sotto terra. “Forse è già primavera… forse c’è già un bel sole tiepido…” ha detto alla vicina formica Rossa, svegliatasi per caso, fra un sonnellino e l’altro. “Ma no!” ha replicato quest’ultima. “Non senti che si bene ancora a dormire sotto terra? La piccola radice piantata proprio nel corridoio d’uscita non ha ancora messo i primi germogli; guarda anche il chicco verde del pisello; proprio ieri è piombato su di noi ed è lì, tutto infreddolito, raggrinzito: quando scoppierà e getterà fuori il suo germoglio, allora sarà tempo di uscire anche per noi.” Ma la signorina formica Bruna non se la sente: scrolla con disprezzo le piccole antenne frementi e si incammina con passo ancora indeciso. “Porta un po’ di sole anche a me!” ha sghignazzato formica Rossa, fra uno sbadiglio e l’altro. C’è freddo, oltre la tana, nella terra nera. Formica Bruna passa sul dorso, morbido come un tappeto, di un talpa in letargo sgattaiola fra un chicco e l’altro, e saluta il pisello raggrinzito; poi si inerpica lungo lo stelo verde di una pianta di grano. Ma man mano che sale sente più freddo. Formica Bruna batte le sei zampette per riscaldarsi, agita le antenne e seguita a salire. Alla fine sbuca fuori. Di sole nemmeno un filo; il cielo è grigio e, miracolo, la terra è tutta bianca e fredda. Bianchi sono i rami nudi degli alberi, e il tetto della casa vicina, e i monti lontani. Tutto questo, veramente, formica Bruna non lo vede, perchè per quanto abbia migliaia di occhi piantati sul capo, è molto miope e non vede che da vicino; ma glielo dice un passero affamato che saltella sul tappeto bianco e che, per amicizia, rinuncia a mangiarsela. Che sospirone di conforto tira fuori la signorina Bruna! Saluta il passero, poi scivola lesta lesta lungo lo stelo verde del grano, non guarda neanche il pisello grinzoso, ripassa a precipizio sul dorso della talpa, s’imbuca nella terra calda, e piano piano, si corica fra le sorelline che dormono buone buone; sbircia la formica Rossa, sbadiglia due volte, poi s’addormenta di colpo.
Nerina Oddi Azzanesi
L’albero addormentato
Un albero si addormentò. Tutti gli alberi s’addormentano quando perdono le foglie e il freddo viene. Ma in genere non sognano mai. Dormono per tutto l’inverno, e a primavera si svegliano. Invece quell’albero, sognò. Gli pareva che nel cielo volassero, lenti, tanti angeli e dalle ali di quegli angeli cadevano le penne. Erano penne bianche e leggere che si posavano sui rami, sulla terra, e sulle siepi. Era un sogno così bello che l’albero si svegliò. Si guardò intorno stupito e vide tutto bianco. Il sogno non era un sogno. Dal cielo continuavano a cadere le penne degli angeli. L’albero rabbrividì di gioia e di freddo. Poi, di colpo, si riaddormentò. A primavera, quando si destò, raccontò il suo sogno a un merlo col becco giallo. Il merlo si mise a ridere. “Sei un vecchio albero, ma sei anche sciocco. Quelle non erano le penne degli angeli, era la neve, una cosa fredda che cade dal cielo!” “Non è vero!” gridò l’albero. Ma poi, quando anche una lucertola gli disse la stessa cosa, dovette crederci. “Va bene” disse al merlo dal becco giallo “Non erano le penne degli angeli, ma tu puoi trovarti un altro albero per fare il nido. Io non ti ci voglio più”. E quell’anno ospitò una coppia di cardellini.
Mimì Menicucci
C’era una volta un omino di neve
C’era una volta un omino di neve. Era venuto su panciuto e candido con un taralluccio per naso, due bottoni per occhi e una pipa in bocca. Quando poi gli misero un cappello tutto sbertucciato in testa, il pupazzo si guardò intorno con arroganza come se fosse il padrone del quartiere. I ragazzi ci giocarono intorno fino a sera e questo lo insuperbì ancora di più, tanto che quando se ne furono andati via, si rivolse al monumento di marmo che sorgeva in mezzo alla piazza e gli disse: “Non crederai mica di essere più bello di me. Io ho perfino la pipa!” La statua, che era quella di un grand’uomo, rise silenziosamente senza provare nemmeno a discutere le sciocchezze che l’omino di neve diceva; ma un passero che, si sa, è un uccellino impertinente, andò a posarsi proprio sul cappello dell’omino e gli pizzicò il naso. “Non mancarmi di rispetto!” strillò il pupazzo “e vattene subito di qui!” Ma il passero non l’ascoltò neppure e invece si accomodò meglio sul cappello dove aveva deciso di passare la notte che si annunciava fredda e rigida. Intanto si era levata la luna e l’omino, per consolarsi, le rivolse la parola dicendo: “Non pare anche a te che io sia una persona importante?” La luna rise col suo faccione largo e splendente e l’omino, imbronciato, decise di non parlare più con nessuno. La notte passò gelida e silenziosa, e poichè la neve a quel freddo rassodava, la superbia dell’omino cresceva. Ma venne la mattina, e con la mattina il bel sole tiepido che usciva fuori dopo tante giornate di cattivo tempo, e voleva rifarsi delle ore perdute. Avvolse il pupazzo di neve con la sua luce d’oro e gli fece scintillare i bottoni degli occhi. In principio, l’omino ebbe quasi piacere di sentirsi invadere da quel bel calore, ma poi si accorse che si indeboliva sempre più: grossi rigagnoli gli corsero per tutto il corpo e capì che si sarebbe infine sciolto. L’ultimo sguardo fu per il monumento che se ne stava immobile in mezzo alla piazza, illuminato dal sole che con lui non ce la faceva. Quando i ragazzi tornarono, non trovarono più l’omino di neve. Della sua superbia era rimasta soltanto una pozza d’acqua sporca nella quale galleggiava una vecchia pipa.
Mimì Menicucci
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Poesie e filastrocche LA BRINA E IL GELO – una raccolta di poesie e filastrocche sulla brina e sul gelo, di autori vari, per bambini della scuola d’infanzia e primaria.
Brinata Non è neve: men candida, più sfumata fioritura, esalata nel silenzio, della magica natura. Nella notte l’incantesimo si fermò tra gli alti rami, stese lento in mezzo agli alberi le sue trine e i suoi ricami. Ma la trama ormai dissolvesi, vinta dal sol che già l’ha tocca; un gocciar di gravi lacrime, piove intorno, intorno fiocca. (G. Bertacchi)
Brinata La terra era squallida e grigia e grigio e monotono il cielo; l’inverno riaprì la valigia e poi disse al gelo: “Ricama con mano gentile quest’umida nebbia sottile!” Il gelo si mise al lavoro: sui penduli rami tremanti profuse, con arte, un tesoro di perle, e diamanti, e, all’alba del nuovo mattino, la terra fu tutta un giardino. (R. Calleri)
Il gelo Dormiva la vallata nella notte serena: s’affacciò il gelo e disse: “Bene, mi sento in vena! Quest’ora è tranquilla, nessuno sta a vedere e si lavora in pace. Mi fa proprio piacere. Io non somiglio punto a quei furioni miei parenti, la grandine, il vento, gli acquazzoni. Quanto fracasso fanno! Par non ci sian che loro e sciupano ogni cosa. Io sto zitto e lavoro.” Così borbotta il gelo, ride la luna piena mentr’ei va silenzioso per la notte serena. (C. Del Soldato)
Nebbia e brina Nebbia, che cosa hai fatto! Un velario di seta. Ogni cosa è segreta a un tratto. Che ricamo, che trina, quanti gioielli intorno! Li dona al nuovo giorno la brina. (D. Rebucci)
Brina Lo squallido rosaio sotto il freddo rovaio s’è coperto di brina. Ogni fronda, ogni spina porta un fiore, una stella. Il passero saltella sui bianchi ciuffi e spera: “C’è forse primavera?” (O. Visentini)
Brina La nebbia del mattino s’impiglia come un velo, tra i rami del giardino scintillanti di gelo: è la brina, la lieve sorella della neve. Ella tesse ricami minuti, di bianche perline, su tutti i rami e sulle foglioline; fa un candido contorno ad ogni cosa intorno. Ieri non c’era niente: in una notte il vago lavoro diligente fu fatto, a punta d’ago. Com’è svelta e felice questa ricamatrice! (Puck)
Fiori di ghiaccio Mentr’io dormivo oh, quanti strani fiori sulla finestra ha disegnato il gelo! Fiori di ghiaccio, i cui steli ricurvi compongono arabeschi fantasiosi. Belli davvero! Ma il fiato li scioglie, subito. Di quel magico giardino che resta? Un par di lacrime sul vetro…
Il gelo Dormiva la vallata nella notte serena; s’affacciò il Gelo e disse: “Bene, mi sento in vena! Quest’è un’ora tranquilla, nessuno sta a vedere e si lavora in pace. Mi fa proprio piacere. Io non somiglio punto a tutti quei furioni miei parenti, la grandine, il vento, gli acquazzoni. Quanto fracasso fanno! Par non ci sian che loro e sciupano ogni cosa. Io sto zitto e lavoro”. Così borbotta il Gelo; ride la luna piena mentr’ei va silenzioso nella notte serena. (C. Del Soldato)
Il gelo Dimmi il segreto, candido gelo: hai imparato forse nel cielo a far sui vetri i tuoi ricami, così fantastici di foglie e rami? Metti alle piante rari merletti, ghiaccioli a frangia cuci sui tetti; doni alle siepi mille trafori, dispensi ai campi gelidi fiori: fredda bellezza che fa sognare, mistero eterno che fa pensare. (T. Romei Correggi)
Il gelo Al sole ch’è malao certo il gelo è molesto, e si corica presto poichè s’è tardi alzato. Con braccia scarne aiuto chiede il gelso e il cipresso trema per freddo acuto nel suo mantello stesso. (V. Bettolini)
L’arrivo di Mago Gelo Dormiva la vallata nella notte serena. S’affacciò il Gelo e disse: -Bene, mi sento in vena. Questa è un’ora tranquilla: nessuno sta a vedere e si lavora in pace. Mi far proprio piacere. Io non somiglio proprio a quei furioni miei parenti: la grandine, il vento, gli acquazzoni; quanto fracasso fanno! Par non ci sian che loro, e sciupano ogni cosa. Io sto zitto e lavoro.- Così borbotta il Gelo: ride la luna piena mentre lui va silenzioso nella notte serena; e viene alle casette della valle silente; e alle chiuse vetrate soffiando lievemente va ricamando trine così fini e istoriate come il meraviglioso mantello delle fate. E dappertutto dove, alitando si arresta, al lume della luna d’un tratto ecco una testa di fiori scintillanti, di candidi alberelli, di brillanti alucce di farfalle ed uccelletti; ecco templi d’argento dalle guglie lucenti e intricate foreste dai rami trasparenti. Ogni cosa s’adorna di bianco luccichio: -Eh- dice Mago Gelo -se mi ci metto io!- (Camilla del Soldato)
Brinata La terra era squallida e grigia, e grigio e monotono il cielo; l’inverno riaprì la valigia e poi disse al gelo: “Ricama con mano gentile quest’ultima nebbia sottile”. Il gelo si mise al lavoro; sui penduli rami tremanti profuse con arte un tesoro di perle e diamanti; e all’alba del nuovo mattino la terra fu tutta un giardino. Il sole dai monti si affaccia i candidi fiori a guardare, la nebbia fumosa discaccia, li viene a baciare; e allora si rompe l’incanto. I fiori si sciolgono in pianto. (R. Calleri)
Brina Che rovina nell’orto in tre brinate! Squallido tutto e morto;; spogliato il susino, rigido il pero; tre bianche mattinate orbar di fiori l’orto, fecero un cimitero. Ultime, e al cuor per questo più soavi, rose cadute qua, là fucsie a terra non più pendule e gravi; beate le viole nella serra! Più non sta tra le sue foglie il fico: trovarne uno grinzoso ed infermiccio tra quegli stecchi è un caso; non tiene più un racimolo il viticcio e l’amorin nel vaso langue. (E. Giardini)
Brinata Non è neve: men candida, più sfumata fioritura, esaltata nel silenzio della magica natura. Nella notte l’incantesimo si fermò tra gli altri rami, stese lento in mezzo agli alberi le sue trine e i suoi ricami, ma la trama ormai dissolversi, vinta al sol che già l’ha tocca; un gocciar di gravi lacrime piove intorno, intorno fiocca. (G. Bertacchi)
Brinata Ve’, che gli alberelli stamattina all’improvviso fecero i fiori belli ed orditi come la trina, che sanno fare le ricamatrici! Ieri ogni cimarella avea una spina, come che fosse una spina d’amore, oggi una rama porta un grumolo, tutto bello nel suo candore; e c’è Mariella dalla balconata, che lascia l’anima su questi fiorellini, fatti di niente, fatti di brina, e riguardando or questi e or quelli, gode e non s’accorge che in un subito, dileguano tutti come tante stelle. (V. De Simone)
La brina Già la brina s’è levata, la campagna ha ricamata. Con le perle, col diamante che scintilla al nuovo sole ha adornato già le piante, e sentieri, prode, aiuole. E salta sopra il tetto della mia modesta casa ha disteso il suo merletto lungo tutta la cimasa. Come splende la mattina al passare della brina! (R. Rebucci)
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Dettati ortografici – INVERNO – Una collezione di dettati ortografici di autori vari sull’inverno, per la scuola primaria.
Inverno Partiti gli uccelli, il vento invase la montagna e le portò via tutti i colori e soffocò tutte le melodie del bosco. Tutto nero divenne il bosco e gli alberi, seri e imbronciati, scuotevano i rami disperatamente. Poi venne la neve e incappucciò di bianco le rocce, gli alberi, tutto. Sotto quel mantello bianco s’indovinava il fremere delle betulle giovani le quali si piegavano un poco sotto il gran peso, poi con sforzo disperato si risollevavano, e la neve: “Plaff!” cascava giù. Così di tratto in tratto le betulle che riuscivano a risollevarsi segnavano una riga nera su quel biancore infinito. (P. Reynaudo)
Inverno E’ la bianca, fredda stagione. La terra, coperta sovente dalla neve, riposa. Gli uomini stanno volentieri riparati nelle case, presso il fuoco. Chi può accende la stufa; nelle case i termosifoni mandano un calore uguale. Non tutti, però, hanno fuoco: i poveri, i senza tetto, soffrono di più. Eppure l’inverno ci vuole. I semi, gettati nel terreno, germoglieranno coi primi tepori, pronti a dar le pianticelle che ci forniscono il pane. La neve, l’amica dei bambini, che si distende sui campi, è una soffice coperta che li ripara, dà loro, lentamente, l’umidità necessaria. Per questo si dice “sotto la neve, pane”.
Inverno L’inverno arrivò appoggiandosi al bastone. Dietro venivano le sue figliole: neve, pioggia e brina. La neve, al contrario delle sorelle, uggiose e malinconiche, era allegra e aveva voglia di giocare. “Non esagerate, vi prego!” disse l’inverno, rivolto alla pioggia e alla brina. “Non siate prepotenti e non pretendete di essere le padrone. Un po’ per uno non fa male a nessuno!”.
Inverno I passeri si sono rifugiati sotto le tegole da dove viene il tepore del camino che fuma. Usciranno quando la fame li spingerà a cercare qualche semino che permetterà loro di campare alla meglio fino a primavera. Gli alberi sembrano giganti stecchiti, con le lunghe braccia scricchiolanti ad ogni soffio di vento. E il vento soffia forte, ululando per le strade. Fa freddo, le erbe sono gelate, i campi hanno una crosta di terra indurita e sembrano morti, senza più un palpito di vita. Ma non sono morti. La vita è nascosta sotto terra e a primavera proromperà trionfante con tanti fiori, tante gemme, tante radici.
Inverno Il vento soffia, ululando per le strade deserte. Le erbe sono gelate; una crosta di ghiaccio copre i campi che sembrano morti, senza più un palpito di vita. Ma la vita c’è. E’ nascosta sotto terra, e a primavera proromperà trionfante, con tanti fiori, con tante gemme, con tante radici.
Inverno L’inverno avanza col suo carico di venti gelidi e rabbiosi, di neve candida e molle, di nuvole gonfie, cariche di pioggia. Il grosso ceppo, sul focolare delle case di campagna, scoppietta allegramente. Fuori, la neve ha fatto tutto bianco. Le strade sono deserte. La gente sta volentieri accanto al fuoco, o al riparo delle stelle tiepide, in attesa che il tempo diventi più mite.
Inverno L’inverno è una stagione poco amica della povera gente. Le giornate sono brevi, le notti lunghe. Ognuno ha bisogno di fuoco e di indumenti di lana. Chi non può procurarsi queste cose vede, con tristezza, avvicinarsi l’inverno e sospira di desiderio, ricordando il tepore della primavera e il caldo sole dell’estate.
Inverno E’ arrivato l’inverno col suo seguito di pioggia, di neve, di gelo. Nell’inverno, gli alberi sono spogli e tendono verso il cielo grigio le loro braccia stecchite. Nei prati l’erba è secca, accartocciata, bruciata dal gelo. Nei fossi e nelle fontane si forma uno strato di ghiaccio.
Inverno I prati sono senza erba; c’è appena qualche cespuglio secco su cui si posano i passeri infreddoliti. La siepe è brulla e spinosa. Presto verrà la neve e coprirà tutto col suo bianco mantello. Ma sotto la neve non c’è freddo, e le piantine di grano, così riparate, metteranno le radici. A primavera il campo sarà tutto verde.
Inverno Piove. Cade una pioggerella minuta e noiosa che scende sulla terra formando pozzanghere larghe e fangose. La gente cammina in fretta sotto gli ombrelli gocciolanti; tutti corrono per le loro faccende lesti lesti, e non vedono l’ora di rintanarsi a casa, al riparo.
Inverno “E’ brutto l’inverno!”, borbottò un passero rabbrividendo di freddo. “I campi sono coperti di neve e non è possibile trovare un chicco tra tutta questa roba bianca.” “E’ brutto davvero”, rispose un altro arruffando le penne, “La notte non riesco a dormire per il gran freddo.” “Coraggio, fratellini!” esclamò un altro passerotto: “Anche il freddo finirà e verrà la primavera!”
Inverno Io sono il freddo. Senza di me le pianticelle non diventerebbero forti, crescerebbero deboli e senza resistenza. E poi sarebbero divorate da tutti gli insetti, attaccate dalle malattie. Sono io che faccio morire i germi dannosi alle piante: sono io che freno la moltiplicazione degli insetti. Se un anno non venissi, te ne accorgeresti a primavera! Vedresti tutte le foglie delle piante attaccate dalla malattia e i raccolti sciupati da un numero sterminato di divoratori. (P. Bargellini)
Inverno E’ bene rilevare che l’Italia ha, rispetto ad altre terre europee, un clima prevalentemente mie, sia per la posizione intermedia tra Polo Nord ed Equatore, sia perchè il mare che la circonda tempera la calura estiva e il gelo invernale, sia infine perchè la catena alpina ripara la nostra penisola dai gelidi venti del nord. Tutto questo, però, non impedisce che tra inverno ed estate vi sia una notevole differenza di clima. Non solo: anche nella stessa stagione vi sono discordanze tra le varie parti dell’Italia. Il settentrione, ad esempio, ha un clima prevalentemente continentale (cioè con notevoli differenze tra estate e inverno), il meridione ha invece clima mediterraneo (con piccole differenze). Per questo abbiamo in inverno una temperatura minima di dieci gradi sotto zero a Torino e di un grado sotto zero a Palermo. Anche nella distribuzione della pioggia c’è differenza: al nord le stagioni più piovose sono la primavera e l’autunno, al sud è l’inverno: da ciò deriva la differenza di vegetazione da luogo a luogo. Anche la neve si comporta in modo diverso da regione a regione: sono oltre i mille metri cade quasi ovunque. (M. La Rocca e R. Tommaselli)
Inverno Terso e lucente a volte come un cristallo, il cielo in inverno ferisce l’occhio per il suo splendore. Ma più spesso è grigio e scuro, e pare lontano, quando addirittura non si nasconde dietro un velo pesante di nebbia. Ma grigio e plumbeo o azzurro e terso il cielo assume sempre il colore e la trasparenza dell’occhio che lo guarda. Quando assume un colore grigio-biancastro, dopo qualche ora il cielo sembra quasi in attesa, si vedono scendere i fiocchi leggeri della neve.
Bosco d’inverno Che dire del bosco d’inverno? L’occhio forse vi trova quadri diversi per una larga e cupa fronda d’abete ricurva sotto il fantastico cappuccio di neve, per i neri ricami dei ramoscelli cascanti dai larici, per la cima del pino che sporge appena dal bianco cumulo portato dal vento, ma l’orecchio nostro non ascolta che l’uguale profondo silenzio. Pare che il gelo e il gran manto tengano immobile ogni ramo, ferma ogni fronda; e come se l’aria avesse perduto ogni sua arte, non sa cavare dal folto alcun suono, se non si gonfia in folate di vento, che fischiano aspre tra i tronchi. (E. Mosna)
Inverno L’inverno è arrivato. Le giornate serene si fanno sempre più rare, il cielo è grigio, il vento è freddo, spesso piove e il sole, quando riesce a farsi strada fra le nuvole, è appena tiepido. La natura si appresta al gran riposo. I campi sono brulli, le siepi spoglie, gli alberi stecchiti. Solo qualche sempreverde mette una macchia vivace in tanto squallore. Gli uccelli sono emigrati lontano, alcuni animali sono caduti in letargo. Si risveglieranno a primavera.
Inverno L’inverno è arrivato. Gli alberi hanno perduto le foglie e, scheletriti e nudi, rabbrividiscono al vento che li scuote. Lucertole, bisce, insetti, sono tutti giù, sotto terra, a dormire. Si sveglieranno a primavera. Il cielo è spesso grigio. Cade la pioggia. Nei prati, l’erba è sparita. I passeri infreddoliti si posano sui cespugli secchi. La siepe è brulla e spinosa. Dove sono le violette della primavera? Presto, la neve coprirà tutto col suo bianco mantello.
Inverno L’inverno è arrivato. Quasi sparito il verde, il cielo sempre o quasi sempre, almeno in Italia, nuvoloso, bigio, monotono. Le piante spoglie danno un senso di tristezza; non più il gorgheggio degli uccellini: solo i passeri, instancabili, sempre affamati, pigolano quasi a chiedere la carità di una briciola. Gli insetti, quasi tutti morti, o spariti sotto terra, non riempiono più l’aria col loro ronzio sonoro che era, pur esso, una voce della bella stagione.
Inverno Il cielo è grigio, il vento ha strappato dagli alberi le ultime foglie. La nebbia vela i monti lontani. La siepe è spoglia, gli animali sono migrati, oppure sono caduti in letargo. Nel bosco, soltanto pochi uccellini cinguettano piano saltellando fra le foglie secche. Fra questi è il pettirosso che non lascia il luogo natio, ma resta fra noi ad aspettare la bella primavera.
Inverno La campagna è brulla, le siepi sono rigide e spinose. Il cielo è tutto bigio e, tra le nuvole, il sole si è come sperduto. E’ inverno. I rettili dormono profondamente nei crepacci o sotto i sassi. Dormono le lucertole verdi che non possono avere una vita attiva senza il tepore del sole; dormono ghiri, topi, marmotte. Non c’è più un fiore, solo qualche bacca rossa mette una nota vivace in tanto squallore.
Inverno I venti soffiano gelati dalle cime nevose; dalle nubi cadono le piogge fredde e uggiose; le brine imbiancano i campi. Spento è il sorriso dei colli, i giardini sono spogli di fiori; le piante vanno perdendo la chioma ingiallita e rada. Lo squallore di tutta la campagna rende meno doloroso l’addio. Le sponde dei laghi, le immense distese dei campi, gli ameni villaggi rientrano nella loro quiete, si rinchiudono nella loro semplicità. (A. Stoppani)
Silenzio invernale Tutto tace nella campagna. I ruscelli scorrono senza mormorio sotto il ghiaccio come sotto una volta di cristallo. I torrenti sono gelati e asciutti; le mandrie fumano sdraiate nelle tiepide stalle; i cani giacciono accovacciati in uno stato di dormiveglia. I gatti fanno le fusa accoccolati in un angolo del focolare; gli uccelli intonano sotto altri cieli le loro canzoni. Tutto tace. (A. Stoppani)
Inverno L’inverno è un periodo di attesa e di riposo per molte creature. Si arresta lo sviluppo della pianticella di frumento che sorrise al novembrino; si chiude in sé e quasi non respira l’albero che donò le sue foglie ai venti autunnali; le piante di fori che offrirono profumi e colori si riducono spesso a radici affondate nelle viscere del terreno. Molti animali si rifugiano nelle viscere della terra e dormono per lunghi mesi, e molti insetti sono vivi soltanto nelle piccole uova, che si schiuderanno a primavera. Anche il riposo è una legge della natura: si risparmiano le forze per la nuova fioritura e per la nuova vita primaverile. (G. G. Moroni)
Una giornata invernale La strada era solitaria: le rive, le campagne si confondevano nude in tutta la squallidezza dell’inverno. La natura intirizzita, le piante aride e grame lasciavano cadere qualche ramoscello spezzato dal gelo e le ultime foglie già morte. Non un fiore, non un filo d’erba che spuntasse sotto la neve gelata, né un passero che saltellasse fra i rami avvizziti. (G. Carcano)
Inverno D’inverno pare che la vita, sia quella vegetale che quella animale, si arresti. In realtà subisce un notevole rallentamento. Gli uccelli migratori hanno abbandonato le zone fredde per andare a nidificare altrove, gli insetti sono morti, o sprofondati sotto terra a procedere nella loro metamorfosi; molti animali sono immersi in letargo, il profondissimo sonno durante il quale possono fare a meno perfino di nutrirsi. Anche la vegetazione osserva questo periodo di riposo: non germogli, non fiori, non foglie. Soltanto le radici, protette dal manto nevoso che spesso ricopre la terra e che le difende dal gelo, provvedono a moltiplicarsi e a rafforzarsi.
Inverno L’inverno è brutto per i poveri. Quando è caldo, quando il sole rende tiepida l’aria, la vita è più facile. Ma, con il sopraggiungere dell’inverno, occorrono indumenti, occorre fuoco, occorre cibo più sostanzioso. E i poveri che non possono avere tutto questo, soffrono, e soffrono soprattutto i bambini, i vecchi, i malati. Non chiudere il tuo cuore. Tu, forse, hai tanto di superfluo: pensa a coloro che mancano anche del necessario.
Inverno Ecco l’inverno: pioggia, brina, freddo, neve… una brutta stagione! E perchè brutta? Sarebbe lo stesso che chiamare brutto il sonno. Anche noi, quando dormiamo non vediamo, non sentiamo, non ci muoviamo… Ma intanto, il nostro corpo, nel sonno, riprende vigore, si riposa, si prepara alla fatica di un nuovo giorno. L’inverno è il sonno della terra e durante questo periodo la terra arresta la sua vegetazione per essere pronta al grande risveglio primaverile. Ma non dorme tutta: radici, bulbi, semi, si danno da fare sotto la dura crosta che li difende dal gelo; gli alberi preparano i verdi germogli e non appena l’inverno ci avrà detto addio, ecco la natura risvegliarsi tutta nuova, tutta bella, tutta verde.
Inverno Guardati intorno. Che cosa è cambiato? Il cielo non è più azzurro e sereno: grosse nuvole scure lo percorrono da un capo all’altro. Il sole non è più il caldo sole dell’estate. E’ velato e appena tiepido. Spira il vento gelido, la pioggia cade a bagnare la terra che diventa fangosa e piena di pozzanghere. E’ l’inverno che fa il suo ingresso, temuto soprattutto da coloro che mancano del necessario, che non hanno lavoro, che non hanno panni per rivestirsi, che non hanno fuoco né, talvolta, pane.
Inverno I venti soffiano gelati dalle cime nevose delle Alpi; dalle nubi che coprono di un bigio uniforme il sereno del cielo ed accorciano un giorno già corto, cadono le piogge fredde e uggiose; le brine imbiancano i campi, presagi di più bianca canizie. Spento è il sorriso dei colli; i giardini sono spogli di fiori; le piante vanno perdendo una chioma ingiallita e rada. Lo squallore di tutta la campagna rende meno doloroso l’addio. (Antonio Stoppani)
Arriva l’inverno D’improvviso il tempo s’è mutato. Il cielo è ancora chiuso e immobile com’è stato per tutti questi giorni tetri; vento non s’è levato che si senta, ma il selciato è asciutto e netto, e l’aria spazzata d’ogni umore, leggera e pungente. Aria che porta odore di freddo. Forse in montagna c’è già la neve. Attraverso il Campo dei Carmini, mi trovo in mezzo a un lento mulinello di pezzetti di carta e di foglioline secche: strisciano sul suolo con un raschio sommesso e per un poco m’inseguono; poi si riadagiano giù. Appena un fiato di vento, raso terra. Ma su, sopra i tetti e le nuvole, altro vento deve passare, duro e silenzioso. Ora vado lungo una lama di acqua ferma, lustra che raccoglie nel suo grigiore oleoso l’ultimo barlume del crepuscolo. La sera s’è lasciata cadere pesantemente; si sono accesi i lampioni. Quello là in fondo piove una chiazza di luce cruda su un lembo di muro scrostato, rossastro; scivola per la gelida spalletta di marmo di un ponte, e va a finire dentro il rio, calando a fondo e risalendo a galla in sonnolento altalenio. Sopra non v’è più nulla: i cornicioni delle case si confondono col cielo: tutto nero. (D. Valeri)
Inverno L’inverno comincia il 21 dicembre e termina il 20 marzo. Le giornate sono le più corte dell’anno. Il sole sorge tardi e tramonta presto. Fa molto freddo, l’acqua delle fontane gela, i prati, al mattino, sono bianchi di brina; è necessario riscaldare le nostre case e coprirci con pesanti abiti di lana. Spesso cade la neve, che ammanta ogni cosa di bianco; i passerotti cercano il cibo sui davanzali delle finestre. Il bosco non è smagliante di colori come in autunno, ma è ugualmente pittoresco: si cammina sopra un soffice tappeto di foglie secche, oppure sulla neve. Gli alberi intrecciano i loro rami nudi contro il cielo che, a volte, è di un azzurro purissimo. Si va nel bosco a raccogliere foglie, rami secchi e fascine di sarmenti, mentre nei campi i contadini potano le viti o gli alberi da frutta. Ma buona parte del lavoro invernale dei contadini si svolge al chiuso, nelle stalle, nei magazzini, nelle cantine e nei granai: si travasa il vino e si purifica l’olio; si controlla la conservazione del granoturco e del frumento; si riparano le macchine e gli attrezzi da lavoro. La vita per gli animali diventa difficile: alcuni si sottraggono ai rigori invernali cadendo in letargo, immergendosi, cioè, in un sonno profondo per tutta la durata della stagione e nutrendosi del grasso del loro organismo, accumulato nei mesi precedenti. Altri devono affannarsi nella ricerca del cibo: la loro pelliccia si fa più folta, così sono protetti dal freddo. Gli animali più fortunati sono gli animali domestici, che se ne stanno al calduccio nelle nostre casa. Anche l’inverno, però, ha i suoi meriti e i suoi aspetti favorevoli. In questa stagione godiamo maggiormente la famiglia e la casa; le feste invernali, come il Natale, sono tra le più belle dell’anno ed i ragazzi hanno modo di divertirsi con i giocattoli portati in dono da Santa Lucia, da Babbo Natale e della Befana. La nostra mensa è arricchita dalla frutta autunnale, nè mancano i frutti freschi, dolcissimi, cioè l’arancia e il mandarino.
Fiori d’inverno Anche l’inverno ha i suoi fiori: il bucaneve, la rosa di Natale e la pratolina; fiori semplici che ci fanno pensare alla meravigliosa fioritura della primavera vicina.
Inverno L’inverno si avvicina. L’autunno dai tramonti colorati, dalle foglie dapprima rosseggianti, poi gialle, poi secche, se ne va. Gli alberi nudi aspettano il mantello bianco della neve. Dagli alti pascoli le greggi tornano al piano guidate dai fidi cani e dai pastori pazienti. Le pecorelle vanno e vanno, le une dietro le altre, e un tremulo tintinnio di campanelli le accompagna. Le giornate si fanno sempre più brevi e le notti si allungano. Nell’aria non passano ali di rondini; se ne sono andate via, laggiù, nelle terre africane, dove il sole è caldo, per tornare a primavera, quando i prati saranno verdi e il cielo turchino. Solo i passerini sono qui: essi non temono il freddo, non temono la neve, anche se in mezzo al candore il loro cuoricino si fa inquieto per il cibo. Le mamme hanno già tirato fuori dai bauli e dagli armadi gli indumenti invernali che dormivano nel profumo della canfora e della naftalina; li hanno già preparati, perchè i primi freddi sono insidiosi e conviene coprirsi subito. Ben coperti, i bambini possono continuare i loro giochi all’aperto, fino a quando le arrossate manine non li consiglieranno a cercare rifugio nella casetta tiepida e accogliente. (Cardini Marini)
Giunge l’inverno
I venti soffiano gelati dalle cime nevose delle Alpi; dalle nubi, che coprono di grigio uniforme il sereno cielo ed accorciano un giorno già corto, cadono le piogge fredde ed uggiose; le brine imbiancano i campi, presagi di più bianca canizie. Spento è il sorriso dei colli; i giardini sono spogli di fiori; le piante vanno perdendo una chioma già ingiallita e rada. Lo squallore di tutta la campagna rende meno doloroso l’addio alla stagione che muore. Le sponde dei laghi, le immense distese dei campi, gli ameni villaggi, dove poco prima risuonavano i gridi di allegre brigate, rientrano nella loro quiete, si rannicchiano nella loro semplicità. (A. Stoppani)
L’inverno
L’inverno è un periodo di attesa e di riposo per molte creature. S’arresta lo sviluppo della pianticella di frumento che sorrise al novembrino; si chiude in sè e quasi non respira l’albero che donò le sue foglie ai venti autunnali; le piante di fiori che offrirono profumi e colori si riducono spesso a radici affondate nel terreno. Molti animali si rifugiano nelle viscere della terra e dormono per lunghi mesi e molti insetti sono vivi soltanto nelle piccole uova, che si schiuderanno a primavera. Piante ed animali sanno che bisogna risparmiare le forze per la nuova fioritura e per la nuova vita primaverile.
Sole d’inverno
Oh sole d’oro, quanto ti amo! Sei bello nell’estate, quando risplendi di luce vivissima, ma d’inverno tu sei più caro! Entri nelle fredde stanze, nelle scuole, nelle umide capanne, negli ospedali, e porti un raggio di luce e di allegria ai vecchi e ai bambini, ai poveri e agli ammalati! Come sei buono, sole! Quando sorgi, la terra sorride, i fiori sbocciano, gli uccelli cantano, gli uomini ti benedicono. (A. Cuman Pertile)
Durante l’inverno il sole, sia pure con volto pallido, si affaccia tra le coltri delle nubi, noi ne salutiamo la venuta come un sorriso e come un augurio. Quando arriva il sole, il tepore della casa si fa più caldo e più vivo, le ore si fanno più brevi e leggere, e, forse, i pensieri diventano più sereni.
Gli alberi in inverno
In questa stagione molti alberi protendono nel cielo i rami nudi e il mattino li ritrovi coperti di brina. Nella nebbia i tronchi spogli sono simili a fantasmi. Ma vi sono anche le piante che mantengono le foglie e queste conservano il loro colore. Sembra quasi che non avvertano il freddo. Tuttavia, se ti avvicini, vedi le foglie tremare. (G.G. M.)
Gli insetti in inverno
Ora, d’inverno, gli insetti allo stato perfetto mancano; la maggior parte di essi è morta dopo aver deposto le uova, e i rari superstiti sono rannicchiati, al riparo dal freddo, in nascondigli dove sarebbe molto difficile poterli trovare. D’altra parte, le larve, la speranza delle future generazioni, sono intorpidite, lontane dagli sguardi, sotto terra, nel tronco dei vecchi alberi, in fondo a rifugi inaccessibili; il verme bianco, per fuggire ai geli, è disceso nel suolo a parecchi metri di profondità. Non più maggiolini per l’orecchione, non più farfalle crepuscolari per la nottola e il pipistrello, non più scarabei per il riccio. Che cosa sarà di loro? (H. Fabre)
Aspetti della stagione invernale
La natura riposa: animali e vegetali riducono il loro lavoro al minimo necessario; il rigore dell’inverno li rende inoperosi. Ecco infatti alcuni animali cadere in un lungo sonno e così lasciar trascorrere i mesi più rigidi. I graziosi abitatori del bosco dormono, dorme il riccio nella tana ben chiusa, coperta di foglie e di frasche, scavata ai piedi dei grandi alberi; dorme il ghiro, dopo aver ben provveduto a riempire la sua tana di noci, di nocciole, di castagne; dorme lo scoiattolo spesso rintanato nel cavo di un castagno… Vicino ai muri dormono pipistrelli e chiocciole. Non si nutrono, respirano appena appena e non si muovono per serbare il calore al loro corpo. Negli orti, nei giardini, nei prati, nei boschi… sembra che tutto abbia cessato di vivere. La terra è fredda, poichè il sole non può giungere con la sua energia a riscaldarla sufficientemente e, mancando la luce, manca la vita. Non vi sono insetti che ronzano per l’aria: scomparse farfalle, api, calabroni, vespe. Negli orti le verdure resistenti al freddo sono ricoperte di paglia: verze, sedano, insalata. Nei giardini nessun fiore, alberi spogli, legnosi, sembrano in attesa di una scure che, da un momento all’altro, venga a tagliarli. Prati ed erbe appassite dal gelo, luccicanti di brina non temono di essere calpestati; vi sono però anche campi con pianticelle verdi: sono le pianticelle di frumento, piccole piccole; ma da quell’apparente riposo assoluto sorgerà un giorno rigogliosa e preziosa una nuova vita. La terra appunto riposa per accumulare il nutrimento necessario alla vegetazione primaverile.
Mezzi di riscaldamento
In alcune località di montagna si usa tuttora ritrovarsi, alla sera, nelle stalle intiepidite dal fiato dei bovini; in altre ci si raccoglie attorno a grandi camini in cui arde un bel ceppo. Ma ben altri mezzi più perfezionati hanno sostituito il focolare: stufe a legna, a gas, a carbone, a petrolio, termosifoni,… I mezzi di riscaldamento hanno una lunga storia che si accompagna con la vita dell’uomo. Gli uomini primitivi si difesero dal rigido freddo invernale accendendo il fuoco in mezzo alla caverna. Poi gli uomini, quando si costruirono la casa con le pietre, si scaldarono al fuoco del caminetto, che è formato di un piano di pietra, su cui si mette a bruciare la legna, della cappa e del fumaiolo per far uscire il fumo e le faville. Più avanti essi impararono a bruciare la legna ed il carbone nelle stufe di pietra; poi si riscaldarono anche con stufe a gas o elettriche. Il sistema più moderno di riscaldamento per i grandi caseggiati è quello a termosifone: in ogni stanza, attraverso lunghi tubi, arriva l’acqua riscaldata in una grande caldaia che può funzionare a carbone, a nafta o a metano.
La frutta dell’inverno
Nei frutteti, sulle colline, nei boschi le piante riposano. Hanno lavorato tanto e ci hanno preparato dolci frutti anche per l’inverno. Guardate le ceste dei fruttivendoli: brillano dei colori dei frutti colti in autunno. Nelle case dei contadini le stanze sono odorose di mele e di pere che maturano e d’uva appassita; noci, nocciole, mandorle e castagne stanno ammucchiate negli angoli o distese sui graticci; arance e mandarini splendono come lampioncini; le pallide ghirlande di agli, i mazzi ramati delle cipolle, le collane di peperoni, le patate ancora un poco vestite di terra ricordano, in silenzio, i giorni dell’estate e gli ultimi raccolti d’autunno col sole impallidito e le prime nebbie.
Un dono dell’inverno: l’arancia
L’arancia è un frutto profumato, che appartiene, col mandarino e col limone, alla famiglia degli agrumi. La buccia è arancione, porosa, con uno spessore vario. La polpa, composta di spicchi, contiene un succo agrodolce e i semi. Gli aranci crescono dove l’inverno è mite; quando l’albero è in fiore è tutto una corolla rosata e leggera; al cadere dei petali maturano le arance. Prima di darci il suo dono gradito la pianta deve diventare robusta: dopo 10, 15 anni di vita produce un gran numero di frutti. In Sicilia vi è una grande insenatura detta Conca d’Oro, perchè ricoperta, dai monti al mare, dagli aranceti.
L’arancio
E’ originario della Cina meridionale; era sconosciuto ai Greci ed ai Romani e pare sia stato introdotto in Europa dagli Arabi. Le foglie, coriacee, lanceolate, con il margine liscio, sono di un bel verde lucente. I fiori, bianchissimi, nascono all’ascella delle foglie e mandano un profumo delizioso. L’albero raggiunge al più l’altezza dei sei metri; viene coltivato nei prati, in lunghe file regolari. Dove il clima e il suolo gli si confanno particolarmente, un arancio che occupi lo spazio di circa tre metri e mezzo di diametro produrrà da tre a quattromila arance l’anno. L’albero vive e fruttifica per circa cento anni e le piante vecchie danno frutti migliori di quelle più giovani.
Gli agrumi
Un tempo si chiamavano agrumi gli ortaggi di sapore agro, come le cipolle, l’aglio, ecc… Oggi si indicano con questo nome l’arancio, il limone, il cedro, il mandarino, il pompelmo, il bergamotto, il chinotto, i cui frutti contengono un succo acido che spesso ha una notevole percentuale di zuccheri. Gli agrumi sono piante generalmente belle, ma la loro grande importanza è dovuta alla bontà dei frutti, squisiti e utilissimi al nostro organismo. La ricchezza di vitamine, zuccheri e sali in essi contenuti li rende molto preziosi per la nostra salute. Si pensi che basta il succo di pochi limoni per vincere la terribile malattia dello scorbuto, che attacca l’organismo umano quando non si alimenta di verdure e cibi freschi. Il succo dell’arancia arricchisce il sangue di globuli rossi. Altri agrumi, i cedri e i chinotti, vengono usati in pasticceria per confezionare canditi (ottenuti facendo cuocere la buccia del frutto in uno sciroppo). Infine, da quasi tutte le specie si ricavano le essenze, liquidi che evaporano con estrema facilità e che sono fortemente odorosi. Queste essenze si trovano in quasi tutte le parti della pianta; esse sono contenute in piccole vescichette distribuite nello spessore delle bucce dei frutti, delle foglie e dei fiori. Osserviamo, ad esempio, controluce una foglia di arancio: la vediamo cosparsa di punti chiari; sono appunto le vescichette ripiene di un liquido profumatissimo che schizza fuori se stropicciamo con le dita la foglia.
Gli agrumi
L’arancia, il mandarino e il limone sono frutti invernali che maturano presso le trepide rive del mare, specialmente in Sicilia ed in Calabria. Si chiamano agrumi per il loro sapore agrodolce; sono frutti nutrienti e digestivi, ottimi per preparare gustose bibite dissetanti. Esistono due tipi di arance, quelle dolci e quelle amare. Tutti conoscono le arance dolci. Ne abbiamo di numerose varietà, da quella a buccia giallo chiara e polpa aspretta, chiamata “portogallo”, a quella a buccia sottile e polpa rossa, più dolce, detta “sanguigna”. Le arance amare assomigliano solo esternamente a quelle dolci, ma non si mangiano. Con la loro scorza si fanno canditi per i pasticceri, il sugo serve a preparare sciroppi e liquori amari. Il mandarino è un frutto più piccolo dell’arancia, ma ha un sapore più dolce, intensamente profumato. I bimbi ne sono molto ghiotti; del resto si sbuccia con tanta facilità! Il limone è ormai diventato indispensabile in ogni cucina, per preparare dolci e vivande. Il suo succo agro è un buon disinfettante dell’intestino.
Gli agrumi
L’arancia, il mandarino e il limone sono frutti invernali che maturano nei paesi caldi. Le loro parti sono: il picciuolo, la buccia ruvida e profumata, la polpa sugosa divisa in tanti spicchi e i semi. La buccia dell’arancia e del mandarino è arancione; quella del limone è gialla – verdognola. Il mandarino è dolce; l’arancia è agrodolce; il limone è agro. Per il loro sapore questi frutti si chiamano agrumi. L’arancia e il mandarino sono frutti nutrienti e digestivi; il limone è disinfettante dell’intestino. Tutti servono per preparare bibite.
Le piante invernali che usiamo per ornare le nostre case
Agrifoglio. E’ un alberetto sempreverde dei boschi di querce e castagni, con foglie coriacee lucide e con drupe rosse. Parecchie piante legnose sono armate di spine finchè sono basse e quindi esposte al dente dei ruminanti; quando sono cresciute, i loro rami alti, fuori della portata di questi animali, non sviluppano più spine. Così si comporta anche l’agrifoglio. Vischio. E’ una pianta parassita di meli, peri, mandorli, pioppi, querce ed aceri. Le foglie sono verdi, persistenti, coriacee, ovali; i fiori sono poco vistosi e biancastri alla biforcazione dei rami. Il frutto è una bacca perlacea che contiene un sugo vischioso e velenoso, usato per prendere gli uccelli al paretaio. Muschio. E’ composto di piccolissime pianticelle che vivono in formazioni vastissime, coprendo intere regioni (ad esempio la tundra). Da noi sono frequenti nei luoghi umidi, sulle pietre e anche sulle scorze dei tronchi; formano, a volte, nei prati montani, fitti ed estesi tappeti. Edera. E’ una pianta rampicante che si abbarbica su per alberi e muri per mezzo di numerosissime piccole radici aeree che escono dal fusto e dai rami. Le foglie sono lucenti. E’ ornamento dei muri come delle rupi. Ha fiori giallastri e bacche nerissime.
Le foglie delle piante sempreverdi
Le foglie delle piante sempreverdi non cadono mai? Cadono anch’esse; sul terreno della pineta potremo infatti osservare uno spesso strato di aghetti morti, cioè di foglie cadute dagli alberi. Ma le foglie delle sempreverdi rimangono sulla pianta per due o tre anni; ad ogni primavera, mentre spuntano le nuove foglioline color verde chiaro, cadono quelle più vecchie, nate due o tre anni prima; sulla pianta rimangono ancora quelle nate nell’anno precedente; avviene così che le sempreverdi mostrano continuamente le loro chiome munite di foglie. Ecco il nome delle principali piante sempreverdi: pino, cipresso, magnolia, olivo, rosmarino, cembro, ginepro, mirto, oleandro, quercia da sughero, abete bianco, alloro, edera, arancio e tutti gli altri agrumi, palma da datteri.
Pini ed abeti
Si assomigliano. Danno un frutto di ugual nome: le pigne. Il loro tronco secerne una speciale resina profumata che fa distinguere il legno di questi alberi da tutti gli altri per l’odore caratteristico che da essi emana. Sono dei sempreverdi, cioè delle piante che, perdendo le foglie poco per volta ed essendo subito rimpiazzate da nuove foglioline, mantengono un aspetto sempre verde. Anche le foglie appena spuntate sono ben resistenti al freddo essendo acuminate e spesse da sembrare aghi. Vi sono boschi interi di pini e di abeti; abetaie e pinete che, in montagna, col loro verde interrompono il grigiore monotono del paesaggio invernale.
Brutta stagione, l’inverno? Non dire: “Che brutta stagione! Se non venisse mai!” Anche questa che tu chiami ‘brutta stagione’ è necessaria. Il seme, che è nella terra, ha bisogno di umidità per germogliare; l’albero che sembra rinsecchito ha bisogno del riposo invernale per rinnovarsi; i fiumi, che scorrono portando ovunque il beneficio delle loro acque abbondanti, hanno bisogno che le nevi si ammassino sui ghiacciai dai quali nascono, altrimenti inaridirebbero col giungere dell’estate. Anche questa stagione, quindi, coi suoi venti gelidi, le sue nebbie, la pioggia, la neve, ci porta benefici non indifferenti. (L. Colombo)
Inverno pittore E’ straordinario pensare a quale varietà di colori ben distinti possa offrirci l’inverno, e ciò usando si tante poche tinte, se così vogliamo chiamarle. La limpidezza e la purezza particolarissima dei colori rappresentano probabilmente il fascino maggiore di una passeggiata invernale. C’è il rosso del cielo al tramonto, e della neve di sera, e dei lembi di arcobaleno durante il giorno, e delle nuvole basse. C’è l’azzurro del cielo, e dei riflessi dell’acqua, e del ghiaccio e delle ombre sulla neve. C’è il giallo del sole e del cielo crepuscolare al mattino e alla sera, e del carice (o color paglierino, che diviene brillante se, a sera, viene illuminato sull’orlo del ghiaccio) e tutti e tre nei cristalli di brina. E poi, per i colori secondari, ecco il porpora della neve in mucchi e sulle cime delle colline, sui monti, dalle nuvole serotine. Il verde dei sempreverdi, del cielo e del ghiaccio e delle acque quando scende la sera. L’arancione del cielo di sera. (H. D. Thoreau)
Elogio dell’inverno Nell’inverno tutto è vivo e vitale. La grande morte della creatura che ebbe la sua giovinezza in aprile è ormai avvenuta con l’ultima foglia volata via. Quello che è rimasto sulla terra a me pare l’impalcatura salda e precisa di un lavoro che si inaugura, il severo cominciamento di un’esistenza che si aprirà all’amore in primavera, darà frutti nell’estate e si estinguerà nell’autunno. Conviene guardare quel suo apparente squallore come si guarda il disegno di una grande fabbrica che profila le sue alte moli e nasconde il suo fervente lavoro dietro gli sterili steccati. Le sue lunghe piogge sono fresco sangue per la creatura nuova, la sua neve un caldo tessuto, e il fradicio impasto di melme e di foglie morte un vitale nutrimento. (C. Tumiati)
L’assolata ora pomeridiana Nell’assolata ora pomeridiana il paese, benchè fossimo in inverno, mi si presentò sonnolento e torpido come in una giornata d’agosto. Bianco e deserto, usci chiusi, mazzi di fichi d’India e grappoli d’uva alle finestre, silenzio. Aspetti e atmosfera comuni, del resto, a tutti i paesi seminati nella pianura leccese, arieggianti nell’architettura, se d’architettura poteva parlarsi, temi moreschi di cupole e scalette esterne; chiusi nelle intricate prospettive delle case bianche di calce e abbacinate in quella bianchezza. Intorno a una fontanella un gruppo di donne con pezzuole nere sul capo aspettava indolentemente di riempire i grossi orci che rappresentavano la provvista d’acqua della giornata. Cinque o sei ragazzetti giocavano a piastrelle senza rumore. Qualche moscone solitario ronzava nel sole. (C. Montella)
Sole invernale Il gelo risuonava. Nella nebbia gelata, senza un nesso apparente, apparivano suoni e forme spezzate, si fermavano immobili, si muovevano, scomparivano. Non brillava il sole a cui si è abituati sulla terra, ma un altro sole, come artificiale, librato sul bosco come un globo scarlatto, da cui si spandevano lenti e faticosi, come in un sogno o in una fiaba, raggi di luce rossastra, color rame, che nel loro tragitto si rapprendevano nell’aria, e aderivano gelati agli alberi. (B. Pasternak)
Valanga I ventotto uomini della corvèe sono giunti alla base del canalone. Cominciano a risalirlo a zig-zag, si arrestano, avanzano un passo, affondano fino al collo. Si arrestano di nuovo e guardano su. E’ la morte che vedono? L’hanno veduta. Hanno sentito con un brivido la sua gelida vicinanza, ma solo per una frazione di secondo… Poi non sanno più niente… perchè il mondo precipita… precipita in frantumi bianchi, si avventa con la furia di un uragano giù per il canalone… addosso a quegli uomini che guardano in su e che spalancano la bocca in un ultimo grido… e li divora… Spazza via quei poveri diavoli, scaraventa le loro misere ossa nell’abisso, donde non si può risalire. La valanga deve essersi staccata molto in alto; la massa candida, come un’onda poderosa di risacca, rotolò giù turbinando dentro al canalone e lo percorse ululando e fracassando. Quando il turbinio fu cessato, di quei ventotto uomini, che poco prima stavano uno sopra l’altro come dei pioli di una scala, non rimaneva più nulla, neppure un fagotto disperso… (L. Trenker)
Tormenta Voi conoscete la montagna d’estate quando è piena di vita e di poesia. Ma bisognerebbe che vi saliste d’inverno, quando la neve raggiunge l’altezza dei pali telegrafici o persino quella del tetto, e la temperatura discende a quindici-venti gradi sotto zero, e infuria la tormenta. Formidabili muggiti seguiti da impressionanti silenzi istantanei, ed urli inesprimibili, fischi lunghi e laceranti si fanno allora sentire attraverso le doppie e ben connesse finestre dell’Ospizio; la stufa e tutti gli oggetti che si trovano nella mia camera vengono agitati come sul mare in burrasca, mentre al di fuori milioni di aghi invisibili, acutissimi, duri come l’acciaio, con forza inaudita vengono sferzati contro la faccia di chi sale. A poco giovano il passamontagna e i grandi occhiali neri protettori: a poco vestiti e guanti. I mille e mille aghi si insinuano attraverso gli interstizi, penetrano fino alla pelle, la punzecchiano in modo doloroso, si fondono, inzuppano le vesti e sotto l’azione di quel freddo polare gelano di nuovo al primo istante concesso al riposo, rendendo impacciati e talvolta dolorosi i movimenti. Gli occhi battuti, malgrado gli occhiali, non possono rimanere aperti. Non è possibile tener sollevata la testa per non rimaner soffocati dalla massa d’aria e di neve che il vento inietta negli organi respiratori. Gli orecchi ronzano per l’assordante infernale rumore della tempesta, e la mente si ottenebra. Si perde il senso della direzione, la capacità di pensare, e spinti solo da una forza che trae le sue origini dall’istinto di conservazione, si cammina, si cammina sempre, senza curarsi del dove si vada, senza sapere se si procede verso la meta. (P. Chanoux)
Esercizi di vocabolario per l’inverno – Inverno: invernale, invernata, svernare. – L’inverno può essere: rigido, gelato, inclemente, freddo, ventoso, tempestoso, nevoso, crudo, lungo, mite, ecc. – Freddo: freddino, freddone, frigido, freddoloso, freddare, freddezza, infreddolire, raffreddore, raffreddarsi, frigorifero. – Neve, brina, ghiaccio, gelo, ghiaccioli, gelata, vento, tempesta, bufera, nevicare, ghiacciare, agghiacciante, gelare, gelato, brinare, sbrinare, surgelati. – Classificare dal più freddo al meno freddo e aggiungere a ciascuna parola un nome adatto: tiepido, freddo, gelato, rigido, ghiacciato, intirizzito.
Ricerche e relazioni per l’inverno – Raccogliere brani, poesie, illustrazioni che riguardano l’inverno e il freddo, da applicare ad un cartellone “Calendario murale” e che serviranno, in seguito, per la compilazione delle schede o di un libro fatto da sé. – Osservare il cielo invernale nei vari momenti della giornata e farne la descrizione. – Osservare come si presenta una giornata d’inverno quando c’è sole, quando piove, quando nevica. – In occasione di una nevicata, osservare accuratamente il paesaggio, i tetti delle case, gli alberi, i cespugli, i campi, le strade. – Compilare un calendario meteorologico. – Gli sport invernali: se nel luogo ci sono manifestazioni sportive, sia pure modeste, farne una relazione. – I mezzi di trasporto sulla neve. – La vegetazione d’inverno. Effetti della neve e della brina sulla campagna. – I sempreverdi: loro aspetto d’inverno. – Gli alberi d’inverno. Osservazione accurata dei vari tipi di alberi. – I cespugli e le siepi d’inverno. – Gli uccelli migratori e quelli rimasti nella località. – Gli animali delle regioni nordiche. – Gli insetti: larve e crisalidi. – Gli animali che cadono in letargo. – Esperimenti sui fenomeni fisici a cui è sottoposta l’acqua durante il freddo intenso.
I doni dell’inverno Il pastore passava le giornate nella capanna; si sentiva tranquillo e pregava che l’inverno non diventasse molto rigido, che molti capretti venissero alla luce, che molto latte gonfiasse le mammelle delle capre. Lo scrosciare del bosco contorto dal vento gli diceva che l’inverno era lungo e rigido: ma per la sua antica esperienza sapeva che il vento, la pioggia, la nebbia e la neve erano necessarie perché la terra s’impregnasse di umido, gli alberi si spogliassero delle foglie inutili, le sorgenti rigurgitassero di acqua, e ogni cosa infine ricevesse dall’inverno i germi fecondi della primavera. Quindi non di lamentava mai: anzi, il tepore dei grossi tronchi accessi nella capanna lo avvolgeva spesso di sogni e dalla tristezza dell’inverno la sua vecchia esperienza presentiva il rigoglio della primavera. (G. Deledda)
L’odore dell’inverno Il tempo dapprincipio fu bello, calmo. Schiamazzavano i tordi, e nelle paludi qualcosa di vivo faceva un brusio, come se soffiasse in una bottiglia vuota. Passò a volo una beccaccia e il colpo che le fu sparato risuonò nell’aria con allegri rimbombi. Ma quando nel bosco si fece buio e soffiò da oriente un vento freddo e penetrante, tutto tacque. Sulle pozzanghere si allungarono degli aghetti di ghiaccio. Il bosco divenne squallido, solitario. Si sentì l’odore dell’inverno. (A. Cechov)
Quadretto invernale I venditori di caldarroste stavano agli angoli delle strade. Dietro i vetri appannati delle osterie c’erano uomini seduti ai tavoli, con le carte in mano e il litro davanti. Le donne, curve dal freddo, negli scialli striminziti, le mani sotto i grembiuli, traversavano le strade. Alla fontanella di piazza Santa Croce l’acqua era gelata nella grande conchiglia di marmo ce la riceveva. I vetturini si riscaldavano incrociando le mani sotto le ascelle. Sulla via Pietrapiana, di animava, con le luci dei negozi, il traffico della sera; davanti al venditore di castagnaccio c’era sempre ressa di avventori. (V: Pratolini)
Inverno in montagna L’inverno anticipò la sua venuta. La valle era tutta bianca, gli abeti verdi, quasi neri, reggevano pesi enormi di neve. La cascata accanto alla casa era ghiaccio vivo: solo un filo d’acqua cristallino scorreva liscio, oleoso sotto la crosta, lo si vedeva, alla trasparenza del ghiaccio, aprirvi delle larghe bolle d’aria biancastra. Che silenzio intorno! Il villaggio dormiva accovacciato. La mattina all’Ave Maria e la sera all’Angelus qualche ombra nera passava silenziosa sulla neve dura, con una lucerna in mano, e filava dritta alla chiesa, poi per tutta la giornata non andava intorno anima viva. (G. Giacosa)
Mattino grigio Mattino grigio d’inverno. Silenzio di tutte le cose. Nevica sui monti erti, sui pascoli inclinati, sui prati concavi e piani. Se, rovesciando il capo all’indietro, guardo all’indietro, guardo all’insù, vedo l’universo intero vacillare, sfaldarsi in bioccoli e in polvere, scendermi, roteando, fin negli occhi, fin entro la bocca. Infinito sfarfallio nell’aria. Fruscio di rami che si scrollano… Tonfo della neve che sul colpo cade… Nuovo, più profondo e misterioso silenzio… Il tempo stagna come un’acqua che il ghiaccio prenda… Forse il mondo non esiste più… (G. Zoppi)
Dettati ortografici – Inverno – Tutte le opere contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere.
Dettati ortografici su gennaio – una raccolta di dettati ortografici, di autori vari, per bambini della scuola primaria. Difficoltà ortografiche miste. Brevi dettati ortografici a tema per esercitare la scrittura e seguire il ritmo della natura…
Il cielo è grigio, coperto di nuvoloni carichi di pioggia o di neve. Gli uccellini non cantano più. Gli alberi sono nudi e spogli.
Sotto la neve, pane! E gennaio copre di un mantello candido le verdi piantine del grano che così non geleranno.
Gennaio è un dei mesi più freddi dell’anno. La neve ricopre tutto col suo mantello candido. Il vento urla fra i rami degli alberi spogli.
Fra le divinità adorate dai Romani, vi era Giano, il dio dai due volti, propiziatore del nuovo anno, simbolo della fine e del principio, al quale era dedicato il primo mese: gennaio. E poichè dove una cosa finisce ne comincia necessariamente un’altra, Giano era anche il dio dei confini, delle porte, della pace e della guerra; la sua specialità era, insomma, di iniziare un periodo e di chiuderne un altro.
E’ arrivato gennaio col suo carico di freddo, di neve, di pioggia. Ma anche il freddo è necessario. Le piantine di grano, non potendo uscire all’aperto per il gran freddo, moltiplicano sotto terra le loro radici, e si preparano a diventare robuste e rigogliose.
E’ un mese freddo, ma anc’esso necessario. I cattivi germi e gli insetti nocivi muoiono. La terra, sotto la coltre gelida, si riposa e si prepara al lavoro della primavera. Anche gli alberi dormono. Il cielo è quasi sempre grigio e spesso cade la neve.
E’ un mese freddo e rigido. Il cielo è quasi sempre nuvoloso e il sole raramente fa capolino con un raggio scialbo e pallido. Il vento fischia nelle strade deserte. La gente si ripara con indumenti pesanti e caldi, sospirando il ritorno della bella stagione.
In gennaio gli alberi sono brulli, spogli; il vento squassa i loro rami stecchiti. Sembrano morti, ma morti non sono. La vita scorre nel tronco immobile che presto metterà gemme e fiori.
Le nuvole di gennaio sono bigie, pesanti, apportatrici di pioggia e di neve. Il vento le ammassa all’orizzonte in un nembo che copre tutto l’azzurro del cielo. Il sole a stent può farsi strada per qualche momento fra le nuvole grigie, ma il suo raggio non riesce a riscaldare la terra gelida.
Siamo nel cuore dell’inverno. L’aria è gelida. Il vento ulula per le strade, la gente cammina in fretta, avvolgendosi strettamente in sciarpe e cappotti per difendersi dalla gelida tramontana. Si sogna il tepore della primavera.
Parla gennaio: “Sono il primo di dodici fratelli e porto pioggia, neve, brina e freddo intenso. Tutto dorme, ma sotto la bianca coltre di neve, le piantine si sforzano di gettare più radici che possono. A primavera germoglieranno. Quando me ne sarò andato, i campi di copriranno di verde erbetta, il grano di domani.”.
Gennaio è un simpatico mese. Dietro a lui, altri undici signori, chi allegro, chi malinconico, chi coperto di pellicce, chi col costume da bagno. Sono i mesi, suoi fratelli, e insieme formano l’anno. Gennaio porta anche lui, come dicembre, un bel sacchetto di doni. I ragazzi gli vogliono bene; quando c’è per aria odore di regali, va bene anche il freddo, va bene anche la neve. E i ragazzi sognano: calzette piene di doni, cestini rigurgitanti di buone cose, e la tavola, apparecchiata per i giorni di festa.
Gennaio è uno dei mesi più freddi dell’anno. La neve ricopre tutto col suo mantello candido. Il vento ulula e s’ingolfa per le strade. sbatacchiando le finestre. Gli uccellini non trovano neppure un semino per sfamarsi e pigolano e si lamentano. Gli alberi sono spogli e tendono verso il cielo le loro braccia rinsecchite. I prati sono coperti di neve o di brina.
Nella campagna c’è un gran silenzio. La terra dorme, copera di neve, ma, sotto, lavora. La neve la ripara dal gelo e i semi si svegliano domandando se è ora di germogliare. No, non è ora. Fuori fa freddo, continuate a dormire. E invece, quelli, pian piano, mettono fuori una radichetta, e aprono gli occhietti curiosi. Ma, finchè il sole non batterà, di fuori, con i suoi raggi, è proibito uscire.
Lucertole, ghiri, bisce e tassi dormono profondamente. Consumano il grasso che hanno accumulato durante la buona stagione, così risparmiano di mangiare e non soffrono il gelo. Gli uccellini, sui rami spogli, pigolano di fame e di freddo. Gennaio è lungo. Tanti giorni di neve, di pioggia, di vento. Quando le feste sono finite, la gente comincia a mormorare: “Ma quando se ne va?”. E sogna le violette di febbraio.
Gennaio è uno dei mesi più lunghi; con esso comincia l’anno nuovo. E’ un mese freddo: neve, brina, gelo. Ma sotto la crosta gelata della terra, riparati dal mantello nevoso, i semi si danno un gran da fare per stendere le loro radici, per rafforzarle in modo da poter uscire con una pianticina robusta quando il tempo lo permetterà. Ma ora tutto è scheletrito, spoglio, rigido e triste.
Gennaio è il primo mese dell’anno, uno dei mesi più freddi. Nei crepacci e intorno alle fontane si forma il ghiaccio, I monti sono coperti di neve. L’erba dei prati è intristita dal gelo. Gli uccellini hanno freddo e fame. E’ difficile trovare anche un semino per saziare l’appetito. Volano qua e là, pigolando piano, come se chiedessero la carità di una briciola. Ma gennaio porta anche delle belle feste: Capodanno e l’Epifania. Sono feste liete e tutti di fanno gli auguri.
In gennaio il contadino riposa; ma la terra, sotto, lavora. E, più è freddo e più nevica, e più le piantine morse dal freddo accumulano energia per coprirsi di fior e di frutta e più il grano tenuto indietro dalla neve, accestisce: ogni chicco quattro o cinque steli; ogni stelo una spiga, ogni spiga tanti granelli. Aritmetica dell’universo. Sotto la neve, pane; sotto l’acqua, fame.
Gennaio prende il suo nome da Giano, il dio che i Romani raffiguravano con due facce: una volta al passato, una volta all’avvenire. Infatti, essendo il primo mese dell’anno, gennaio ci invita a guardare quello che è passato e a sperare e far propositi per i giorni che verranno. Che cosa ci riservano, questi? Nessuno lo sa.
I contadini seminano il grano, arano il terreno per le patate e il granoturco; potano le viti e gli ulivi. Gennaio è il mese più freddo dell’anno, ma è tanto amato dai bambini per l’Epifania.
Sole di gennaio Siamo alla fine di gennaio e nell’aria c’è già un sole, un respiro, un errabondo odore di primavera. Si sente dire che sui colli i mandorli cominciano a fiorire; ma qui, nell’orto suburbano che mi consola con la sua vista serena, non si scorge ancora nessun segno di vita. Dietro la siepe di bosso e il filare di girasoli rinsecchiti e pencolanti l’arida terra porta soltanto qualche ciuffo d’erba pallida tra i mucchi di grigia sterpaglia. I ciliegi disegnano netto nel cielo l’arabesco dei loro rami nerastri e gropposi. Più oltre, la vite a pergola lascia pendere qualche esile tralcio, nudo, chiaro e liscio. Eppure la precoce primavera è arrivata anche qua. Il colore del sole mattutino, disteso sul terreno è color di rosa; le ombre dei ciliegi su quel rosa sono violette; quelle della vigna sul muretto bigio di fondo, azzurre e come tremanti. E le tre case che chiudono l’orizzonte, una rosa, una giallina, gialla la terza, slavate dalla pioggia e scialbate dal sole, direi che mandino luce, quasi fossero fatte di una preziosa materia trasparente. Sono case qualunque, case utilitarie, che non han nulla di bello e neppure ambiscono ad esser belle; ma in quest’aria primaverile d’inverno diventano bellissime: magiche creazioni del nostro sole di pianura, di pianura padovana. Perchè, sì, anche qui sento e riconosco la mia città materna: in questa semplicità e modestia di paesaggio, in questa timida delicatezza di rapporti tonali in questa luce di poesia che si sprigiona dalle più umili e povere cose. (D. Valeri)
Dettati ortografici su Gennaio – Tutte le opere contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere.
Poesie e filastrocche sulla neve – una raccolta di poesie e filastrocche sulla neve, di autori vari, per bambini della scuola d’infanzia e primaria.
La neve Neve bella, fatta a stella, bianca neve, lieve lieve vienmi in mano, piano piano Sei per poco dolce gioco, dolce gioco in mille fiocchi che mi frullan sotto gli occhi. (Ada Negri)
Scenetta bianca Da un bel boschetto a far la serenata la luna tutta bianca s’è affacciata: sono i monti, le valli, le colline tutti sparsi di pecore piccine. La luna ride un poco: un faggio stanco dorme sognando un gran cappuccio bianco. Sola sul monte una chiesetta in pace con la pupilla d’oro guarda e tace. (Luisa Nason)
Nevica Sopra i tetti, sulle strade piano piano, lieve lieve cade giù la bianca neve. Danza, scherza, su nell’aria, si rincorre, si riprende e poi lenta lenta scende. Come candida farfalla che è già stanca del suo volo si riposa sopra il suolo ed in breve lo ricopre d’un uguale bianco manto: sembra tutto un dolce incanto. (P. Guarnieri)
C’è una bimba C’è una bimba che spazza davanti alla sua porta! La bimba è piccola e la granata è corta; la neve è tanta tanta che copre la città: a spazzarla via tutta chi mai ci arriverà? Ci arriveremo tutti, se ognuno spazza un po’… la bimba è piccolina, ma fa quello che può. (L. Schwarz)
Il gelo Dormiva la vallata nella notte serena: s’affacciò il gelo e disse: “Bene, mi sento in vena! Quest’è un’ora tranquilla, nessuno sta a vedere e si lavora in pace. Mi fa proprio piacere. Io non somiglio punto a quei furioni miei parenti, la grandine, il vento, gli acquazzoni. Quanto fracasso fanno! Par che ci sian che loro e sciupano ogni cosa. Io sto zitto e lavoro.” Così borbotta il gelo, ride la luna piena mentr’ei va silenzioso per la notte serena. (Camilla Del Soldato)
Neve Cade la neve a falde larghe e piane, da ore e ore, senza mutamento. Non una voce; non un fil di vento; non echi alle casupole lontane. Nei boschi e nelle immense Alpi lontane ogni soffio di vita sembra spento. Sotto quel bianco ammanto è un sognar lento di piante, d’erbe e di speranze umane. (Ada Negri)
Paese nuovo Il bimbo guarda alla finestra i fiocchi taciti, ch’empion turbinando l’aria; guarda la strada bianca e solitaria, che non ha che un ombrello e due marmocchi. E guarda la casina dirimpetto, ch’è agghiacciata dal vento e dalla bruma. ma che pur nel silenzio algido fuma con la pipa del suo comignoletto. Sorride il bimbo nel suo caldo covo, ed è stupito perché i fiocchi, a un tratto, d’un paesello nero e vecchio han fatto un paesello tutto bianco e nuovo. (Marino Moretti)
La neve e la culla Lenta la neve fiocca, fiocca, fiocca. Senti: una zana dondola pian piano. Un bimbo piange, il piccol dito in bocca, canta una vecchia, il mento sulla mano, la vecchia canta: “Intorno al tuo lettino c’è rose e giglio, tutto un bel giardino:” Nel bel giardino il bimbo s’addormenta. La neve fiocca lenta, lenta, lenta… (G. Pascoli)
Nevicata C’è la mostra del bianco. Ecco, ogni cosa lentamente si veste di candore. Lieve cade la neve senza posa… Quanto biancore! Son di bambagia i tetti diventati, di lattemiele sembrano i camini; le gronde e i cornicioni sono ornati di trine fini. Tra le farfalle bianche della neve spaurito vola, nero, un uccellino. Nell’aria si disperde il fumo lieve d’alto camino. All’improvviso appare un po’ di rosa, lassù, nel cielo, fra la neve bianca; ma vince ancor la neve silenziosa, e il rosa imbianca. (A. Castoldi)
Fiocchetti bianchi Candida, lieve, morbida, fina, questa mattina scende la neve. I fiocchi bianchi mi sembran ali: sui davanzali si posan stanchi. Dal grigio cielo, su prati e fonti, su chiese e ponti, stendono un velo. Vestono i rami d’alberi spogli; i sassi grami sembrano scogli. In girotondo copron la siepe; adesso il mondo pare un presepe. (C. Ronchi)
Nevicata Nevica; l’aria brulica di bianco; la terra è bianca; neve sopra neve; gemono gli olmi a un lungo mugghio stanco: cade del bianco con un tonfo lieve. E le ventate soffiano di schianto e per le vie mulina la bufera; passano bimbi: un balbettio di pianto; passa una madre: passa una preghiera. (G. Pascoli)
Canzoncina della neve Dal cielo tutti gli angeli videro i campi brulli senza fronde né fiori, e lessero nel cuore dei fanciulli che amano le cose bianche. Scossero le ali stanche di volare. E allora scese lieve lieve la fiorita di neve. (O. Visentini)
La neve Ieri sull’alto colle, oggi nel piano arato, la neve è sulle zolle, e copre il seminato. “Buon raccolto di grano!” fa il provvido bifolco; ma un passerotto invano cerca l’amico solco. E saltella leggero, e pare quasi stanco, piccolo punto nero sopra l’immenso bianco. (Rubber)
La neve Danzi nel cielo, candida e lieve, o bella neve. Poi silenziosa, distendi al suolo il tuo lenzuolo. “Uh com’è freddo questo mantello!” geme l’uccello. E i poverelli dicon sgomenti: “Ah quanti stenti e quanto freddo patir si deve con questa neve!”. Dicono i bimbi: “Andremo a sciare e a scivolare, a fare palle e un fantoccione tutto burlone: la pipa in bocca, i baffi neri, gli occhi severi…”. Dice contento il campagnolo: Non gela il suolo sotto la neve: e il chiccolino sta ben caldino!”. (T. Romei Correggi)
La neve Sui campi e sulle strade, silenziosa e lieve, volteggiando, la neve cade. Danza la falda bianca, nell’ampio ciel, scherzosa, poi sul terren si posa stanca. In mille immote forme, sui ceppi e nei giardini dorme. Tutto dintorno è pace: chiuso in oblio profondo, indifferente , il mondo tace. (Ada Negri)
Nevicata Nevica: l’aria brulica di bianco; la terra è bianca; neve sopra neve: gemono gli olmi a un lungo mugghio stanco: cade del bianco con un tonfo lieve. (G. Pascoli)
Povero pettirosso! Eccolo lì, povero pettirosso! Con la neve, per lui c’è carestia; e chi sa mai quanta malinconia si sente addosso… Nè bacche, nè granelli, eh, poverino! e le belle giornate son lontane… Li vuoi questi minuzzoli di pane, pettirossino? (C. Del Soldato)
Neve bella Neve bella, fatta a stella, bianca bianca, lieve lieve, vienmi in mano, piano piano, sei, per poco, dolce gioco; dolce gioco in mille fiocchi che mi frullan sotto gli occhi.
Allegria sulla neve Sulla neve è ritornata l’allegria dei ragazzi: c’è chi ride, c’è chi canta, chi bersaglia i bei pupazzi. Tutti bianchi, incappucciati, van correndo qua e là; sono allegri, spensierati, pien di gran serenità. (V. Battù)
Nevicata Le casette stupefatte sono bianche come il latte. Tutto è bianco, monte e valle… è un diluvio di farfalle. Lungo i tetti sopra i rami, che merletti che ricami! Che stupore per gli uccelli! Che cappucci sugli ombrelli! (P. Ruocco)
Ballatella della neve In una casetta dell’Alpe lontana dimora una vecchia fra biche di lana: di soffice lana di sue pecorelle da essa tosate a un lume di stelle; ed ora la dona al vento che in breve la muta in fiocchetti di candida neve. Mulina, mulina nell’aria gelata la morbida lana così trasformata! Che gioia vederla! Per tutta la valle è come una danza di lievi farfalle: un piover giocondo di piume d’argento che cambia, oh portento la scena del mondo. Intanto, dal cavo d’un buio crepaccio or esce un vegliardo con barba di ghiaccio. Che torbido sguardo, che cera stizzosa! Al freddo suo fiato s’ammala ogni cosa… Ei spegne le foglie sugli alberi foschi, discaccia gli uccelli lontano dai boschi, trasmuta le fonti in lastre di vetro e brontola brontola un monito tetro. Ma sotto la neve e bulbi e radici riposano in pace sicuri, felici. E sognan l’aprile e il sole giocondo che ancor farà verde la scena del mondo. (G. Striuli)
Fata bianchina La sai tu la storia di Fata Bianchina che soffice, cheta, dal cielo calò? Tranquilla discese, una grigia mattina e il candido manto su tutto gettò- I bimbi, felici, batteron le mani, i passerottini gemeron “Ci ci”. Guardò il contadino sui campi lontani e disse contento: “Va bene così”. Ma il sole col vivido disco di fuoco nel cielo schiarito a un tratto brillò e Fata Bianchina dovè, a poco a poco disfarsi nel pianto. Così se ne andò. (P. Bianchi)
Neve Dal cielo tutti gli angeli videro i campi brulli senza fronde nè fiori, e lessero nel cuore dei fanciulli che aman le cose bianche. Scossero le ali stanche di volare ed allora discese lieve lieve, la fiorita neve. (U. Saba)
Neve Giù dal cielo grigio grigio zitta zitta, lieve lieve lenta lenta, bianca bianca sulla terra vien la neve. Mille bianche farfalline fanno il manto alle colline mille candide farfalle tintinnando fanno ai campi un bianco scialle mille fiocchi immacolati danno ai monti, ai boschi, ai prati alle strade, ai tetti, al suolo un bellissimo lenzuolo i bambini guardan fuori e non apron più la bocca e la neve lenta lenta scende scende, fiocca fiocca. (Ruocco)
Neve Le casette stupefatte, sono bianche come latte tutto è bianco, monte e valle, è un diluvio di farfalle lungo i tetti, sopra i rami, che merletti, che ricami.
La nevicata Sulla campagna squallida e pensosa scende la neve, a larghi fiocchi e lenti, e sui morbidi strati rilucenti immacolata e tacita si posa. Scende d’un fitto vel, copre ogni cosa; copre casette, ponti, acque dormienti; e colma fossi, imbianca bastimenti e scende senza fine e senza posa. (E. De Amicis)
Neve Cadono i fiocchi ma non si posano subito. Restano un poco in alto esitano sospesi, come cercassero un posto pulito per riposare e raccogliersi. (G. Serafini)
Sgocciola la tettoia Dalle nuvole rotte il sole ad intervalli in berretta da notte mette fuori la faccia stralunata sbadigliando di noia. E frattanto, di neve disgelata sgocciola la tettoia come il nasuccio d’uno scolaretto che smarrì il fazzoletto. Al margine del fosso squittisce un pettirosso. (A. Ghislanzoni)
Fiori di neve Petali bianchi nell’aria greve. Fiori di neve sui rami stanchi. Sul verde tenero del nuovo grano s’adagian piano gigli e asfodeli: fiorita lieve che ignora stelo… Gemme del cielo fiori di neve. (M. Castoldi)
Tracce sulla neve Chi è passato di qui? Un bruno cervo timido. Chi è passato di là? Un coniglietto trepido, un orso vecchio e placido. Chi è passato di qui? Un topo velocissimo che corre al suo cunicolo tiepido e comodissimo. (K. Jackson)
La neve Giù dal cielo grigio grigio, zitta zitta, lieve lieve lenta lenta bianca bianca sulla terra vien la neve. Mille bianche farfalline fanno il manto alle colline, mille candide farfalle tintinnando, fanno ai campi un bianco scialle. Mille fiocchi immacolati danno ai monti, ai boschi, ai prati, alle strade, ai tetti, al suolo un bellissimo lenzuolo. I bambini guardan fuori e non aprono più bocca e la neve lenta lenta scende, scende, fiocca, fiocca. (Ruocco)
Nevica Le casette stupefatte sono bianche come latte. Tutto è bianco, monte e valle… E’ un diluvio di farfalle. Lungo i tetti, sopra i rami, che merletti! Che ricami! Che stupore per gli uccelli! Che cappucci per gli ombrelli!
Ballatella della neve In una casetta dell’alpe lontana dimora un vecchia fra sacchi di lana; di soffice lana di sue pecorelle da essa tosate a lume di stelle; ed ora la dona al vento che in breve la muta in fiocchetti di candida neve. Mulina, mulina, nell’aria gelata la morbida lana così trasformata! Che gioia vederla, per tutta la valle è come una danza di lievi farfalle: un piover giocondo di piume d’argento che cambia, oh portento! la scena del mondo. Ma sotto la neve e bulbi e radici riposano in pace sicuri e felici, e sognan l’aprile e il sole giocondo che ancor farà verde la scena del mondo.
Inverno Ma cosa accade? Guardati intorno! Alberi spogli e breve il giorno. Oh quanto freddo lungo le strade forse tra poco la neve cade. Con questo freddo dentro restiamo e un ritornello insiem cantiamo.
Inverno Il ghiaccio e la neve copron la terra Il rigido gelo gli alberi afferra. I rami si piegano al fischio del vento. S’ode nel bosco un triste lamento. Ma sotto la terra umida e scura il seme prepara la vita futura.
Nella siepe Nella siepe tutta spini son rimasti gli uccellini perchè il rovo e il biancospino il sambuco e l’agazzino hanno bacche colorite nutrienti e saporite. Ma lombrichi e chioccioline ricci, serpi, e formichine la lucertola curiosa e il ramarro che riposa stan nascosti a sonnecchiare finchè il sol potrà tornare. Stan nascosti giorno e sera aspettando primavera.
Neve Scendono le stelline dal cielo a mille a mille avvolte in bianco velo la terra desolata copron silenti e pure d’una coltre gemmata. Benedice la madre quel prezioso mantello ed il cielo saluta col sorriso più bello. (G. Noseda)
La neve Sui campi, sulle strade, silenziosa, bella, lieve, volteggiando già la neve, cade. Danzan fiocchi bianchi contro il cielo rosa poi a terra posan, stanchi. Su mille immote forme sui tetti e sui camini sui cippi e sui giardini, dorme. Tutto intorno è pace chiuso in oblio profondo indifferente il mondo, tace. (Ada Negri)
La neve Bianca neve silenziosa scendi lieve senza posa. Eri pioggia su nel cielo t’ha gelato il crude gelo ogni goccia fu stellina bianca neve piccolina. Ora scendi bianca e bella ogni fiocco è una stella così bianca resterai finchè al sol ti scioglierai. Bianca neve silenziosa scendi scendi senza posa.
La canzone della neve Sotto il morbido mantello della neve immacolata dorme l’erba scolorata dorme nudo l’alberello. Dorme il ghiro, dorme il tasso la lucertola si stira lo scoiattolo sospira con un suon di contrabbasso. Ma nel solco che lo serra veglia il seme di frumento lo vedremo al sole, al vento, rinverdir tutta la terra. Lo vedremo al tempo bello d’oro il campo rivestire finge intanto di dormire sotto il candido mantello.
Cade lenta, silenziosa, bianca, soffice, la neve, è una danza misteriosa di farfalle, lieve, lieve. Senza fretta, piano piano, si distende il bianco manto, si ricopre il monte, il piano, la natura è un dolce incanto.
Sotto la neve pane Cadde la neve, ma non fu tormenta sì cadde come fa quando rimane un bianco sfarfallio nell’aria spenta un morbido calar di bianche lane. E da prima infiorò le rame, i fusti, le nude siepi, tutti i secchi arbusti. Poi disegnò come di netto smalto i margini, le prode, ogni rialto. Poi s’allargò, s’alzò a mano a mano stese una coltre là dal monte al piano. Sii benvenuta, neve. La sementa non crescerà precoce in spighe vane chè la fredda tua coltre l’addormenta. Io sento dir: “Sotto la neve, pane!”. (P. Mastri)
Giorno di neve Scende scende lieve e bianca sulla terra così stanca scende lenta lenta lenta e la valle si addormenta. Notte serena. Dorme, sogna, mentre il cielo torna azzurro, senza velo, e sorride una stellina, alla valle piccolina.
La prima neve Questa mattina quando apersi gli occhi guardai dalla finestra vidi la neve che cadeva a fiocchi sulla strada maestra. Tutto era bianco: il tetto ed il cortile e avea un cappello bianco il campanile.
La neve Dorme la neve, dorme in mille strane forme sui sentieri, sulle strade, sui fossati, sulle case, sui tetti, su campagne, su poggi, su montagne, su quel tappeto bianco dorme l’inverno stanco.
La neve Fiocca fiocca, neve bianca, fiocca fiocca, non si stanca. Posa qua, posa là, alla terra un manto fa.
Nevicata Nevica: l’aria brulica di bianco; la terra è bianca; neve sopra neve; gemono gli olmi a un lungo mugghio stanco; cade del bianco con un tonfo lieve. E le ventate soffiano di schianto e per le vie mulina la bufera: passano i bimbi: un balbettio di pianto; passa una madre; passa una preghiera. (G. Pascoli)
La danza della neve Neve, neve, scendi lieve sopra i campi e le contrade; neve, copri col tuo manto boschi e case, tutto quanto; neve, scuoti, bianca e bella, il tuo vel di reginella. Sulla terra che rinserra il tesor del contadino mille chicchi, mille semi, scenda in fiocchi il tuo mantello, bianco bianco… fino fino, e niun chicco al freddo tremi! Verrà il sol di primavera dispiegando una bandiera di roselle e gigli e viole: da ogni chicco il fusticino s’alzerà lieto nel sole, verde verde, fino fino. Scendi, scendi, o reginella, tutta bianca pura e bella, scendi piano piano piano… Benedice il contadino il tuo manto fino fino, chè la neve è madre al grano. (Hedda)
Ballatella della neve In una casetta dell’Alpe lontana dimora una vecchia fra biche di lana: di soffice lana di sue pecorelle da essa tosata a un lume di stelle; ed ora la dona al vento che in breve la muta in fiocchetti di candida neve. Mulina, mulina, nell’aria gelata la morbida lana così trasformata! Che gioia vederla! Per tutta la valle è come una danza di lieve farfalle: un piover giocondo di piume d’argento che cambia oh portento la scena del mondo. Ma sotto la neve e bulbi e radici riposano in pace sicuri e felici, e sognan l’aprile e il sole giocondo che ancor farà verde la scena del mondo. Ma sotto la neve e bulbi e radici riposano in pace sicuri, felici, e sognan l’aprile e il sole giocondo che ancor farà verde la scena del mondo. Intanto, dal cavo d’un buio crepaccio or esce un vegliardo con barba di ghiaccio. Che torbido sguardo, che cera stizzosa! Al freddo uso fiato s’ammala ogni cosa… Ei spegne le foglie sugli alberi foschi, discaccia gli uccelli lontano. (G. Striuli)
Orfano Lenta la neve fiocca, fiocca, fiocca. Senti: una zana dondola pian piano. Un bimbo piange, il piccol dito in bocca; canta una vecchia, il mento sulla mano. La vecchia canta: “Intorno al tuo lettino c’è rose e gigli, tutto un bel giardino.” Nel bel giardino il bimbo s’addormenta. La neve fiocca lenta, lenta, lenta… (G. Pascoli)
Neve Candida, lieve, quasi danzando scende la neve infiocchettando l’albero spoglio che dorme e spera qualche germoglio per primavera. La neve cade cade silente copre le strade morbidamente, mette il mantello alla montagna, uno più bello alla campagna che si riposa; imbianca i tetti veste ogni cosa, di bei fiocchetti, semina un velo immacolato tessuto in cielo e sbriciolato sopra la terra ch’è vecchia e stanca, vi si rinserra, diventa bianca, e serba in cuore gelosamente, sotto il candore tanta semente. (M. Voltolini)
Neve
Dal cielo tutti gli angeli videro i campi brulli, senza fronde nè fiori e lessero nel cuore dei fanciulli che aman le cose bianche. Scossero le ali stanche di volare ed allora discese lieve lieve la fiorita neve. (U. Saba)
L’uomo di neve Bella è la neve per l’uomo di neve, che ha vita allegra anche se breve e in cortile fa il bravaccio vestito solo d’un cappellaccio. A lui non vengono i geloni, i reumatismi, le costipazioni… Conosco un paese, in verità, dove lui solo fame non ha. La neve è bianca, la fame è nera. E qui finisce la tiritera. (Gianni Rodari)
Neve Poveretto chi non sa sciare nè pattinare. Di tanta neve, che ne fa? Tutto quel ghiaccio non gli serve a nulla. Di tanta gioia lui non può godere: al massimo si farà una granita in un bicchiere. (Gianni Rodari)
Neve Una danza di pazze farfalle, questa notte ha tramato un tappeto che si stende dal monte alla valle. Or non s’ode il più lieve sussurro; tutto il mondo è coperto d’argento, tutto il cielo asfaltato d’azzurro… (T. Colsalvatico)
Neve Cade la neve a falde larghe e piane, da ore e ore senza mutamento. Non una voce; non un fil di vento; non echi alle casupole lontane. Nei boschi e nelle immense Alpi lontane ogni soffio di vita sembra spento. Sotto quel bianco ammanto è un sognar lento di piante, d’erbe e di speranze umane. (A. Negri)
Nevicata Dalle profondità dei cieli tetri scende la bella neve sonnolenta, tutte le cose ammanta come spettri; scende, risale, impetuosa, lenta, di su, di giù, di qua, di là, s’accenta alle finestre, tamburella i vetri… Turbina densa in fiocchi di bambagia, imbianca i tetti ed i selciati lordi, piomba, dai rami curvi, in blocchi sordi… Nel caminetto crepita la bragia… (G. Gozzano)
Ricami di neve Il gelo appende calici di vetro dalle gronde, il fiato stende impronte di fiori sui cristalli. L’alba cuce vivagni di seta gialla e rosa lungo la luminosa curva delle montagne. Sul manto della neve ci sono orme di stelle: le han lasciate gli uccelli, tante, col piede lieve. Ci sono orme in fila di chiodi a croce, ad arco, che hanno segnato un varco profondo sulla via: di qua e di là le siepi sono sparse di trine fragili, senza fine, soffici come sete; e i rami scheletriti per i campi ed i prati si sono ritrovati a un tratto rifioriti. Il passo vagabondo d’un felice bimbetto va segnando un merletto sul candore del mondo. (G. Porto)
Come petali Nella bigia aria sciamano i fiocchi della neve, come petali che cadono da invisibili rame. C’è un silenzio, che pare stia per compiersi un miracolo. I bimbi lascian di giocare e guardano con uno stupore che li fa docili. Si metton le fantasie in chi sa quale viaggio per chi sa quale reame. I poveri vecchi si fan coraggio sospirando avemarie. (I. Drago)
Neve Nevica: l’aria brulica di pianto; la terra è bianca; neve sopra neve: gemono gli olmi a un lungo mugghio stanco: cade nel bianco con un tonfo lieve. E le ventate soffiano di schianto e per le vie mulina la bufera. (G. Pascoli)
Nevicata Su in cielo, un immenso fatato giardino, v’è certo di mandorli in fiore! Stamane di sopra il grigiore qualcuno li ha scossi giocondo, e i fiori, sfacendosi piano, cadere han lasciato man mano sul torpido mondo con timidi frulli, con fremiti d’ale i piccoli petali lievi… (A. Carlini Venturino)
Quadretto invernale Il bimbo guarda alla finestra i fiocchi taciti, ch’empion turbinando l’aria; guarda la strada bianca e solitaria, che non ha che un ombrello e due marmocchi. E guarda la casina dirimpetto, che è agghiacciata dal vento e dalla bruma, ma che pur nel silenzio algido fuma con la pipa del suo comignoletto. Sorride il bimbo nel suo caldo covo, ed è stupito perchè i fiocchi, a un tratto d’un paesello nero e vecchio han fatto un paesello tutto bianco e nuovo. (M. Moretti)
Primo inverno Il cielo ha spiegato un sudario candido sopra il mondo. Distende a croce le braccia l’albero solitario. La terra pare che giaccia in sonno tanto profondo che somiglia a una morta con quel sudario addosso, con quella pianta storta che tende i suoi rami d’osso. E ci vien da pensare che forse ne sole ne grida la possano richiamare un’altra volta alla vita. (G. Porto)
Neve Fischia un grecale gelido, che rade: copre un tendone i monti solitari: a notte il vento rugge, urla: poi cade. E tutto è bianco e tacito al mattino nuovo: e dai bianchi e nudi casolari il fumo sbalza qua e là turchino. (G. Pascoli)
Nella neve Sull’alba, intatta al suolo, è la gran nevicata che fioccò tutta notte. Poi sul bianco lenzuolo appar qualche perdata: piè grandi e scarpe rotte. Soffre la vita o dorme. Coi bambini il verno è crudo e con l’età cadente. Veggo, tra l’altre, l’orme d’un piccol piede ignudo, che m’attrista la mente… Ahi! Ahi! chi vi ristora, o tremanti piedini di fanciullo errabondo? Dunque vi sono ancora dei poveri bambini, che van, scalzi, pel mondo? (E. Panzacchi)
Regina bianca Regina bianca, gioia dei fanciulli, tu vesti come petti di colobi, le rupi sui declivi, le punte dei cipressi e gli alti pini. Rendi la guancia soffice alle strade, e fai turgidi i tetti delle case raccolte nel tepore delle stufe. I campi, che sconfinano col cielo hanno il tuo volto candido da sposa. (M. Mazzeo)
Giochi d’inverno Nebbia, che cosa hai fatto! Un velario di seta. Ogni cosa è segreta a un tratto. Che ricamo, che trina, quanti gioielli intorno: li dona al nuovo giorno la brina. Ma zitti… bianca, lieve tutto copre e nasconde, viali, casette e fronde, la neve… (D. Rebucci)
La neve Tutta bianca nella notte bruna la neve cade lenta volteggiando. O pratoline, ad una ad una, tutte bianche nella notte bruna! Chi dunque lassù spiuma la luna? O fresca peluria, o fiocchi fluttuanti! Tutta bianca nella notte bruna, la neve cade lenta volteggiando. (G. Richepin)
Neve Eri candida foglia volando e sul ramo fioristi senza sole e vita più lieve del fiore del mandorlo, non soffia uno sguardo di rosa e subito cadi e t’infanghi. (C. Govoni)
Il biglietto del passero Stamane, dopo la nevicata, il davanzale del mio balcone, candido, eguale, sembra una pagina immacolata. Ma, se la guardo con maggior cura un po’ dappresso vedo sovr’esso non so che segni, quale scrittura… Chi avrà scavato dentro la neve quei fiorellini tutti a tre petali, stellucce fini, allineati con grazia lieve? Son le zampine d’un passerotto meschino: ed ecco i bucherelli fatti col becco, che qualche briciola cercava sotto. Ahimè! Stamane quel poveretto restò a digiuno, e d’avvertirmi trovò opportuno, forse, lasciandomi… il suo biglietto. (Puck)
Mattino di neve Il risveglio fu lento: dalle pievi un suono giunse, timido e smorzato; indi gli spalatori, a colpi brevi, urtarono le pietre del selciato. S’udirono di sotto al porticato gli schiaffi sordi di stivali grevi. Uno in istrada disse: “E’ nevicato. Chi dorme o indugia a letto non si levi”. E fu d’imposte un secco sbatacchiare ed un cantilenar di voci breve, e qualche dialoghetto di comare; indi l’alba si alzò, pallida e lieve, e ognuno vide la città posare nella luce d’argento della neve. (Anna Maria Beccanulli)
La neve Viveva in una nuvola come una gatta in soffitta: stanotte, zitta zitta la neve è caduta giù. Cosa diranno i bambini a vederla, già morta sui gradini della porta, come un povero caduto lì? Aveva freddo e nessuno gli aprì. (R. Pezzani)
Cade la neve Cade la neve, la neve. Alle bianche stelline nella tempesta si protendono i fiori di gennaio dal telaio della finestra… Cade la neve, la neve. Non come cadessero fiocchi, ma come se sopra un rappezzato mantello scendesse a terra la volta del cielo… Cade la neve, la neve, la neve, e ogni cosa è smarrita, il pedone imbiancato le piante stupite… (Boris Pasternak)
La neve Dal cielo tutti gli angeli videro i campi brulli senza fronde nè fiori, e lessero nel cuore dei fanciulli che ama le cose bianche. Scossero le ali stanche di volare. Ed allora scese lieve lieve la fiorita di neve. (O. Visentini)
La nevicata Sulla campagna squallida e pensosa scende la neve, a larghi fiocchi e lenta, e sui morbidi strati rilucenti immacolata e tacita si posa. Scende, d’un fitto vel copre ogni cosa; copre casette, ponti, acque dormenti; e colma fossi, imbianca bastimenti e scende senza fine e senza posa. (E. De Amicis)
Nevicata Sui campi e sulle strade silenziosa e lieve volteggiando, la neve cade. Danza la falda bianca nell’ampio ciel scherzosa, poi sul terren si posa stanca. In mille immote forme sui tetti e sui camini, sui cippi e sui giardini dorme. Tutto d’intorno è pace; chiuso in oblio profondo indifferente il mondo tace. (A. Negri)
La pioggia di stelle Chi ha detto alle neve: “Vieni?” Ed ecco la neve è venuta, obbediente, muta. L’hanno chiamata i fanciulli, forse, a vestire di bianca allegria i campi brulli, la deserta via? O sono stati i granelli sepolti nei freddi terreni, rabbrividenti a tutti i venti, che han detto alla neve: “Vieni?” O fu l’ordine di Dio? Si muove dal cielo di stelle un minuto scintillio: misterioso s’affretta verso la terra che aspetta. Sulla terra i sapienti studiosi, curiosi, con delicati strumenti, scrutano il bianco mistero, e dicono: “E’ vero: la neve è una pioggia di belle, di minime stelle!” Le minime stelle all’aurora un poco scintillano ancora. (Gina Vaj Pedotti)
Gli esquimesi Strana gente, gli esquimesi: sono di ghiaccio i loro paesi; di ghiaccio piazze, strade e stradette, sono di ghiaccio le casette; il soffitto e il pavimento sono di ghiaccio, non di cemento. Perfino il letto è di buon ghiaccio, tagliato e squadrato col coltellaccio. Ed è di ghiaccio, almeno pare, anche la pietra del focolare. Di non – ghiaccio c’è una cosa, la più segreta, la più preziosa: il cuore degli uomini che basta da solo a scaldare persino il polo. (G. Rodari)
La neve E’ scesa la neve, divina creatura, a visitare la valle. E’ scesa la neve, sposa della stella, guardiamola cadere. Dolce! Giunge senza rumore come gli esseri soavi che temono di far male. Così scende la luna, così scendono i sogni… Pura! Guarda la valle tua, come sta ricamandola di gelsomino soffice. Ha così dolci dita, così lievi e sottili, che sfiorano senza toccare. Bella! Non ti sembra che sia il dono mirabile d’un alto donatore? Chissà che agli uomini non rechi un messaggio da parte del Signore. (G. Mistral)
Nevicata Dalle profondità dei cieli tetri scende la bella neve sonnolenta, tutte le cose ammanta come spettri: scende, risale, impetuosa, lenta. Di su, di giù, di qua, di là s’avventa alle finestre, tamburella i vetri… Turbina densa in fiocchi di bambagia, imbianca i tetti ed i selciati lordi, piomba, dai rami curvi, in blocchi sordi… Nel caminetto crepita la bragia… (G. Gozzano)
I passeri Fischia un grecale gelido che rade: copre un tendone i monti solitari: a notte il vento rugge, urla: poi cade. E tutto è bianco e tacito al mattino: nuovo; e dai bianchi e muti casolari il fumo balza, qua e là turchino. La neve! Allora, poi che il cibo manca, alla città dai mille campanili scendono, alla città fumida e bianca: a mendicare. Dalla lor grondaia spiano nelle chostre e nei cortili la granata o il grembiul della massaia. Scende. Scende. Il cielo tutto a terra cade col bianco polverio d’una rovina. Non un’orma. Svanite anche le strade. La terra è tutto un solo mare a onde bianche, di zolle ov’erano le biade. Resta il mio casolare unico, donde esploro invano. Non c’è più nessuno. E solo a me chiamo, ecco risponde il pigolio d’un passero digiuno. (G. Pascoli)
Il borgo sotto la neve Nel borgo, una breve piazzetta, una fontanina in un canto che fa cioc cioc ogni tanto, tre alberi, una chiesetta col campanile sottile come un dito che accenni lassù, dieci case, non una di più, un ponticello, un fienile… Un borgo, capite, assai breve che basta a coprirlo un grembiule inamidato ed uguale, un grembiuletto di neve… Lui dorme, lì sotto, imbacuccato di lana… (Aldo Gabrielli)
Nevicata La bella neve! Scendete, scendete, leggiadri fiocchi danzanti nei cieli: come perlucce coprite, pingete i tetti, i tronchi, la mota, gli steli… (Emilio Praga)
Un po’ d’amore Quando la neve coprì la mia casa, un passero volò dalla cimasa. – O passerotto, non volar lontano, troverai neve e gelo in tutto il piano – gli dissi. – Resta e non sarai mai solo – M’intese? Un frullo e si posò nel brolo. Di là ritorna spesso al davanzale, mi chiama con un trillo e un batter d’ale. Gli offro briciole e chicchi di gran cuore. Quanto bene può fare un po’ d’amore! (Dina Rebucci)
Nella neve Sull’alba, è intatta al suolo la grande nevicata che fioccò tutta notte. Poi sul bianco lenzuolo appar qualche pedata: piè grandi e scarpe rotte. Soffre la vita o dorme. Ai bimbi il verno è crudo come all’età cadente. Veggo, tra l’altro, l’orma d’un picciol piede ignudo che m’attrista la mente… Ahi, ahi, chi vi ristora, o tremanti piedini di fanciullo errabondo? E vi son dunque ancora dei poveri bambini che van, scalzi, per ‘l mondo? (E- Panzacchi)
La neve Viveva in una nuvola come una gatta in soffitta: stanotte, zitta zitta la neve è caduta giù. Cosa diranno i bambini a vederla, già morta sui gradini della porta, come un povero caduto lì? Aveva freddo e nessuno gli apri? (R. Pezzani)
Cade la neve, la neve Cade la neve, la neve. Alle bianche stelline nella tempesta si protendono i fiori a gennaio dal telaio della finestra… Cade la neve, la neve. Non come cadessero fiocchi, ma come se sopra un rappezzato mantello scendesse a terra la volta del cielo… Cade la neve, la neve, la neve, e ogni cosa è smarrita, il pedone imbiancato le piante stupite… (B. Pasternak)
La neve Tutta bianca nella notte bruna la neve cade lenta, volteggiando. O pratoline, ad una ad una, tutte bianche nella notte bruna! Chi dunque lassù sprimaccia la luna? O fresca peluria, o fiocchi fluttuanti! Tutta bianca nella notte bruna, la neve cade lenta, volteggiando. (G. Richepin)
Uccelli nella neve Nel pomeriggio diafano di neve parlottano i merli affamati, note varie, in gorgheggi pacati. Ho messo un po’ di riso in uno spiazzo nero nel gran biancore, fin da stamane all’alba. Dolce mi è pensare alla lor festa. “C’è del riso, c’è del riso!” “Attenzione alle trappole!” (il più vecchio) “No, no è quel pittore lo conosco da un pezzo. O, le lor voci dal mio letto in penombra contro il muro miele canoro che scorre! M’affaccio pian piano alla grande finestra socchiusa. Un volo lento sul muretto con la sua coltre di neve nel cielo che appena s’arrossa. (F. De Pisis)
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Dettati ortografici sulla neve – una collezione di dettati ortografici, di autori vari, per bambini della scuola primaria. Difficoltà ortografiche varie.
Una giornata diversa
“La neve!” gridò Marcovaldo alla moglie, ossia fece per gridare, ma la voce gli uscì attutita. Come sulle linee e sui colori e sulle prospettive, la neve era caduta sui rumori, anzi sulla possibilità stessa di far rumore; i suoni, in uno spazio imbottito, non vibravano. Andò al lavoro a piedi; i tram erano fermi per la neve. Per strada, aprendosi lui stesso la sua pista, si sentì libero come non s’era mai sentito. Nelle vie cittadine ogni differenza tra marciapiedi e carreggiata era scomparsa, veicoli non ne potevano passare, e Marcovaldo, anche se affondava fino a mezza gamba ad ogni passo e si sentiva infiltrare la neve nelle calze, era diventato padrone di camminare in mezzo alla strada, di calpestare le aiuole, d’attraversare fuori delle linee prescritte, di avanzare a zig-zag. Le vie e i corsi s’aprivano sterminati e deserti come candide gole tra rocce di montagne. La città nascosta sotto quel mantello chissà se era sempre la stessa o se nella notte l’avevano cambiata con un’altra? Chissà se sotto quei monticelli bianchi c’erano ancora le pompe della benzina, le edicole, le fermate dei tram o se non c’erano che sacchi e sacchi di neve? Marcovaldo camminando sognava di perdersi in una città diversa; invece i suoi passi lo riportavano proprio al suo posto di lavoro di tutti i giorni, il solito magazzino, e, varcata la soglia, in manovale stupì di ritrovarsi fra quelle mura sempre uguali, come se il cambiamento che aveva annullato il mondo di fuori avesse risparmiato solo la sua ditta. (I. Calvino)
La prima neve
Il cielo si abbassa sempre più, coprendo col suo vaporoso candore le cime delle montagne; intorno all’ovile, le rocce bagnate e il bosco cupo avevano un’immobilità e un profondo silenzio d’attesa: i belati dei primi capretti tremolavano con lamenti che sembravano un pianto infantile. Cominciò a nevicare fittamente, a falde lunghe e larghe che parevano petali di fior di mandorlo. Le montagne sparvero tutte sotto la curva bianca dell’orizzonte; le rocce, i cespugli, il bosco, la capanna, l’elce della radura e le mandrie ricevevano in silenzio la neve continua, fitta, infinita. (G. Deledda)
Sotto la neve
Stamane alzandoci abbiamo visto tutto bianco. I monti intorno sembravano ravvicinati; un candore uguale li copre, la neve ha colmato valli e burroni. Sotto il cielo grigio il riverbero della neve è come una luce che si sprigiona dalla terra. L’aria è fredda e a tratti raffiche di vento scuotono gli alberi. Scendendo nella valle, guardo tra gli olivi ai lati della strada e scopro le ferite fresche. Alcuni rami sotto il peso della neve si sono spezzati e le piante levano in alto le braccia tronche. Le cime sono piegate e mostrano il rovescio delle foglie. (F. Seminara)
La nevicata
La neve è bella. Una nevicata è una pioggia di farfalle candide. Senza lampi e senza tuoni, quasi sempre nel più profondo silenzio, quei fiocchi bianchi scendono a mille, a milioni da un cielo bigio cinereo, roteando per l’aria e tutto ricoprendo d’un manto lucente e morbido. La terra bruna diviene bianca e bianchi i tetti e bianchi i ferri rugginosi e i muri. E le forme delle cose anch’esse si arrotondano, svaniscono, si disciolgono in quell’oceano bianco e freddo. (P. Mantegazza)
Dice la neve
“Io sono il candido e soffice mantello dei bianchi inverni; sono figlia delle nuvole, sorella della pioggia. Io vesto le vette montane, mi accumulo nelle alte vallate, dove si formano i ghiacciai che alimentano le fresche sorgenti dei fiumi i quali corrono ad adagiarsi nei piani. Io getto una morbida coltre sulle fertili pianure, sopra i campi seminati, dove il buon seme attende, nella terra in riposo, il bacio del sole primaverile che lo faccia germogliare. (P. Bianchi)
Fiocchi di neve
Avete mai guardato attentamente un fiocco di neve? Andate all’aperto con una tavola scura mentre nevica, e osservate con una lente d’ingrandimento le graziose stelline che vi cadono a miliardi dal cielo. Vi assicuro che rimarrete strabiliati dalla meravigliosa regolarità di costruzione di queste foglioline di cristallo, di questi grappoli di stelline, ognuna delle quali è un capolavoro che nessun gioielliere saprebbe imitare. Basta un cambiamento del vento o della temperatura o dell’altezza da cui scendono, perchè le loro forme cambino ed appaiano più semplici o più complesse. (B. H. Burgel)
Notte di neve
L’inverno è calato su ogni fioritura. Pochi alberi drizzano i loro scheletri, bianchi di neve, come fantasmi. Terribile notte per gli uccellini! Sui grandi alberi squallidi sono là, tremanti, senza che nulla li protegga. Coi loro occhi inquieti guardano la neve e aspettano il buio per dormire: il buio che non viene mai.
Nevicata
E’ cosa straordinaria la gioia che ci procurava una nevicata abbondante, purchè fosse neve di quella giusta: non troppo secca, non troppo umida; una cosa di mezzo, che non si sfarini tra le dita e non vada in brodo appena la si stringe. Quell’anno era neve della migliore qualità, da poterci fare tuffi e capitomboli: meglio di quando nel nostro cortile si sgrovigliava la lana dei materassi e noi si faceva, non visti, un tuffo nel mucchio. Nemmeno pareva, per essere neve, una cosa fredda. Si tornava a galla con appena un po’ di argento sugli abiti, sui capelli, subito scrollato via. E, così morbida, sapeva diventare dura come la pietra nelle mani di chi avesse un po’ di forza; diventare palle che correvano dritte al bersaglio, e s’udiva il colpo. Non mancavano, si capisce, i richiami e i comandi; e non si deve credere che l’uso degli scappellotti cessi per il solo fatto che dal cielo vien giù la neve. Ma si tollerava molto; come, durante il carnevale, si tollerano mille stravaganze. Davvero erano specie di carnevale quell’una o due giornate bianche: tempo libero a tutti gli spassi e chiassi e burle e battaglie che nessuno di noi si sarebbe concesso, nè gli altri avrebbero sopportato in altra stagione. (F. Chiesa)
Neve in montagna
I prati, le case, le piante e la montagna sono coperti di neve, e uno stormo di corvi annuncia altra neve. Sotto la neve, il bosco pare più fitto. La neve farinosa che va tranquillamente accumulandosi sui rami alti dei larici e degli abeti si da peso, e curva il ramo, poi cade e scuote altra neve di altri rami più in basso e trasforma l’albero in una nuvola bianca. I rami liberati dal peso della neve oscillano un poco nell’aria e tornano lentamente a imbiancarsi per altra neve che cade. Ai piedi degli alberi, fra un tronco e l’altro, è tutto nero. La neve cade su altra neve con un fruscio sottile. E’ così soffice, compatta, fredda asciutta che non si sentono tonfi. Lo strato cresce in silenzio; ma capita di avvertire un cedimento breve nella neve, uno strato superiore che si adagia su quello inferiore, già più saldo, e atto, a sua volta, a sopportare un nuovo strato di aria e di neve. Di ora in ora, di giorno in giorno, la neve cresce; sono cristalli che si fondono e si alzano verso il davanzale delle finestre più basse. Il cumulo si alza come una siepe, una muraglia.
Neve
Nelle città la neve ha lavorato tutta la notte a stendere il suo velo, ma al primo mattino, i piedi degli uomini e le ruote dei carri rompono la fragile trama, la pestano e ne fanno un moticcio appiccicoso. Ma nelle campagne la gran pagina bianca resta a lungo intatta, e sembra attendere chi vi scriva una grande parola di bellezza. (D. Valeri)
E nevicava
Le giogaie s’eran fatte cupe, gli alberi annerivano. Ora, dietro le fratte, si scorgevano le luci d’oro delle case, tutti i focolari accesi. E il cielo si colorava sempre più di una luce scialba. Faceva freddo. Nessun grido. Non un canto: la neve. Si compiva sulla terra un miracolo, bianco. Prima sui monti, poi sui colli, per le valli… Solo il mare restava cupo: ingoiava tutto quel cielo bianco senza placarsi. Era nevicato tutta la notte; in gran silenzio la neve aveva visitato la terra. Era venuta a mezzanotte, portata da un vento leggero di levante, e la terra, presa nel sonno, era morta. Il freddo stringeva le cose con artigli di ferro: si sentivano stridere le travi, la legna, i rami, e la terra stessa accovacciata sembrava sempre più rattrappirsi. E nevicava, ricordo, adagio, nevicava su tutti i sentieri perduti, sopra la valle scura, su tutte le povere case… (F. Tombari)
Il bucaneve Bianco come una piccola candela, dove la neve s’è sciolta, splende il bucaneve. I contadini lo chiamano il bicchiere della Madonna. Si racconta che un giorno di gennaio, poichè Gesù aveva sete, la Madonna andò alla fontana; ma questa, per il gran freddo, si era tutta gelata. “Come faccio” sospirò la Madonna “a dar da bere al mio bambino?”. La terra, udendola, forò la neve dei prati con un fiorellino colmo di fresca acqua di sgelo. Era il bucaneve. Gesù bambino potè bere; e da allora, in ricordo di quel giorno, il bucaneve ha il privilegio di forare il bianco mantello che copre la terra. (R. Pezzani)
Nevicata Era una delle ultime notti di gennaio; nevicava: le vie della città, le piazze, i davanzali, le terrazzine delle case, gli alberi dei giardini, tutto era bianco, sepolto, sovraccarico di neve; i fiocchi venivan giù lenti, grossi, fitti, e sullo strato nevoso lungo i muri, non appena s’imprimeva un’orma ne spariva ogni traccia. I lampioni agli angoli della strade mandavano intorno un chiarore velato e triste; sui crocicchi, per quanto si guardasse, avanti e indietro, a destra e a sinistra, non si vedeva nessuno; in ogni parte un silenzio cupo: si sarebbe sentita, per modo di dire, cadere la neve. (E. De Amicis)
Nevicata in città Gli alberi sono carichi di candido fogliame e di fiori cristallini. I tetti sembrano coperti d’uno strato di soffice bambagia. Un passero pigola e fa capolino dalla volta di una tegola, rannicchiato come un riccio. I bambini escono dalla scuola intirizziti, raccolti a due, a tre, sotto certi ombrelloni che paion camminare da sè, radendo terra. Tutti hanno una grande smania di correre. (A. Stoppani)
Sotto la neve Neve dappertutto: alta sui tetti, sui fianchi dei monti, sulle pinete, sui ciliegi dei cortili, sui susini degli orti, sopra i davanzali delle finestre, sulle altane delle stalle. Neve profonda: il paese vi sparisce dentro fino ai comignoli. A colpi di vanga bisogna liberare i sentieri, per giungere alle porte dei vicini e alle fontane per prender l’acqua coi secchi. La montagna di faccia sembra un colosso bianco con la fronte nel cielo bianco, con uno smisurato mantello bianco sulle spalle. I giganteschi abeti, nel loro niveo mantello, non sembrano più alberi. (R. Parini)
Notte d’inverno Nevicava: le vie della città, le piazze, i davanzali e i terrazzini delle case, gli alberi dei giardini, tutto era bianco di neve e i fiocchi venivano giù densi e fitti. Era una di quelle notti in cui chi si trova fuori di casa si affretta a ritornarvi a passi rapidi, con l’occhio a terra per scansare le pozzanghere, con il collo rientrato nelle spalle, col bavero del vestito alzato, con le mani affondate nelle tasche, tutto inarcato e rimpicciolito. (E. De Amicis)
Il silenzio della neve L’inverno porta il silenzio nei campi. E dove cade la neve, il silenzio è ben più profondo. Sotto il bianco mantello la terra dorme e i pochi rumori si perdono subito come se fossero inghiottiti dall’aria. Anche il suono delle campane, sempre così squillante e festoso, diventa cupo. La terra dorme il suo profondo sonno invernale. (G. Cauzillo)
Cortile in inverno Un cortile. Finestre chiuse, vetri appannati. Qualche filo di ghiaccio penzola qua e là dalle gronde, immobile, rigido, quasi trasparente ai deboli raggi del sole. E’ nevicato e la neve coi suoi luccichii e scintillii è la festa dei bambini. Dal cortile si levano grida di gioia che si frangono contro i vetri delle finestre e si spengono tra i muri delle case. Le voci dei ragazzi che si rincorrono nel cortile, balzano e rimbalzano con improvvisi alti e bassi, esplodono con rapidi frastuoni, tacciono, sussurrano, riprendono ad urlare.
Neve sull’oliveto Da due giorni non si apriva uno spiraglio nel cielo chiuso e inerte; il giorno era un lungo crepuscolo, e cadeva una pioggia fine e incessante. Ieri il cielo di piombo si saldò all’orizzonte come un coperchio, e a tarda sera cadde la neve, che continuò per un pezzo durante la notte, coprendo ogni cosa. Stamane, alzandoci, abbiamo visto tutto bianco. Corrono voci inquietanti di danni causati dalla neve agli olivi. Appena fuori dall’abitato, fisso lo sguardo sugli oliveti della collina opposta, ma non riesco a scoprire nulla; i miei occhi, assuefatti da alcuni giorni alla penombra della casa, sono abbagliati dalla neve che copre tutto. (F. Seminara)
Nevicate alpine Chi non vide le immense e profonde nevicate alpine, non può comprendere questo delirio della bianchezza. Le maggiori nevicate, dalle Alpi in giù, lungo i monti, le valli e le pianure d’Italia, anche a giudicarne dalle più iperboliche descrizioni, mi parvero sempre tenui e mansuete. Inverno da dilettanti o di parata, che viene per la mostra e che il primo scirocco o scioglie e mitiga in gran parte. La neve che ha tre, quattro, cinque metri di spessore, ha un aspetto ben diverso da quella che si misura in centimetri. La sua bianchezza è più immacolata, più lucente, più metallica; non c’è potenza germinativa che vinca o dissodi la sua compagine; attraverso i suoi cristalli, nulla traspare della buona faccia terrestre, il suolo che essa ricopre ne ha modificato la struttura; gli aspetti delle cose non sono più quelli. Quel dolce candore così radioso sotto il sole pomeridiano, così soavemente rosato al tramonto, se appena il cielo si appanna o cessano i raggi, diventa immediatamente spettrale. (G. Giacosa)
Riflessioni mentre nevica La natura è sepolta sotto un lenzuolo bianco. L’inverno, simbolo della vecchiaia, non è lieto per me che non ho nessun gusto a far battaglie con le palle di neve. Io amo il verde, il sole, il cielo azzurro, e sento tutta la tristezza che deve pigliare i nostri montanari del lago di Como, quando vanno a cercare lavoro e fortuna in Inghilterra. Ah si, è pane ben guadagnato, a confronto del quale quello che trovo tutti i giorni sulla tavola è pan d’oro del cielo. Eppure non ci si pensa mai: e anche ieri mi sono lamentato che non fosse abbastanza ben cotto. Nevica. Un gran silenzio pesa sulla città. Le ore giungono soffocate e rotte. Penso ai paesetti che ho veduto quest’autunno nell’Engadina, che ora saranno sepolti fino ai tetti. Domani mattina gli abitanti dovranno aprirsi una strada o una galleria nella neve; come fanno le talpe nella terra dei campi, e ringrazieranno la madre natura se quest’anno saprà essere un po’ più discreta del solito nei suoi regali. Il vecchio Giovanni, che vive lavando scodelle, ha osservato quest’oggi: “Visto che Dio ce la manda, non potrebbe essere farina? Non si avrebbe che la fatica di raccoglierla, di metterla nei sacchi e di riempirne i magazzini. Ma nasce una questione: che cosa di farebbe il resto dell’anno?”. (E. De Marchi)
Neve in montagna I prati, le case, le piante e la montagna sono coperti di neve, e uno stormo di corvi annuncia altra neve… Sotto la neve, il bosco pare più fitto. La neve farinosa che va tranquillamente accumulandosi sui rami alti dei larici e degli abeti si fa peso, e curva il ramo, poi cade e scuote altra neve di altri rami più in basso e trasforma l’albero in una nuvola bianca. I rami liberati dal peso della neve oscillano un poco nell’aria e tornano lentamente ad imbiancarsi per altra neve che cade. Ai piedi degli alberi, fra un tronco e l’altro, è tutto nero. La neve cade su altra neve con un fruscio sottile. E’ così soffice, compatta, fredda asciutta che non si sentono tonfi. Lo strato cresce in silenzio; ma capita di avvertire un cedimento breve nella neve, uno strato superiore che si adagia su quello inferiore, già più saldo, e atto, a sua volta, a sopportare un nuovo strato di aria e di neve… Di ora in ora, di giorno in giorno, la neve cresce; sono cristalli che si fondono e si alzano verso il davanzale delle finestre più basse. Il cumulo si alza come una siepe, una muraglia…
Neve Nelle città la neve ha lavorato tutta la notte a stendere il suo velo, ma al primo mattino, i piedi degli uomini e le ruote dei veicoli rompono la fragile trama, la pestano e ne fanno un moticcio appiccicoso. Ma nelle campagne la gran pagina bianca resta a lungo intatta, e sembra attendere chi vi scriva una parola: di bellezza, di fede, chi sa? La parola, invece, è già scritta, sotto quel bianco: eterna parola chiusa nel piccoletto grano, che par morto ed ha in sè il mistero della vita, di tutta la vita. La neve dei campi è la neve più buona. D. Valeri
Arriva la neve!
Il cielo è grigio, d’un grigio tutto uguale; l’aria è scura e pungente: tutto il mondo è immusolito. Ma, ecco: che cosa succede? Nell’aria sono apparse delle bricioline bianche, poi qualche falda che sembra burlarsi di noi, volteggiandoci davanti agli occhi e subito fuggendo. Ma ora sono tante le falde, sempre più fitte, non si possono più contare nè distinguere. E l’aria è tutta bianca, la terra ha subito un velo d’argento; in breve tutto il mondo è bianco, indistinto, silenzioso.
Una nevicata
Gli alberi sono carichi di candido fogliame e di fiori di cristallo. I tetti sembrano coperti da uno strato soffice di bambagia; i camini, mezzo sepolti, soffiano, come altrettante bocche, da una gran barba bianca. Sembra che la gente abbia una gran smania, tutti tirano dritto, dritto, intabarrati, incappucciati, incappottati. E i bianchi fiori scendono soffici, lentamente, roteando. (A. Stoppani)
La neve durò poco. Dapprima una forte pioggia, di cui ogni goccia scavava un buco nella neve già corrosa, poi il vento spazzarono la valle e la montagna. Dal bosco la neve cadde a mucchi, e solo qua e là sui più grossi rami ne rimase un po’, cristallizzata dal gelo. Un giorno apparve il sole e il cielo si incurvò sulle lame brillanti delle montagne lontane. I ghiaccioli di cristallo pendenti dai rami e la neve sulle rocce sprizzarono scintille iridate; la sottile erba invernale, su cio la brina standeva le sue filigrane, brillò anch’essa, smeraldina; e i capretti candidi e neri scesero saltellando dalla mandria. (G. Deledda)
Nevicata Le fronde degli alberi si piegano sotto candide arcate scintillanti! Nel giardino, le vecchie statue si ammantano di tuniche bianche, si incipriano, si incappucciano, incanutiscono sotto zazzere d’argento. E sul molle lenzuolo, disteso dalla pianura ai monti, resta assopito ogni rumore. Di giorno, anche le voci umane sembrano sospese nell’aria. (P. Lioy)
Le valanghe Sulle cime più alte della montagna, dura rigido l’inverno per otto mesi. Su queste vette non erbe, non fiori, ma neve continua e, a lato, ghiacciai perpetui da cui soffiano violentissimi venti che spesso scoppiano in turbini, i quali sollevano la neve come onde del mare e ne fanno precipitare grossi ammassi: le valanghe. (A. Bresciani)
La neve Cade a larghi fiocchi e copre gli alberi, i prati, i tetti delle case. I fiocchi scendono pian piano dal cielo e sembrano farfalle bianche. Ma appena si posano, ecco, la farfalla non c’è più. Ma altre farfalle sopravvengono, si ammassano, formano un candido manto che cambia l’aspetto di tutte le cose.
Una nevicata I fiocchi di neve scendono vaporosi come fiori o ali di farfalle, e quanti ce ne sono in ogni nevicata! In breve, il suolo è completamente ricoperto come da un candido manto, e tutto cambia di aspetto.
Neve in montagna La neve saliva. Vi fu qualche turbine di vento. La neve, sollevata, mulinava, ricadeva in stracci leggeri. La foresta gemeva, e si udivano gli scoppi dei rami che, troppo carichi e troppo tormentati, si spezzavano. In quei giorni, la furia dell’aria riusciva a svelare tra le nubi larghi specchi d’azzurro e un raggio di sole accendeva fra tanto candore, un brillio infinito. Sotto un cielo di stelle la neve gelava e nella tarda alba diffondeva riflessi di madreperla. Poi di nuovo la cenere chiara si adunava da ogni parte e ancora cadevano le piume bianche. (G. Fanciulli)
Neve Nelle città la neve ha lavorato tutta la notte a stendere il suo velo, ma al primo mattino, i piedi degli uomini e le ruote dei carri rompono la fragile trama, la pestano e ne fanno un moticcio appiccicoso. Ma nelle campagne la gran pagina bianca resta a lungo intatta, e sembra attendere chi vi scriva una grande parola: di bellezza, di fede, chi sa? La parola, invece, è già scritta, sotto quel bianco; eterna parola chiusa nel piccoletto grano, che par morto ed ha in sè il mistero della vita, di tutta la vita. La neve dei campi è la neve più buona. (D. Valeri)
Neve La neve che cade dà tanta gioia ai bimbi che vedono, nelle bianche distese, soltanto motivo di divertimento: scherzose battaglie di palle di neve, lunghe scivolate con slittini e sci e infine, l’aspetto nuovo, pittoresco e gentile, delle case, dei campi, delle strade. Per gli adulti la neve non è soltanto gioia, ma è anche freddo, intralcio al traffico e, per i poveri, poco lavoro, fame, difficoltà di ogni genere.
La neve La neve! Che festa per i ragazzi! Tutto diventa bello sotto il suo candido manto. Godete la neve, bambini, ma non dimenticate che la neve vuol dire anche freddo, fame e tribolazioni per i poveri. Una bella nevicata e una bella carità! Due cose che starebbero tanto bene insieme!
La neve è bella Una nevicata è una pioggia di farfalle candide. Senza lampi e senza tuoni, quasi sempre nel più profondo silenzio, quei fiocchi bianchi scendono a mille, a milioni da un cielo bigio cinereo, roteando per l’aria e tutto ricoprendo di un manto lucente e morbido. La terra bruna diventa bianca e bianchi i tetti e i muri. E le forme delle case anch’esse si arrotondano, svaniscono e si disciolgono in quell’oceano bianco, morto, freddo. (P. Mantegazza)
Il silenzio della neve Dicembre porta il silenzio nei campi. E dove spesso cade la neve il silenzio è ben più profondo. Sotto il bianco mantello la terra dorme e i pochi rumori si perdono subito come se fossero inghiottiti dall’aria. Anche il suono delle campane, sempre così squillante e festoso, diventa sordo. La gente cammina frettolosamente e sembra che vada in punta di piedi e che parli a voce sommessa, come se avesse paura di svegliare la terra che dorme il suo profondo sonno invernale. (G. Cauzillo)
Nevicata in città Gli alberi sono carichi di candido fogliame e di fiori cristallini. I tetti sembrano coperti d’uno strato di soffice bambagia… Un passero pigola e fa capolino dalla volta di un tegolo, rannicchiato come un riccio. E guardando in alto tu vedi, un bel pezzo prima, quello che arriverà dopo. (A. Stoppani)
Nevicata Nevicata: le vie della città, le piazze, i davanzali, le terrazzine delle case, gli alberi dei giardini, tutto era bianco, sepolto, sovraccarico di neve; i fiocchi venivano giù lenti, grossi, fitti, e sullo strato nevoso lungo i muri, non appena si imprimeva un’orma ne spariva ogni traccia. I lampioni agli angoli delle strade, mandavano intorno un chiarore velato e triste. (E. De Amicis)
Dettati ortografici sulla neve – Tutte le opere contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere.
Poesie e filastrocche INVERNO – una collezione di poesie e filastrocche sull’inverno, di autori vari, per bambini della scuola d’infanzia e primaria.
Inverno Silenzioso vieni e silenzioso vai, o mesto inverno, che nessuno invoca. Quando già freddo il vento della corsa trova ancora una voce tra le piante, e piangono lacere le foglie, ancora non ci sei se pur t’appressi. E quando il primo sole un bel mattino rischiara il cielo, e svaniscono i cristalli della brina, più non ci sei se pur da poco andato. Vieni e vai nessuno ti saluta. Addio, autunno! Ben torni, primavera! Sono le voci che odi al tuo passare. (G. G. Moroni)
Inverno lungo Per un raggio di sole non è lo sgelo. Ancora l’intrico pallido delle ombre è l’unico ornamento della terra sotto gli alberi nudi. In Norvegia, ora, sul ghiaccio danzano i bimbi, vestiti di panno rosso; con le lame dei pattini disegnano fiori d’argento su quella che fu acqua oscura. (A. Pozzi)
Un dolce pomeriggio d’inverno Un dolce pomeriggio d’inverno, dolce perchè la luce non era più che una cosa immutabile, non alba né tramonto, i miei pensieri svanirono come molte farfalle, nei giardini pieni di rose che vivono di là fuori del mondo. Come povere farfalle, come quelle semplici di primavera che sugli orti volano, innumerevoli, gialle e bianche, ecco se ne andavan via leggere e belle ecco inseguivano i miei occhi assorti, sempre più in alto volavano mai stanche. Tutte le forme diventavan farfalle intanto, non c’era più una cosa ferma intorno a me, una tremolante luce d’un altro mondo invadeva quella valle dove io fuggivo, e con la sua voce eterna cantava l’angelo che a te mi conduce. (C. Betocchi)
L’inverno e il poeta Neppure il più pallido segno ci resta dei mesi di sole! La terra è uno squallido regno che pesa sul cuore, che duole. In ogni collina c’è un serto di brume diffuse, stagnanti; il cielo è un immenso deserto: né voli, né trilli, né canti. Eppure nella morsa del gelo qualcosa sorride al poeta: è un esile, povero stelo di grano su zolla di creta. Guardando quel tenero verde L’artista ritorna contento e già quel gran mare si perde di messi cullate dal vento… (E. Ottaviani)
Inverno Dei purziteri ne le vetrine xe verdoline le ulive za; ghe xe le renghe bele de arzento e sufia un vento indiavolà: cattivo inverno ecote qua! Dei salumieri nelle vetrine son verdoline le olive già; ci son le aringhe belle d’argento e soffia un vento indiavolato: cattivo inverno eccoti qua! (V. Giotti)
Così viene l’inverno Il cielo è grigio e freddo, il passerotto pigola sul tetto. Dalle sue piume scuote un che di lieve, un batuffolo bianco, presagio della neve. Oltre i vetri su cui si appanna il fiato, il giardino si è tutto addormentato. I rami sono spogli, nude sono le aiuole, cui più non giunge il caldo raggio del sole. Così viene l’inverno silenzioso come un lupo che scende giù dai monti. Ulula, a notte, ed empie gli orizzonti (mentre la terra dorme muta e stanca) d’un grigio sfarfallio che tutto imbianca. (F. Penna)
Sole d’inverno Che dolce tepore! Che lieve carezza! Lo sento che un poco di questa dolcezza mi scende nell’animo, tutto m’invade. E vedo nel sole un bel sogno di strade aperte sui campi già verdi, già nuovi, un cheto occhieggiare di gemme tra i rovi… E il cuor si rallegra. Fra poco il susino, il pesco, il ciliegio, fra poco, al turchino del cielo alzeranno le rame odorose? Io credo che presto verranno le rose di macchia e le primule, e tutte le aiuole saranno fiorite. Che gioia di sole! Ma presto, freddissimo, un brivido passa nel cielo già spento, e una nuvola bassa nasconde l’azzurro, già tetra, già greve… Ed ecco, nell’aria, è un presagio di neve. (A. Novi)
Inverno Terra nera, nubi oscure cielo freddo, pioggia, brina già l’inverno s’avvicina bacche rosse sulle siepi passerotti infreddoliti i bei giorni son finiti! Sotto il tetto un nido vuoto rondinella pellegrina sei partita stamattina guardo e aspetto. Quando torni rondinella bianca e nera tornerà la primavera.
Il gatto inverno Ai vetri della scuola, stamattina, l’inverno strofina la sua schiena nuvolosa come un vecchio gatto grigio: con la nebbia fa i giochi di prestigio, le case fa sparire e ricomparire; con le zampe di neve, imbianca il suolo e per la coda ha un ghiacciolo… Sì, signora maestra, mi sono un po’ distratto: ma per forza, con quel gatto, con l’inverno alla finestra che mi ruba i pensieri e se li porta in slitta per allegri sentieri. Invano io li richiamo: si saranno impigliati in qualche ramo spoglio; o per dolce imbroglio, chiotti, chiotti, fingono d’esser merli e passerotti. (G. Rodari)
L’inverno è qui … e già biancheggia il capo alle montagne, cadon le foglie, l’aria è fredda e bruna… Il triste inverno sarà qui tra poco: chiudi ben l’uscio e fatti accanto al fuoco. (P. Fornari)
L’inverno L’inverno ritorna ad ogni giro di anno e ha la sua ghirlanda di ghiaccioli e di neve, la sua corona di stellette e di leggende, le sue poesie e le sue canzoni, il suo fascino e la sua bellezza. (N. Salvaneschi)
Mattino d’inverno Nasce il giorno e non trova che pagliuzze nell’orto, e fogli secche e gialle, e un vecchio albero morto. Che tristezza, che squallore! Non più voli di farfalle tra gli albicocchi in fiore; e sulla quercia enorme, non più nidi, non più foglie… Nasce il giorno, e non trova che poche rame spoglie e la terra che dorme (M. Castoldi)
Che cosa c’è nell’inverno Oltre la pioggia irosa con il suo gioco alterno del batti e ribatti, nel cuor dell’inverno c’è un’altra cosa. Oltre la neve che posa coi fiocchi gelati sui monti e le valli, sugli alberi e i prati, c’è un’altra cosa. …C’è quella dolce cosa che si chiama speranza, e al di là della nera nuvolaglia che avanza, vede la primavera color di rosa. (M. Mundula)
Com’è dolce Com’è dolce, com’è dolce ascoltare delle storie delle storie dei tempi passati quando i rami degli alberi son neri quando la neve è fitta e pesa sul suolo gelato. (A. De Vigny)
Inverno Avanza, il vecchio inverno, con passo lento e stanco, coperto fino ai piedi da un manto tutto bianco. E porta freddo e gelo, un cielo bianco e greve, per l’aria fa danzare la fredda e bianca neve. Ghiaccioli di cristallo ci dona a profusione fa i passeri volare sull’aia e sul verone. Fa stare la nonnetta accanto al caminetto e, mentre lei sferruzza, le fusa fa il micetto. E i bimbi birichini? Sul ghiaccio lieti vanno, oppure con la neve fantocci o palle fanno. (D. Vignali)
In casa d’inverno Fra poco la pioggia ed il vento faranno più caldo il tuo nido. E’ dolce restare là dentro, allora che il tempo è malfido. La lampada sopra la mensa diffonde soave la luce; e mentre si studia e si pensa, vicina è la mamma che cuce. La stufa di terracotta, nell’angolo del tinello, scoppietta, scintilla, borbotta dall’occhio del rosso fornello. Il pendolo suona le ore; anch’esso ti fa compagnia, col tac tic tac del suo cuore, mentre la sera s’avvia. Oh, quanto d’amore è pervasa, d’inverno, la voce di casa! (V. Seganti Pagani)
Inverno L’inverno tessitore appende ai rami trine finissime, le brine di fil d’argento. L’inverno è uno scultore: la neve fa, sul tetto, un monumento. Ed è anche musicista, e, sulla tramontana, ci fischia la più strana sua sinfonia. Sportivo, fa una pista d’ogni campo di neve per lo slittino e per chi scia. Ci offre, da cuoco esperto, le caldarroste d’oro, fragranti nella loro corteccia nera. Doni preziosi, certo, e molto anch’io t’ammiro… ma nel mio cuor, sospiro la primavera. (Puck)
Lo scricciolo Uno è rimasto, il più piccino, di tanti uccelli volati via, un batuffolo di piume che non sa malinconia; un batuffolo irrequieto tra i rametti della siepe, così piccolo che pare un uccello del presepe. Vispi occhietti, alucce lievi, un codino impertinente, così gaio e spensierato che può vivere di niente. (Graziella Ajmone)
Stornelli d’inverno Fior di collina, son cadute le foglie ad una ad una, e l’erba è inargentata dalla brina. Fior di tristezza, i rami son stecchiti e l’erba vizza; par fuggita dal mondo ogni bellezza. Fior freddolino, potessimo vedere un ciel sereno e un raggio d’oro splender nel turchino! Fior di speranza sotto la neve c’è la provvidenza che lavora per noi; c’è l’abbondanza. (D. Valeri)
Gratitudine Fiocca la neve: ed ecco un uccellino cade leggero sul deserto manto: è tutto intirizzito, poverino, e com’è triste il tenero suo canto! Ho tanta fame. Invano, pigolando cerca del cibo, e spera di trovare qualcosa che lo possa riscaldare, e sulla neve stanco va cercando. Al mesto cinguettio, un ragazzetto sbriciola il pane sopra l’impiantito. Ora saltella e canta l’uccelletto ringraziando così chi l’ha nutrito. (Adalgisa Manenti)
Invernale Sui monti la neve le case e la pieve, le strade ed i prati ha già trasformati. Or tutto è diverso; io vago disperso; è dolce l’incanto, se dura quel bianco. Son curve le piante: la neve è pesante… pesante che casca qua e là da una frasca. Non s’ode rumore. Un grido vi smuore. Un cenno di fumo… due orme. Nessuno. (G. Consolaro)
Inverno Muta il cielo, muta il vento. Che gran brivido! S’increspa verde – argento tutta l’acqua. Sono tutti un sol tremore gli alberelli miserelli. Dalla grande nube oscura ora vien la tramontana… C’è per tutta la campagna il silenzio e lo squallore. Gli insettucci, ad uno ad uno, son spariti sotto terra. Le formiche hanno sbarrato il portone ai formicai. Fin la talpa s’è rinchiusa nel salone delle feste, disturbata un pochettino dal buon tasso, suo vicino, suo compagno di ritiro, che, in pelliccia giallo scura tondo tondo grasso grasso russa e russa come un ghiro. (L. Galli)
Nonno inverno Chi ti ha insegnato a ricamare di bianche trine gli alberi spogli, a disegnare giori di gelo, a far cadere fiocchi dal cielo? Hai un mantello ch’è senza pari, proprio tessuto dalle tue mani, soffice, lieve, immacolato; in esso celi le case e il prato, i colli e i monti, poi me lo presti ed io vi affondo in allegria. Oh nonno inverno, chi t’ha racchiuso nel vecchio cuore tanta poesia? (G. Aimone)
Mago gelo In silenzio, tutto solo, sotto un cielo di stellato, questo notte Mago Gelo dappertutto ha lavorato. Ha disteso sulla gronda un merletto inargentato; lungo il rivo, sul laghetto, un cristallo smerigliato. Ha bloccato, in un istante, la graziosa cascatella e le ha tolto all’improvviso il suo canto ed il suo riso. Ha ghiacciato gli zampilli della vasca del giardino in un modo così vario da formarne un lampadario. Ha donato alle fontane frange e pizzi senza uguale e candele come quelle che ci sono in cattedrale. (L. Zoi)
Mattino d’inverno Nasce il giorno e non trova che pagliuzze nell’orto, e foglie secche e gialle, e un vecchio albero morto. Che tristezza, che squallore! Non più voli di farfalle tra gli albicocchi in fiore; e sulla quercia enorme, non più nidi, non più foglie… Nasce il giorno, e non trova che poche rame spoglie e la terra che dorme. (M. Castoldi)
Pomeriggio d’inverno Alza la nota sua, timida e breve, lo scricciolo di mezzo alla prunaia: a tratti di lontano un cane abbaia e qualche falda in aria ondeggia lieve… Qualche labile falda, in preda al vento, discende in un suo molle ondeggiamento… qualche labile falda… uggiola il cane; sale il pianto negli occhi e vi rimane. (N. Neri)
Inverno Silenzioso vieni e silenzioso vai, o mesto inverno che nessuno invoca. Quando, già freddo, il vento nella corsa trova ancora una voce tra le piante, e piangono lacere le foglie, ancora non ci sei se pur t’appressi. E quando il primo sole un bel mattino rischiara il cielo, e svaniscono i cristalli della brina, più non ci sei, se pur da poco andato. Vieni e vai e nessuno ti saluta. Addio autunno! Ben tornata primavera! Sono le voci che odi al tuo passare. (G. G. Moroni)
Inverno Autunno, ancora ti cercai stamane senza trovarti: te n’eri partito coi piedi rossi di mosto, rigato di pioggia sottile, senza un canto o un grido. L’ora del giorno t’inseguì per poco dal campanile del convento dove le sorelle pregavano per tutte le stagioni d’Iddio: ma non volgesti neppure il capo. E dopo, l’acqua cadde a rovesci, a schianti, a rombi e fu inverno… (F. M. Martini)
L’inverno nel villaggio Scende dal bosco il vecchio campagnolo col suo fascio di legna sulle spalle. Candido è il monte, candida è la valle, tutto di bianco s’è coperto il suolo. C’è qualche traccia sulla neve intatta: gente che è andata, gente che è venuta, è fioca la campana e l’aria è muta; gemono gli uccellini nella fratta. Dalle finestre della casa, in fondo al borgo, i bimbi, col nasino al vetro, guardano il vecchio e le sue tracce dietro… unico segno di lavoro al mondo. Ma appena un poco il cielo si dirada e ride il sole su tutto quel bianco, appaiono i fanciulli in lieto branco e far guerra di palle sulla strada. E, mentre stan giocando allegri e fieri, c’è un babbo silenzioso presso il fuoco: le bestie al chiuso… si lavora poco… e tutto questo gli dà gran pensieri. (F. Socciarelli)
I passeri E allorchè la notte cala tanto fredda e tanto oscura e la tramontana fischia così forte che impaura, al capino sotto l’ala giunge solo il lamentio degli alberi gementi: sotto i tegoli, sgomenti, se ne stanno i passerotti: se ne stan rabbrividendo col capino sopra il core che ora batte e trema forte di paura, di dolore. Ma che importa tutto questo se doman risplende il sole? Torneran nel nuovo giorno, torneranno a saltellare a giocare folleggiare e così finchè una notte verrà il gelo e nel sopore fermerà con le sue dita pur quel piccolo tremore. (L. Galli)
Inverno O nonno inverno, sei già arrivato? Anche quest’anno, triste e pensoso, nel bianco letto sei ritornato, nonno, dal greve manto nevoso? Poveri nidi senza nidiate, povere piante nude di foglie, nel ciel di piombo stanno levate, le braccia vostre, di rami spoglie! Ma la gran fiamma guizza e saltella nell’ampia cappa del focolare… Dice la nonna la sua novella lunga, assai lunga da raccontare. “C’era una volta…” Ma le bruciate sgricciano liete dentro nel guscio… “C’erano mille candide fate…” “Ma è freddo nonna, rinserra l’uscio!”. Alta è la neve. “C’era una volta tra quelle fate una regina pallida e bionda”. Un bimbo ascolta, ma l’altro ciondola la testolina. E nonno inverno fuor dalla casa, il suo gran sacco di neve stende, l’ampia nottata n’è tutta invasa. Sui bimbi in estasi il sonno scende (D. Maria)
Dialogo d’inverno “Dicembre, sulla terra perchè tanto squallore?” “Ma guarda su nel cielo, la stella dell’amore!” “Gennaio, sul tuo bianco mantello che rimane?” “Ma sotto dorme il dolce tesoro del tuo pane!” “Febbraio, perchè giochi col gelo e la bufera?” “Ma poi, morendo, lascio a te la primavera.” (A. Barocchi)
Inverno Non c’è fiore, non c’è una foglia, negli squallidi giardini; tranne i gravi, antichi pini, la campagna è muta, spoglia. Fra gli spini ardui contorti, non un passero che trilli: gli uccelletti, i bruchi, i grilli son partiti o sono morti. Ma nel freddo raggelante c’è qualcosa di gentile sognan già l’amico aprile gli occhi chiusi delle piante. (M. Carrera)
Poveri passeri! Il vento soffia, la neve cade, son bianchi i tetti, bianche le strade. Tutte le erbe sono gelate, poveri passeri, voi, come fate? Il cielo è bigio, la neve è bianca; son spogli gli alberi, la terra è stanca. Lungo è l’inverno, breve è l’estate; poveri passeri, voi, come fate? (Bruno Vaccari)
Speranza C’è un grande albero spoglio in mezzo all’orto; pare che soffra e non si possa coprire e riscaldare. Vola sui nudi rami un passero sperduto e cinguetta più forte in segno di saluto. Geme l’albero: “Un tempo fui giovane e fui bello, candidi fiorellini erano il mio mantello”. Il passero cinguetta: “Vecchio albero, spera, si sciolgono le nevi, verrà la primavera!” (M. Dandolo)
Inverno Ho pensato: che meraviglia ha fatto Dio con l’inverno spogliando gli alberi e lasciandoci ammirare forme e profili. Quanta libertà al cielo in tempesta.
Nonnino Inverno Nonnino Inverno, che mi racconti una fiaba tutta candore chi t’ha messo nel vecchio cuore tanti sogni, tanta poesia? Chi t’ha insegnato a ricamare di bianche trine gli alberi spogli a disegnare fiori di gelo a far cadere fiocchi dal cielo? Hai un mantello ch’è senza pari proprio tessuto dalle tue mani soffice, lieve, immacolato in esso celi le cose e il prato, i colli e i monti, poi me lo presti e io vi affondo in allegria. Oh nonno Inverno, chi t’ha racchiuso nel vecchio cuore tanta poesia? (G. Ajmone)
Inverno Quando piove lento lento e fa freddo, e tira il vento nella casa sta il bambino nel suo nido l’uccellino nella cuccia il cagnolino presso il fuoco il bel gattino il ranocchio, senza ombrello sotto un fungo sta bel bello.
Inverno Scura è or la terra e il buio ci pervade ma nel mio cuor si serba una luce che non cade. Accesa la terrò forte, buona e bella e tranquillo aspetterò che nel cielo sia una stella.
Inverno L’albero brullo dice al fanciullo ora son brutto non ho più frutto, ma il duro inverno non dura eterno. Rinverdirò, rifiorirò.
Ecco l’inverno Freddoloso, imbacuccato ecco l’inverno che è arrivato. Sulle spalle egli ha un saccone Che ci porti, buon vecchione? Porti feste? Allegria? Una lieta compagnia?” Della stanza nel tepore ben di cuore vorrei darti il benvenuto; ma se penso ai poveretti il mio labbro resta muto. Folleggianti in danza lieve son nell’aria tanti fiocchi; quanti fiocchi! Quanta neve! Questo bianco abbaglia gli occhi lietamente non si lagna la campagna chè il buon chicco, chicco d’oro, che racchiude il gran tesoro sottoterra è riparato e lì giace addormentato. Dorme e sogna. “Oh, verrà la stagion buona verso il cielo drizzerò il mio verde stelo e poi, grato, verso quei che han lavorato pel domani darò tanti biondi pani. (C. Fontana)
Inverno Le papere mettono i pattini per andare sulle lastre ghiacciate, Ma dove li han presi quei pattini, se ricche non sono mai state? Li ha fatti per loro un esperto e poi glieli ha regalati in cambio di un loro concerto.
Inverno Io ringrazio con tutto il mio cuore per le cose che danno calore per i fuochi ardenti e i guanti di lana che scaldano nella fredda tramontana per gli abiti invernali, i giochi da giocare quando si può sulla neve scivolare e ringrazio per il mio letto amato quando il gelido giorno se n’è andato.
Cantilena invernale Un legno non fa fuoco e due ne fanno poco; con tre fai un fuocherello, con quattro l’hai più bello. Che, se poi tu ci metti del bosco due ciocchetti, che vivida fiammata, oh, che bella vampata! Che soave calore che ti consola il cuore! E salgon le faville al cielo a mille a mille a cercar le stelline, lontane sorelline. (E. Graziani Camillucci)
Inverno Bianco inverno, che ci porti? Sulla terra ogni mattina, nebbia o neve, ghiaccio o brina. Ma per voi bambini buoni, guanti, scarpe, calzettoni, bei mantelli coi cappicci caldi e morbidi lettucci; e regali sul guanciale per la notte di Natale. (R. Rompato)
Inverno Oh, che gioconda fiamma guizza nel caminetto! Ride il babbo, la mamma vi bacia e stringe al petto; e bambole e balocchi fan tutti un’allegria. (G. Mazzoni)
Dietro i vetri Che freddo questa mattina! I vetri coperti di brina invitano ai ghirigori; “Facciamo una bella cortina con stelle, casupole e fiori!” I prati son tutti gelati, ma, dietro i vetri appannati, non temon del freddo i rigori e stanno, con gli occhi incantati, estatici tre spettatori. Tre bimbi che stanno a guardare il vecchio inverno arrivare. (V. Seganti Pagani)
I doni dell’inverno E l’inverno vien tremando, vien tremando alla tua porta. Sai tu dirmi che ti porta? “Un fastel d’aridi ciocchi, un fringuello irrigidito; e poi neve, neve a fiocchi, e ghiaccioli grossi un dito”. (A. S. Novaro)
L’inverno Signori miei, son qua! Sono il solito inverno che ripiglia il governo finchè la primavera tornerà. Non porto novità: con la solita neve comincerò tra breve a decorare paesi e città. In rosso tingerò ogni punta di naso; non fate proprio caso se qualche volta vi pizzicherò! (L. Schwarz)
Buon vecchione Freddoloso, imbacuccato ecco Inverno ch’è arrivato. Sulle spalle egli ha un saccone.. “Che ci porti, buon vecchione? Porti feste ed allegria nella lieta compagnia? Della stanza nel tepore ben di cuore vorrei darti il benvenuto; ma se penso ai poveretti il mio labbro resta muto”. Folleggianti in danza lieve son nell’aria tanti fiocchi: quanti fiocchi, quanta neve! Quanto bianco abbaglia gli occhi! (C. Fontana)
La fredda stagione Non mi piaci, o freddo inverno, che ci tieni qua in prigione, dove il giorno sembra eterno: fuggi, perfida stagione! Senza i fiori e la verdura sembra morta la natura. Più non canta il vago uccello, trema e soffre il poverello. Ma la mamma sa le fole e ci chiama attorno a sè con le magiche parole: “Una volta c’era un re…” Poi ritornano il Natale, la Befana, il Carnevale; ognuno d’essi reca un dono: freddo inverno, ti perdono! (A. Cuman Pertile)
Lo scricciolo Uno è rimasto, il più piccino, di tanti uccelli volati via; un batuffolo di piume che non conosce malinconia; un batuffolo irrequieto tra i rametti della siepe, così piccolo che pare un uccello da presepe. Vispi occhietti, alucce lievi, un codino impertinente, così gaio e spensierato che può vivere di niente. Nella campagna tacita, bianca, che il gelo tiene prigioniera, pare la nota dimenticata d’una canzone di primavera. Sempre gaio, sempre lieto, senza timore del domani, pare un bimbo poverello che tiene la gioia nelle sue mani. (G. Ajmone)
Inverno Il cielo ha spiegato un sudario candido sopra il mondo. Distende a croce le braccia l’albero solitario. La terra pare che giaccia in sonno tanto profondo che somiglia a una morta con quel sudario addosso, con quella pianta storta che tende i suoi rami d’osso. E ci vien da pensare che forse né sole né grida la possano richiamare un’altra volta alla vita. (Giuseppe Porto)
In montagna Triste quella casetta dimenticata in vetta a quel monte lontano, spogliato d’ogni erbetta, d’ogni segnale umano. (da Note di Samisen)
L’inverno Inerte e silenziosa dorme la terra avvolta in bianco velo, ed il ruscello riposa muto tra i sassi, prigionier del gelo. Il gelido rovaio soffia dai monti e nei camini è greve; non più vezzoso e gaio svolazza l’uccellin dentro la siepe. Pendon dai brulli rami innumeri ghiaccioli, mentre le brine disegnano ricami, frange, nastri, gale e trine. E tutto è calma e oblio, non più canti nei campi o in vigna sento; non più sono presenti sui colli e i prati a pascolar gli armenti. Ma più ringiovanita la terra sorgerà dai suoi torpori; un dì novella vita avrà con nuovi frutti e nuovi fiori. (A. Rossini)
L’inverno Di notte nell’ultima notte, è sceso il sipario sulla festa di autunno. Solo una traccia di foglie rosse fradice e morte nel fango rimane dell’orgia pagana piena di colori e di luci piena di voluttuosi profumi di bagliori ardenti e talvolta nell’estasi romantica dell’alba e nel tramonto, anche piena di brividi. Incantevole sempre nell’opulenza della sua sfatta bellezza. Ora un pallido dole avvolge la religiosa maestà dell’inverno. Gli alberi nubi tremano nell’aria cristallina. Solo i pioppi svettano ancora nel cielo con le chiome d’oro, d’oro fino, trasparente. Mossi dal vento piovono sulla terra scudi d’oro che nella terra si dissolvono per rivivere al primo soffio di primavera. (M. Battigelli)
L’inverno viene Com’è triste il pianto dell’autunno dell’autunno che muore! Spento ormai è il canto sulle labbra del pastore… Or la nebbia stanca si distende sulla terra e la neve imbianca le alte cime della sierra. Solitario fiore vuoi tu dirmi le tue pene? Muto è il tuo dolore, ben lo so: l’inverno viene. (antico motivo asturiano)
L’inverno Viene a gran passi l’inverno col suo lungo barbone di neve E, camminando, la barba gli cade spargendosi in candidi fiocchi. E il suo fiato affannoso di vecchio di muta in vento che soffia gelato. Ogni capello che pergde per via gli si raggruma in gocce di brina o in filamenti sottili di pioggia. Eppure il vecchio conduce con sé un alberello bello di Natale che porta un po’ di gioia nelle case; e non importa se fuori fa freddo! (G\. Serafini)
Paesaggio invernale Respirano lievi gli altissimi abeti racchiusi nel manto di neve. Più morbido e folto quel bianco splendore riveste ogni ramo via via. Le candide strade si fanno più zitte: le stanza raccolte, più intente. Rintoccano l’ore. Ne vibra percosso ogni bimbo, tremando. Di sopra gli alari, lo schianto d’un ciocco che in lampi e faville rovina. In niveo brillar di lustrini il candido giorno l fuori s’accresce, divien sempiterno infinito. (R. Maria Rilke)
Inverno lungo Per un raggio si sole non è lo sgelo. ancora l’intrico pallido delle ombre è l’unico ornamento della terra sotto gli alberi nudi. In Norvegia, ora, sul ghiaccio danzano i bimbi vestiti di panno rosso; con le lame dei pattini disegnano fiori d’argento su quella che fu acqua oscura. (A. Pozzi)
Gli uccelli aspettano, d’inverno, davanti alla finestra Io sono il passerotto. Bimbi, il mio tempo muore. E sempre vi ho chiamati nell’anno che è passato quando tornava il corvo tra i cespi d’insalata. Una piccola offerta, per favore. Passero, vieni vicino. Passero, un chicco per te. E tante grazie per il tuo lavoro! Io sono il picchio. Bimbi, il mio tempo muore. Picchio tutta l’estate e dove arrivo col becco, spare ogni insetto nocivo. Una piccola offerta, per favore. Picchio, vieni vicino, Picchio, un bruco per te. E tante grazie per il tuo lavoro! Io sono il merlo. Bimbi, il mio tempo muore. Ed ero io a cantare nel grigio dei mattini quanto durò l’estate, dall’orto dei vicini. Una piccola offerta, per favore. Merlo, vieni vicino. Merlo, un chicco per te. E tante grazie per il tuo lavoro! (B. Brecht)
Contentarsi di poco Dal gelido fogliame spicca il volo il pettirosso: ha tanto freddo addosso, e tanta fame… E vola, vola fino al ruscello ove un solicello fioco fioco lo scalda, un poco, e lo consola. Ora si mette a cercare qualcosa da mangiare: ecco, laggiù, un seme di frumento! Non chiede di più, e tutto contento si mette a cantare. (E. Ottaviani)
Alberi spogli Dal muro alto sporgono alberi spogli forche, braccia, grucce. La conifera scura resiste al gelo, il platano più alto (belle macchie sul tronco glorioso), ha ancora qualche foglia d’oro e l’evonimo puntato, rosse bacche. Melanconici come vecchi in riposo in attesa della dolce fioritura. Nel grigio fine un’ala appena, fa musica. (F. De Pisis)
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C’era una volta una povera famiglia di contadini. Babbo e mamma lavoravano i campi e i figlioli badavano alle bestie. Bruno conduceva al pascolo le pecore, e Bianca guidava le oche. Il babbo aveva promesso che, al momento di vendere la lana e le piume, avrebbe portato del mercato un bel regalo per i due bambini. Bruno e Bianca aspettavano con impazienza quel regalo, e intanto facevano coscienziosamente il loro lavoro, ma un giorno…
Bruno: Oggi le pecorelle erano inquiete, forse avevano caldo, forse sete… E’ molto tempo ormai che camminiamo, e quasi non capisco dove siamo. Dei grandi abeti, un limpido ruscello, un ammasso di rocce, un ponticello: per riposarmi qui starò da re, anche per voi va bene?
Pecorelle: Beh! Beh! Beh!
Bruno: L’erba è tenera e fresca. L’acqua c’è. Vi piace questo posto?
Pecorelle: Beh! Beh! Beh!
Le pecorelle si misero a brucare, e Bruno si accomodò ai piedi di un abete per riposare. Senza accorgersene si addormentò, ma ben presto alcune voci lo destarono…
Nani: Pim pum. Pim pam! Noi del bosco i nani siamo, proteggiamo le sementi, raccogliam gemme lucenti. Pim pum. Pim pam! Tutto il giorno lavoriam.
Nano: Guardate, un gregge qui nel nostro prato!
Nano: E da che parte sarò mai sbucato?
Nano: Son pecore venute da lontano…
Nano: Non facciamo rumore, parla piano.
Nano: Hanno proprio una splendida pelliccia.
Nano: E’ tutta lana pura, bianca e riccia.
Nano: Io, se potessi averne un bel sacchetto, farei un materasso pel mio letto.
Nano: Io dormo sulla paglia che è pungente.
Nano: Ed io sul fieno dormo malamente.
Nano: Ma di lana, purtroppo, non ne abbiamo
Nano: Si sveglia il pastorello… via, scappiamo!
Bruno: Ho visto i nani, proprio intorno a me. Ho dormito? Ho sognato?
Pecorelle: Beh! Beh! Beh!
Appena a casa, Bruno raccontò in gran segreto la sua avventura alla sua sorellina, ma Bianca gli disse che doveva proprio aver sognato. Però, qualche giorno dopo…
Bianca: Oggi le mie ochette hanno voluto uscire dal sentiero conosciuto. E’ molto tempo ormai che camminiamo, e quasi non capisco dove siamo. Uno stagno dall’acqua trasparente, un ponticello, un salice piangente. Per riposare ci fermiamo qua, anche per voi va bene?
Oche: Qua qua qua!
Bianca: C’è l’erba fresca ed acqua in quantità. Vi piace questo posto?
Oche: Qua qua qua!
Le ochette si misero a sguazzare nello stagno, e Bianca si accomodò ai piedi del salice per riposare. Senza accorgersene si addormentò, ma ben presto alcune voci la svegliarono…
Nani: Pim pum, pim pam! Le radici difendiam, custodiamo oro e argento, siamo sempre in movimento. Pim pum, pim pam! Noi del bosco i nani siam!
Nano: Guardate quante belle oche bianche!
Nano: Da dove son venute? Sembran stanche…
Nano: Sono certo arrivate da lontano.
Nano: Non facciamo rumore, parla piano.
Nano: Come dev’esser morbida la piuma!
Nano: Se almeno ne prendessimo qualcuna… Le prenderei per farmi un cuscinetto.
Nano: Io non ce l’ho davvero nel mio letto.
Nano: Io ho provato con la segatura, e non si dorme bene perchè è dura.
Nano: Ma di piume purtroppo non ne abbiamo…
Nano: Si sveglia la bambina, via, scappiamo!
Bianca: Ho visto i nani, erano proprio là. Ho dormito? Ho sognato?
Oche: Qua qua qua!
Appena a casa, Bianca raccontò in gran segreto la sua avventura al fratellino, e insieme si convinsero che avevano veramente visto i nani. Ma per quanto li cercassero ancora nel bosco e tornassero spesso dove li avevano incontrati, quelli non si lasciarono più far vedere. I due bambini, però, non riuscivano a dimenticarli…
Passò del tempo, le pecore furono tosate e le oche spiumate. Un giorno il babbo disse che andava al mercato a vendere lana e piume, e che avrebbe portato a casa il regalo promesso. Che cosa desideravano? Bruno e Bianca risposero che che non volevano niente dal mercato, e che desideravano solo tenere per sè un sacco di lana e un sacco di piume. Il babbo si meravigliò, ma fece come i bambini chiedevano. Così Bruno e Bianca presero i loro sacchi sulle spalle, e se ne andarono nel bosco.
Bruno: Io stavo zitto zitto sotto al pino, e i nani mi passavano vicino…
Bianca: sotto il salice quieta me ne stavo, e i nani eran vicini, e li ascoltavo…
Bruno: Però non voglion essere osservati, e appena mi hanno visto son scappati.
Bianca: Nel prato i nostri doni ora lasciamo, chiamiamo i nani, e lesti ce ne andiamo.
I bambini chiamano, poi si nascondono. Sbucano i nani…
Nano: Perchè quei due bambini ci han chiamati?
Nano: Son stati qui un momento e son scappati!
Nano: Han posato qui due sacchi, che sarà?
Nano: Io non resisto dalla curiosità!
Nano: Io mi avvicino a dare una sbirciatina…
Nano: Questo è pieno di piuma bianca e fina!
Nano: Questo è pieno di lana, che bellezza!
Nano: Sarà proprio per noi questa ricchezza?
Bianca e Bruno in coro: I nani del bosco i doni troveranno, e più contenti questa notte dormiranno…
Nano: Ma certo che è per noi, non hai sentito?
Nano: Questo regalo è certo il più gradito.
Nano: Quei due bambini sono molto buoni…
Nano: Torniamo a casa con i nostri doni!
Passano dei mesi, e venne il tempo del Natale. Bruno e Bianca aspettavano con gioia quel giorno. L’unica cosa che li rattristava, era che non avrebbero avuto l’albero di Natale come l’avevano visto in casa dei bambini più ricchi di loro. La mamma diceva che u abete ne bosco sarebbe stato presto trovato, ma che erano troppo poveri per potersi comprare tutti gli ornamenti necessari: palline d’argento, stelle d’oro, ciondoli variopinti… I bambini capivano che la mamma aveva ragione, ma spesso, quando erano soli, sospiravano pensando all’alberello desiderato. Alla vigilia di Natale, vi fu trambusto in famiglia per gli ultimi preparativi, e tutti poi si coricarono presto. Ma un po’ prima di mezzanotte, piano piano, l’uscio di casa si aprì…
Nano: Venite avanti piano, zitti zitti…
Nano: Se qualcuno ci vede siamo fritti!
Nano: Abbiam fatto fatica nella neve.
Nano: Non credevo che fosse così greve.
Nano: Io dico che è una bella improvvisata…
Nano: qui due bimbi l’han proprio meritata!
Nano: Chissà che festa, chissà che battimani!
Nano: Capiranno che è il dono di noi nani?
E posano nel salotto di casa un albero di Natale carico di luci e meravigliose decorazioni…
Poesie e filastrocche per dicembre – una raccolta di poesie e filastrocche sul mese di dicembre, di autori vari, per bambini della scuola d’infanzia e primaria.
Vecchio dicembre E’ tanto vecchio, povero dicembre, che cammina appoggiandosi a un bastone; del sole non è amico, a quanto sembra, perchè d’accordo va con il nebbione. Nel fango affonda sino alle calcagna, spruzza di neve l’albero e la siepe, di prima neve imbianca la montagna mentre nasce Gesù, là nel presepe. (G. Marzetti Noventa)
Dicembre Dicembre… La neve sui monti, la fiamma nel focolare, volti cari attorno a una lampada, una campana che chiama per la novena di Natale. Dicembre… Un ramo d’abete e il presepe fatto di bambagia leggera col Bambino che s’addormenta fra le candeline di cera. (A. T. Bordoni)
Dicembre La neve sui monti, la fiamma nel focolare, volti cari attorno a una lampada, una campana che chiama per la novena di Natale. Un ramo d’abete e il presepe fatto di bambagia leggera col bambino che s’addormenta tra le candeline di cera.
Dicembre Il vento soffia, la neve cade, son bianchi i tetti, bianche le strade. Il cielo è grigio la neve è bianca, son spogli gli alberi, la terra è stanca. (B. Vaccari)
Dicembre Va novembre, vien dicembre. Ciel nebbioso, suol fangoso… Sopra i campi brulli e tetri, soffia il vento e batte ai vetrim mentre il passero sul tetto, trema al freddo, poveretto! (C. Prosperi)
Dicembre Dai campi desolati, sui viali deserti di bambini, dagli orti abbandonati, levano al cielo di piombo le braccia ferme, nude, gli alberi disperati. Nell’aria non c’è un volo, nell’aria non c’è un grido; sotto l’antico ponte, con un rombo freddo, il torrente… (V. Bosari)
Dicembre Or è bello novellare; fuori piove e mugghia il vento; nel camino c’è un lamento, ch’empie i bimbi di spavento, mentre stanno al focolare. E’ dicembre, un buon vecchietto, canta loro una novella dove c’è una mamma bella un bambino ed una stella ed un bove ed un ciuchetto. (D. Dini)
Dicembre Chi la ricorda ancora la bella primavera, che sorridendo infiora il monte e la riviera? Chi ricorda l’estate coi suoi fulgidi soli con l’aure profumate piene di trilli e voli? E l’autunno che infonde gioia e tristezza insieme che ingiallisce le fronde e i bei grappoli spreme? Un’uggia, un sopor greve pei campi, per le strade; e il silenzio… e la neve che cade, cade, cade. (A. Tona)
Dicembre Dicembre ha un suo ricamo, sospeso ad ogni ramo; l’ha fatto con la nebbia l’ha fatto con la brina: è nuovo ogni mattina. Dicembre ha un suo sorriso, diffuso in ogni viso: lo porta in ogni casa, dove la gente aspetta la notte benedetta. (M. C.)
Il mese poverello Bigio il ciel, la terra brulla: questo mese poverello nella sporta non ha nulla, ma tien vivo un focherello. Senza gregge e campanello solo va, pastor del vento. Con la neve nel cappello fischia all’uscio il suo lamento. Breve il dì, lunga la notte, cerca il sole con affanno. Ha le tasche vuote e rotte, ma nasconde il pan d’un anno. (R. Pezzani)
Ecco dicembre Ecco dicembre, vien bel bello. E’ vero, porta ventaccio e neve ma quanti doni sotto il mantello! Sì, raffreddori, qualche malanno; ma ci riporta tanta dolcezza con la più cara festa dell’anno. Ed ogni bimbo, pel suo presepe, già si prepara stelle e pastori, casette bianche, bianca la siepe. E già si sente, nel cuoricino più buono, forse, perchè, tra poco, nasce a Betlemme Gesù bambino. (Zietta Liù)
Dicembre Ecco dicembre! Dicembre, sì vecchio e canuto, col suo pesante fardello. E sembra un buon poverello, così, senza un fiore nè un frutto. Viene sul mondo deserto, dormiente sotto la neve… La terra è arida e nera… i rami stecchiti… E come ulula il vento! Che tristi lamenti! Son forse bambini gementi, i pini piangenti, smarriti nelle tormente? E viene, viene dicembre, carico di doni. Ne ha colmi il pesante fardello, e le tremule mani oscillano nell’alberello. E viene il bianco Natale col capo pieno di neve e la gran stella lucente. Stormiscon gli abeti leggeri, fioriscon le siepi di brina… e viene viene dicembre: è carico di doni, … viene per consolare. Spoglia, è sì triste la terra nel plumbeo abbraccio del mare! (L. Galli)
Dicembre Il falcetto secco taglia; fondo addenta, mai non sbaglia; sopra è il cielo decembrino, con fumate di camino. Le ramaglie ammonticchiate che cantarono l’estate son la foglia moritura hanno adesso sepoltura. Tra la siepe senza frasca già di sonno l’orto casca… C’è chi prova una zampogna e il presepe il bimbo sogna. (L. Carpanini)
Dicembre Vien Dicembre e non trova che pagliuzze nell’orto, e foglie secche e gialle, e un vecchio albero morto. Che tristezza, che squallore! Non più voli di farfalle tra gli albicocchi in fiore; e sulla quercia enorme non più nidi, non più foglie… Vien dicembre, e non trova che poche rame spoglie e la terra che dorme. (M. Castoldi)
Dicembre Dalla profondità dei cieli tetri scende la bella neve sonnolenta, tutte le case ammanta come spettri; di su, di giù, di qua, di là, s’avventa, scende, risale, impetuosa, lenta, alle finestre tamburella i vetri… Turbina densa in fiocchi di bambagia, imbianca i tetti ed i selciati lordi, piomba dai rami curvi, in blocchi sordi… Nel caminetto crepita la bragia… (G. Gozzano)
Dicembre Va dicembre, in mezzo al gelo, col suo sacco sulle spalle, mentre scendono dal cielo bianchi sciammi di farfalle. Ecco il mese che raccoglie tutti al fuoco dei camini e che va, di soglia in soglia, festeggiato dai bambini. Che letizia si diffonde nei palazzi e i casolari con le tenere e gioconde melodie dei pifferai! Tutti corrono festanti, sotto il turbine dei fiocchi, fra i negozi scintillanti di dolciumi e di balocchi. E dicembre, allegro in viso nel vedere facce liete, nel tinello, d’improvviso, fa sbocciare un verde abete; e l’abete, tutto adorno di lustrini, chicche e doni, vi sussurra in questo giorno: “O fanciulli, siate buoni! Non sentite cosa dice questa nenia di campane? Ogni cuore sia felice, ogni desco abbia il suo pane! Date un dono all’orfanello che giocattoli non ha: e il Natale assai più bello, bimbi miei, per voi sarà”. (P. Ruocco)
Rose di dicembre Vedere ancor due roselline, oggi, a mezzo dicembre, mi pare un inganno degli occhi, un prodigio, trovar queste povere due roselline. Con voce di foglie già morte, il rosaio risponde alle scosse del vento; si tien dritto al muro, a sentir se l’intonaco tiepido è ancora. Sì; forse un po’ tiepido; e basta ai due bocci che s’aprono lenti, in silenzio; e pare un celato sorridere, un muoversi vago di labbra. (F. Chiesa)
Tutte le opere contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere.
Dettati ortografici su dicembre – una raccolta di dettati ortografici, di autori vari, per bambini della scuola primaria. Difficoltà ortografiche miste.
Il nome di dicembre
Dicembre ha questo nome perchè, al tempo degli antichi Romani, quando cioè l’anno cominciava a marzo, era il decimo mese del calendario. Poi i mesi diventarono dodici, ma il nome restò, così come è restato a settembre, a ottobre e a novembre.
La campagna
La campagna è squallida; nei boschi la vita sembra scomparsa, ma in realtà la volpe, la donnola ed il lupo si avventurano nei campi in cerca di cibo. La stagione invernale è propizia a coloro che amano gli sport di montagna e si recano a sciare sui campi di neve. Nel mese di dicembre proseguono nei campi i dissodamenti, il taglio delle siepi, la potatura degli alberi e la pulizia dei fossi. Si bacchiano le olive e, nelle regioni più calde e nelle isole, si raccolgono gli agrumi che andranno in ogni parte d’Italia e all’estero.
Dicembre
Dicembre è un mese freddo, uno dei più freddi dell’anno. Il cielo è quasi sempre grigio, piovoso; spesso cade la neve. Il vento soffia tra i rami degli alberi spogli e li fa tremare sotto la sua gelida furia. Gli uccellini non cantano più. Soltanto i passeri pigolano, infreddoliti e affamati.
Dicembre
Dicembre è un mese freddo perchè con esso entra l’inverno col suo corteo di nebbie, di pioggia, di neve. Ma se scostate il mantello di dicembre scorgerete una quantità di giocattoli, e un bell’albero di Natale. Dicembre è anche un mese pieno di belle e piacevoli sorprese.
Dicembre
A dicembre come passano le giornate, e che freddo! Si fa tutto in fretta, ma il tempo non basta mai: viene subito sera, ed una volta a letto, sotto il caldo delle coperte, si ripensa all’estate trascorsa, alle belle giornate, alla campagna verde e festosa. Ora, dappertutto foglie secche e niente fiori, niente uccelli. Dove sono andate a finire le rondini tanto allegre? Si vedono solo passeri e pettirossi tristi e infreddoliti. (G. Cauzillo)
Dicembre
Dicembre è un mese brutto per i poveri. Hanno bisogno di fuoco, di indumenti pesanti, di cibo, di casa. E spesso, i poveri non hanno nulla di tutto questo. Il vento soffia impetuoso e penetra sotto le travi sconnesse. I poveri desiderano la primavera, ma la bella stagione è lontana. Per i poveri l’inverno è duro e doloroso.
Dicembre
Il freddo è arrivato. Gli alberi hanno perduto tutte le foglie e scheletriti e nudi rabbrividiscono al vento che li scuote. Lucertole, bisce, insetti, sono tutti giù, sotto terra a dormire. Si sveglieranno a primavera. Il cielo è grigio e spesso piove. Allora, nella strada, si allargano le pozzanghere fangose, che rispecchiano le nuvole grigie.
Dicembre
Dicembre è un mese pieno di belle feste. Feste di santi, che portano i doni, festa del bambino Gesù, che in questo mese è nato, festa dell’anno vecchio che se ne va per lasciare il posto all’anno nuovo, che tutti sperano sia più buono di quello che è passato.
Dicembre
Dicembre rassomiglia a un vecchione con la lunga barba bianca, tutto avvolto nel suo ampio mantello coperto di neve. Ma se schiude un po’ quel suo misterioso mantello, ecco far capolino un bell’albero di Natale, e tanti, tanti doni, per la gioia dei bambini buoni.
La campagna
I contadini lavorano attorno alla casa: provvedono alla pulitura e alla preparazione degli attrezzi. Viene travasato il vino nuovo. Continua e termina la raccolta delle olive; nei mercati, sulle mense, compaiono arance e mandarini. In questo mese si festeggiano l’Immacolata e la Madonna di Loreto con processioni e falò. In Lombardia, nel Veneto e in Sicilia i bambini attendono i doni da Santa Lucia. Il Natale raduna tutte le famiglie davanti al presepe e attorno al desco per la tradizionale cena della vigilia. San Silvestro chiude l’anno con danze e canti.
Dicembre
E’ dicembre e l’inverno non aspetta la data ufficiale per fare il suo ingresso. Guardiamoci attorno: le manifestazioni invernali sono visibili ovunque. Il cielo, almeno in Italia, è quasi sempre grigio, nuvoloso, percorso da nubi spesse e pesanti. Osserviamo il cielo non solo durante le sue variazioni (pioggia, sereno, nebbia, ecc.) ma anche nelle varie ore del giorno. Guardiamoci intorno. I segni dell’inverno sono dappertutto. Prati brulli, spesso coperti di brina, cespugli secchi, alberi scheletriti che ormai hanno perduto quasi tutte le foglie, siepi spoglie che lasciano vedere l’intrico dei rami. In tanto squallore spicca la macchia scura di qualche albero sempreverde. Osserviamo la foglia di questi alberi. Se si tratta di conifere, la foglia è sottile, appuntita come un ago e resistente agli agenti atmosferici. Osserviamo anche gli altri sempreverdi: l’ulivo, l’alloro, ecc. Hanno le foglie dure, resistenti, spesso rivestite di uno spesso strato di cutina, una sostanza coriacea e impermeabile che le difende dalla pioggia, dal freddo, dal gelo. Nonostante la campagna sia spoglia, non mancano piante da osservare. Non hanno l’esuberanza della vegetazione primaverile ed estiva. Alcune piante sono fornite di bacche: le rose selvatiche, per esempio, e le piante caratteristiche di dicembre: l’agrifoglio e il pungitopo, che spesso servono come motivo di decorazione natalizio. Le manifestazioni della vita animale sono scarse perchè quasi tutti gli uccelli sono emigrati, fatta eccezione per i passeri, i merli, gli scriccioli, i pettirossi e pochi altri. Alcuni animali, come le lucertole, le bisce, le marmotte, i tassi, i ghiri, sono immersi nel letargo, un sonno profondissimo durante il quale la respirazione e le pulsazioni del cuore sono rallentate al massimo. L’animale, immerso nel letargo, non ha bisogno di mangiare e consuma il grasso accumulato durante la buona stagione. E gli insetti? Spariti, morti, magari dopo aver deposto le uova in un luogo dove il piccolo nato troverà culla e cibo. Sotto terra ci sono le larve, mollicce, oppure coriacee, ma sempre inerti, come morte. Non sono morte; attendono invece alla loro metamorfosi. A primavera le vedremo trasformate in insetti perfetti.
Dicembre
Nelle campagne è un gran silenzio. La terra dorme, spesso coperta di neve, ma, sotto, lavora. La neve la ripara dal gelo e i chicchi si svegliano, ma non osano metter fuori le loro foglioline verdi. Si danno, invece, da fare con le radici che s’insinuano coraggiose fra le zolle e si moltiplicano e diventano forti per poter essere in grado, dopo, di nutrire e fortificare la pianta che spunterà in primavera.
Dicembre
E’ l’ultimo mese dell’anno e porta nebbia, freddo, pioggia e, spesso, neve. Ma anche il freddo è necessario. Le piante perdono le foglie, ma le radici, sotto terra, si moltiplicano e diventano più robuste. Saranno, così, in grado di sostenere e di nutrire meglio la pianta a primavera quando tutta la natura si ridesterà a nuova vita. Gli alberi alzano verso il cielo grigio le loro braccia spoglie. Sembrano morti, ma lungo il tronco e i nei rami, scorre la linfa che è il sangue della pianta. Scorre piano, lentamente, senza forza, ma a primavera ricomincerà a vivificare l’albero che metterà foglie e fiori.
Una giornata di dicembre Era una di quelle giornate di dicembre, in cui si direbbe che si solennizzi il vero ingresso trionfale, definitivo, dell’inverno, con un immenso parata di neve. Chi si era svegliato presto aveva sentito battere sordamente le ore dalla vicina torre, quasi la campana fosse coperta da un panno, o il batacchio rivestito d’ovatta. Chi è solito aspettare il giorno tra le coperte, ne aveva visto la luce distendersi sulle pareti con insolita bianchezza. Chi aveva messo la faccia fuori, l’aveva ritirata esclamando: “Ehi! Che bella nevicata!”. Chi fosse salito il alto, avrebbe visto i tetti, le strade, le mura, le campagne al di fuori, l’immenso piano, i colli, le Prealpi, le Alpi, se erano visibili, tutto d’un solo colore. Quando mi affacciai alla finestra la neve veniva ancora giù, a larghe falde. (A. Stoppani)
Mattinata di dicembre La tramontana di stanotte ha seccato la strada; le carreggiate sono dure come il vetro e luccicano per un po’ di brina nell’ombra scura degli ulivi. Gli alberi nudi frastagliano il cielo coi loro rami e le loro vette che sembrano d’oro. Sono vicino ad un orto di contadino pieno di piante di carciofi. Oltre l’orto c’è una loggetta e, sotto, una donna che leva il pane dal forno. Arriva fino a me l’odore del pane misto a quello della terra. Dopo tanta acqua i campi esultano a sentirsi riscaldati e prosciugati da un po’ di sole. Il grano si rialza dal fango delle zolle, nei solchi c’è però ancora dell’acqua che riflette il cielo azzurro. (A. Soffici)
Dettati ortografici sui dicembre – Tutte le opere contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere.
Recite per bambini – La nascita dei colori. Entra il narratore, e si dispone a lato. Mentre parla fanno il loro ingresso Luce e Tenebra (bianco e nero) e simulano di combattere con le loro spade. Restano sempre da una parte del palcoscenico, mentre nell’altra avviene la danza dei colori. Le due parti vengono illuminate a seconda del momento.
Narratore In principio era la notte, nera buia scura e fredda, poi le tenebre son rotte, da una luce che vi aleggia. Una lotta è cominciata, tra due arditi cavalieri, dura aspra e anche spietata, perchè entrambi forti e fieri.
Luce Io sono il cavaliere bianco, una spada di luce porto al mio fianco, come il cristallo son limpido e puro, nel cuore mio ardito mai non spauro.
Tenebre Ed io sono il cavaliere oscuro, avvolto in un manto buio e cupo, temprata han le tenebre l’arma mia nera, combatto con forza ardita e sincera.
Narratore Luce e buio, chiaro e scuro, insieme lottano con cuore puro, e al cozzare di lor spade di scintille in terra cade, una pioggia di colori e tutto tinge coi suoi doni. Ora il mondo è colorato, e il nostro cuore è assai grato.
(mentre Luce e Tenebra stanno da una parte del palcoscenico, entrano i colori e si dispongono sparsi, mentre il sole comincia a parlare muovendosi tra loro).
Giallo Splende il sole tondo e giallo, al suo levare canta il gallo, e tutto illumina sua luce di colori ora riluce.
Rosso Rossa la rosa dona a ciascuno la sua bellezza e il suo profumo.
Viola Sotto le foglie di un bel violetto, di piccoli fiori si cela un merletto.
Verde Verde di tenera erbetta è il prato, ma tutti quei fiori lo fan colorato.
Arancione L’arancia del sole racchiude il calore, ed arancione è il suo colore.
Blu Blu è l’abbraccio del cielo stellato, manto di zaffiro d’or ricamato.
Narratore Ma continua lo scontro sempre più duro, ognuno combatte con cuore sicuro, e quasi le spade fosser pennelli, nascono in terra i colori più belli.
(Incomincia la danza dei colori, che si avvicinano e si allontanano seguendo il testo).
Colori Sono al mondo tre colori per per bellezza lor splendori, tutto tingon con le dita; rosso accende di sua vita, giallo illumina ed irraggia, blu silente tutto abbraccia. Se poi danzano insieme di creare nessun teme nuovi accordi e nuovi toni: giallo e rosso or arancioni, blu e giallo danno il verde, e nel violetto chi si perde? Son alcuni poi fratelli, stando insieme son sì belli, che si cercan con piacere: viola il giallo vuol vedere, mentre arancio cerca il blu, chi ama il rosso dillo tu!
Luce Anch’io al mondo voglio donarmi, per un momento poso le armi, sì che d’un latteo candido manto, tutto si tinga come d’incanto.
Tenebra Ed io non voglio esser da meno, porto nel cuore uno scrigno pieno di un nero più nero del nero inchiostro, sul mondo lo spiego e i suoi doni mostro.
Luce Se tu di tenebre vuoi tutto oscurare, brilli la luna il buio a rischiarare.
Bianco Bianca nel cielo brilla la luna, cala la notte e tutto s’oscura.
Nero Così nel buio nero e profondo, si può sognare di un altro mondo.
Narratore Ancor due colori strani portano doni a piene mani: pura luce c’è nel bianco, alle tenebre sta al fianco, per brillare nel cristallo chiede al nero di abbracciarlo.
Tenebra Ancora insieme, sempre uniti, fosse possiamo chiamarci amici?
Luce Allora un modo dobbiamo trovare, per confrontarci senza lottare.
Tenebra Creiamo un ponte dall’uno all’altro, unisca gli opposti con il suo arco.
Luce Lo chiameremo arcobaleno, e nascerà dal bianco e dal nero: dove la luce la tenebra incontra, ora le spade più non si scontran.
Tenebra Anzi si tendan benevolmente le loro mani sopra l’abisso, che da ponente fino ad oriente sia il divario sempre sconfitto
Narratore Ed ecco apparire la scala armoniosa, tra le mani tese dei due cavalieri, e lungo il suo arco gli sguardi sorpresi, da tenebra a luce van senza posa.
(I colori si allineano nell’ordine dell’arcobaleno tra Luce e Tenebra, davanti ai quali si pongono Bianco e Nero).
Colori Sette sono i colori, che dal porpora al violetto, sanno calmare col loro balletto, i due arditi opposti cuori. E a goderne è proprio l’uomo, a cui donato è sempre a nuovo, un mondo allegro e variegato, ogni volta appena nato.
Tutti A mostrare come la pace tra gli opposti sia capace, di creare un universo dal principio assai diverso.
Recite per bambini – L’uomo e l’animale. Una recita in rima, molto utilizzata nelle scuole steineriane in quarta classe.
Narratore: Gentili Signore e Signori siamo qui oggi per raccontare la storia singolare dell’uomo e dell’animale che sulla terra stanno insieme per godere il bello e il bene che ogni essere fecondo porta sempre in dono al mondo, del coraggio e dell’astuzia, della rabbia e la pigrizia il ricco gioco del creato che è ora qui rappresentato.
Essere umano: Mi presento, l’uomo sono la coscienza è il mio dono, ma non solo, su, andiamo… queste cose le sappiamo. Io le mani posso usare afferrare o accarezzare, posso stare dritto in piedi, ecco, guarda, non lo vedi? Ho la bocca per parlare o il silenzio accompagnare. La casalinga o il ragioniere, il farmacista o il parrucchiere. Tutte le cose che posso fare sono impossibili da elencare. Posso scrivere e anche tanto e della parola seguire l’incanto. Ho il coraggio e la pazienza, la furbizia e la sapienza. Potrei dirne ancora a quintali, ma ora è momento di voi animali.
Elefanti: I nostri passi sono pesanti, fate largo tutti quanti! Siamo antichi e siam sapienti, animali sorprendenti. Gran memoria possediamo ed alla terra noi la doniamo. Con lunghe zanne ci difendiamo con grandi orecchie tutto ascoltiamo. Del passato e del presente non ci sfugge proprio niente. Ma attenzione, zitti, ascoltate… … un topo! Aiuto! Scappate! Scappate!
Topo Elefanti elefantoni, siete grandi ma lenti e fifoni! Io piccino invece sguscio nella casa sotto l’uscio. Sono il topo roditore mangio e corro a tutte l’ore son veloce e furbo assai forse prendermi potrai con astuzia e con coraggio e con la trappola col formaggio! Ma ora scappo, mica son matto, qui si sente odore di gatto!
Gatto M’è scappato, il roditore, era qui, sento l’odore! Beh, peccato, ma non fa niente, sarebbe stato divertente. Una bella leccatina e son pulito da sera a mattina Ho un mantello lisciato e lucente ammirate brava gente. Sono il gatto vanitoso io di giorno mi riposo e la notte balzo in piedi proprio quando non mi vedi. So essere buffo e divertente ma a cambiare ci vuole un niente Da tutto il mondo son rispettato e dagli uomini molto amato.
Felini Dei micetti siamo parenti ma più lunghi abbiamo i denti. Siamo veloci come il vento e il nostro fiuto è un vero portento. Con le orecchie noi sentiamo anche se starnuta un nano. Siamo temuti e rispettati e da infinito coraggio animati. Ci piace vivere con la famiglia coccole e giochi: che meraviglia! Ci muoviamo con passo felpato quando la preda abbiamo avvistato. Sappiamo cacciare ferocemente, ma sentite: arriva un serpente!
Serpente Noi siamo i serpenti strisciamo qua e là famosi e temuti in ogni civiltà. Facciamo uova e cambiamo pelle il sole ci scalda cacciamo con le stelle. Attenzione ai nostri denti, c’è il veleno, sian serpenti!
Riccio e scoiattolo Amico riccio, tutto spinoso, sono qui che mi riposo. Vuoi sederti anche tu a riposare, che due chiacchiere mi va di fare? Oggi ho raccolto castagne e ghiande per la provvista delle vivande, che nell’inverno, senza fogliame, non ci faranno morire di fame. Mangiare le cose messe da parte, questa sì che è vera arte! Anche tu, riccio, sei previdente, un vero amico, davvero eccellente.
Coccinella Volo e volo, che bellezza, nell’aurora, nella brezza, sorridente e spensierata con un elfo ed una fata. Per volare su prati e canali basta battere un poco le ali. Ho un bel vestito fatto a puntini il prato mi ama, e anche i bambini e sotto il sole e sotto la luna si dice pure ch’io porti fortuna.
Essere umano Ecco qui, li avete ascoltati, gli amici animali si son presentati. Ogni storia è interessante quella del topo e dell’elefante del serpente e della rana dello scoiattolo nella sua tana. Ognuno ha un dono particolare e con precisione sa cosa fare. Ma io questi doni li ho dentro tutti sia quelli belli sia quelli brutti, io questi doni li ho tutti in me dall’uomo misero al grande re. Col cuore supero il coraggio del leone col pensiero volo più alto del falcone posso avere più fame di un lupo e desiderare il cielo più forte del bruco.
Racconto su San Nicola – 6 dicembre. Questa festa si ricollega alla figura storica di Nicola, che visse nel VI secolo.
Anche se è spesso vestito di rosso, San Nicola nella tradizione indossa una tunica bianca e blu e ha un mantello azzurro stellato.
Sappiamo tutti che Babbo Natale è diventato rosso perchè ha bevuto la Cocacola, e a maggior ragione immaginare San Nicola azzurro aiuta i bambini a distinguere tra i due personaggi.
In testa porta la mitra, ha solidi stivali perchè deve camminare molto, e in una mano tiene un bel bastone da vescovo (la pastorale con la spirale avvolta), nell’altra dovrebbe tenere un grande libro d’oro, dove sono scritte tutte le azioni degli uomini, ma coi bambini tralascio sempre questi aspetti troppo moraleggianti e un po’ da “partita doppia” (aspetti in alcune tradizioni addirittura caricati dalla presenza accanto a Nicola di un antagonista malvagio, il Krampus…)
Siccome San Nicola deve camminare molto, indossa grossi stivali, e come richiamo al suo tanto camminare, è tradizione che al suo passaggio gli stivali e le pantofole dei bambini si riempiano di cose buone da mangiare, soprattutto mele, noci, pane bianco (o farina bianca, o dolcetti al miele).
Altri doni ne falsificano un po’ l’immagine e fanno di San Nicola un Babbo Natale fuori tempo.
E’ inoltre preferibile non far venire San Nicola a scuola o a casa, ma far trovare i doni ai bambini al mattino presto o al ritorno da una breve passeggiata.
Magari il giorno prima si puliscono per bene le pantofole insieme ai bambini, con una spazzolina e un panno morbido, e si sistemano insieme a loro con gran cura prima di lasciare la scuola.
A casa questo si può fare la sera prima di andare a dormire, oppure al mattino presto, prima di uscire…
Racconto su San Nicola – 6 dicembre
Ecco un piccolo racconto che si può leggere ai bambini, anche il giorno prima:
“Nel lontano oriente viveva un uomo molto buono, il vescovo Nicola. Un giorno sentì dire che lontano lontano, in occidente, c’era una grande città dove tutti gli uomini pativano la fame, perfino i bambini piccoli.
Chiamò allora tutti gli abitanti della città e chiese loro di portargli i migliori frutti dei loro orti e dei loro campi. Questi tornarono poco dopo con grossi cesti pieni di mele e di noci, sacchi di grano dorato per fare la farina, pane bianco e dolcetti al miele.
Il vescovo Nicola fece caricare tutto su una nave. Era una nave imponente e maestosa, blu come il cielo, ed aveva una grande vela bianchissima che splendeva sotto i raggi del sole.
Iniziarono il viaggio verso occidente, e il vento si mise subito ad aiutarli, soffiando sempre nella direzione giusta. Ci impiegarono sette giorni e sette notti, e quando giunsero alle porte della città stava calando la sera. Per le strade non si vedeva anima viva, ma qua e là brillava qualche lucetta alle finestre.
Il vescovo Nicola bussò ad una di esse. In quella povera casetta viveva una mamma coi suoi cinque bambini. La donna, sentendo bussare, disse ai figlioletti di andare ad aprire la porta, pensando si trattasse di qualche poverello bisognoso di ospitalità. I bambini obbedirono, ma non trovarono nessuno; anche la mamma venne a controllare, e poi tornarono tutti insieme a casa.
Vicino alla stufa a legna la mamma aveva messo le scarpine dei suoi bimbi ad asciugare, perchè nel pomeriggio erano andati a far legna nel bosco.
Rientrando in casa, sentirono tutti un delizioso profumino provenire proprio dalla stufa, si avvicinarono e trovarono le loro scarpe traboccanti di noci, mele rosse, mandarini, pane e dolcetti al miele. E lì vicino c’era anche un grande sacco pieno di chicchi di grano. Tutti poterono finalmente mangiare, ed i bimbi crebbero sani e vivaci.
Così San Nicola ogni anno, nel giorno del suo compleanno, si mette in viaggio per venire da noi. Monta sul suo cavallo bianco e cavalca di stella in stella, e porta ogni anno i suoi doni per ricordare ai bambini che presto sarà Natale”.
Poesie e filastrocche sul Natale – una raccolta di poesie e filastrocche di autori vari sul Natale, per la scuola d’infanzia e primaria.
Lo zampognaro Se comandasse lo zampognaro che scende per il viale, sai che cosa direbbe il giorno di Natale? “Voglio che in ogni casa spunti dal pavimento un albero fiorito di stelle d’oro e d’argento”. Se comandasse il passero che sulla neve zampetta, sai che cosa direbbe con la voce che cinguetta? “Voglio che i bimbi trovino quando il lume sarà acceso tutti i doni sognati più uno, per buon peso”. Se comandasse il pastore del presepio di cartone sai che legge farebbe firmandola col lungo bastone? “Voglio che non pianga nel mondo un solo bambino, che abbiano lo stesso sorriso il bianco, il moro, il giallino”. Sapete che cosa vi dico io che non comando niente? “Tutte queste belle cose accadranno facilmente; se ci diamo la mano i miracoli si faranno e il giorno di Natale durerà tutto l’anno”. (Gianni Rodari)
Invito al presepio Venne un angelo al mio cuore, al mio cuore di bambino. Disse: mettiti in cammino, troverai il tuo signore, più radioso di una fiamma, sui ginocchi della mamma.” Nella notte santa e bella camminai dietro i pastori camminai dietro la stella coi miei piccoli dolori, e ad ogni passo mi sentivo più leggero e più giulivo. Giunsi infine ad una grotta, (come povera di tutto!) dalla porta vecchia e rotta la Madonna col suo putto vidi, e l’angelo e il pastore adorare il mio signore; e tre re soavi e buoni giunti là chissà da dove; ed un asino ed un bove silenziosi testimoni che l’avevano scaldato con la nuvola del fiato. Adorai il bimbo, e poi lo pregai di farmi buono e gli chiesi qualche dono qualche dono anche per voi. (R. Pezzani)
Il presepe Vi sono monti scoscesi, nudi ed erti e un ciel di carta azzurra a punti d’oro, vi son le snelle palme dei deserti, tra la neve coi pini e con l’alloro. C’è un bel prato di muschio verdolino, tante casette sparse qua e là un ponticello ed un laghetto alpino proprio d’un monte sulla sommità. E vi sono pastori e pastorelle che vanno con gli armenti in compagnia. un elefante e tante pecorelle verso la capannuccia del messia. E la santa capanna è illuminata sol da una stella che vi splende su… oh, quanta gente intorno inginocchiata anche i re magi, ai piedi di Gesù! Ed il Gesù piccino sorridendo, stende le braccia a tutti quei fedeli, angeli e cherubini van scendendo sopra quel tetto dagli aperti cieli. (E. Morini Ferrari)
L’asinello di Gesù L’asinello lascia il pasto e la schiena sotto il basto va per strade senza siepe e vuol giungere al presepe. Son passati i pastorelli con le lane, con gli agnelli, c’è un fiorire per le fratte, le fontane danno latte e tra i pruni zuccherini è un vagar di cherubini. Lui, ch’è irsuto, bigio, brutto, non ha un dono per il putto: ma riscalderà col fiato il signore del creato. (L. Carpanini)
Presepio E’ una notte fredda e serena con in mezzo la luna piena; poi la luce di fa più bella per l’accendersi di una stella; e quando gli angeli scendono a volo in terra nasce il divino figliolo. Ora è Natale e nella capanna c’è un dolce bimbo con la sua mamma mentre il padre dal volto sereno la mangiatoia riempie di fieno. C’è tanto freddo e tanto gelo e per coprirlo non c’è un velo. Ma l’asino e il bue messisi a lato lo riscaldano col fiato. (G. Rossi)
E’ nato Dite se avete mai visto un fantolino più bello con qui colori di pomo. E’ vispo come un uccello. Ha tutto il cielo negli occhi, tutte le grazie sono sue. E’ nato re in una grotta, tra un asinello ed un bue. (R. Pezzani)
Notte santa Scintillano le stelle, fiaccolette d’argento, e illuminano a festa l’azzurro firmamento, mentre a migliaia, in terra, spandono le campane ad invitar le genti mistiche note arcane. Laggiù, nella chiesetta, brillano come gemme i ceri sacri, accesi al bimbo di Betlemme. Ed al presepio santo c’invita il redentore: qui la preghiera sale dal cuore come un fiore. (R. Tosi)
E’ nato, alleluia alleluia è nato il sovrano bambino la notte che già fu sì buia risplende di un astro divino orsù cornamuse, più gaie sonate, squillate campane venite pastori e massaie oh genti vicine e lontane per quattro mill’anni s’attese quest’ora su tutte le ore è nato, è nato il Signore è nato nel nostro paese la notte che già fu sì buia risplende di un astro divino è nato il sovrano bambino è nato, alleluia alleluia. (G. Gozzano)
Doni al bambino Gesù bambino nella notte santa ebbe i doni del cielo e della terra: ebbe i fiori più belli d’ogni serra, e le più belle foglie di ogni pianta. Ogni stella gli offerse un raggio vivo: ebbe da tutti i re gemme e corone: il vento gli cantò la sua canzone, gli mandò i suoi sospiri il dolce rivo. E chi soffriva gli donò il suo pianto, chi godeva gli diede il suo sorriso. Dalle soglie dell’alto paradiso gli gettarono le nubi un roseo manto. Ebbe la lana di ogni pecorina, tutto quello che aveva ogni pastore. Ogni mamma gli diede un suo dolore, ogni siepe gli diede una sua spina. Ma c’era un bimbo povero che, senza mantello, verso il suo destino andava. Era giunto così presso il bambino: cercava un dono, ma non lo trovava! Toccare non osò la santa culla: un muto pianto gli bagnò le gote: si strinse al cuore le manine vuote, guardò il bambino e non gli diede nulla. Ma nella notte così fredda e nera quel nulla diventò luce e calore: di tutti gli astri aveva lo splendore e tutti i fiori d’ogni primavera. (Milly Dandolo)
Albero di Natale Le candeline accese sui rami dell’abete sembrano tutte liete di vegliar da vicino il dolce sonno di Gesù bambino. I gingilli d’argento, le belle arance d’oro, chiedono tra di loro scampanellando piano: “Ci toccherà la sua piccola mano?” Gli angioletti di cera dalle manine in croce sussurrano con voce quasi di paradiso: “Se avessimo soltanto un suo sorriso!” E la stella cometa che vide tutto il mondo dice con profondo sospiro di dolcezza: “Non vidi mai quaggiù tanta bellezza!” (Milly Dandolo)
Notte di prodigio Mezzanotte! Le fonti gelate si disciolgono per incanto; si ridestano dal greve sonno tutte le piante addormentate. E le strade non hanno più spini, i sassi non fanno più male; le siepi sono tutte chiare, come fiorite di biancospino. Ogni cuore si leva al richiamo d’un azzurro messaggero, ogni viandante segue una stella che gli illumina il sentiero… (Graziella Ajmone)
Il Cristo bambino I suoi occhi acquamarina si aprono al sorridente mare del mattino. Due soli splendenti hanno illuminato l’alba. Le sue gote di melagrana sono fiori di rosa di alloro, fiori rosa i cui steli e radici salutano l’umanità con amore. Le sue esili braccia levate in un simmetrico arco armonioso che abbraccia il mondo. La sua bocca due petali di rosa la sua lingua un’arpa dolce e melodiosa i capelli brillano di luce intrecciati con rami di rosmarino. I polsi mazzolini di violette e quando respira la stanza si riempie d’incenso che brucia in un fuoco divino. Quando cammina sarà un ondeggiare di broccato vermiglio, blu e d’oro bordato d’argento e tempestato di pietre. Gloria eterna a Lui neonato salvatore, il Re e a Colui che Lo adorna. (K. Naregarsi)
Oh bambino Gesù, sei piccolino e poveretto forse più di me hai solo un po’ di paglia per lettino ma tu scendi dal cielo, oh re dei re tutto quello che ho, Gesù bambino è tutto dono della mia bontà tu mi hai dato la vita, un cuoricino la mia mamma adorata, il mio papà mi hai fatto tanti doni cari e belli ed io, che non ti ho dato ancora nulla prego in ginocchio come i pastorelli dinnanzi allo splendor della tua culla e il mio piccolo cuore dono a te oh signore del mondo, oh re dei re.
Canto di Natale del ciliegio Giuseppe e Maria passeggiando qua e là scorsero ciliegie e mele in grande quantità e Maria chiese a Giuseppe. con fare gentile e carino: coglimi qualche ciliegia perchè aspetto un bambino rispose Giuseppe così rozzo e scortese chiedi al padre del bimbo perchè non te le ha prese e allora il bambino dal grembo ordinò piegati ciliegio che mia madre ne abbia un po’ e il ciliegio come un arco si piegò un istante per far raggiungere a Maria il ramo più distante e allora Giuseppe prese Maria sulle ginocchia dicendo: Signore, perdona la mia spocchia e abbracciando Maria disse: Negli anni che verranno mio piccolo salvatore, per il tuo compleanno colline e montagne a te si inchineranno e dal ventre materno parlò ancora il bambino il mio compleanno sarà a Natale, di mattino quando colline e montagne mi faranno un inchino.
Natale Si squarcia nella notte il fondo velo ed un vivo splendore appare in cielo. Scendon giù dalle saperne sfere infinite degli angeli le schiere: -Osanna, osanna- cantano in coro e manifestan la grandezza loro. Abbagliati i pastori, ed esultanti senton nel cuore l’eco di quei canti. Balzan in piedi, pieni di fervore per cercare nel mondo il redentore. e van e vanno guidati dalla stella fin sulla soglia della capannella E’ nato là il salvatore, è nato le genti vuol redimer dal peccato è venuto qui in terra il Dio d’amore per riscaldare a tutti a tutti il cuore nell’anime la pace scenderà agli uomini di buona volontà. (E. Minoia)
O Simplicitas Un angelo mi visitò ed ero impreparata a esser di Dio strumento madre diventerò ma ero spaventata tremai per un momento l’angelo era ancora là, sia fatta la sua volontà ed accettai l’avvento. Dovrebbe un re solenne nascere in nobile dimora pensavo in quel momento partimmo per Betlemme, tutto era strano allora soffiava un freddo vento portavo un vecchio mantello, non ci accolsero nell’ostello la città era in fermento Un bimbo appena nato, che ancor non sa parlare giace in umiltà Giuseppe lo ha vegliato, le bestie lo san scaldare si muovono a pietà è nato in una stalla? Capii quella novella più di un re lo adorerà era un fatto strano, la stalla di un pastore un gregge che belava, il verbo fatto umano giaceva sul mio cuore, la gioia mi inondava e i pastori vennero a rendere onore a quel bimbo nostro signore e a tutta la saggezza che incarnava. (M. L’Engle)
Natale Nel cuor dell’inverno tra neve e tra geli discende il bambino dall’alto dei cieli riporta alla terra la luce e il calore e accende nei cuori speranza ed amore. (E. Minoia)
Una sposa magica Ebbi una dolce, candida visione una sposa magica, splendida apparizione che sapeva parlare di gioia e di dolore una giovane madre che con devozione a vegliare il bimbo nella culla si dispone lo custodisce cantando per ore ninna nanna, ninna oh, dormi dolce bambino.
Presepio Il mio pastore c’è. Anche quest’anno lassù, tra i monti, ha lasciato il capanno e scende a visitare il re dei re. Va, scalzo, per sentieri di muschio, in mezzo a laghetti e ruscelli. Portano agnelli altri pastori, le donne panieri. Egli ha le mani vuote: è poverello e non ha nulla per la divina culla. Ma la gioia gli scalda il volto bello. Dietro il fulgore dei Magi chinerà timido e muto il suo capo ricciuto: offrirà il cuore. (L. Barberis)
Natale Voli d’angeli nel ciel di turchese, sorrisi incantanti di bimbi, ceppi tra gli alari di mille focolari. Presepi fasciati di sogno di trepida attesa, alberelli raggianti di luce, voci di chiese in ogni paese. Doni che giungono a mille da mille remote contrade, biglietti d’augurio, conviti che tutti ci voglion riuniti. (Luisa Zoi)
Natale Stella stellina che brilli lassù ravviva il tuo lume, che passa Gesù Campana piccina che attendi lassù intona il tuo canto che nasce Gesù Oh cuore piccino che attendi quaggiù prepara i tuoi doni che nasce Gesù.
Natale Un canto nell’aria Un campo innevato! Una stalla piena di fieno! Ronfa un asinello! Una madre il suo bimbo culla! Una mangiatoia, e una mucca col vitello! -Noi ricordiamo tutto quello_ e voci gaie, nell’aria quieta! E tre re magi, e una cometa! Duemila anni di neve sanno che nell’aria c’è un canto a Natale ogni anno e si sente in questo incanto una melodia serafica, un inno fatato che dice a tutti che lui è rinato che tutto ciò che amiamo è rinato. (J. Stephens)
Natale Lo spirito del mondo discende sulla terra e in quel grembo profondo per mesi si rinserra. Con la mano leggera mille fiaccole accende sì che la notte nera ad un tratto risplende. La pietra si ravviva, si ridestano i semi la larva si fa viva. Anche nel cuore dell’uomo lo spirito discende e una fiamma d’amore e una speranza accende. (E. Minoia)
Salus mundi Vidi una stalla bassa e scura nella mangiatoia giaceva un neonato i buoi lo conoscevano, se ne presero cura dagli uomini era ignorato del mondo la salvezza futura ai rischi del mondo abbandonato. (M. Coleridge)
Natale Nella notte oscura io non ho paura brillano le stelle nel cielo così belle guardan Gesù bambino piccolino piccolino che ci è nato per amore sulla Terra e qui nel cuore. (L.Baratto)
Natale Quanto più triste è attorno a noi l’inverno quanto dura è la zolla e spento il cielo dal profondo fiorisce a noi tra il gelo un fiore eterno. Suonano dai suoi petali parole di pace in terra ad ogni buon volere e per il cuore che lo sa vedere rinasce il sole. (L. Schwarz)
Natale Lei giaceva tranquilla sulla paglia mentre lui veglia il bambino, incerto e le ombre danzano sulla porta della stalla i buoi ondeggiano, nella capanna volteggia una falena è Gabriele con ali di seta, che va dove lei giace tranquilla sulla paglia un falegname e sua moglie, ignari che re e pastori li cercan da lontano e le ombre danzano sulla porta della stalla dorme il bambino, un asinello sbuffa lui mormora prudente e guarda lei che giace tranquilla sulla paglia canta il gallo, ma il canto non vien fuori sulla collina sagome scure di pastori e le ombra danzano sulla porta della stalla nell’aria calma si sente vita nuova che copre il profumo lontano della mirra lei giace tranquilla sulla paglia e le ombre danzano sulla porta della stalla. (J. Nicholls)
Natale Nato è il bambino nella capanna veglia Giuseppe, veglia la mamma nel cielo appare la nuova stella che annuncia il mondo la gran novella gli angeli cantan in una schiera risorgi uomo, risorgi e spera fa che il bambino ti nasca in cuore e che ti porti luce ed amore. (E. Minoia)
Natale …che neve, che sera! Ma a un tratto comparve una stella; ed ecco sembrò primavera. La siepe che dianzi era brulla fiorì d’improvviso. S’udiva leggero un pio ritmo di culla, e un palpito d’ali d’argento, e un dolce tinnar di campane portato giù a valle dal vento. E vivo splendeva laggiù sull’umile grotta, a Betlemme, un fiore divino, Gesù. (Zietta Liù)
Ascolta… senti? Senti! Non odi questa melodia, non senti il grido del pastor contento un coro di fanciulli; e per la via, tra gli alberi, frusciar lieto il vento? Non vedi dunque il fiocco lieve lieve, non vedi su nel cielo la cometa non vedi il folleggiare della neve, che nel cadere sembra bianca sete? Ascolta! …Senti questo battere d’ale che pare il tintinnar di mille gemme, e il richiamo dell’angelo trionfale, perdersi nella valle di Betlemme? Non scorgi dunque il fioco lanternino che illumina la stalla, non vedi il bove quieto ed il ciuchino, non vedi il bimbo sulla paglia gialla? Non vedi la dolce maria che rapita mira il bambino? E al fianco suo Giuseppe cui trema la gran barba incanutita? E i tre re Magi giunger dalle steppe? Ascolta!… Senti? Il coro celestiale canta lassù: “Auguri! Oggi è Natale!” (A. Zelli)
Natale Maria dentro la grotta si posò, e Giuseppe a Betlemme si avviò. Ma d’un tratto sentì che mentre andava a mezzo il passo il piè gli s’arrestava. Vide attonita l’aria e il cielo immoto, e uccelli starsi fermi in mezzo al vuoto; e poi vide operai sdraiati a terra, e posata nel mezzo una scodella; e chi mangiava ecco non mangiava più chi ha preso il cibo non lo tira su chi leva la man la tiene levata e tutti al cielo volgono la faccia. Le pecore condotte a pascolare sono lì che non possono più andare fa il pastor per colpirle con la verga e gli resta la man sospesa e ferma e i capretti che all’acqua aveano il muso ber non possono al fiume in sé rinchiuso E poi Giuseppe vide in un momento ogni cosa riprender movimento tornò sopra i suoi passi, udì un vagito Gesù era nato, il fiore era fiorito. (D. Valeri)
Natale E l’angelo volò sotto le stelle vide un castello con tre grandi porte e sulle porte nove sentinelle. L’angelo del Signore gridò forte: “E’ nato!” E l’angelo volò sotto le stelle e vide tre pastori in una corte presso un fuoco, ravvolti in una pelle. L’angelo del Signore gridò forte: “E’ nato!” I pastori si misero in cammino coi montoni, le pecore, gli agnelli, e per la prima volta Gesù bambino apparve a tre pastori poverelli. (S. Plona)
Natale Cosa mai porterà quel poveretto al bambino che è nato il cespo è nudo, spoglio è l’alberetto e le sue mani, ruvide di gelo pendono vuote, vuota è la bisaccia ma la sua scarna faccia si illumina di cielo. Va nella notte bianca di neve aspro il sentiero ma più s’accosta, più il passo è leggero s’affretta, si rinfranca. Eccolo, è giunto, è giunto al limitare della santa capanna fulgori, incensi, osanna ed egli non ha nulla da donare. Vuote le mani, lacrime alle ciglia… oh, dai cenci scuote i bianchi fiocchi e d’improvviso pare, meraviglia, che una cascata di gemme trabocchi. (D. Mc Arthur)
Natale Canta la chiesetta del monte la sua pastorale è apparsa nel buio orizzonte la stella del santo Natale è apparso un angelico stuolo nel cielo d’oriente e annunzia ch’è nato il Figliolo di Dio a tutta la gente Din don din don! Che dolcezza, che gioia nel cuore o notte di eterna bellezza, o notte di pace e d’amore! La terra di neve s’ammanta, cammina una stella lassù è questa la notte più santa, din don din don è nato Gesù.
Natale Che ti ha portato il Bambino? Un aeroplano che vola, tre arance, un burattino e la cartella di scuola con libri belli ha riempito poi c’era accosto al mio letto un nuovo grazioso vestito e, nuovo, su quello, un berretto… Nient’altro il Bambino ti ha offerto? Nient’altro ti ha fatto gioire? E’ molto mi pare, ma certo, qualcosa ancora ho da dire e a dirtelo, vedi, ora stento oh, dentro al cuore un bel dono io solo, io solo lo sento: la voglia di esser più buono. (G. Fanciulli)
Natale Cosa c’è sull’abete piccino che ride come un bambino? C’è una lieve campana sospesa a un filo bianco a chi l’urta nel fianco parla con voce umana C’è un grazioso uccellino occhietti d’oro, alucce d’argento se appena lo tocca il vento è pronto a spiccare un saltino C’è una trombetta discreta che non suona forte ma brilla e in alto, come sfavilla! C’è la stella cometa E c’è un angelo che vola: non risponde se lo chiamo appende stelle di ramo in ramo e candeline celesti e viola Questo c’è sull’abete piccino che ride come un bambino.
Natale Attraverso quelle nubi onde è oscuro il nostro ciel passan pur di gloria i raggi e si squarcia il denso vel. Odi l’eco dolce e arcano di quegl’inni pien d’ardor che si cantan nella luce nella patria dell’amor.
I pastori “La luce di una stella” dice il vecchio pastore “ci insegna la strada, la strada che porta al Signore”. Ed i pastori, umili e buoni, alla capanna vanno e recano doni. E le pie pastorelle preparan lini candidi, e latte, e lana delle agnelle. Il più piccolo pastorello ha già pronto lo zufoletto, per cantare la ninna nanna al divino pargoletto. Don… dan… don… Dice il vecchio pastore: “La mezzanotte scocca udite il cor degli angeli? E’ nato il redentore!”. “Gloria al signore!” ripete ogni pastore “E pace in terra agli uomini! Pace… ed amore!” (Elisa Furiosi)
Ninna nanna a Gesù bambino Nella gelida capanna c’è un bambin che fa la nanna. Gli è vicino la sua mamma che lo ninna e che lo nanna. Fa’ la nanna, o piccolino, fa’ la nanna, o re divino! San Giuseppe poverello sta attizzando il fuocherello per scaldare il corpicino di quel fiore di bambino. Fa’ la nanna, o fiorellino, fa’ la nanna, o re divino! Son venuti i pastorelli con le pecore e gli agnelli, le zampogne per suonare e Gesù riaddormentare. Fa’ la nanna, o fantolino, fa’ la nanna, o re divino! (Domenico Vignali)
Natale Nella notte tutta stelle passa un angelo piccino. Ha soltanto un camicino e le alucce chiare e belle. Van pastori e pastorelli dietro a lui nella capanna, dove il bimbo fa la nanna, e gli portano gli agnelli. La Madonna veglia e tace, veglia e tace a capo chino; guarda trepida il bambino, il suo cuore non ha pace. Lo riavvolge dentro il manto, lo contempla con dolore; senza fasce è il Dio d’amore. Trattenere non può il pianto. San Giuseppe inginocchiato guarda il bove e l’asinello che riscaldano col fiato quel bambino così bello. Ed intanto tutti in coro cantan gli angeli l’osanna a Gesù che fa la nanna sotto la cometa d’oro. (Giannina Facco)
Notte santa Il sole accesso calava dietro i monti di Giuda: lungo la valle nuda il vento mugolava. Ma sul colle alto, Betlemme radiava come gemme. Stanchi, senza parole, montavate. Sparve il sole nel silenzio, e mentre annotta non albergo, una grotta trovaste; e tu Maria, dicesti: “Così sia”. Su rozza paglia stavi, sonno ti prese. Sognavi che ti nasceva Gesù. Angosciata ti svegli, e ai tuoi piedi, in un mare di luce, lo vedi! Come uccelletto in nido la sua boccuccia apriva, piccoletta quasi uliva; i piedini e le manine sue li scaldavan l’asinello e il bue. Giuseppe in rapimento muto, le braccia in croce, chino sul petto il mento, adorava. Ma tu, che voce, che grido, o Maria, mettesti. quando aprì gli occhi celesti! (Angiolo Silvio Novaro)
Il vecchio Natale Mentre la neve fa, sopra la siepe, un bel merletto e la campana suona Natale bussa a tutti gli usci e dona ad ogni bimbo un piccolo presepe. Ed alle buone mamme reca i forti virgulti che orneran furtivamente d’ogni piccola cosa rilucente ninnoli, nastri, sfere, ceri attorti. A tutti il vecchio dalla barba bianca porta qualcosa; qualche bella cosa e cammina e cammina senza posa e cammina e cammina e non si stanca. E dopo aver tanto camminato nel giorno bianco e nella notte azzurra canta le dodici ore che sussurra la notte, e dice al mondo : “E’ nato!” (M. Moretti)
Natale Maria dentro la grotta si posò e Giuseppe a Betlemme si avviò, ma un momento sentì che mentre andava a mezzo il passo il piè gli s’arrestava. Vide attonita l’aria e il cielo immoto e gli uccelli starsi fermi in mezzo al vuoto e poi vide operai sdraiati a terra e posata nel mezzo una scodella e chi mangiava, ecco non mangia più chi ha preso il cibo non lo tira su chi levava la man la tien levata e tutti al cielo volgono la faccia. Le pecore condotte a pascolare sono lì che non possono più andare, fa il pastore per colpirle con la verga e gli resta la man sospesa e ferma. E i capretti che all’acqua aveano il muso ber non possono al fiume in sé rinchiuso. E poi Giuseppe vide in un momento ogni cosa riprender movimento. Tornò sopra i suoi passi, udì un vagito, Gesù era nato, il fiore era fiorito. (D. Valeri)
Natale Bianca la terra, il cielo grigio “Suonate campane a distesa, è nato!”. Sul vivo prodigio la Vergine è china e protesa. Non broccati, non grevi tende, proteggono il bimbo dal gelo qualche tela di ragno pende dal soffitto che mostra il cielo. Gesù tutto bianco e vermiglio sulla paglia fredda si muove gli rifiatano sul giaciglio a scaldarlo l’asino e il bove. Sopra il tetto che si spalanca nero, la neve fiocca uguale. Angioletti in tunica bianca ricantano ai greggi: “E’ Natale!” (T. Gautier)
Quieta notte Quieta notte, santa notte! Tutto dorme, veglia solo la diletta coppia santa; il bel bimbo, capelli ricciuti dorme in pace celestiale. Quieta notte, santa notte! Ai pastori il primo annuncio con il cantico degli angeli squilla forte, lontano e vicino: “Gesù il salvatore è qui!”. Quieta notte, santa notte! Figlio di Dio, oh come sorride l’amore sulla tua divina bocca! Suona per noi l’ora salvatrice, Cristo, nel suo Natale! (G. Regini)
Serenità natalizia E’ Natale! Batte l’ale per il freddo l’angioletto e si scalda il fanciulletto della mamma presso il cor. E’ Natale! Nessun male faccia piangere i bambini anche gli orfani e i tapini passin lieto questo dì. E’ Natale! Sovra l’ale scenda l’angiol come neve porti a tutti, dolce e lieve, i bei doni dell’amor! (A. C. Pertile)
Uber sonne, uber sterne Lentamente va Maria tra le chiare stelle d’or, prende luce, prende gloria per il bimbo suo Signor. Nell’immensità stellare su nel cielo Maria va reca i doni che il Natale alla terra porterà. Chiede al sole ed alla luna fili bianchi e fili d’or per cucire una vestina al bambino suo Signor. Stan le stelle tutte attorno a guardar Maria che va con i doni che il Natale alla terra porterà. (canto tradizionale)
Natale è vicino Il gelido vento che scende giù giù dal camino ha detto: “E’ vicino” Il passero in cerca di briciole l’abete ed il pino Han detto: “E’ vicino” Col vecchio dicembre la neve vien giù e i bimbi vicino al camino ripetono lieti: “E’ vicino” “Arriva il bambino Gesù”.
Vigilia di Natale Nella grande cucina di campagna era riunita tutta la famiglia per quella dolce sera, tanto attesa. Oh, dolce sera della gran vigilia! Erano i grandi intorno al focolare, a rievocar Natali ormai lontani, come in un sogno, pieno di dolcezza, lieti Natali della fanciullezza. E i bimbi erano intorno ad un presepe a rimirar pastori e pecorelle, laghetti, monti, limpidi ruscelli e la capanna umile, e in ciel le stelle. La mezzanotte lentamente suona. Tutti in ginocchio dicon la corona. Sulla capanna splende un sole d’oro: nato è Gesù e or vive in mezzo a loro. Il nonno, una figura patriarcale, intona l’inno della pastorale: “Tu scendi dalle stelle, o re del cielo e vieni in una grotta al freddo e al gelo”. Un angelo si ferma ad ascoltare la dolce nenia della pastorale. Un palpito nei cuoi, un fruscio d’ale, e l’angelo sussurra: “Buon Natale!”. (Elisa Furiosi)
Notte di Natale Chiara notte, notte bella i pastori, gli agnellini gli angioletti ed i bambini tre re magi ed una stella vanno tutti da Gesù.
Notte di Natale Nella gelida notte di Natale un canto di campane si diffonde: nell’aria ondeggia, e il firmamento sale azzurro e cupo come mar senz’onde. Gli angeli piegan sulle culle l’ale narrando ai bimbi favole gioconde. Chi stanco vigilò, riposa in pace. Cantano le campane e il mondo tace. (Fausto Salvatori)
La sacra famiglia Maria lava al ruscello e gli uccellini intanto accompagnano il moto col loro dolce canto. San Giuseppe sui rami i panni va stendendo e l’acqua del ruscello scorre via sorridendo. Cantano gli angioletti e i rami sono in fiore dove brillano le fasce di Gesù mio signore. (S. Plona)
La notte di Natale Mamma, chi è nella notte canta questo canto divino? Caro, è una mamma poveretta e santa che culla il suo bambino. Mamma, m’è parso di sentire un suono come di campanella. Sono i pastori, mio piccolo buono, che van dietro alla stella. Mamma, c’è un battere d’ali un sussurrar di voci intorno intorno. Son gli angeli discesi ad annunciar il benedetto giorno. Mamma, il cielo si schiara e si colora come al levar del sole. Splendono i cuori degli uomini è l’aurora del giorno dell’amore. (D. Valeri)
Notte di Natale Calma è la notte, limpida, serena; la luce delle stelle è mite e buona. Il venticello fiata appena appena, nelle braccia al mistero s’abbandona. La neve bianca arricchisce la scena della natura e più luce le dona, la ciaramella intona una novena che arriva al cielo come una canzona. Sacro è il silenzio, misterioso e fondo, quasi che non volesse profanare l’aspettativa dolce che è nel mondo! (P. G. Cesareo)
Sogno di Natale Stanotte ho sognato che tu, dolce mamma, accanto mi stavi, quand’ecco una fiamma nel cielo s’è accesa. La notte già buia qualcuno ha percorso cantando alleluja. E il coro armonioso di voci d’argento ho udito cantare sull’ali del vento: “Dio vero discese tra gli uomini: osanna!” E il coro era preso una grigia capanna. Fin là siamo andati. Pian piano. La neve di soffici piume sembrava più lieve: fasciava la terra sopita nel bianco. Il viaggio fu dolce, o mamma, al tuo fianco! Allora l’ho visto il bimbo divino più bello di un fiore e piccino piccino. Splendeva, coperto soltanto d’un velo d’un tenero, azzurro chiarore di cielo. Per te, dolce mamma, per il babbo mio, il bene gli ho chiesto di cui son capace: pei morti il riposo, pel mondo la pace; pei poveri un tetto, pei tristi l’oblio. (Mario Pucci)
Il vecchio Natale Mentre la neve fa, sopra la siepe, un bel merletto e la campana suona, Natale bussa a tutti gli usci e dona ad ogni bimbo un piccolo presepe. Ed alle buone mamme reca i forti virgulti che orneran furtivamente d’ogni piccola cosa rilucente, ninnoli, nastri, sfere, ceri attorti… A tutti il vecchio dalla barba bianca porta qualcosa, qualche bella cosa e cammina e cammina senza posa, e cammina e cammina e non si stanca. E dopo aver tanto camminato, nel giorno bianco e nella notte azzurra, conta le dodici ore che sussurra la notte e dice al mondo: “E’ nato!”. (Marino Moretti)
Piccole mani Manine di Gesù, piccoli petali rosa che mamma stringe di più per riscaldarvi al suo cuore, manine che or vi schiudete in atto d’amore; o soavissime mani che le pupille dei ciechi risanerete domani, piccole dita di fiore che dalla fronte d’ognuno nel giorno di Natale cancellerete il dolore, sfioratemi la fronte, venite al mio guanciale e da babbo e mamma mia ogni pensiero doloroso, io vi prego, mandate via, soavi piccole mani. E così sia! (Zietta Liù)
Offerta “Io porto al presepe il sempreverde, ancora fresco della mia siepe”. “Io un bocciolo che odora di primavera, lieve bocciolino di serra, bianco come la neve che vela cielo e terra”. “Io a mani giunte andrò al bimbo mio Signore; in dono porterò il mio piccolo cuore”. (Dina Mc Arthur Rebucci)
La Madonna dei pastori Come sempre, Maria, la notte di Natale, al suo presepe antico, nel gran gelo invernale, discese in compagnia: c’era Gesù sul fieno, Giuseppe, i Magi, gli angeli tutti del paradiso e Giovanni con l’esile croce premuta al seno. C’erano le Madonne di tutti i santuari di tutti gli oratori discese dagli altari, nelle lucenti gonne, discese dai dipinti di tutti i dipintori, da tutti i crocevia, ricche di sete e d’ori di ninnoli e di cinti. Recavano in omaggio voti, gioielli, fiori; recavano il perdono per tutti i peccatori giunti in pellegrinaggio. Ce n’era una, di legno, scolpita rozzamente con abito e mantello stinti dalle tormente del piccolo suo regno: apparve la più povera, senza cuori d’argento. Scendeva dai suoi monti dove ululava al vento il lupo solitario, e lassù non salivano che pochi pastorelli forse una volta all’anno, con la bisaccia e il pane, avvolti nei mantelli. Essa è là, non si muove, quasi mortificata di tutte le ricchezze stipate sull’entrata, sparse per ogni dove; e reggendo con molta cura il grembiule nero, reca sol bianca neve: quella del suo sentiero, così, per via, raccolta. Maria la scorse, e lieve: “Come ti chiami?”. Ed ella dal suo cantuccio, fuori: “Mi chiamano, sorella, Madonna dei pastori”. Disse, ed in quel momento le cadde giù il grembiule dalle mani tremanti, e una pioggia di falce si sparse sul viale: diventarono fiori, si dilatò un profumo ed una luce, e fuori belarono le agnelle. Maria sorrise al dono, felice. E a quella i venti che vagano sul monte, e i torrenti e le genti, infiorarono il trono. Ogni Natale ancora rifioriscono al molle tepore del suo piede cespugli di corolle candide, come allora. (Giuseppe Porto)
Natale Ascolta mammina… C’è qualcuno che bussa alla porta! E’ un angel del cielo che porta un dolce messaggio per te! E’ un dolce messaggio d’amore, è un dolce messaggio di pace che certo ti piace, messaggio che dice: “Ti rendo felice!”. Lo manda il celeste bambino che tanto ho pregato per te, con tante promesse di bene al mio piccolo re. Babbo non senti? Qualcuno qui batte per te! E’ il mio piccolo cuore che ha detto al Signore le dolci parole cercate per te. Gli ha detto: “Celeste bambino, il babbo, ti prego deh, fallo contento! Un sacco d’argento tu portagli qui, un sacco con dentro la pace, la gioia, l’onesto lavoro”. Così ho pregato, e Gesù redentore ascoltarmi saprà. Vedrai tu mamma… vedrai papà! (B. Marini)
Messa di mezzanotte C’era un silenzio come d’attesa lungo la strada che andava alla chiesa; è fredda l’aria di notte, in quell’ombra là, solitaria. C’eran le stelle nel cielo invernale; e un verginale chiarore di neve, ma lieve e rada. C’era una siepe nera e stecchita: parea fiorita di suo biancospino. E mi tenea oh, mio sogno lontano mia madre per mano. E nella tiepida chiesa, che incanto! fra lumi e un denso profumo d’incenso e suono d’organo e voci di canto, ecco il presepe, con te, bambino… (Pietro Mastri)
Natale Gremito di stelle è il firmamento; di ghiaia d’argento brilla la strada del mare per qualcuno che deve arrivare. Manti di neve agli alti crinali come drappi ai davanzali parano i monti a festa. Vicino, lontano, di luce accesa, pare la terra un altare. Socchiuse tuttora son le porte dei casolari; sconosciuti che in quest’ora si salutano in cammino si riconoscono familiari. Il mastino li guarda passare e si scorda di abbaiare. Non nelle fiabe soltanto è questa notte d’incanto. O cuore di tanta gente che ritornato innocente t’apri come un fiore, nasce, stanotte, nasce il Signore! (Ignazio Drago)
Le sue ricchezze Gesù, Gesù bambino è nato poverino come nessuno fu. La casa una capanna, la culla un po’ di fieno, per vestirlo una spanna di lino o forse meno. Per fargli caldo, il fiato d’un asino e d’un bue. Queste che vi ho contato son le ricchezze sue. (Renzo Pezzani)
Natale Quei fiori di brina alla finestra sono piume di tenere colombe, così candidi e fragili, mio Dio. Oh Maria, gentile madre amorosa che una spina già punge: i tuoi occhi sono dolcemente tristi, mentre preghi tuo Figlio. Gli angeli intanto con le trombe lucenti del giorno del giudizio annunciano la lieta novella: “Dei poveri è il regno dei cieli, Alleluia”. Ma i poveri piangono ancora di freddo, o Signore, e di pena. (A. Franchi)
Natale al lago turchino E’ un Natale poverino quello di Lago Turchino piccolo paese lassù che non ha neppure un campano per farsi sentire lontano. Forse un lumino di più arderà sui focolari; brucerà un ciocco di più tra le castagne e il vino. Ma a mezzanotte quando romberanno gli angeli osannando sopra il sospeso sonno di ogni piccolo giaciglio si schiuderanno nimbi di fulgide comete trepide e liete più d’ogni bella strenna di città. (Marcello del Monaco)
L’albero di Natale La stella d’Oriente, arrivata a Betlemme, fu più veloce dei Magi, che andavan lemme lemme. Un po’ per aspettarli, un po’ per contemplare, si fermò su un abete vicino a un casolare. Ma, ohimè, la bella coda tra i rami si impigliò: di frammenti una pioggia frusciando cascò, Balzarono i dormenti, stupirono i bambini nel mirare l’abete palpitar di lumini. (Giuseppe Consolaro)
La notte che verrai Gesù, la notte che verrai la porta aperta troverai del cuore mio. Ci sarà il fuoco acceso ed un lumino, così la letterina leggerai. Mi lascerai i tuoi doni, ed io del cuore ti farò offerta. Vieni, Gesù, e troverai la porta aperta. (da Il corriere dei piccoli)
Una casina di pace In una casina di pace c’è un bimbo che giace su un poco di paglia. Sì povero è nato che il bove lo scalda col fiato. Tra canti divini la madre lo adora lo fascia di candidi lini. Giuseppe va in cerca di legna per fare un fuochetto, ed ogni angelo insegna, ad ogni pastore, la strada che guida al Signore. Anch’io l’ho visto il mio Dio. Anch’io confuso agli agnelli gli chiedo per mamma e papà la pace e la felicità. (Renzo Pezzani)
Natale, notte santa L’angelo: “Di Natale la notte santa vengo ai bimbi ad annunciare: tutto il cielo al mondo canta che il suo re sta per passare, che il suo re sta per venire senza manto né corona per lasciare a tutti in dono una gioia dolce e buona”. La stella: “Son la stella d’oro e argento che ha segnato la sua via per gridare al freddo e al vento: Presto, presto, andate via! Per guidare il pastorello che la via non conosceva con la pecora e l’agnello fino al Re che l’attendeva”. Pastorelli: “Siamo noi quei pastorelli, che han sentito il dolce canto, che per valli e per ruscelli han trovato il luogo santo”. Pecorelle: “E noi siam le pecorine che han belato di dolcezza, nel mirar quelle manine che han creato ogni bellezza”. Bambini: “E noi siamo quei bambini che al presepio hanno portato puri doni e fiorellini. Or torniamo col cuor beato per recare a tutti in dono la parola del Signore la promessa del perdono la promessa dell’amore”. (Luisa Nason)
Bimbi attorno al presepio Quando s’apre il velario che il lontano paese di Betlemme cela, dalla calca dei bimbi sgorgano torrenti di gioiosi sguardi. Solo allora l’ingenua stella d’argento risplende e gli animali al chiuso dello speco fiatano e il cereo fantolino vive e Maria dice: “Sorridi, sono essi, i bimbi: quelli che sui muretti e le deserte vie colsero il muschio per il suo presepe”. (Vittorio Maselli)
La rosa di Natale L’angelo annuncia d’improvviso: “Nasce Gesù del paradiso!” E il rosaio che buca tutto, le sue spine ha senza frutto, butta una rosa porporina gocciolata dalla brina. Il giardino raggelato se n’è tutto illuminato! La fontana che era muta canta, il prato l’invelluta; e già occhieggian mele appiole, s’apron gigli e fresche viole, al colore senza uguale della rosa di Natale. (Lina Carpanini)
Annuncio Ascoltate la novella che portiamo a tutto il mondo; è di tutte la più bella, è fiorita dal profondo. Nella stalla ecco ora è nato il dolcissimo bambino; la Madonna l’ha posato sulla paglia, il poverino, ma dal misero giaciglio già la luce si diffonde, già sorride il divin figlio ed il cielo gli risponde. Quel sorriso benedetto porti gioia a ogni tetto! (Giuseppe Fanciulli)
Notte di Natale Porti ognuno il suo cuore il suo cuore come un agnello: se incontra un lupo lo chiami fratello, se incontra un povero, quello è il Signore. Andiamo, dunque, che l’ora è propizia. Notte d’angeli s’è fatta ormai. Sotto la neve dan fiori i rosai. Ecco la stella natalizia. Non fu mai vista più chiara stella sul campanile del nostro paese. La più povera delle chiese fa sentire la campanella. Una campana così contenta che non c’è cuore che non lo senta. (Renzo Pezzani)
Bacia, o figlio Stava dentro la capanna Maria, figlia di Sant’Anna: e mirando il suo bel sole gli diceva queste parole: Dormi, dormi, o cuor di mamma, fai la ninna e fai la nanna! Dormi, o figlio tenerello dormi, figlio vago e bello; chiudi, chiudi i lumi santi, le tue stelle fiammeggianti. Dormi, dormi o cuor di mamma, fai la ninna e fai la nanna. Vedi su dall’oriente tre corone risplendenti: porteranno per ristoro mirra, incenso e un dono d’oro. Bacia, o figlio, la tua mamma, non più ninna e non più nanna. (Canzone popolare toscana)
Natale Cielo nero, terra bianca: lieti, i bronzi hanno squillato. Maria china il dolce viso sul bambino: Cristo è nato. Non cortine festonate per proteggerlo dal gelo ma le trame, i ragni, ai travi hanno ordito al re del cielo. Giace il re dell’universo sulla paglia. Con il fiato miti il bove e l’asinello il bambino han riscaldato. Frange bianche sulla stoppia, ma sul tetto spalancato vedi il ciel. “Gloria al Signore!” hanno gli angeli cantato. “Pace agli uomini di buona volontà”. Guidò il pastore al presepe l’astro. “Osanna!” grida, “E’ nato il redentore!” (M. Lucchesi)
La capannuccia Dov’è la stella, che sì rade e smorte faceva tutte le altre nella quieta notte, battendo alle terrene porte col suo pendulo raggio di cometa? Noi lo vedemmo, o bambino Gesù. Passava per l’aria un balenio di chiare fiamme e un rombar di grandi ali veloci: pareva che avessero sovrumane voci, passavano alte con un gran cantare. Noi le ascoltammo, o bambino Gesù- E i pastori che stavano nel ghiaccio alzavano gli occhi alla buona novella, E si avviarono e avevano in braccio, chi l’agnellino e chi una caramella. Noi li seguimmo, o bambino Gesù. (Pietro Mastri)
Natale E l’angelo volò sotto le stelle, vide un castello con tre grandi porte, e sulle porte nove sentinelle. L’angelo del Signore gridò forte: “E’ nato!” E l’angelo volò sotto le stelle e vide tre pastori in una corte, presso un fuoco, ravvolti in una pelle. L’angelo del signore gridò forte: “E’ nato!” I pastori si misero in cammino coi montoni, le pecore, gli agnelli, e per la prima volta Dio bambino apparve: a tre pastori poverelli. (Stefania Plona)
Davanti al presepio Santo Gesù bambino che a te chiami i fanciulli col tuo amore divino ho lasciato i trastulli eccomi qui in ginocchio per farti, umile, un dono: t’offro tutto il mio cuore serbalo puro e buono. (Edvige Pesce Gorini)
Notte di Natale Mezzanotte: discende all’improvviso un angelo che sta nel paradiso. Sfiorando con le bianche ali distese il campanile aguzzo del paese, risveglia dolcemente le campane. Ora chiese vicine, altre lontane, dagli angeli destate, fanno un coro chiamando e rispondendosi tra loro. Dicono “pace, pace sulla terra!” mentre gli uomini s’odiano e fan guerra. Un angelo che ha visto pianto e male in questa notte santa di Natale, con l’ali s’è coperto il dolce viso poi tornato è lassù, nel paradiso. (Matilde Caccia)
La santa notte Il vecchio pastore: “La luce della stella, questa notte, è più bella. Oh giovane pastore seguiamo quella luce: di certo ci conduce dov’è nato il Signore”. Coro di pastori: “Siamo tutti pastori umili e buoni, svegliati dalla stella luminosa veniamo tutti con anima gioiosa, a recar doni”. Coro di pastorelle: “Noi siamo giovinette pastorelle e faremo noi pur la stessa via. Vogliamo recare al figlio di Maria latte ed agnelle”. Il più piccolo dei pastorelli: “Il pastorello io sono più timido, più buono, più di tutti piccino; al celeste bambino farò la ninna nanna con lo zufolo di canna”. Il vecchio pastore: “Mezzanotte è suonata… La stella si è fermata! E’ nato il redentore: sia lodato il Signore!” Voce d’angeli: “La stella, in cielo, immobile, chiara e lucente sta. Sia pace, in terra, agli uomini di buona volontà”.
Il pellegrino L’orto secco acqua non beve, il campo dorme sotto la neve; lume di luna cammina a passo sulle montagne di freddo sasso. Solo i pastori vegliano al chiuso presso i fuochi, com’è d’uso. Ed ecco giungere il pellegrino fatto di e di cielo turchino. “Non temete, mi manda il Signore”. Batte a ognuno forte il cuore. E la pastora va coi lini il pastore con gli otri di vini. Gli alberi che lo guardano passare, si fanno belli di corolle chiare, l’acqua che era impietrita, scrolla il sonno, torna alla vita, e il biancospino fiorisce la siepe lungo la strada, fino al presepe. Là il pastore depone l’agnello presso il lupo che gli è fratello e per la gioia grande che ne ha tutta notte suonerà. (Lina Carpanini)
Natale Maria dentro la grotta si posò, e Giuseppe a Betlemme si avviò. Ma un momento sentì, che mentre andava, a mezzo il passo il piè gli si arrestava. Vide attonita l’aria e il cielo immoto e uccelli starsi fermi in mezzo al vuoto; e poi vide operai sdraiati a terra, posata nel mezzo una scodella: e chi mangiava, ecco, non mangia più, chi ha preso il cibo non lo tira su, chi levava la man la tien levata, e tutti al cielo volgono la faccia. Le pecore condotte a pascolare sono lì che non possono più andare; fa il pastor per colpire con la verga e gli resta la man sospesa e ferma; e i capretti che all’aria aveano il muso ber non possono al fiume in sé rinchiuso… E poi Giuseppe vide in un momento ogni cosa riprender movimento. Tornò sopra i suoi passi, udì un vagito, Gesù era nato, il fiore era fiorito. (Diego Valeri)
Umili visitatori Poiché mezzanotte scocca e Gesù la terra tocca in un bel fiorir di fratte San Giuseppe va per latte. E “Venite” dice a tutti gli animali belli e brutti. Dietro a lui si sono messi tutti in fila, e i serpi anch’essi. Vedi l’anatra da fiume e la lucciola col lume, la cicala senza sporta che ancor canta, mezza morta. L’ermellino che dormiva per la strada si vestiva di quel bianco immacolato per veder Gesù beato. (Lina Carpanini)
La notte di Natale Mamma, chi è che nella notte canta questo canto divino? Caro, è una mamma poveretta e santa che culla il suo bambino. Mamma, m’è parso di sentire un suono come di ciaramella… Sono i pastori, o mio bambino buono, che van dietro alla stella. Mamma, c’è un batter d’ali, un sussurrare di voci intorno intorno… Son gli angeli discesi ad annunciare il benedetto giorno. Mamma, il cielo si schiara e si colora come al levar del sole. Splendono i cuor degli uomini e l’aurora del giorno dell’amore. (Diego Valeri)
Canzoncina di Natale San Giuseppe sega e pialla pialla e sega in fretta in fretta, ché il suo bimbo è in una stalla e ci vuole una culletta. La Madonna cuce e taglia taglia e cuce a testa china ché il suo bimbo è sulla paglia e non ha la camicina. Non ha niente il bambinello ma sorride ed è beato le stelline su nel cielo sembra fiori dentro un prato. San Giuseppe, che t’affanni? Maria dolce, leva il capo. Senza culla e senza panni s’è il bambino addormentato. (Lia Zerbinotti)
L’agnellino di Gesù L’agnellino nato appena cammina nella notte, dietro le sante frotte dei pastori che vanno di lena. Ma con sottile belare odora di latte la bocca e il tenue passo non tocca le strade di neve chiare. Giungerà con il pastore l’agnellino, o cadrà? L’angelo solo lo sa che gli ode battere il cuore. (Lina Carpanini)
Carrettiere O carrettiere che dai neri monti vieni tranquillo, e fosti nella notte sotto ardue rupi e sopra aerei ponti; che mai diceva il querulo aquilone che muggia nelle forre e fra le grotte? Ma tu dormivi sopra il tuo carbone. A mano a mano, lungo lo stradale venia fischiando un soffio di procella: ma tu sognavi ch’era di Natale; udivi i suoni d’una ciaramella. (Giovanni Pascoli)
La nascita del Messia Quando a Betlemme giunsero tutti gli alberghi pieni già erano. Brillavano le stelle, alte, nel seno del freddo ciel d’inverno, che ancora un posticino, per le lor membra rotte, trovato non avevano; E dalle torri l’ore incalzanti battevano: E nove!… E dieci!… E undici! Oh, Signore! Oh, Signore! Quando la mezzanotte scoccò, si udì un vagito nell’umile capanna: era nato, il divino sovrano, il redimito dalla più grande attesa! Portò l’annuncio l’astro ai Magi d’Oriente; cacciarono i pastori con l’esile vincastro le greggi dalle grotte, e ognuno al grande invito accorse. E un cor d’angeli cantò, per tutti i secoli che sono e che verranno, alto, nell’infinito: “Osanna! Osanna! Osanna!” (Vincenzo Bosari)
Natale Dicembre… Che neve, che sera! Ma a un tratto comparve una stella… La siepe che dianzi era brulla fiorì d’improvviso. S’udiva leggero un pio ritmo di culla e un palpito d’ali d’argento un dolce tinnar di campane portato giù a valle dal vento. E vivo splendeva laggiù, nell’umile grotta, a Betlemme, un fiore divino: Gesù. (Zietta Liù)
Il presepe di Greccio Salgono i frati: vien dalla vallata la buona gente nella notte fonda. Fiaccole e lumi segnano i sentieri e l’aria è immota sotto lo stellato. Culla la valle suono di campane. Lieve è il cammino; vanno i passeggeri recando ognuno un cuore di bambino colmo di attesa. Van come i pastori verso il presepio e intorno è tanta pace. Ecco appare la grotta, ecco, sospesa, brilla la stella! Gli occhi desiosi guardan la greppia, il bue e l’asinello guardan l’altare; poi ciascuno sogna. Ma il Santo vede: vede il Dio bambino piccolo e bianco nella mangiatoia. Si china; ascolta il tenero vagito, gli fa culla d’amore tra le braccia sopra il suo saio povero e sdrucito e il cuor divino batte sul suo cuore. Angeli scendon lungo vie di stelle; un cielo d’indicibile splendore s’incurva sul presepe; a tratti, sale un dondolio lontano di campane. Vive ciascuno il sogno di Natale. (Graziella Ajmone)
La notte santa “Consolati, Maria, del tuo pellegrinare! Siam giunti. Ecco Betlemme ornata di trofei. Presso quell’osteria potremo riposare, ché troppo stanco sono e troppo stanco sei”. Il campanile scocca lentamente le sei. “Avete un po’ di posto, o voi del Caval Grigio, un po’ di posto avete per me e per Giuseppe?” “Signori me ne duole; è notte di prodigio, son troppi i forestieri; le stanze sono zeppe”. Il campanile scocca lentamente le sette. “Oste del Moro, avete un rifugio per noi? Mia moglie più non regge ed io son così rotto!” “Tutto l’albergo ho pieno, soppalchi e ballatoi, tentate al Cervo Bianco, quell’osteria più sotto”. Il campanile scocca lentamente le otto. “O voi del Cervo Bianco, un sottoscala almeno avete per dormire? Non ci mandate altrove!” “S’attende la cometa. Tutto l’albergo ho pieno d’astronomi e di dotti, qui giunti d’ogni dove”. Il campanile scocca lentamente le nove. “Ostessa dei Tre Merli, pietà d’una sorella! Pensate in quale stato e quanta strada feci”. “Ma fin sul tetto ho gente: attendono la stella… Son negromanti, magi persiani, egizi, greci…” Il campanile scocca lentamente le dieci. “Oste di Cesarea…”. “Un vecchio falegname? Albergarlo? Sua moglie? Albergarli per niente? L’albergo è tutto pieno di cavalieri e dame: non amo la miscela dell’alta e bassa gente”. Il campanile scocca le undici lentamente. La neve! “Ecco una stalla!”. Avrà posto per due? “Che freddo!”. Siamo a sosta. “Ma quanta neve, quanta! Un po’ ci scalderanno quell’asino e quel bue…” Maria già trascolora, divinamente affranta… Il campanile scocca la mezzanotte santa. E’ nato! Alleluia! Alleluia! E’ nato il sovrano bambino. La notte, che già fu sì buia, risplende d’un astro divino. Orsù, cornamuse, più gaie suonate: squillate, campane! Venite, pastori e massaie; o genti vicine e lontane! Non sete, non molli tappeti, ma, come nei libri hanno detto da quattro mill’anni i profeti, un poco di paglia ha per letto. Per quattro mill’anni s’attese quest’ora su tutte le ore. E’ nato! E’ nato il Signore! E’ nato nel nostro paese! Risplende d’un astro divino la notte che già fu sì buia. E’ nato il sovrano bambino. E’ nato! Alleluia! Alleluia! (Guido Gozzano)
Natività Bei pastori, venite alla Capanna: sentirete cantar gloria ed osanna. Solleciti veniti e con amore. In ciel vedrete una lucente stella che mai si vide al mondo la più bella. Solleciti venite e con amore. Voi troverete giacer sopra il fieno quel che ha creato il ciel vago e sereno. Solleciti venite e con amore. Maria vedrete. Maria graziosa, più bella assai che non è giglio o rosa. Solleciti venite e con amore. Giuseppe ancora in quel presepio santo voi troverete pien di gloria e canto. Solleciti venite e con amore. (Fra Serafino Razzi)
Ninna nanna Ninna nanna, c’è la neve sulla siepe, c’è una stella sul presepe e c’è un bimbo che sorride nella gelida capanna… Ninna nanna. Ninna nanna, lo difendono dal gelo la Madonna col suo velo, l’asinello col suo fiato… anche il bove immacolato a scaldarlo ecco s’affanna… Ninna nanna. Ninna nanna, come nevica di fuori! Ma gli agnelli ed i pastori vanno, fra nevischio e vento; e un grande angelo d’argento scende in terra e grida osanna! Ninna nanna. Ninna nanna, fra la neve e fra le spine delle siepi montanine s’ode un piccolo singhiozzo. E’ un uccello, un passerotto. Tanta neve, tanto freddo a morire lo condanna… Ninna nanna. Ninna nanna, ma Gesù che non s’inganna e ha sentito il pigolio, parla piano alla sua mamma. Ninna nanna. E con l’alito divino sul suo cuore, il bimbo biondo, già riscalda l’uccellino, l’uccellino moribondo… Vola il passero guarito. Ride in festa la capanna… Ninna nanna. (Pasquale Ruocco)
Il pianeta degli alberi di Natale Dove sono i bambini che non hanno l’albero di Natale con la neve d’argento, i lumini e i frutti di cioccolata? Presto, presto, adunata, si va nel Pianeta degli alberi di Natale, io so dove sta. Che strano, beato Pianeta… Qui è Natale ogni giorno. Ma guardatevi intorno: gli alberi della foresta, illuminati a festa, sono carichi di doni. Crescono sulle siepi i panettoni, i platani del viale sono platani di Natale. Perfino l’ortica non punge mica, ma tiene su ogni foglia un campanello d’argento che si dondola al vento. In piazza c’è il mercato dei balocchi. Un mercato coi fiocchi, ad ogni banco lasceresti gli occhi. E non si paga niente, tutto gratis. Osservi, scegli, prendi e te ne vai. Anzi, anzi, il padrone ti fa l’inchino e dice: “Grazie assai, torni ancora domani, per favore: per me sarà un onore…” Che belle vetrine senza vetri! Senza vetri, s’intende, così ciascuno prende quello che più gli piace: e non si passa mica alla cassa, perchè la cassa non c’è. Un bel Pianeta davvero anche se qualcuno insiste a dire che non esiste… Ebbene, se non esiste, esisterà: che differenza fa? (Gianni Rodari)
Zampognari Vanno con le zampogne sotto il braccio, vanno con lunghi ruvidi mantelli, tengono il volto chino verso terra e hanno il corpo sì alto e vigoroso e si muovono con tanta tristezza, come nessuno mai. Vanno con lo strumento sulle labbra, vanno con i berretti di pelliccia, e ora con la destra ora con la sinistra suonano la zampogna così tristi, come nessuno mai. Vanno con la zampogna sotto il braccio, vanno con lunghi ruvidi mantelli, vanno con i berretti di pelliccia, vanno e rivanno lo stesso cammino, parlano modulando la zampogna, come nessuno mai. (Josip Murn-Aleksandrov)
Presepe Già tutto è un presepe: i campi, e d’attorno, la siepe, il piccolo borgo, la pieve sepolti sotto la neve. Passano angeli in cielo con grandi ali di velo: bussano con lieve tocco sui vetri, al primo rintocco; li insegnano a dito, a momenti, i bimbi, con occhi innocenti. E’ musica di campane sperdute, ovattate, lontane; o un suono già tanto vicino di zampognari in cammino? Cuore di povera gente, povera gente lieta che ha visto una stella cometa. Ognuno, lo può giurare sul tetto l’ha vista brillare. C’è un bimbo sotto ogni tetto che sogna il tepore del letto. Sia bruno o ricciolino somiglia a Gesù bambino. Sogna il corteo dei Re Magi che muove, dai grandi palagi, cofani d’oro e brillanti, cammelli, paggi, elefanti, o doni di piccole cose meravigliose? Scompaiono sotto la neve il piccolo borgo, la pieve, i campi, e, attorno, la siepe… Che grande presepe! (Mario Pompei)
Cantilena di Natale Dormi, bambino della mamma! Se dormi, fra poco vedrai l’angelo grande, e la stella cometa. Ninna nanna, bambino della mamma! Se dormi, verranno i pastori con gli agnellini e la dolce zampogna. Ninna nanna, bambino della mamma! Se dormi, verranno i Re Magi carichi d’oro, d’argento, di mirra. Ninna nanna, bambino della mamma! Se dormi, vedrai la Madonna che adora in ginocchio Gesù Bambino. Ninna nanna, bambino della mamma! Se dormi, ti verrà vicino, per giocare, Gesù Bambino: ti dirà i balocchi del cielo, le stelle del firmamento, zampogne d’oro e d’argento, perchè tu dorma contento, bambino della mamma! Ninna nanna! (M. Dandolo)
Vigilia di Natale Sotto il cielo chiaro ed uguale la nuvola d’oro distesa resta come un drappo spiegato a festa per la fiera di Natale. Le bancarelle coi sempreverdi, hanno gli abeti, le stelle argentate, bianchi angioletti dall’ali gemmate, e campane rosse e blu. Ma chi attira la folla, laggiù, è l’omino che vende casette, pecorelle, pastori, caprette, e il presepio di Gesù. C’è una casina con l’orticello che ha il suo pozzo con la puleggia e vicino un alberello (un rametto di saggina tinto di verde) che ombreggia tutta la rossa casina. I bimbi intorno a guardano intenti sorridendo di gioia sincera: i loro volti, così contenti, hanno una luce di primavera. E’ per tutti un incanto d’amore: è il Natale del Signore! (G. Liburdi Giovanelli)
Vespro d Natale Incappucciati, foschi, a passo lento, tre banditi percorrevano la strada deserta e grigia, tra la selva rada dei sughereti, sotto il ciel d’argento. non rumore di mandrie o voci, il vento Vasto silenzio. In fondo, Monte Spada ridea bianco nel vespro sonnolento. O vespro di Natale! Dentro il core ai banditi piangea la nostalgia di te, pur senza udirne le campane: e mesti eran, pensando al buon odore del porchetto e del vino, e all’allagria del ceppo, nelle lor case lontane. (S. Satta)
Le ciaramelle Udii tra il sonno le ciaramelle ho udito un suono di ninne nanne. Ci sono i lumi nelle capanne. Sono venute dai monti oscuri le ciaramelle senza dir niente; hanno destata nei suoi tuguri tutta a buona povera gente. Ognuno è sorto dal suo giaciglio; accende il lume sotto a trave: sanno quei lumi d’ombra e sbadiglio, si cauti passi, di voce grave. Le pie lucerne brillano intorno là nella casa, qua su la spiepe: sembra la terra, prima del giorno, un piccoletto grande presepe. Nel cielo azzurro tutte le stelle paion restare come in attesa; ed ecco alzare le ciaramelle il loro dolce canto di chiesa: suono di chiesa, suono di chiostro, suono di casa, suono di culla, suono di mamma, suono del nostro dolce e passato pianger di nulla. (G. Pascoli)
Notte santa Il sole acceso calava dietro i monti di Giuda lungo la valle nuda il vento mugulava, ma sul colle alto Betlemme radiava come gemme. Stanchi, senza parole montavate! Sparve il sole nel silenzio, e mentre annotta non albergo, una grotta trovaste e tu, Maria, dicesti: “Così sia!” Sulla rozza paglia stavi, sonno ti prese… sognavi che ti nasceva Gesù… Angosciata ti svegli, e ai tuoi piedi, in un mare di luce, lo vedi: così fu. Come uccelletto in nido la sua boccuccia apriva piccoletta quasi oliva; punto freddo non dentiva; i piedini e le manine sue li scaldavan l’asinello e il bue. Giuseppe, in rapimento, muto, le braccia in crode, chino sul petto il mento, adorava. Ma tu che voce, che grido, o Maria, mettesti quando aprì gli occhi celesti! (A. S. Novaro)
Natale Un asinello, un bue, una stella, una grotta… Fate presto voi due, fate presto che annotta. Vi basterebbe un guscio di casa e una fiammella… Date una voce a quella gente che chiude l’uscio. Il cielo è così nero e solo il ciel v’ascolta. Prendete quel sentiero. Arrivati a una svolta fate altri venti passi. Lì c’è una capannuccia: un tetto su una gruccia e un muretto di sassi. Maria ha il cuor sgomento, non trova più coraggio. Fu così lungo il viaggio, fu così aspro il vento; la strada così brutta nel polverone bianco! Ma Giuseppe le è al fianco e gli si affida tutta. Son giunti, oh, finalmente! S’è mai visto ricovero più sconnesso, più povero? dite voi, buona gente. Giuseppe andò per brocche. Tocca spini e si punge. Ah ecco, quando giunge vede tra quattro cocche d’un lino di bucato un fagottino tondo il più bello del mondo, un bimbo appena nato. Piegata sulla cuna che raggia non più squallida, Maria, ch’è tanto pallida splende come la luna. E vede pel deserto sentiero e in mezzo ai prati dei pellegrini alati che provano un concerto; e soavi cantori calan dal firmamento; vede arrivar pastori dalla barba d’argento; il fabbro e l’arrotino; il servo, il falegname; la mamma e il suo bambino; l’uomo sazio e chi ha fame. E in mezzo a un gregge vede, vello di color cupo, venire, mansueto, un lupo… E quasi non ci crede. (R. Pezzani)
Campane di Natale Per gli umili e pei grandi le campane suonano tutte nella Notte Santa. Per le case vicine e lontane degli angeli la schiera in cielo canta. C’era una santa donna che cercava con il suo sposo un posto per dormire. Cercava, la Madonna, e non trovava; ed il figlio di dio dovea venire. Dovea venire in terra per morire spora la croce, martire d’amore, dovea venire in terra per patire tutto il tormento dell’uman dolore. Cercava la Madonna , e non trovava. Infin l’accolse una capanna pia; sulla capanna il ciel chino vegliava e sul figlio divino di Maria. Campane di Natale, ora v’imploro che portiate al Signor la mia preghiera. Oh, non ci sia nessun senza ristoro nel chiaro giorno e nella notte nera! Campane di Natale, non ci sia chi cova l’odio triste nel suo cuore; intenda ognun la santa poesia, la vostra voce di fraterno amore. (L. Orsini)
Su, pastore, e seguila C’è una stella in Oriente il mattino di Natale. Su, pastore, e seguila. Ti condurrà nel luogo dove è nato il Salvatore. Su, pastore, e seguila. Lascia le greggi e lascia gli agnelli. Su, pastore, e segui, segui. Lascia le pecore e lascia i montoni. Su, pastore, e segui, oh, segui, segui, segui. Su, pastore, e segui, segui, segui la stella di Betlemme, su, pastore, e seguila. Se vuoi dare ascolto alla voce dell’angelo… Su, pastore, e seguila. Dimentica il tuo gregge, dimentica la mandria. Su, pastore, e seguila. Lascia greggi e lascia agnelli, Su, pastore, e segui, segui. Lascia pecore e lascia montoni… Su, pastore, e segui, oh, segui, segui, segui, su, pastore, e segui, segui, segui la stella di Betlemme, Su, pastore, e seguila. (J. W. Johnson)
La stella di Natale E’ la prima parte, la più semplice, di una bella poesia dello scrittore russo Boris Pasternak. Nota come il paesaggio di questo piccolo presepe ha un che di tipicamente russo, della Russia orientale, con la steppa, la neve, i pastori che, alzandosi, si scuotono di dosso la paglia dei poveri giacigli e, in alto, il grande cielo della mezzanotte, tutto pieno di stelle. E’ un altro omaggio al Natale. C’era l’inverno. Soffiava il vento dalla steppa. E freddo aveva il neonato nella tana sul pendio del colle. L’alito del bue lo riscaldava. Animali domestici stavano nella grotta, sulla culla vagava un tiepido vapore. Scossi dalle pelli il polverio del giaciglio e i grani di miglio, dalle rupi guardavano assonnati i pastori gli spazi della mezzanotte. Lontano era il campo della neve e il cimitero, i recinti, le pietre tombali, le stanghe di corro confitte nella neve, e il cielo sul camposanto, pieno di stelle. E lì accanto, sconosciuta prima di allora, più modesta di un lucignolo nella finestrella del capanno tremava una stella sulla strada di Betlemme. (B. Pasternak)
La messa di mezzanotte C’era un silenzio come di attesa lungo la strada che andava alla chiesa; e fredda l’aria di notte, in quell’ombra là solitaria. C’eran le stelle nel cielo invernale; e un verginale chiarore di neve, ma lieve e rada. C’era una siepe nera e stecchita: parea fiorita di suo biancospino. E mi teneva, oh, mi sogno lontano, mia madre per mano. E nella tiepida chiesa, che incanto! Fra lumi e un denso profumo d’incenso e suono d’organo e voci di canto, ecco, il Presepe con Te, Bambino… (P. Mastri)
Gesù Bambino Quello di Francis Thompson è un omaggio personale, una conversazione amichevole con il Bambino Gesù. Il poeta si mette nei panni di un bimbo e s’informa., con preoccupazioni e parole di bimbo, sulla vita trascorsa in terra da un bambino abituato a stare in cielo a giocare con gli angeli belli. Eri tu fragile, Gesù Bambino, un giorno, e come me piccino? E che sentivi a vivere fuori dai Cieli, e proprio come io vivo? Pensavi mai le cose di lassù, dove fossero gli angeli chiedevi? Io al tuo posto avrei pianto per la mia casa fatta di cielo; io cercherei d’intorno a me, nell’aria, “Gli angeli dove sono?” chiederei, e destandomi mi dispererei che non ci fosse un angelo a vestirmi! Anche tu possedevi dei balocchi come li abbiamo noi, bimbe e bambini? E giocavi nei Cieli con tutti gli angeli non troppo alti, con le stelle a piastrella? Si giocava a rimpiattino, dietro le loro ali? Tua madre ti lasciava sciupare le sue vesti sul nostro suol giocando? Com’è bello serbarle, sempre nuove, per i cieli d’azzurro sempre tersi T’inginocchiavi, a notte, per pregare, e le tue mani come noi giungevi? E a volte erano stanche, le manine, e assai lunga sembrava la preghiera? E ti piace così, che noi giungiamo le nostre mani per pregare te? A me sembrava, avanti io lo sapessi, che la preghiera solo così vale. e tua madre, la sera, ti baciava, i tuoi panni piegandoti con cura? Non ti sentivi proprio buono, a letto, baciato e quieto, dette le orazioni? A tuo Padre, la mia preghiera mostra, (Egli la guarderà, sei così bello!), e digli: “O Padre, io, Figlio tuo, ti reco la preghiera di un bambino”. Sorriderà, che la lingua dei bimbi sia la stessa di quando tu eri bambino! (F. Thompson)
Ho nel cuore un presepe Ho nel cuore un presepe senz’angeli a volo: con solo… con solo un vagito di bimbo. Non voglio pastori, né greggi sui monti, ma un mazzo di cuori e pupille… di volti africani cinesi ed indiani. Ho nel cuore un presepe… da nulla: una culla, un bimbo sconsolato, un pellerossa a lato che lo scalda col fiato: e poi con aria tranquilla un bimbetto lo ninna. E il bambino Gesù non piange più. (M. Ricco)
Il pellerossa nel presepe Il pellerossa con la piuma in testa e con l’ascia di guerra in pugno stretta, come è finito tra le statuine del presepe, pastori e pecorine; e l’asinello e i maghi sul cammello, e le stelle ben disposte, e la vecchina delle caldarroste? Non è il suo posto, via, Toro Seduto: torna presto di dove sei venuto. Ma l’indiano non sente. O fa l’indiano. Se lo lasciamo, dite, fa lo stesso? O darà noia agli angeli di gesso? Forse è venuto fin qua, ha fatto tanto viaggio perché ha sentito il messaggio; pace agli uomini di buona volontà. (G. Rodari)
Il mago di Natale S’io fossi il mago di Natale farei spuntare un albero di Natale in ogni casa, in ogni appartamento dalle piastrelle del pavimento, ma non l’alberello finto, di plastica, dipinto che vendono adesso all’Upim: un vero abete, un pino di montagna. con un po’ di vento vero impigliato tra i rami, che mandi profumo di resina in tutte le camere, e sui rami i magici frutti: regali per tutti. (G. Rodari)
Presepio Il mio pastore c’è. Anche quest’anno, lassù tra i monti ha lasciato il capanno e scende a visitare il Re dei re. Va scalzo per sentieri di muschio, in mezzo a laghetti e ruscelli. Portano agnelli altri pastori, le donne panieri. Egli ha le mani vuote: è poverello e non ha nulla per la divina culla. Ma la fede gli brucia il volto bello. Dietro il fulgore dei Magi chinerà timido e muto il suo capo ricciuto: offrirà il suo cuore. (L. Barberis)
Il presepio Vi sono monti scoscesi, nudi ed erti e un ciel di carta azzurra a punti d’oro, vi sono le snelle palme dei deserti, tra la neve coi pini e con l’alloro. C’è un bel prato di muschio verdolino tante casette sparse qua e là, un ponticello ed un laghetto alpino proprio d’un monte sulla sommità. E vi sono pastori e pastorelle che vanno con gli armenti in compagnia, un elefante e tante pecorelle verso la capannuccia del Messia. E la santa capanna è illuminata sol da una stella che vi splende su… Oh, quanta gente intorno inginocchiata, anche i Re Magi, ai piedi di Gesù! Ed il Gesù piccino sorridendo, stende le braccia a tutti quei fedeli, angeli e cherubini van scendendo sopra quel tetto dagli aperti cieli… (B. Morino Ferrari)
I pastori al presepe Mossero; e Betlehem, sotto l’osanna de’ cieli ed il fiorir dell’infinito, dormiva. E videro, ecco, una capanna. Ed ai pastori l’accennò col dito un Angelo: una stalla umile e nera, donde gemeva un filo di vagito. E d’un figlio dell’uomo era, ma era quale d’agnello. Esso giacea nel fieno del presepe, e sua madre, una straniera, sopra la paglia… … e non aveva ella né due assi: all’albergo alcun le disse: “E’ pieno”. Nella capanna povera le sue lacrime sorridea sopra il suo nato; su cui fiatava un asino ed un bue. “Noi cercavamo quei che vive…” entrato disse Maath. Ed ella: “Il figlio mio morrà (disse, e piangeva su l’agnello suo tremebondo) in una croce…”. “Dio…!” Rispose all’uomo l’universo: “E’ quello!” (G. Pascoli)
Luce nel presepe Gesù Bambino, c’è tanto freddo nel mondo in questa notte del tuo Natale. C’è ancora tanto male e tante anime sono come giardini di ville abbandonate, povere anime agghiacciate e senza fiori. Gesù bambino, il mondo forse è un vecchio pellegrino carico di stanchezza e di dolore, che va cercando nel buio della notte la luce del suo presepe. Gesù, Gesù bambino, lasciati ritrovare nella tua culla d’amore perché il mondo ti possa riabbracciare.
Piccolo albero Piccolo albero piccolo silenzioso albero di Natale così piccolo sei che sembri piuttosto un fiore chi ti ha trovato nella verde foresta e tanto ti dispiacque di venire via? Vedi, io ti conforterò perché odori di tanta dolcezza bacerò la tua fresca corteccia ti terrò stretto stretto al sicuro tu non devi avere paura guarda: i lustrini che tutto l’anno dormono in una scatola buia e sognano d’esserne tolti per poter luccicare le palline le catenelle rosso-oro i fili di lana alza le tue piccole braccia e teli darò tutti ogni dito avrà il suo anello e non ci sarà più un solo posto buio d’infelicità poi quando sarai completamente vestito ti affaccerai alla finestra, ché tutti ti vedano e con che meraviglia ti guarderanno! E tu ne sarai molto orgoglioso… e la mia sorellina ed io ci piglieremo per mano con gli occhi incantati sul nostro bell’albero danzeremo canteremo “Natale! Natale!” (E.E. Cummings)
Al bambin Gesù Lo so perché sei nato poverello tu che comandi a tutto il mondo e al cielo: per ricordare al ricco ch’è fratello di chi soffre la fame e soffre il gelo: per ricordare al povero che il core può trovar pace in ogni povertà, per dire al mondo che non c’è dolore che non sia vinto dalla carità. Lo so, lo so! Ma sono pigro a dare: ma, se per poco soffro, mi dispero; ancora amar non so; non so sperare come vorresti tu, proprio davvero. Benedici dal cielo, mio Signore, la mia piccola buona volontà: fammi sempre più buono e forte il core, il core che ubbidirti ancor non sa. (V. Battistelli)
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Recite di Natale – L’asino e il bue. Una recita natalizia che si rifà alla tradizione per la quale nella notte di Natale gli animali per una breve ora possono parlare con voce umana. I bambini ne sono incantati. (Potete inserire a vostro piacere canti natalizi per i cambi di scena, l’introduzione e il finale). Purtroppo non conosco la fonte.
Narratore: Quando nella stalla di Betlemme nacque Gesù, Dio fece un dono a tutti gli animali: che nella notte di Natale potessero salutare il Bambino con voce umana.
Narratore: Dall’alta rastrelliera, pian pianino, il bue strappò del fieno profumato, si avvicinò alla greppia del bambino, e disse:
Per coprirti l’ho portato. Presso i piedini poi mi fermerò, e col mio fiato li riscalderò.
Narratore: L’asinello pazzerello saltò un po’ per allegria, e poi disse:
Amico bello, guardà là, guarda Maria, che sorride dolcemente, non starò senza far niente. Fammi un po’ di posto, su, voglio anch’io scaldar Gesù.
Narratore: Lassù, nel vano di una finestrella, un ragno stava intento al suo lavoro. Disse:
perchè la tela sia più bella, dal sole prenderò tre fili d’oro, e tre fili d’argento dalla luna. Dalle stelle, una perla per ciascuna.
Narratore: Da un angolino un topo sussurrò:
sono il topino, nel mio buco sto. Ma quando tutti saranno andati via, verrò a tenerti un po’ di compagnia. E ti porterò il mio piccolo tesoro: un bel chicco di grano tutto d’oro.
Narratore: lasciata la tranquilla prateria, le pecore si misero in cammino, in cerca di Giuseppe e di Maria, della capanna e di Gesù bambino. Dissero:
una bella stella ci conduce, là dove splende la divina luce
Narratore: il cane abbaiava e correva intorno alle sue pecorelle
Avanti, venite! La notte è splendente di stelle. Non fatemi tanto aspettare, c’è un bimbo che debbo vegliare.
Narratore: anche in Betlemme tutti gli animali apriron gli occhi sventolando l’ali, e allungando le orecchie, ed il galletto diede la sveglia ritto in cima al tetto:
Amici, amici, in questa notte bella s’è accesa in terra una divina stella. In una mangiatoia un bimbo c’è. Povero e nudo, eppure Re dei Re. Gli angeli in cielo van cantando osanna. Venite amici, andiamo alla capanna!
Narratore: la mucca mormorò:
tiepido e bianco, io porto il latte sotto l’ampio fianco. Maria ne mungerà un secchiellino, che l’aiuti a nutrire il suo bambino.
Narratore: l’oca il collo allungò di qua e di là chiamando la massaia:
qua qua qua. Eccomi pronta a dare il mio piumino, per fare un letto morbido al bambino.
Narratore: venne nitrendo il cavallino:
cosa darò a Gesù bambino? So solo galoppare, che potrò mai regalare? Il mio cuore e niente più, posso offrirti o buon Gesù
Narratore: dietro al fieno stava un riccio bruno. Disse:
Sto qui nascosto, chè nessuno mi veda, però ci sono anch’io a salutar Gesù, figlio di Dio. Tengo bassi gli aculei miei pungenti, chè il bambino di me non si spaventi.
Narratore: da una fessura usciron le farfalle, movendo l’ali con palpiti di gioia:
un giardino è nato in questa stalla, e il più bel fiore è nella mangiatoia. Intorno a quel bel fiore voleremo e un diadema di voli gli faremo
Narratore: nel bosco nero un orso si destò. Scosse la testa, e cupo brontolò:
mi sembra di sentire che un bambino si disceso dal cielo, qui vicino
Narratore: l’orsa fiutò nell’aria
è un bimbo biondo come il miele, e profuma tutto il mondo
Narratore: dissero in coro gli orsacchiotti
è buono il miele, e noi ne siamo ghiotti. Andiamo dunque a far le capriole intorno al bimbo biondo come il sole
Narratore: lo scoiattolo allegro e saltellante, scese di ramo in ramo fra le piante
porto una pigna di quel grosso pino e la depongo ai piedi del bambino
Narratore: la lepre aveva udito da lontano con le sue lunghe orecchie la notizia. Venne correndo per il bosco e il piano, col cuoricino pieno di letizia.
E’ Natale, e non ho più paura, presso al bambino posso star sicura
Narratore: nella boscaglia i lupi eran nascosti, e stavan quieti e buoni, e ben composti.
le zampe vogliamo un po’ incrociare, per mostrare che anche noi sappiam pregare
Narratore: la volpe di mostrarsi non osava, era fuori dall’uscio e mormorava
là dentro c’è una luce che mi abbaglia, eppure è solo un bimbo nella paglia
Narratore: il capriolo levò al cielo i suoi occhi, e vide mille stelle scintillare
con umiltà piego i ginocchi, perchè è nato un bimbo da adorare
Narratore: gli uccelli tutti in coro si misero a cantare
c’è una cometa d’oro, c’è un bimbo da cullare. Cantiamo in lieto stuolo, seguendo l’usignolo
Narratore: l’usignolo mandò due note chiare poi disse
Vedo il bosco verdeggiare, sento odore di rose nella serra, come se tornasse primavera. Ogni ramo di pianta porta un fiore: è nato in terra il nostro salvatore. Ogni uccello gli canti il suo saluto. Figlio di Dio, sìì nostro benvenuto
Narratore: e da quel momento, ogni volta che torna la notte di Natale, gli animali possono parlare per un’ora con voce umana.
Racconti natalizi – una raccolta di racconti di autori vari sul Natale, per bambini del nido, della scuola d’infanzia e primaria.
Racconti natalizi La leggenda dell’abete (G. Benzoni) S’approssimava l’inverno di tanti e tanti anni fa. Un uccellino, che aveva un’ala spezzata, non sapeva dove ripararsi dal freddo e dalla neve. Si guardò intorno per cercare un asilo e vide i begli alberi di una grande foresta. A piccoli passi si portò faticosamente al limitare del bosco. Il primo albero che vide fu una betulla dal manto d’argento.
– Graziosa betulla, vuoi ospitarmi fra le tue fronde fino alla buona stagione?- – Che curiosa idea! Ne ho abbastanza di custodire le mie foglie!- L’uccelletto saltellò fino all’albero vicino. Era una quercia dalla fitta chioma. – Grande quercia, vuoi tenermi al riparo fino a primavera?- – Che domanda! Se io ti riparassi mi beccheresti tutte le ghiande!- L’uccellino volò alla meglio fino a un grosso salice che sorgeva sulla riva di un fiume. – Bel salice, mi dai ricovero fino a che dura il freddo?- – No davvero! Va’, va’ lontano da me!-
Il povero uccellino non sapeva più a chi rivolgersi, ma continuò a saltellare… Lo vide un abete e gli chiese: – Dove vai, uccellino?- – Non lo so. Nessuno mi vuole ospitare e io non posso volare tanto lontano, con questa ala spezzata.- – Vieni qui da me, poverino. Riparati sul ramo che più ri piace- – Oh, grazie. E potrò restare qui tutto l’inverno?- – Certamente, mi terrai compagnia.-
Una notte il vento gelido sferzò le foglie, che caddero a terra mulinando. La betulla, la quercia, il salice, in breve tempo si trovarono nudi e intirizziti. L’abete invece conservò le sue foglie, e le conserva tuttora. Sapete perchè? Perchè Dio volle premiarlo della sua bontà.
Racconti natalizi Storia del piccolo abete Era autunno e gli alberi del bosco perdevano le foglie. E non erano affatto contenti di rimanere nudi e spogli, coi rami stecchiti. Per questo non badavano al pianto di un uccellino che si trascinava per terra perchè aveva un’ala spezzata. L’uccellino si fermò al piede della quercia e le disse: “Oh quercia grande e potente, fammi rifugiare tra i tuoi rami! Ho un’ala spezzata e il freddo che sta per arrivare può farmi morire”.
“Non ho voglia di essere buona!” rispose la quercia. “Quando perdo le foglie sono di cattivo umore”. L’uccellino si trascinò allora ai piedi di un castagno: “Oh, signore del bosco” cinguettò “fammi rifugiare in un buco del tuo tronco! Ho un’ala spezzata e non so dove passare l’inverno”.
Il castagno fu scosso da un forte soffio di vento e molte foglie caddero. “Non sono il signore del bosco” disse “Se lo fossi, proibirei al vento di strapparmi le foglie, ma non ho tempo di occuparmi di una creaturina piccola come te!”. L’uccellino, sospirando, chiese aiuto a un altro albero, poi ad un altro ancora, ma tutti gli risposero di no, perchè perdevano le foglie e si sentivano cattivi. Allora, il povero uccellino si accucciò per terra e, se avesse saputo farlo, avrebbe pianto.
“Dove vai, povero uccellino dall’ala spezzata?” chiese un piccolo abete che ancora aveva tutti i suoi aghi verdi. “Non vado in nessun posto” rispose l’uccellino, “nessun albero ha voluto darmi rifugio per quest’inverno”. “Te lo darò io” disse il piccolo abete. “Quando avrò perdute le foglie, stringerò più forte i rami per ripararti. Speriamo di farcela”. In quel momento apparve un grande angelo bianco. Disse: “Il Signore ti ha benedetto, piccolo albero. Tu non perderai la tua veste verde nemmeno in inverno. Dio premia tutti gli atti di bontà”. Venne l’inverno, e il bosco era silenzioso e ammantato di neve. Gli alberi erano immobili e stecchiti come se fossero morti. Ma il piccolo abete non aveva perduto le foglie. Era rimasto col suo vestito verde ed era il solo in tutto il bosco.
Un giorno passò il vecchio Dicembre. Cercava un albero per appendervi i doni che ogni anno portava alle famiglie. Ma quegli alberi così spogli gli mettevano la la tristezza nel cuore. “Non posso attaccare i lumini e i doni a un albero dai rami stecchiti” diceva, e sospirava. Stava per andarsene, quando vide un alberello tutto verde. Era il piccolo abete che aveva dato rifugio all’uccellino. “Oh” esclamò gioiosamente il vecchio Dicembre “Ho trovato finalmente l’albero che ci vuole!” Da allora l’abete, che resta sempre verde, anche d’inverno, fu scelto per appendervi i lumini e i doni ed è accolto con gioia da tutte le famiglie. (M. Menicucci)
Racconti natalizi L’oste … Sì, ora ricordo, ma vi ripeto, non è facile tenere a mente i clienti. E poi, i clienti di quei giorni! Che trambusto! Che via vai! Augusto, il grande imperatore romano, aveva emanato un editto per il censimento. Voleva sapere quanti cittadini popolassero il suo grandissimo Impero. Anche la Palestina si trovava sotto il suo dominio. Noi Ebrei avevamo, è vero, un re nostro. Si chiamava Erode, e risiedeva a Gerusalemme, la capitale del Regno. Ma sopra di lui c’era l’imperatore romano, che contava più di lui. Bisognava obbedire. Perciò tutti tornavano al paese d’origine per farsi segnare sulle liste della propria tribù.
Ve l’ho detto, furono giorni di grande affluenza, di grande confusione, e devo ammetterlo, di grande guadagno. Il cortile era pieno di animali e di gente. I servi non ce la facevano a servire tutti. Si era giunti alle ultime forcate di fieno, e quanto alla paglia, lo dico con vergogna, molte volte fui costretto a ridistribuire quella già usata. Una sconvenienza, lo so, ma come volete che facessi?
Fu una sera, sull’ora della notte. I servi vennero a dirmi che alla porta si erano presentati due nuovi clienti. Detti in giro un’occhiata. Sotto il portico, la gente si pesticciava. Chiesi ai servi: “Che gente è? Persone di riguardo?” Scrollarono il capo.
“Poveri” mi dissero “un operaio e una donna sopra un asino”. “Se vogliono buttarsi in un canto…” dissi, indicando i portici affollati. “Chiedono una camera particolare” mi fu risposto. “Allora mandateli con Dio. Bella pretesa; una camera particolare in questi momenti, e per gente povera”. “La donna è stanca del viaggio” mi disse un vecchio servo. “E che cosa ci posso fare io? Anch’io sono stanco! Non ne posso più. Se fossero stati clienti buoni… ma con certa gente spesso ci si rimette anche la paglia”.
I servi erano incerti. Allora mi feci io sulla porta. “Mi dispiace” dissi col migliore dei modi, “mi dispiace, ma non c’è posto. Con questo benedetto censimento! Anche voi siete qui per l’editto?” “Sì” rispose l’uomo, un tipo di operaio. “Di che famiglia siete?” “Della famiglia di David”.
Lo guardai sorpreso. La famiglia dell’antico profeta era famiglia reale. “E non avete parenti in città?” L’uomo abbassò gli occhi. Guardai la donna raccolta sull’asino. Che viso pallido e bello! Sotto la coperta che le ricadeva sulle spalle, nella semioscurità, sembrava che facesse luce. “Sono dolente” dissi ancora “ma non c’è posto. Neppure nel cortile; una camera particolare mi è impossibile”. “Questa donna è stanca” disse sommessamente l’uomo. La riguardai. Ella abbassò le ciglia. “Sentite” dissi loro “se volete restare soli e passare una notte al coperto, vi consiglio una cosa. Sul fianco del colle ci sono alcune grotte che servono da stalla. In mancanza di meglio, possono servire come camere particolari. Non ve ne offendete. Così risparmierete anche quei pochi denari”. I due non fiatarono. L’uomo tirò la cavezza dell’asino che si mosse zoppicando. Il lume di quel volto di donna affaticata sparve nel buio.
Rimasi sulla porta, ascoltando lo zoccolo dell’asino che si allontanava. Mi invase una grande tristezza. Li avrei voluti richiamare. Ma come era possibile ospitarli? Vi assicuro che non c’era più posto sotto il portico, e di camere particolari, neppure parlarne. Con tutto ciò ero triste. Rientrai. Avevo una pietra sul cuore. (P. Bargellini)
Racconti natalizi Un mantello speciale (S. Lagerloff) C’era una volta un uomo che uscì fuori nella notte per cercare del fuoco. Andò di casa in casa e picchiava: -Oh, buona gente, apritemi! Ho un bambinello appena nato e cerco del fuoco per riscaldare il mio bambino e la sua mamma.-
Era una notte profonda: tutti dormivano. L’uomo camminò ancora finchè, lontano, scorse un chiarore: si avvicinò e vide nell’aperta campagna un bel fuoco che ardeva, e intorno molte pecore, che dormivano vigilate da un pastore e dai cani. Quando l’uomo si avvicinò alle pecore, tre grossi cani si destarono e spalancarono le bocche per abbaiare, ma non poterono; allora mostrarono i denti e fecero per slanciarsi su di lui, ma i loro denti non poterono morderlo. L’uomo voleva avvicinarsi al fuoco, ma le pecore erano così fitte che tra loro non si poteva passare e l’uomo passò sopra di loro, senza che nessuna si svegliasse o si muovesse, e giunse vicino al fuoco. Allora il pastore si svegliò; era un vecchio severo e violento.
Vedendo quell’uomo vicino al suo gregge, prese un lungo bastone e glielo lanciò contro, ma il bastone cadde proprio ai suoi piedi senza toccarlo. Lo straniero si fece allora vicino al pastore e gli disse: -Dammi un po’ di fuoco che riscaldi il mio bambino appena nato e la sua mamma.- -Prendine quanto ne vuoi- rispose il pastore, ma intanto pensava “Costui non potrà prenderne nemmeno un poco, perchè non ha con sè una pala, nè un recipiente per portare i tizzi accesi”. Ma l’uomo si chinò, prese con le mani alcuni carboni accesi, e li mise nel mantello. Il pastore meravigliato pensava: “Che nottata è questa, che i cani non mordono, e il fuoco non brucia?”. E, pieno di curiosità, seguì l’uomo che aveva già preso la via del ritorno. Vide che lo straniero non aveva una casa: si era fermato davanti a una grotta, nella quale erano una donna e un bimbo. Il pastore allora ebbe pietà del bambino tremante nella notte fredda, e dal sacco che aveva sulle spalle trasse fuori una morbida e bianca pelle di pecora, e la offrì all’uomo per il bambino.
In quel momento, proprio quando il suo cuore diventava buono, vide intorno a sè una fitta schiera di angeli dalle grandi ali d’argento. Tutti insieme cantavano che nella notte era nato il Redentore. Allora il pastore capì perchè in quella notte tutto era così buono e nessuna cosa faceva del male.
Racconti natalizi Il pastorello povero (G. E. Nuccio) Quando gli angeli del cielo annunciarono per valli e per monti ch’era nato Gesù, tutti si misero in cammino per andarlo a visitare. E chi gli portava pane e frumento, chi cacio e ricotta, chi miele e latte, chi capretti o conigli. Venne anche un garzoncello di pastori; ma si sentiva umiliato, e quasi si vergognava, perchè non possedeva nulla da donare a Gesù Bambino. E come entrò, si stette in un angolo della grotta; e stringeva sul petto il suo zufolo, l’unica cosa che avesse.
Ma lo vide la Madonna, e venne a prenderlo per una mano, e gli fece coraggio col suo dolce sorriso. Allora il pastorello si fece animo e disse: -Non ho niente da donare a Gesù Bambino. Solo vorrei offrirgli una sonatina con questo mio zufolo-.
-Sì, figlio mio- disse la Madonna, sorridendogli amorosa. Ma proprio in quel momento, entrarono i tre Re Magi, tutti vestiti di porpora e d’oro, con largo seguito di servitori carichi di ricchissimi doni. Allora il pastorello tornò a mettersi in un angolo della grotta, ma la Madonna lo cercò con gli occhi amorosi, lo scorse e venne di nuovo a prenderlo per mano.
E, facendolo passare tra i magnifici Magi vestiti di porpora e d’oro, lo guidò fin presso la culla di Gesù. Allora il pastorello, voltosi dalla parte del bambino, intonò col suo zufolo la più dolce canzone. Nella grotta si fece un silenzio grande: tutti, Magi e pastori, cacciatori e contadini, donne e ragazzi, tacquero; e le pecore e i colombi e gli uccelli, che stavano dentro e fuori della grotta, tacquero anch’essi; e lo stesso il ruscello, che scorreva lì presso; e il mulino si fermò per non fare rumore. La voce dello zufolo era dolce e soave, come quella di tutte le madri della terra, messe ginocchioni per adorare il Figliolo divino. E Gesù Bambino stava ad ascoltare e guardava, con i suoi occhi dolci di luce, negli occhi del pastorello. E il pastorello si sentiva tanta dolcezza nel cuore; proprio gli pareva di essere tutto solo con Gesù e la Madonna.
Allorchè il suono dello zufolo si tacque, la santa Vergine venne accanto al pastorello, e gli fece una carezza sul capo. E Gesù Bambino, levando la sua bianca manina, lo benedisse. E quando il pastorello passò in mezzo alla folla, tra pastori e contadini, fra servi e Magi, tutti si chinarono al suo passaggio, quasi fosse il re più ricco. Perchè egli aveva offerto il dono più prezioso a Gesù: la musica sgorgata dal suo cuore.
Racconti natalizi Il pastorello Il bambino Gesù era nato nel presepe. Era un bambino piccolo e povero, avvolto in poche fasce e messo a giacere sulla paglia, ma era il Signore del mondo. Questo aveva detto l’angelo ai pastori meravigliati. Quando l’angelo ebbe annunciato la nascita di Gesù, i pastori si levarono, abbandonarono le greggi e si avviarono per visitare il piccolino che era nato.
Ma non si va a mani vuote da un bambino nato da poco, e ogni pastore prese qualche cosa, chi un agnello candido e ricciuto, chi una forma di formaggio, chi una fiasca di latte. Solo un povero pastorello non aveva niente, perchè era molto povero. Povero quasi come il bambino Gesù. Ma anche il pastorello volle andare a visitare quel piccino che era nato.
Si avviò insieme agli altri. La strada era lunga e faticosa, e il pastorello restò indietro. Mentre si affrettava, solo solo, sentì nel buio un lamento. “Chi è?” chiese, e aguzzò gli occhi nella notte. Seduto sul margine della strada, vide un bambino che si stringeva fra la mani un piedino, e piangeva. “Ti fa molto male?” chiese il pastorello. “Sì” rispose singhiozzando il bambino. “Mi sono punto con uno spino e ora non posso camminare” “Dove abiti?” “Lassù” e indicò la cima della montagna. “Io dovrei andare da tutt’altra parte” sospirò il pastorello “ma non posso lasciarti qui solo e ferito. Ti porterò fino a casa tua”.
Prese in braccio il bambino e cominciò a salire. Che fatica! Invece di un bambino, pareva che portasse un macigno! Finalmente, tutto sudato e trafelato, arrivò in vetta al monte e depose il bambino davanti all’uscio di una capanna, sopra un po’ di paglia. Ed ecco che una stella si staccò dal cielo e venne a posarsi sul tetto; e il povero giaciglio splendette come se la paglia fosse diventata d’oro. In mezzo a una gran luce, il pastorello vide, invece del piccolo ferito, un bambino di grande bellezza che dolcemente gli sorrideva.
“Io sono il bambino che è nato stanotte” disse “Il salvatore del mondo annunciato dagli angeli. Tu credevi di allontanarti da me e invece ti ero tanto vicino. Chi aiuta gli altri è vicino a Dio”. Il pastorello si inginocchiò guardando il bambino con occhi pieni di meraviglia e stupore. Poi si ricordò di qualcosa e, mortificato, disse: “Signore, non ho nulla da offrirti…”
“Mi hai già dato molto, perchè mi hai dato la tua bontà” rispose il bambino, e con la piccola mano raggiante, benedisse l’umile pastorello della montagna. (M. Menicucci)
Racconti natalizi Il pastore Che freddo quella notte! Le stelle bucavano il cielo come punte di diamante. Il gelo induriva la terra. Sulla collina di Betlemme tutte le luci erano spente, ma nella vallata ardevano, rossi, i nostri fuochi. Le pecore, ammassate dentro gli stazzi, si addossavano le une sulle altre col muso nascosto nei velli. Noi di guardia invidiavamo le bestie che potevano difendersi così bene dal freddo. Si stava attorno ai fuochi che ci cuocevano da una parte, mentre dall’altra si gelava.
Sulla mezzanotte il fuoco cominciò a crepitare come se qualcuno vi avesse gettato un fascio di pruni secchi. Nello stazzo, le pecore si misero a tremare. Levavano i musi in aria e belavano. “Sentono il lupo” pensai. Cercai a tastoni il bastone e mi alzai. I cani giravano su se stessi e uggiolavano. “Hanno paura anche loro”, pensai.
Intanto, anche i compagni si erano alzati da terra. Facevano gruppo scrutando la campagna. Non era più freddo. Il cuore, invece di battere per la paura, sussultava quasi di gioia. Era di notte e si vedeva luce come di giorno. Sembrava che l’aria fosse diventata polvere luminosa. E in quella polvere, a un tratto, prese figura una creatura così bella che ne provammo sgomento. “Non temete” disse l’apparizione “io vi annunzio una grande gioia destinata a tutto il popolo. Oggi vi è nato un salvatore, nella città di David. E questo sia per voi il segnale: troverete un bambino avvolto in fasce e coricato in una mangiatoia”.
Non aveva finito di parlare, e da ogni parte del cielo apparvero angeli luminosi, e cantavano “Gloria a Dio nel più alto dei cieli e pace in terra agli uomini di buona volontà”. Poi tornò la notte e noi restammo come ciechi nella valle piena di oscurità. I fuochi si erano spenti. Le pecore tacevano. I cani si erano acciambellati per terra.
“Abbiamo sognato!” pensammo. Ma eravamo stati in troppi a fare lo stesso sogno. Lì vicino, sulla costa della collina, erano scavate alcune grotte, che servivano da stalla. Avevano una mangiatoia formata di terra dura. Se il salvatore si trovava in una mangiatoia, voleva dire che era nato in una di quelle grotte. Infatti trovammo, come ci aveva detto l’angelo, un bambino fasciato, in mezzo a due animali, un bue ed un asino. Il bue era quello che dimorava nella stalla. L’asino vi era giunto coi genitori del bambino. Sul basto sedeva il padre, pensieroso; presso la mangiatoia si trovava inginocchiata la madre, in adorazione del suo nato. Guardai quel bambino e il mio cuore si intenerì. Sono un povero pastore, ma ogni volta che vedo un agnellino mi commuovo. E quel bambino mi parve il più tenero, il più innocente degli agnelli. Non so dire altro. Posso aggiungere che non ho più trovato in vita mia una dolcezza simile a quella provata davanti a quel bambino. Anche ora che ci ripenso, mi torna la tenerezza per quell’agnello innocente e gentile. Sono un povero pastore. Perdonatemi se lo chiamo così: è per me il nome più dolce e più caro. (P. Bargellini)
Racconti natalizi Dell’abete solitario
Nel Vosgi, molto vicino a Strasburgo, c’è lo Schneeberg. Fra la sua cima e quella del Donon vi sono diversi gruppi di rocce sugli altopiani o nelle gole delle valli, dove una volta stavano i sacerdoti dei celti e dove guardavano al di là di Stasburgo il levar del sole.
La leggenda contava dodici alte rocce che, nelle sante notti dopo la nascita di Gesù, si mettono in cammino e, ognuna per la sua strada ed ognuna nella sua notte particolare, si affretta ad andare sullo Schneeberg per inchinarsi, da lassù, al sole che sorge.
Su una si queste alte rocce stava, nella dodicesima notte al tempo del compimento dei tempi, un abete solitario sotto il cielo pieno di neve. Per tutta la notte aveva sognato della stalla di Betlemme. Sul far del giorno arrivarono tre carovane con i Re che avevano adorato il bambino a Betlemme ed ora con il loro seguito e con gli animali cercavano il centro del mondo per dirigersi verso oriente, occidente e sud.
Davanti all’abete solitario si fermarono, pensando che proprio qui fosse il centro del mondo. Mentre pensavano questo, divamparono dodici fiamme sopra alle cime ed alle rocce del circondario, fin giù nella pianura dell’Alsazia. I Re si abbracciarono e gli animali delle tre carovane parlarono ancora una volta gli uni con gli altri. Ma l’abete si inchinò profondamente davanti ai tre re venuti dall’Oriente e davanti ad ognuno degli animali, perchè nella sua nostalgia sapeva che questi avevano visto il Signore del mondo nella stalla e vedeva la luce che albergava ancora nei loro cuori. Allora i tre Re benedissero l’abete solitario ed ognuno di loro ne staccò un ramo, per portarlo con sè, finchè l’abete tremò di gioia.
Prima di separarsi i Re predissero solennemente all’abete che un giorno, in un lontano futuro, esso sarebbe sceso dall’altura del Vosgi verso Strasgurgo e poi, da qui, in tutte le valli ed i paesi e le città del mondo e che sarebbe diventato l’albero di Natale, un simbolo della luce nella stalla di Betlemme, che come un sole dei mondi guarda ancor oggi sulla terra addormentata. (Camille Schneider)
Leggenda dei pastori C’era una volta, in un fredda e gelida notte invernale, un povero pastore che svegliandosi spaventato contò le pecore del suo gregge. Mancava una mamma pecora: la pecora migliore che aveva. Il pastore si mise alla sua ricerca, camminava per prati e campi cercando ovunque, sui picchi e in fondo ai burroni. Ascoltava sperando di sentire qualche belato spaventato, ma tutto era silenzioso. Camminò a lungo senza trovare la pecora e si meravigliò del fatto che non era per niente stanco. Un morbido tappeto di fiori stava sotto ai suoi piedi e un soffio tiepido di primavera alitava sul suo viso, eppure si era nel mezzo dell’inverno…
Le gemme si schiusero e il suo cuore stesso fioriva come un bocciolo. Cosa c’era? Tutto era così trasformato! Solo quando pensava alla sua pecora lo riprendeva la tristezza. Mai più avrebbe avuto una simile bella mamma pecora nel suo gregge, con un vello così morbido e bianco! Egli l’amava molto, più di tutte le altre pecore. Oh, se potesse ritrovarla!
Mancava poco e gli avrebbe dato un agnellino, e lui durante la notte l’avrebbe scaldato avvolgendolo nel suo mantello, e di giorno l’avrebbe portato sulle spalle nel cammino verso i pascoli alti del monte, a primavera. Alzando lo sguardo verso i monti lontani vide salire una grande stella lucente come un brillante. “Che stella sarà mai?” si chiese. Non aveva mai visto una stella simile. La stella del mattino non poteva essere, era ancora notte piena. La stella saliva, saliva, e la sua luce era così potente che tutt’attorno cominciò a luccicare.
Il cuore del giovane pastore era pieno di meraviglia, e lui camminava proprio seguendo la direzione della stella. Da quanto tempo camminava, non lo sapeva. Andò avanti finchè arrivò ad una capanna bassa, una misera stalla irradiata dall’oro della stella. Alle sue orecchie arrivò un canto dolcissimo… e quando arrivò vicino dovette coprirsi con la mano gli occhi, tanto era lo splendore che irraggiava da un piccolo bimbo appena nato. Il bimbo giaceva sulla paglia dura e la madre lo cullava cantando dolcemente. Poi lei prese delicatamente un po’ di paglia d sotto ai suoi piedini e la diede al bue e all’asinello che stavano accanto alla greppia.
Il pastore non sapeva di stare davanti a Maria che in quella povera stalla aveva fatto nascere il bimbo celeste. Come si meravigliò il pastore quando il bambino Gesù allungò le sue manine verso una pecora bianca che fiduciosamente posò il muso sulla greppia. Come gioiva il bambino toccando la morbida lana bianca e quando lo sfiorò il tiepido alito dell’animale. Il giovane pastore riconobbe la pecora che aveva cercato tutta la notte.
Maria sorrise, accennò con la testa al pastore e lui potè vedere un po’ dello splendore della stella nei suoi occhi. La madre gli disse, passando le dita tra i morbidi fiocchi della pecora: “La stella l’ha guidata, essa ci ha dato da bere, grazie buon pastore!”.
Il pastore si inchinò davanti al bambino. Nella sua povertà non sapeva cosa donargli. Tagliò un angolo della pelliccia che portava sulle spalle e la stese sulle delicate gambine del bimbo, così che nessun soffio gelido di vento lo sfiorasse. Dalla sua borsa prese l’ultimo pezzetto di pane e lo offrì a Maria.
Un uccellino volò leggero sul palmo della mano di Maria a beccare alcune briciole e trillò. Dal bambino irraggiò una luce che arrivò sul petto dell’uccellino e le sue piume si colorarono d’oro. L’uccellino col petto d’oro passò sopra la greppia e volò via gioioso.
S’era silenzio nella stalla, gli animali respiravano calmi. La pecora si avvicinò al pastore e si inginocchiò accanto a lui, che la accarezzò. Com’era bianca e morbida la sua lana, poteva essere un morbido e caldo lettino per il bambinello.
“Caro bambinello, io ti ringrazio e ti voglio regalare la mia pecora. La lana morbida ti riscalderà nella notte, e il suo latte ti darà forza e farà bene anche a tua madre!” Come in sogno il pastore camminò per prati e campi per raggiungere il suo gregge, il cielo sopra di lui era pieno di migliaia di stelle che illuminavano la sua via. Dopo un pezzetto di strada incontrò Giuseppe, che come Maria aveva negli occhi lo splendore della stella. Giuseppe gli disse: “Il mio bambino ti dona la pace”. Come campane risuonarono queste parole nel cuore del pastore. Oh, notte meravigliosa!
Il pastore contò le sue pecore. Si sbagliava? Si stropicciò gli occhi e ricontò di nuovo. Ma per quanto ricontasse il numero era sempre lo stesso: le pecore erano tre volte di più. I suoi occhi increduli guardarono il gregge diventato così numeroso e grande. Un raggio della stella toccò il suo cuore e il pastore andò con il pensiero al cammino appena fatto, e rivide il bambino giacere nella greppia, pieno di luce celeste. La madre lo cullava e da così lontano sorrise al pastore: “Molte meraviglie accadono in questa notte, tutti saranno benedetti!”. Vicino a lui sentì un lieve belare. Un agnellino appena nato, con la pelliccia candida come la neve, giaceva sulla tera. Egli lo raccolse e l’agnellino si strinse a lui. Il cuore del giovane pastore voleva saltare dalla gioia. Vide il cielo aprirsi sopra di lui e un fermento riempì l’aria, tutte le stelle brillavano e in file lucenti apparvero le schiere celesti. Gli Angeli cantavano, volarono in basso e benedissero la terra e tutto ciò che c’era su di essa.
Racconti natalizi La leggenda del Re segreto Non tanto tempo fa c’era un paese che era il più grande del mondo perchè aveva sottomesso quasi tutti gli altri paesi. Aveva raggiunto non soltanto grande fama, ma anche ricchezze straordinari e i suoi abitanti dovevano confessarsi che alla loro fortuna non mancava quasi nulla.
Un giorno scoppiò in questo paese una strana malattia. Essa colpì dapprima poche persone, poi sempre di più, ed infine divenne un’epidemia. Si manifestò dapprima con strane forme di paralisi, non solo esterne ma anche interne. Le persone colpite non potevano più muoversi, dopo un po’ non riuscivano più a parlare, e infine nemmeno a pensare.
Gli abitanti del paese si disperarono per questa calamità, scoppiata proprio nel loro periodo più felice. Quando la malattia si dilatò e colpì anche le persone più importanti, il re convocò i suoi consiglieri e li interrogò sul da farsi in questa situazione di emergenza. Ma i consiglieri non sapevo dire nulla di più di quanto i medici avevano stabilito. L’unica cosa che consigliavano al re era di far spargere la voce nel regno che chiunque conoscesse un rimedio si presentasse senza indugio. Così fece il re, e dopo un po’ di tempo si presentò al castello un anziano pastore. Esso diede al re un consiglio inaspettato. Disse: “In questa emergenza ti può aiutare una sola cosa. Manda tua figlia al re segreto. Esso ti darà ciò di cui hai bisogno”.
Sentendo queste parole, il re non fu molto felice. Mandare sua figlia, da sola, presso un re sconosciuto, che inoltre era anche segreto: questo non gli garbò per nulla. Ma quando poco dopo fu lui stesso colpito dalla malattia, si decise a seguire il consiglio.
Così la giovane figlia del re se ne andò e cominciò a cercare il re segreto. Non sapeva in quale luogo abitasse, non conosceva nemmeno la strada per arrivarci, era solo piena di un desiderio profondo di trovarlo e di aiutare gli uomini. Camminò dal mattino alla sera e non trovò niente. E quando alla fine della giornata non aveva ancora concluso nulla, decise di non entrare nell’osteria, ma di passare la notte all’aria aperta, per cogliere eventualmente un segno. Così scalò una collina e lì si fermò. Un cielo infinito, di un blu profondo, si stendeva sopra di lei. Mai prima aveva visto un cielo così. A lungo contemplò quella vista e si lasciò trasportare dallo sguardo in quelle lontananze. Si sentì sempre più libera e le sembrava di comprendere molti segreti del mondo. Poi si addormentò profondamente. Quando la mattina dopo si destò, si accorse con grande meraviglia di essere avvolta in un mantello stupendo, blu scuro. Il giorno dopo proseguì la sua marcia. Incontrò numerose persone che le chiedevano aiuto, certe volte anche con malagrazia, con parole sgarbate e cattive.
La figlia del re li ascoltò tutti senza protestare nè arrabbiarsi, e li aiutò tutti, come potè. Infine le venne incontro un uom o che era ormai quasi nudo. Egli le domandò di dargli qualche indumento caldo. Allora lei gli donò il suo vestito perchè, si disse, in fondo lei aveva il mantello. Appena ebbe dato il suo vestito si accorse di indossare un nuovo abito che brillava del rosso più meraviglioso.
Quando il giorno seguente proseguì per la sua strada, le si presentarono molti ostacoli. I sentieri diventavano sempre più difficili e le sue forze stavano per abbandonarla. Solo la sua volontà di raggiungere la meta restò ferma.
Arrivò su un prato che era ornato da splendidi alberi con molto fogliame e frutti luminosi. Si sedette sotto l’albero più grande; le sue forze erano finite. Seduta così, pensò tra sè: “Se solo avessi oltre alla volontà anche la forza!”. In quel momento l’albero potente cominciò a muoversi. Si scosse, si spostò, e un paio di splendide scarpine caddero a terra: erano fatte di oro lucido e caldo. Quando la figlia del re indossò le scarpine, le sue membra furono pervase da una forza che mai aveva sentito prima. Ora poteva riprendere il cammino.
Il quarto giorno il sentiero si inabissò piano verso l’interno della terra. Dapprima la principessa fu circondata da un buio angosciante, poi divenne sempre più chiaro, ed infine arrivò una luce di un’incredibile morbidezza. Le sembrò di entrare nella camera più intima della terra. Nel centro della sala si trovava un trono sul quale era seduto un giovane re che era illuminato come da un sole dolce. Era circondato dagli spiriti della natura, dalle guide degli uomini e dai capi degli angeli. Ora la figlia del re seppe di essere arrivata alla meta.
Il giovane sul trono guardò la principessa e vide ciò che indossava: il mantello blu che aveva sulle spalle, l’abito rosso e le scarpine dorate. Allora disse: “Meriti di ricevere il bene per aiutare gli uomini”, e le porse una coppa d’oro, riempita di acqua limpidissima. La invitò a bere. Poi le diede l’incarico di portare quest’acqua agli uomini e di dare loro la notizia dell’esistenza del re segreto. Quelli che avrebbero creduto al suo messaggio, avrebbero potuto bere e sarebbero stati salvati dalla loro malattia.
In questo modo molti già hanno ricevuto una nuova vita, ma ci saranno ancora molti altri che apriranno i loro cuori al messaggio che esiste un re segreto che è il guardiano e il donatore dell’acqua della vita. Egli abita tra noi e protegge gli uomini. (Eberhard Kurras)
Racconti natalizi Il pastore Giona nella stalla Giona il pastore giaceva avvolto stretto nella sua coperta nella paglia, e dormiva. L’estate era passata da un bel po’. I pascoli erano brulli; già nell’autunno, quando le tempeste spazzavano sopra i campi arati, aveva raccolto le sue pecore e trovato un rifugio insieme a loro dall’oste dell’osteria Corona. Esso aveva dietro l’osteria una grotta stretta dove teneva la sua mucca e d’inverno potevano alloggiare lì tutti quanti, Giona, la mucca e le pecore. Spazio non ne aveva più nessuno, ma il pastore non ci faceva caso e non aveva niente in contrario a dormire con le sue care pecore.
La mucca era mite, sognava forse della primavera prossima, quando avrebbe avuto di nuovo tutta la grotta per sè. Ma nel frattempo godeva del calore che emanava dai lanosi coinquilini.
Il vento d’inverno soffiava rigido attraverso le aperture tra le travi, ma perdeva quasi subito la sua potenza fredda in questo povero rifugio abitato da uomo e animali.
Improvvisamente il pastore si destò, si strofinò gli occhi e si guardò intorno tutto stranito. Osservò con cura ogni dettaglio del vano che già conosceva tanto bene, come se durante il sonno esso gli fosse diventato estraneo. Le mura di roccia, irregolari, che limitavano la grotta su tre lati e formavano anche il soffitto, erano neri dei fuochi che si accendevano lì un tempo. La porta era di legno grezzo, attaccata su dei cardini poco stabili, e aveva delle fessure così larghe che anche senza finestra si poteva osservare tutto ciò che si svolgeva nel cortile.
Giona tastò la paglia che copriva appena la terra nuda, toccò la mangiatoia che conteneva il fieno per la mucca e per le pecore come se la volesse esaminare: “Sì, sì…” mormorò finalmente, “si tratta solo della nostra stalla!”. Però nel frattempo scosse la testa, ancora incredulo.
Dove credeva di essersi svegliato? Il pastore pose una mano sul capo di una pecora e cominciò a raccontare… alcuni pensano che sia stupido parlare agli animali, perchè non capiscono una parola, ma Giona ne sapeva di più, e naturalmente anche le sue pecore ne sapevano di più! Girarono tranquillamente le teste verso di lui e ascoltarono il suono della sua voce calda e profonda che diede loro una sensazione di sicurezza e di protezione.
– Pensate un po’…” raccontò Giona, “ero in un castello, in un palazzo dorato, lì c’era una sala così meravigliosa, che non ho mai visto nulla di simile prima. I muri erano d’oro puro e il soffitto era come un cielo stellato, il tappeto come un giardino fiorito di rose e di gigli. Inoltre lì veniva suonata la musica più deliziosa da musicisti ineguagliabili. Nel bel mezzo della sala si trovava un letto a baldacchino con dei cuscini di piuma soffice. E pensate un po’, in questo letto di piume dormivo io, così morbidamente come sulle ali di un angelo.
Ma improvvisamente si sentì un richiamo forte: “Il re viene, fate posto per il re!”. Un servitore venne correndo e mi disse, anzi mi pregò di far posto nel castello per il re. “Vero che lo fai per il re?” mi disse. Allora io mi alzai, ma quando i miei piedi toccarono terra mi svegliai, ed ora il castello è scomparso e mi trovo di nuovo qui da voi nella stalla-.
Le pecore continuarono a guardare il pastore con i loro occhi tranquilli e scuri. Avevano capito, potevano immaginarsi la bella sala nel castello dorato. Ancora una volta Giona si strofinò con mani forti gli occhi, ma il sogno non si lasciò cacciare. Restò lì e questa era anche la sua intenzione, perchè era stato un angelo a far sognare così il pastore, con una buona ragione.
Fuori il vento soffiò la sua canzone gelata. Giona tirò su la coperta più stretta intorno alle spalle. “No… di sicuro questa è una grotta e non un castello… ma fa un bel calduccio qui, vicino alle pecore dal folto vello! Siamo proprio fortunati!”, constatò Giona “Siamo proprio fortunati a poter essere qui, tutti insieme. L’inverno è un pastore crudele, è meglio evitarlo!”.
Poi sbirciò curioso attraverso le fessure della porta, perchè dal cortile si sentivano delle voci. La voce dell’oste un po’ tonante ma non sgradevole, e la stanca voce di un uomo. Giona non poteva vedere i due, perchè il sole era già tramontato e il mondo era grigio e senza contorni. Improvvisamente però vide avvicinarsi una luce: era l’oste che bussava alla porta tenendo una lanterna: “Giona… Ehi, Giona… sei sveglio?, disse l’oste a voce bassa. “Ma sì, certo” rispose il pastore, ed aprì la porta.
L’aria fredda che entrò lo fece rabbrividire. “Ah, Giona, mio buon amico,” disse l’oste “pensa un po’… è venuta ancora gente, non riescono a trovare un alloggio perchè tutte le case sono piene. Sono talmente stanchi e deboli che proprio non riesco a mandarli via. Giona, per una notte sola, conduci le tue pecore di nuovo sul pascolo. Hanno in fondo una pelliccia calda e non patiranno il freddo. Fai posto per questa brava gente…”
Il pastore non sentì nemmeno più l’aria fredda dell’inverno. Aveva ascoltato l’oste con meraviglia. Il sogno che aveva avuto si ripresentò di nuovo luminoso davanti a lui. “Oste” disse finalmente in tono mite “è il re che cerca alloggio?”
L’oste lo guardò meravigliato, scosse la testa e disse: “Che strane cose dici certe volte, Giona. Il re nella mia stalla? No, no, è gente poverissima. Un uomo e una giovane donna che porta un bambino sotto il cuore. Vero Giona che lo fai, per questa povera gente?”
Così, esattamente così, aveva chiesto anche il servitore nel sogno, pensò improvvisamente il pastore. Ma all’oste disse semplicemente: “Lo faccio”. Poi andò verso le sue pecore e chiamò: “Venite, venite mie care, dobbiamo uscire, il nostro palazzo viene usato da gente povera!”
Senza nessuna fretta, ma senza opporre alcuna resistenza, le pecore lo seguirono: Giona prese il lungo bastone da pastore e si mise davanti al gregge. Guardò gli stranieri molto intensamente quando passò accanto a loro. “Ma no, l’oste aveva ragione, non si trattava di un re che chiedeva alloggio…” Giona vide un uomo con la barba arruffata dal vento, le guance magre arrossate dal vento, e un po’ più in là, su un asino magrissimo, era seduta una giovane donna avvolta in un mantello blu col cappuccio, gli occhi stanchi e tristi, il viso pallido. “No, è semplicemente povera gente che ha bisogno d’urgenza di un tetto…”
“Su… su… mie care… venite al pascolo” disse Giona alle sue pecore, e si incamminò con passo deciso. Il freddo non avrebbe avuto la meglio su di lui. Fuori dalla porta della città erano accesi dei fuochi: uno, due, tre, e lì erano seduti altri pastori che per far posto a tutta la gente che cercava alloggio avevano dovuto abbandonare stalle molto migliori di quella di Giona.
Si scaldarono accanto al fuoco, di buonumore e con qualche buon boccone portato dall’uno o dall’altro. Giona fu salutato cordialmente e tra canti e conversazioni presto dimenticò il suo sogno, la stalla e la povera gente.
Si fece tardi, e un profondo sonno si impadronì dei pastori, che non si accorsero della quiete infinita e piena di pace che improvvisamente scese sulla terra. Solo le pecore alzarono la testa per guardare il cielo, nel quale le stelle brillavano della loro luce più bella. Non c’era nulla in quella notte, in quel cielo, se non quella tranquillità meravigliosa e limpida.
Improvvisamente, poi, il cielo sembrò aprirsi e una luce dorata precipitò sulla terra. A questa luce dovette cedere ogni buio. Allo stesso tempo l’aria si era riempita delle melodie più dolci. I pastori ormai svegli, ma ancora intontiti dal sonno, guardarono la luce, ascoltarono il messaggio della nascita del bambino divino sulla terra e il canto “Osanna nell’alto dei cieli e pace in terra agli uomini di buona volontà”.
Balzarono su, senza sentire freddo nè stanchezza. Volevano vedere il bambino al quale era dedicato tutto questo. La musica celeste indicò loro la strada verso la città, li accompagnò alla stalla.
Credete che Giona abbia riconosciuto la sua stalla, quella grotta dalle pareti nere e con la porticina di legno? Ma no, tutto sembrava così diverso, perchè tutto era stato trasformato dalla nascita del bambino divino. Non più nere erano le pareti della grotta, ma luminose d’oro, e il soffitto si era inarcato come un cielo stellato, il pavimento era un tappeto di rose e gigli, e lì in mezzo stava seduta la regina in un abito pieno di stelle, accanto ad una culla dorata; nella culla, su cuscini d’oro, un piccolo bambino che era così bello che i pastori sentirono una fitta di gioia nel cuore, forte quasi da sembrare un dolore.
Restarono inginocchiati a lungo davanti alla mangiatoia. All’inizio in silenzio, poi pregando e cantando le loro canzoni da pastori. Donarono al bambino celeste ciò che avevano con sè, e quando infine si alzarono e si congedarono, Giona non potè fare a meno di prendere la mano del bambino e baciarla. E allora sentì chiaramente che il bambino gli diceva: “Grazie caro Giona per avermi fatto posto”.
Confuso l’uomo si guardò intorno: aveva veramente sentito quelle parole, o aveva soltanto sognato? Non riusciva a rispondere a questa domanda, e non c’è nulla di cui meravigliarsi: quando i cieli scendono sulla terra e noi possiamo vederli con i nostri occhi, non siamo in grado di dire se siamo svegli o se si tratta di un sogno.
Alcuni giorni dopo l’oste mandò a chiamarlo per dirgli che la grotta era di nuovo libera, e Giona vi fece ritorno con le sue pecore. Benchè le pareti fossero nere come sempre, e la porta di legno sgangherata, nella mangiatoia il pastore vide un cuscino dorato. Confuso si strofinò gli occhi: un cuscino dorato… ma no… non era un cuscino… era la paglia che luccicava come oro, come se il bambino celeste avesse dormito proprio lì. Giona non parlò mai di questo evento a nessuno, e nessuno al di fuori di lui aveva visto l’oro: solo lui e forse le pecore. Ma esse conservarono il segreto proprio come fece il loro pastore. Qualche volta però, quando Giona avvolto nelle sue coperte dormiva sulla paglia, vedeva di nuovo il bambino e sentiva di nuovo la voce che gli diceva: “Grazie caro Giona per avermi fatto posto”. (George Deissig)
Racconti natalizi L’ultima visitatrice Si era a Betlemme, allo spuntar del giorno. La stella stava sparendo e l’ultimo pellegrino aveva lasciato la stalla, Maria aveva rassettato la paglia ed il bimbo si era addormentato. Ma si dorme, il giorno di Natale? Dolcemente la porta si aprì, spinta, si direbbe, da un soffio di vento più che da una mano, e una donna apparve sulla soglia, coperta di stracci, così vecchia e rugosa che nel suo viso color della terra la bocca sembrava soltanto una ruga in più.
Vedendola Maria si spaventò, quasi fosse entrata una fata cattiva. Fortunatamente il bambino dormiva! L’asino e il bue masticavano pacificamente la loro paglia e guardavano avvicinarsi la donna senza alcuna meraviglia, quasi la conoscessero da sempre.
Maria, invece, non scattava gli occhi da lei.
Ogni passo che la donna faceva, sembrava lento come un secolo. La vecchia arrivò vicino alla mangiatoia, mentre il bambino continuava a dormire. Ma si dorme, il giorno di Natale?
Improvvisamente il bambino aprì gli occhi, e sua madre fu molto meravigliata, vedendo che gli occhi della vecchia e quelli del suo bambino, erano esattamente uguali, e brillavano della stessa luce di speranza. La vecchia si chinò sulla paglia, mentre la sua mano cercava tra le pieghe dei suoi stracci qualcosa, che pareva ci volessero secoli a trovare.
Maria la guardava con la stessa inquietudine, le bestie la guardavano invece senza sorpresa, come se sapessero cosa stava succedendo. Infine, dopo lungo tempo, la vecchia tirò fuori dai suoi panni un oggetto che, nascosto nella mano, diede al bambino. Dopo i tesori dei Magi e i doni dei pastori, cos’era anche questo regalo? Da dove si trovava, Maria non poteva vederlo. Vedeva solamente la schiena della vecchia curva per l’età, che si piegava ancora di più per chinarsi sulla mangiatoia. Ma l’asino ed il bue la vedevano, e non si meravigliarono affatto.
Questo durò a lungo. Poi la donna si rialzò, come alleggerita da un peso così gravoso che la tirava verso la terra. Le sue spalle non erano più arcuate come prima, la sua testa toccava quasi il tetto di paglia, e il suo viso aveva ritrovato miracolosamente la sua giovinezza. Quando si allontanò dalla culla per tornare verso la porta e sparire nella notte da dove era venuta, Maria potè finalmente vedere che cos’era quel misterioso dono.
Eva (poichè era lei) aveva appena dato al bambino una piccola mela. E questa piccola mela rossa brillava nelle mani del bambino come il globo del mondo nuovo che stava per nascere con lui. (Jerome e Jean Tharaud)
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Dettati ortografici sul Natale e l’Avvento – una raccolta di dettati ortografici per la scuola primaria, difficoltà miste, di autori vari.
L’ambiente natalizio Il Natale si festeggia in dicembre, all’inizio dell’inverno astronomico. Tutta l’atmosfera è pervasa dall’incanto di questa ricorrenza. Il Natale si associa al freddo, alla neve, al rovaio e quindi alla casa riscaldata, intima, festosa, all’amore rinnovato per la propria famiglia anche perchè questa festa è attesa e desiderata in particolar modo dai bambini. Il nuovo nato è un bambino come loro ed essi lo sentono vicino, hanno confidenza con lui, gli chiedono grazie e doni. Osserviamo l’ambiente natalizio. Dell’inverno abbiamo già parlato, ma cercheremo di rinnovare le nostre impressioni naturalistiche. Elementi del paesaggio natalizio sono il freddo, la nebbia, la neve, il ghiaccio, gli alberi spogli. Ed ecco questo ambiente vivificato da una stella luminosa, ecco i cieli azzurri del presepe, le palme dei paesi caldi, il contrasto fra gli smorti colori dell’inverno e i vivi colori del presepe, che eccita i bambini e li dispone all’attesa. Anche la casa acquista grande importanza. Oltre all’ambiente naturale, osserviamo le vetrine cariche. Vetrine di negozi alimentari con salumi, pollame, cibi d’ogni genere, sempre invitanti ed eccezionali, vetrine di giocattoli, vetrine di pasticceri dove fanno mostra di sé i dolci caratteristici del Natale, panettoni, torroni e quanto la tradizione locale offre.
Dettati ortografici sul Natale e l’Avvento Notizie storiche Il Natale, che oggi si festeggia il 25 dicembre, non fu solennizzato sempre nello stesso giorno. Pare che nel secolo III si festeggiasse il Natale insieme all’Epifania il 6 gennaio, specie in Oriente; ma verso la metà del IV secolo la Chiesa romana fissò tale solennità al 25 dicembre, forse sotto Papa Liberio. Ciò per sovrapporre la festa cristiana a quella pagana del sole. Tra i costumi natalizi, comuni a tutti i paesi cattolici, sono la messa si mezzanotte e il presepe. Il primo presepe viene attribuito a San Francesco, il quale ricostruì la scena della natività a Greccio, un piccolo paese dell’Appennino umbro. La parola presepe vuol dire stalla e, anche, mangiatoia che si pone nella stalla. L’uso del presepe, dapprima limitata alle chiese, si estese in seguito fra i privati e molti scultori e pittori vi si ispirarono per produrre pregevolissime opere. Altro uso natalizio, che ha auto origine nei paesi del Nord, è l’albero di Natale.
La terra di Gesù Palestina si chiamava anticamente la sola parte costiera della regione a cui più tardi fu esteso questo nome; il nome deriva dall’ebraico Pelistin con cui veniva indicato il popolo dei Filistei. Questo paese è formato da tre zone parallele: la zona costiera, l’altopiano e la valle del Giordano. Il Giordano è un piccolo fiume che scorre nel fondo di una stretta valle, forma alcuni laghi, dei quali il più celebre è quello di Genezareth o Tiberiade, e finisce nel Mar Morto, un mare interno che è posto a 400 m sotto il livello del Mediterraneo e le cui acque sono salmastre e contengono bitume, cosicchè le sue rive sono desolate e deserte. L’altopiano è monto accidentato, ed è il prolungamento della catena del Libano; oggi è nudo e roccioso, ma nei tempi antichi aveva ampie foreste e vi crescevano viti, olivi e buoni pascoli, tanto che agli occhi degli Ebrei, quando vi si stabilirono cacciandone i Filistei, sembrò un paese incantevole e lo chiamarono la “Terra Promessa”. La parte settentrionale dell’altopiano si chiama Galilea, la centrale Samaria, le due meridionali Giudea e Idumea. (P. Silva)
Il Natale di Gesù La data della nascita di Gesù fu parecchio controversa. Per parecchio tempo, le chiese orientali festeggiarono il Natale il 6 gennaio. La chiesa romana, invece, adottò la data attuale fin dal IV secolo dC. Alla scelta di tale data contribuì anche la considerazione di un fatto religioso pagano: il 25 dicembre veniva celebrato dai pagani il giorno natalizio del Sole vittorioso, la cui nascita coincide appunto col solstizio d’inverno. Dopo il 21 dicembre, infatti, il sole ricomincia a percorrere nell’azzurro del cielo archi sempre maggiori e le giornate si allungano. Contrapporre la nascita di Gesù a quella del sole invitto significava poter distogliere dalla celebrazione della festa pagana molte persone. E come, poi, non pensare a Gesù, sole delle genti, via e luce, quando il sole ricomincia ad annunciare la sua vittoria sulle brume della stagione inclemente? (R. Lesage)
Tre messe Quel che caratterizza la festa di Natale è la celebrazione delle tre messe solenni a mezzanotte, all’aurora e alla mattina. La messa di mezzanotte risale a pappa Sisto III (432-440) che, a seguito del Concilio di Efeso, aveva fatto grandi restauri alla Basilica Liberiana, dedicata alla Madonna, costruendovi in una piccola cripta una riproduzione della grotta di Betlemme, che diede poi il nome alla Basilica stessa, facendola chiamare Santa Maria del Presepe. Qui infatti, forse ad imitazione della celebrazione notturna che si faceva alla Basilica della Natività a Betlemme, Sisto III ordinò un’ufficiatura notturna, che si concludeva poi con la messa. (R. Lesage)
Dettati ortografici sul Natale e l’Avvento Natale, cenni storici Il Natale si celebra il 25 dicembre. Anticamente questa festa non si celebrava sempre nello stesso giorno; fu il papa Giulio II che, nel secolo IV, fissò la data del 25 dicembre, dopo aver fatto eseguire diligenti ricerche negli archivi. Dal secolo VI fu permesso ai sacerdoti di celebrare tre messe in questo giorno: la prima è detta “messa di mezzanotte”, la seconda “messa dell’aurora” e la terza “messa del giorno”. Nel Medioevo si celebravano i “Misteri”, cioè scene della vita e della passione di Gesù. Oggi si celebrano ancora in alcuni paesi. Fra gli usi natalizi più comuni è il presepe, il quale dapprima si faceva solamente in chiesa, poi si diffuse nelle case. Verso il Settecento ebbe la massima diffusione. (C. Bucci)
Dettati ortografici sul Natale e l’Avvento Regione che vai, Natale che trovi
Cominciamo il nostro itinerario dalle regioni settentrionali, seguendo solo il filo della fantasia e citando in ordine alfabetico le località dove si possono trovare tracce originali di storie curiose ed abitudini antiche, legate alla mistica suggestione della Santa Notte.
Ad Andalo, in Valtellina, la vigilia di Natale, in segno di promessa, gli innamorati depongono sul davanzale delle loro amate, usando un lungo bastone, uno zoccolo dipinto, arricchito da nastri e nappe. L’usanza ricorda lo sfortunato amore di un mago dal “pie’ bisulco” che, recandosi a trovare la sua bella, perse uno zoccolo a doppia unghia e con esso il suo magico potere, tramutandosi in un povero pastore.
A Bergamo è diffusa la credenza che nella Notte Santa tutti gli animali, e specialmente i gatti, acquistino poteri divinatori e con il loro atteggiamento suggeriscano l’esito delle future vicende familiari.
In Brianza, a Porto d’Adda, all’avvicinarsi del Natale gruppi di giovani confezionano dei fischietti con canne di bambù e girano per le vie del paese suonando nenie natalizie, formando una banda che la gente chiama degli “organini”.
A Como quasi tutti, a Natale, fanno un presepe molto grande e bruciano il ginepro. Alla sera, tutte le famiglie si riuniscono nelle cucine accanto ai grandi camini e intonano cori natalizi accompagnati dai caratteristici strumenti musicali del luogo: gli zufoli, chiamati in dialetto fifuc.
A Mantova la sera della vigilia il più anziano della casa benedice i tortelli con l’acqua santa e tutti recitano le preghiere prima di iniziare la cena.
Si racconta che il Monte Bernina ed il suo celebre ghiacciaio, sorto dove un giorno si stendeva un florido pascolo, siano opera del diavolo che, nella notte di Natale, volle punire un pastore il quale, rifiutando asilo a un mendicante, gli concesse soltanto di accostarsi al truogolo del maiale. Immediatamente prese a nevicare e l’indomani, al dissolversi di una pesante nuvola nera, al posto del pascolo e della malga apparve l’immenso ghiacciaio.
A Boca (Novara) nel 1600, a breve distanza da un miracoloso crocefisso, il 24 dicembre a tarda sera, due ladri attendevano il passaggio di un giovane che tornava al paese dopo un anno di lavoro, con in tasca un discreto gruzzolo. A passo lesto per giungere in tempo alla Messa di mezzanotte, il viandante attraversa il bosco recitando il rosario quando, giunto in vista dei due ladri, li vide fuggire a gambe levate. Il giorno seguente seppe che a mettere in fuga i malfattori era stata l’apparizione di due aitanti gendarmi alle sue spalle. Inutile dire che dei due misteriosi protettori non si ebbe più notizia. Sul luogo dell’incontro il giovane fece erigere una chiesetta, oggi diventata un celebre santuario.
Sul monte Cesarino, il cui nome ricorda il passaggio di Giulio Cesare, è credenza popolare che viva un cane feroce il quale sputa fiamme dalla bocca e azzanna e divora i bambini che di notte si avventurino per boschi o sentieri. Soltanto la sera della vigilia il cane fantasma si ammansisce; e anzi, se incontra un fanciullo lo accompagna per tutta la strada, difendendolo e lambendogli le mani.
A Deiva Marina (La Spezia) all’interno della chiesa di Santa Maria Assunta si legge su una lapide del settimo secolo una strana iscrizione che riporterebbe fedelmente il testo di una lettera di Cristo, caduta dal cielo per ammonire i fedeli. Nel messaggio è detto, tra l’altro, che dalla mezzanotte della vigilia all’alba di Santo Stefano persino i diavoli fanno festa, perchè neppure loro possono sottrarsi alla suggestione ed al misticismo della divina notte.
Secondo la credenza popolare, al Pian di strì (Piano delle Streghe), sotto il monte Gridone,verso la Val Vigezzo, streghe, maghi e folletti si riuniscono da tempo immemorabile in base a un ben prestabilito calendario settimanale. Solo nella settimana di Natale il “Pian di strì rimane deserto ed ognuno può passarvi anche in piena notte senza timore di cattivi quanto ultraterreni incontri.
Il nome di Frassinoro, una località vicino a Modena, deriverebbe secondo un’antica leggenda da un prodigioso fatto accaduto durante una processione natalizia e che viene ancor oggi celebrato nella ricorrenza. Un simulacro della Vergine, appeso al ramo di un grande frassino, avrebbe preso a brillare intensamente facendo diventare tutta d’oro la chioma dell’albero, fra la commossa esultanza dei fedeli.
A Genova, come è d’uso da secoli, a Natale si accende un ciocco di legno in mezzo alle piazze e tutti vanno a prendere un tizzone di brace per il proprio camino. Chi non ha il camino lo mette ad ardere negli scaldini di ferro.
A Graines (Aosta) in ricordo di una vecchia usanza per cui i contadini del luogo erano costretti, all’inizio dell’inverno, a coprire di terriccio i risplendenti ghiacciai della Becca di Torchè, affinchè il loro riverbero non bruciasse la delicata carnagione delle signore del castello, la vigilia di Natale, durante una fastosa luminaria, i giovani vanno a buttare ai margini del ghiacciaio sacchetti di terra e fiori di carta in segno augurale e in atto di omaggio verso le ragazze del paese.
A Pieve di Cadore la sera del 24 dicembre, prima che giungano gli ospiti per il cenone di mezzanotte, si pone in ogni casa una scopa attraverso la soglia della cucina. Secondo la leggenda, se una delle ospiti fosse una strega travestita, alla vista della scopa, sua tradizionale cavalcatura, non saprebbe resistere al desiderio di inforcarla, facendosi così riconoscere. A Treviso per la vigilia di Natale è tradizione accendere al tramonto grandi falò, intonando una filastrocca propiziatrice per un raccolto abbondante: “Pan e vin, la laganega soto el camin, la farina soto la panera…” e così via. Poi, spento il fuoco propiziatorio, si fruga nella cenere con lunghi bastoni e dalla direzione che prendono le faville si traggono auspici per la prossima annata: se esse prendono il vento verso il Friuli conviene rassegnarsi ad un raccolto misero, mentre se vanno verso occidente tutto andrà nel migliore dei modi. La beata Stefania Quinzani, oggi venerata in tutto il cremonese, durante la sua gioventù era giunta a Zappello, da Brescia, col proposito di fare la domestica in un pio istituto. La notte di Natale, per far sì che i bambini affidatile attendessero tranquillamente i dodici rintocchi per assistere alla santa messa, miracolosamente ottenne che un grande melo dell’orto del convento fruttificasse d’improvviso, in modo da permettere ai piccini di cogliere e mangiare quei saporitissimi pomi.
In provincia di Piacenza si usa preparare il pranzo due giorni prima. Alla vigilia si fa il pranzo serale: è composto di un bel piatto di tortelli alla piacentina, cioè col ripieno a base di spinaci, ricotta, formaggio e uova.
A Benevento nella notte natalizia si usa sempre, in tutto il territorio di questa provincia, porre una scopa fuori della porta d’ingresso nella credenza che le eventuali streghe, prima di entrare, debbano strappare i fili di saggina, ad uno ad uno, finchè l’alba, sorprendendole ancora affaccendate in questo lavoro, le costringe a fuggire. Ed effettivamente, per quanto ciò possa destare incredulità, le scope lasciate sulla soglia la sera, al mattino vengono sempre ritrovate rotte o sciupate.
Nelle Marche in occasione del Natale, i fidanzati si scambiano fazzoletti di lino ripieni di castagne, di noci e di mandorle.
A Nereto (Teramo) alle due di notte dell’antivigilia di Natale a campana maggiore della parrocchia viene puntualmente messa in moto ed i suoi rintocchi risuonano a lungo, in ricordo del prodigioso intervento della Madonna che, anticamente, mise in fuga una colonna di Francesi incamminata verso il paese con il proposito di metterlo a ferro e fuoco.
In Puglia anche sei il progresso ha sostituito ai vecchi camini più moderni sistemi di riscaldamento, la tradizione del ceppo natalizio sopravvive tuttora tenace nelle campagne e nelle borgate. In Puglia il ceppo viene circondato da dodici pezzi di legno diversi, che rappresentano i dodici apostoli; attorno alla tavola siede la famiglia che ospita tanti poveri quanti sono i suoi defunti. Analoga è l’usanza che vige in Calabria, dove però si usa adornare il ceppo con tralci di edera.
A Bari a mezzanotte si vedono tutte le strade illuminate di stelle filanti e di fuochi d’artificio sotto forma di topi che vanno dietro alle persone. Poi, il topo va in aria e scoppia, illuminandosi. Con queste luminarie si sta alzati fino alla mattina del Natale. I dolciumi che si fanno a Natale sono cartellate, torrone, castanielle, panzerotti, taralli con il pepe e con lo zucchero.
Nel Santuario de La Verna (Arezzo) per tradizione i frati devono recarsi in processione due volte nel pomeriggio e di notte lungo il corridoio delle Stimmate. Si racconta che una vigilia di Natale, non potendo i frati raggiungere, per la troppa neve caduta, il porticato che si snoda sino alla cappella dove San Francesco ricevette i sacri segni, il mattino seguente si scorsero sulla bianca coltre le impronte degli animali della foresta che avevano compiuto, invece dei monaci, il mistico percorso.
In molti paesi della Sardegna a Natale si usa confezionare dolci speciali a forma di nuraghi, che si chiamano passalinas e che vengono offerti a chiunque bussi alla porta perchè la leggenda vuole che Gesù e San Pietro scendano sulla terra vestiti da mendichi e bussino alla porta di tutti per provare il cuore degli uomini.
In Toscana la festa del ceppo è una tradizione natalizia che consacra il dovere dell’ospitalità: il 24 dicembre, al tramonto, il capofamiglia pone sugli alari una grossa radice di ulivo o di quercia e vi dà fuoco; fintanto che il ciocco continua ad ardere la porta di casa resta aperta e chiunque entri ha diritto ad un piatto di arrosto e, se vuole, anche ad un letto per la notte. In altre regioni il compito di accendere il gaio fuoco natalizio non spetta al capofamiglia ma alla persona più anziana, la quale chiama poi attorno a sè i giovani, invitandoli a percuotere con un bastone il ciocco per farne sprizzare le scintille allo scopo di trarne auspicio. Altrove sono i fidanzati a ricavare l’oroscopo dal ceppo acceso nella santa notte, sulla cui brace vengono gettate alcune noci a seconda che esse scoppino o brucino lentamente.
In Calabria finita la messa di mezzanotte le persone baciano Gesù bambino ed escono dalla chiesa. I pastori con le loro zampogne suonano per le strade principali ed annunciano la nascita del redentore. Nelle vie sparano i mortaretti. In altri paesi dell’Italia meridionale c’è l’abitudine di tenere, la notte di Natale, la porta aperta e la tavola imbandita fino al ritorno dalla chiesa dopo aver ascoltato la messa di mezzanotte. Una vecchia leggenda dice che la Madonna e il Bambinello hanno modo di scaldarsi e di nutrirsi e benedire così la casa. In certi paesi gruppi di ragazzi si riuniscono nel pomeriggio di Natale e poi passano di casa in casa a cantare una canzone natalizia, ricevendo così vari doni.
In Sicilia sul piazzale della chiesa, sempre nella notte della vigilia, brucia un fuoco di legna che vuole significare che il popolo intende riscaldare il santo bambino. Un’altra usanza, che fa sembrare sempre più bella la giornata del Natale, è di scegliere un bambino povero e di vestirlo come Gesù, e poi deporlo presso l’altare. Ogni abitante del luogo porta a quel piccino un piccolo dono. Terminata la messa, il bimbo trionfante ritorna alla propria casa. Ciò che mangiano alcuni Siciliani alla vigilia è pesce e olive, il loto cibo preferito, e nello stesso giorno preparano dei buonissimi dolci.
In Campania alla vigilia di Natale si spara il mortaretto e, giusto alla mezzanotte della vigilia, si lancia nel cielo una stella tutta illuminata a ricordo della nascita del redentore. Concludiamo questa nostra rapida carrellata ricordando un’altra simbolica consuetudine profondamente radicata in tutte le regioni italiane: quella del pungitopo, la pianta sempreverde che in occasione delle festività natalizie e di Capodanno fa la sua comparsa in migliaia e migliaia di case. Essa ha origine da una delicata e commovente leggenda che risale all’alto Medioevo e che può essere così riassunta: molti secoli fa, nella notte del 24 dicembre, un arbusto disadorno, dalle foglie dure e aguzze come aculei, se ne stava tutto solo in mezzo alla radura di un bosco, schivato da ogni essere vivente, quando si accorse che un grosso lupo si teneva nascosto dietro a un cespuglio, pronto ad assalire due leprotti; la pianticella allora cercò di attirare l’attenzione di un topolino di passaggio, si chinò e lo punse leggermente e gli sussurrò di far sì che le piccole lepri minacciate di morte corressero a mettersi sotto la sua protezione. Così infatti avvenne: l’arbusto diede asilo alle tre bestiole disponendo i rami in modo da formare una specie di gabbia con gli aculei rivolti verso l’esterno; il lupo tentò invano, per tutta la notte, di ghermire la sua preda, finchè fu costretto a rinunciare e dovette allontanarsi ferito e scornato. Al mattino, molte delle foglie aguzze erano spezzate o divelte, e in loro vece delle bellissime bacche rosse, nate all’improvviso, adornavano la pianta, che da allora in poi si sarebbe chiamata “pungitopo”. Così, tra streghe e folletti messi in fuga, tradizioni serene ed altre un po’ meno, continua ancora oggi e si perpetua in Italia, come in ogni altro Paese del mondo, il lunghissimo racconto di Natale, questa favolosa storia punteggiata di comete e di prodigi, ovattata dal candore della neve: la storia di una Notte in cui l’impossibile diventa realtà e la realtà, quanche volta, sfiora l’incredibile: la notte santa, che vide la nascita del redentore di tutte le genti che vivono su questa terra.
Natale nel mondo Dettati ortografici sul Natale e l’Avvento
Tra i Lapponi, insieme con i pastori di renne che vivono vagabondi lungo le giogaie di questa sterminata landa, sono disceso per la notte di Natale a Karasjok, villaggio formato da una trentina di capanne sparse attorno alla chiesetta. Per la celebrazione natalizia più di seicento Lapponi sogliono adunarsi a questa volta. Alcuni sono giunti a cavallo dalle regioni della Finlandia, dai clivi settentrionali della Svezia, dai mardi del Fiord di Tana che sfocia sulle coste del Mare di Barents. Altri su slitte trainate da renne hanno risalito le anse tortuose dei fiumi trasformati in lastre di cristallo. Altri ancora, i poverissimi, i derelitti, sono venuti a piedi, armati di canna e di bisaccia, dalle impervie montagne del Capo Nord aprendosi a forza il varco tra gli arbusti congelati della tundra, come la gente di dio al tempo dei miracoli. Su tutti i pellegrini si stende la notte: questa ininterrotta, spietata notte polare, che solo nell’intervallo di due ora meridiane sembra elevare all’orizzonte una promessa ingannevole e fugacissima. La piccola chiesa di Karasjok, unico tempio cristiano in tutta questa regione, è eretta al centro di un piazzale sopraelevato a cui fanno barriera due rozze cancellate. E’ una costruzione di legno verniciato di bianco, sormontata da un tetto a punta aguzza, da un campanile corto e sottile come l’orecchio di un coniglio. A un richiamo della campana il sagrato si affolla; sta per cominciare la messa. (V. B. Brocchieri)
Tra gli Eschimesi passare il Natale in una capanna di ghiaccio, su un paesaggio di neve, è un’emozione che solo il Polo può donare. Per giunta il 25 dicembre è il punto culminante della notte polare, e le stelle brillano fin quasi a mezzogiorno. Nonostante il freddo e il buio, i cristiani vogliono passare bene le feste. Alcuni giorni prima, si riuniscono a consiglio, caricano le slitte con montagne di roba: pelli, letti, carne gelata di caribù, orso, foca e salmone; gli uomini a piedi, le donne col più piccino le cappuccio dietro il dorso, e gli altri bambini sopra la slitta, e si parte in carovana verso la chiesa. Vi arrivano da lontano, talvolta da trecento chilometri, dopo tre, otto, dieci giorni di corsa sul ghiaccio. Il Natale, insieme alla Pasqua, è forse l’unica solennità in cui si può contare l’entità numerica di un distretto cattolico del nord: trenta slitte con più di centocinquanta Eschimesi e trecento cani. E poichè è una festa comune, oltre che l’igloo di famiglia, se ne costruisce un altro molto grande dove i pellegrini si raccolgono per passare il tempo in allegria. E’ la migliore occasione per il cantastorie di farsi onore.
Nelle distese bianche della Norvegia, il Natale reca naturalmente la gioia a tutti; ma è nata qui una gentile e specifica tradizione secondo cui devono gioire non soltanto gli uomini, ma anche le bestie. E quindi, già nei giorni della vigilia, i bimbetti norvegesi, imbacuccati nelle pellicce, corrono nei campi coperti di neve e vi spargono a piene mani il grano. Così gli uccelli, almeno a Natale, troveranno di che sfamarsi anche sul bianco e nemico lenzuolo gelido che ricopre per tanto tempo la terra norvegese. Questo atto gentile vuol essere una specie di simbolico atto di gratitudine al bue e all’asino che riscaldarono Gesù. In Inghilterra le feste natalizie, pur tra freddo, pioggia e bruma, durano più di una settimana ed hanno un carattere del tutto familiare. La sera della vigilia i bambini, con un palo a cui è sovrapposta una lanterna con due corna di bue, girano per le strade nebbiose, e di tratto in tratto gridano: “Buon Natale!”. Le sere del 24 e del 25 dicembre quel grande alveare umano che è Londra assume quasi l’aspetto di una città abbandonata , perchè tutti rimangono in casa, nella dolce intimità familiare.
In Svezia la notte di Natale in ogni casa uno dei figli entra, seguito da quattro bambini vestiti di bianco con fasce rosse attorno alla vita e porta appeso ad un bastone una lanterna di carta come una grande stella. La gioia esplode da tutti i cuori a quella vista e i genitori porgono ai bambini dolci e doni.
In Norvegia, sempre nella notte natalizia, i pastori e i contadini riuniti a frotte, si recano nelle vecchie foreste e abbattuto un albero, gli danno fuoco tra la più grande allegria generale.
Nella vecchia Russia si usava invece innalzare un mucchio di grano sulla tavola con un grande dolce in mezzo. Il padre si sedeva ad un capo della tavola e chiedeva ai figlioli che erano dal lato opposto, se lo vedevano. I figli rispondevano che non lo vedevano. L’ingenua risposta era un segno d’augurio che nell’annata il grano sarebbe cresciuto così alto nei campi, da nascondere una persona.
Dettati ortografici sul Natale e l’Avvento Il primo presepe
San Francesco, nel 1223, era tornato da poco dalla Palestina. Qui era riuscito a visitare i luoghi santi grazie a un salvacondotto concessogli miracolosamente dal sultano, ed ancora aveva nel cuore le commoventi visioni di quella terra.
Pensava certamente a Betlemme quando, essendo ormai vicino il Natale, chiamò l’amico Giovanni Vellita e gli disse: “Vorrei celebrare la messa di Natale nel bosco di Greccio, di fronte a una grotta che è sulla collinetta che tu hai donato ai frati. E vorrei che in quella grotta ci fossero una mangiatoia, un bue e un asinello come quando nacque Gesù. Puoi, amico mio, procurarmi tutto questo?” Giovanni Vellita, che era un generoso proprietario terriero benefattore dell’Ordine dei Frati Minori fondato da San Francesco, si adoperò per far trovare al santo quanto desiderava.
La notte di Natale, con grande devozione, i contadini, i pastori e gli artigiani del luogo, gente di ogni età e condizione, si avviarono alla grotta in pellegrinaggio. Un sacerdote celebrò la messa di mezzanotte sopra una mangiatoia. San Francesco, non essendo sacerdote ma soltanto diacono, cantò il vangelo della nascita e lo spiegò al popolo, accorso nel bosco con le fiaccole accese. Giovanni Vellita ebbe il premio della sua bontà e tutti quello della loro fede: nella mangiatoia, fra il bue e l’asinello, apparve il Bambin Gesù, luminoso e sorridente. Questa fu l’origine del presepe: riprodurre la scena della natività, prima con quadri viventi, con sacre rappresentazioni, con personaggi reali, e poi con statuine e plastici.
Presepi artistici La più antica raffigurazione del presepe di cui si abbia documentazione sicura è quella che si conserva a Roma nella Basilica di Santa Maria Maggiore; si tratta di una grandissima opera d’arte, scolpita verso la fine del 1200 da Arnolfo di Cambio. Fin dal V secolo, però, la basilica possedeva una rozza scultura in legno della natività, e dal VII secolo custodisce quella che, secondo la tradizione, è la culla di Gesù bambino, costruita da san Giuseppe durante la fuga in Egitto per adagiarvi il bimbo, e formata da cinque assicelle di legno scuro.
Per venire alle vere e proprie statuine e alle raffigurazioni del presepe in Europa, ecco alcune notizie delle origini e dei primi secoli di questa arte minore.
Pare sia stata la regina Sancia, moglie di Roberto d’Angiò re francese di Napoli, che fece allestire il primo presepe artistico a statuette. Da allora i presepi napoletani hanno avuto una grande tradizione. Celebre fu quello di S. Domenico Maggiore, nel 1400: le pietre della grotta furono portate da Betlemme fra difficoltà enormi, come è facile immaginare.
Nel 1375 le suore domenicane di Lucca donarono a santa Caterina da Siena che le visitava una statuina di Gesù bambino in stucco dipinto. Queste statuine venivano fatte nei conventi della città. Due secoli dopo suor Costanza Micheli si adoperò per spedire le statuine in tutte le capitali europee, al prezzo di 50 scudi. La Repubblica Lucchese le inviava come omaggio tipico della città agli altri Governi.
Ai primi del 1700 si ha notizia di figurinai (cioè fabbricanti di statuine) lucchesi in Germania. Alla fine del settecento i figurinai, esperti nella lavorazione del gesso, erano organizzati in compagnie sui mercati di Spagna, Francia e Inghilterra.
Diversa la tecnica dei Napoletani, più elaborata ed artistica. A san Giovanni a Carbonara si può ammirare il primo presepe dell’Italia meridionale, in legno intagliato: realizzato nel 1484, segna l’inizio di un modo particolare di realizzare la scena natalizia che si diffuse anch’esso in tutta Europa: profondità di spazio, moltiplicarsi di figure secondarie, e l’adottare lo stile e i costumi del popolo e del luogo in cui l’opera viene realizzata, quasi a dire che il presepe ha un significato eterno e può essere raffigurato in costumi popolari napoletani invece che in quelli storici. Il più bel presepio del mondo di questo tipo si trova nella Reggia di Caserta, nella Sala degli Specchi.
Gli altri popoli adattarono dunque, sull’esempio napoletano, la raffigurazione del presepe all’ambiente e ai costumi nazionali.
In Spagna i presepi artistici del passato ed anche le presenti realizzazioni mostrano, sull’esempio di un celebre modello di Granada, un patio dell’architettura andalusa, con archi moreschi, e persino gon gitani che ballano le tipiche danze iberiche. Inutilmente cerchereste un asinello nella grotta: vi troverete invece accanto al bue la mula, il paziente animale cui il popolo spagnolo tanto ha dovuto sui campi e per i sentieri, per secoli.
In Olanda i personaggi trovano collocazione non in una grotta, ma in una graziosa casetta (è noto l’amore che gli Olandesi hanno per la casa!) e, sullo sfondo, un mulino a vento. Non pastori, ma mugnai infarinati e contadini, pescatori, marinai.
I Finlandesi, e specialmente i Lapponi e altri popoli nordici, costruiscono il presepe in un igloo o in una capanna lappone, con pastori di renne e non di pecore, e cacciatori in abiti di pelliccia e di lane multicolore. Risulta evidente così si comporta come se la natività fosse avvenuta sul suo territorio.
In Inghilterra il presepe non era molto conosciuto; i cattolici sono solo una piccola percentuale della popolazione, e l’usanza prevalente era quella dell’albero. Oggi l’uso del presepe si diffonde ovunque, anche presso gli Anglicani, ed è diventata una tradizione dei grandi magazzini che allestiscono una vetrina apposta.
I materiali usati sono i più rari: legno o maiolica nelle opere di maggior impegno, legno nel Tirolo, gesso dalla Lucchesia in tutta Europa, argilla per terrecotte a Roma( famosissimi i figurinai romani!), in Umbria e nelle Marche (celebri i figurinai di Ascoli), di cartapesta con teste di creta (a Napoli), di corallo, rame dorato, cera, avorio, madreperla, alabastro, sughero, conchiglie marine, tela incollata in Sicilia e Sardegna, tanto per restare in Italia.
In Provenza c’è un fiorente artigianato di statuine (“santos”) in argilla, o anche ceramica. Vengono esposte e vendute in una fiera annuale nella principale via di Marsiglia.
Presepi viventi Da quel primo di Greccio, molti altri presepi viventi sono derivati. In Inghilterra, a Leeds, per tutte le sere del periodo natalizio un corteo sfila per le vie della città: c’è la sacra famiglia, ci sono i re magi e i pastori; il gruppo si ferma sempre sulla scala del Municipio, dove viene accolto a turno dalla popolazione e dai rappresentanti di varie organizzazioni che cantano melodie natalizie.
In Francia, nella Provenza, la messa di mezzanotte è l’occasione per una sorta di sacra rappresentazione detta del “Pastrage”. Dietro l’altare, una voce che rappresenta un angelo annuncia la natività; allora entra in chiesa, al suono di pifferi e tamburi, un corteo di pastori e pastorelle nei costumi della regione; li segue un carretto trainato da un montone ben infiocchettato, che trasporta un belante agnellino. Il pastore più anziano prende l’agnello e lo offre inginocchiato al bambino Gesù.
In Svizzera, a Rappenswill (Cantone di San Gallo), il presepe vivente inizia con un solenne e pittoresco corteo che si dirige verso la piazza principale, gremita di folla. Lo precedono bambini e bambine vestiti di tuniche bianche fluttuanti, seguono i personaggi della sacra famiglia, poi i re magi e i pastori con le loro greggi.
L’albero di Natale Accanto all’italianissima tradizione del presepe, si è diffusa sempre più anche da noi la consuetudine dell’albero di Natale. Come è nata questa tradizione? Molti sono propensi a credere che l’albero di Natale sia un residuo del culto pagano adottato dai cristiani e da essi rivolto alla propria fede.
I Romani usavano portare in giro, durante i Saturnali, un giovane abete quale segno della fine dell’inverno e dell’avvento della primavera, e migliaia di alberi sempreverdi in tutta la città erano adornati con lumi e festoni colorati, per indicare il fervore della vita che caratterizza l’inizio della primavera. Questa pratica fu estesa alla Germania e ad altri Paesi dell’Europa centrale, quando i Romani occuparono questi luoghi verso il 15 aC.
Un tardo mito germanico narra di San Vilfredo, come di colui che per primo vide nell’albero di Natale un simbolo della nascita di Gesù. Il santo aveva tagliato una grossa quercia, che era stata oggetto di venerazione da parte dei Druidi; appena la quercia fu abbattuta, si scatenò un furioso temporale che distrusse completamente l’albero, mentre un giovane abete che stava lì vicino rimase intatto. San Vilfredo ne trasse argomento per una predica, nella quale chiamò l’abete albero della pace, poichè dal suo legno si fanno le abitazioni degli uomini, e emblema della vita infinita perchè le sue foglie sono sempre verdi, e terminò con l’esortazione di chiamare l’abete anche albero del bambin Gesù.
La Germania è il Paese che più entra nella storia dell’albero di Natale. Leggiamo che Martin Lutero fu tanto impressionato, una sera di Natale, dal miracolo del cielo trapunto di stelle, che preparò per i suoi figli un albero illuminato da candele, quasi a rappresentare con esso il cielo stellato, da dove scendeva Gesù. Più tardi l’albero di Natale fece la sua comparsa in Inghilterra. Nel 1840 la regina Vittoria collocò un albero di Natale tra i suoi ornamenti natalizi, e sembra che questo fatto abbia dato il segnale dell’adozione generale dell’usanza. In alcuni Paesi il significato religioso dell’albero è così sentito che non è permesso appendere ai suoi rami altro che candele e ornamenti, mentre i doni vengono collocati davanti o intorno alla pianta. Che l’albero di Natale sia o non sia un residuo del culto pagano, è certo che esso è diventato col cristianesimo un emblema della natività e un elemento essenziale di tutte le feste che riguardano l’infanzia.
Il primo Babbo Natale Babbo Natale, personaggio di fiaba che si inserisce nella realtà della tradizione natalizia dei nostri giorni, è una figura molto cara all’infanzia. Il buon vecchio incappucciato, con la lunga barba bianca, il rosso vestito, il bastone in mano e la gerla in spalla, è il mago benefico che tuttora si può incontrare anche nel frastuono delle affollate vie cittadine, animate per la ricorrenza natalizia.
Eppure questo personaggio un po’ burlesco e di fiaba ha la sua vera storia che risale, nientemeno, a San Nicola di Bari, vescovo di Mira (Venezia), santo dei giovani, dei bambini, degli studenti e che quasi tutti i paesi del mondo elessero a loro patrono, tanto la fama del santo era diffusa.
Il santo fu infatti assunto a patrono dei giuristi, avvocati e studenti in Francia; dei mercanti in Germania; dei marinai in Grecia; dei viaggiatori e dei bambini in Belgio; dei bottegai in Inghilterra; degli scolari in Olanda. Ovunque egli fu sempre raffigurato con la mitria in testa, il rosso pallio sulle spalle, il pastorale in mano e la lunga barba bianca.
Narra la storia che a Parigi, verso la fine del XII secolo, era invalsa l’usanza presso un collegio di quella città, che nella ricorrenza della festa del santo, il 6 dicembre, uno studente travestito da San Nicola distribuisse doni ai bimbi bisognosi.
Questa simpatica usanza si diffuse presto anche in Germania ed in Olanda, paesi prevalentemente protestanti, e qui il San Nicola perse i caratteri sacerdotali e divenne il buon vecchio che porta i doni ai bambini; il pastorale fu sostituito da un comune bastone, la mitria vescovile da un rosso cappuccio orlato di bianca pelliccia, ed il pallio da una tunica, pure rossa.
Ecco come nacque il personaggio del Babbo Natale che, qualche secolo più tardi, attraversò anche l’oceano ad opera degli emigranti olandesi; così il Sint Klaes olandese si tramutò nel Santa Claus degli americani, che è poi ritornato a noi come Babbo Natale, ma in definitiva altri non è se non il San Nicola laicizzato.
Natale si avvicina. La nebbia sale dalla valle e si confonde col fumo lento delle case. E’ una lentezza pacata che si distende sulle fatiche ultimate degli uomini; è una carezza, un premio. Cominciano le veglie nelle case, che sono tutte una lunga veglia di Natale. La natura è spenta e la terra svapora. I suoni sono spogliati e si perdono in un’aria vuota, dove sembrano morire. S’odono voci di bimbi, versi di tacchini, campane che si sciolgono l’una dietro l’altra, come lo snodarsi di una catena sonora. (B. Sanminiatelli)
Presto sarà Natale: la più dolce, la più attesa festa dell’anno. Si comincia ad attenderla sin dal primo venire del freddo, sin dal primo giorno di cielo buio. E i giorni passano. Le ultime foglie secche fuggono crepitando davanti al vento gonfio di neve. Il sole e l’azzurro non sono più che un lontano ricordo. Sembra che la primavera non debba venire più, che gli alberi non avranno più fiori, che il cielo non avrà più luce. Allora tutte le speranze si rifugiano nel Natale, questo giorno tiepido e risplendente, questo spuntar miracoloso di frutti d’oro e d’argento e di candeline accese sui rami degli alberi, questo palpitante accendersi di stelle, nel purissimo azzurro del cielo del presepe. Ai primi di dicembre il Natale si annuncia con la vista e l’odore dei mandarini, quei mandarini ravvolti nella carta velina colorata che, a bruciarla, vola sin quasi al soffitto e, se giunge a toccarlo, è di buonissimo augurio. Poi i dolci nelle vetrine, le botteghe adorne di foglie di alloro, di stagnola, di striscioline di carta, le mostre di giocattoli in tutte le strade; ed ogni giorno che passa è un passo in più verso la sempre più grande, sempre più risplendente luce del Natale. (G. Mosca)
Dettati ortografici sul Natale e l’Avvento
Il Natale arriva ogni anno, eppure ogni volta ci sembra un Natale nuovo e la festa ci riempie il cuore di rinnovata dolcezza. Possiamo dire veramente che il Natale è la festa di un bambino e di tutti i bambini, che più degli adulti sentono la gioia della nascita di un bambino simile a loro.
Fuori fa freddo. Le cose posano tacite, immobili, nella notte invernale. Lenta ed uguale cade la neve. Dan! Dan! Dan! All’improvviso il suono largo e festoso della campane rompe il grande silenzio della notte tranquilla. Questa è la notte santa. Din, don, dan! Venite. E’ nato. (A. Colombo)
Fra nebbie grigie e candori di neve, trascorrono i giorni più brevi dell’anno. E’ tornato dicembre a portarci le feste serene, a ricondurre a casa coloro che erano lontani, a riunire le famiglie attorno al presepe. Grande o piccino, ogni casa conosce la gioia del presepe, preparato nei giorni dell’attesa. A poco a poco s’innalzano e si allungano sullo sfondo verdi colline incoronate di palmeti e di castelli. Ruscelli d’argento scendono giù, dai brevi pendii, ad abbeverare i bianchi greggi in cammino verso la capanna. I pastori riposano all’ombra delle palme: seduti, sdraiati, alcuni davanti al fuoco acceso. Bianche stradine di ghiaia conducono donne e uomini, bimbi e piccoli branchi di animali domestici ad incontrare Gesù. Lento e silenzioso è il loro andare. Non c’è fretta: non è ancora il giorno della vigilia! Ma la mangiatoia della capanna è già colma di bionda paglia. L’asino e il bue aspettano pazienti. Maria e Giuseppe stanno per giungere. Quando suoneranno le campane di mezzanotte, il bimbo più piccolo di casa poserà il piccolo Gesù nella fredda stalla, e al chiarore delle candeline, la cometa brillerà di grande splendore. (R. Lageder)
La notte era senza luna, ma tutta la campagna risplendeva di una luce bianca ed uguale come nel plenilunio, poichè il bambino era nato: dalla capanna lontana i raggi si diffondevano nella solitudine. Il bambino Gesù rideva teneramente, tendendo le braccia aperte verso l’alto; e l’asino e il bue lo riscaldavano col loro fiato, che fumava nell’aria gelida come un aroma sulla fiamma. Maria e Giuseppe di tratto in tratto di scuotevano dalla contemplazione estatica e si chinavano per baciare il figliolo. Vennero i pastori, dal piano e dal monte, portando i doni, e vennero anche i re magi. Erano tre. (G. D’Annunzio)
Il Natale si celebra il 25 dicembre in tutto il mondo, ma specialmente nei paesi cattolici questa è una festa della massima importanza. In questo giorno le famiglie si riuniscono, e anche chi si è dovuto allontanare da casa per ragioni di lavoro, fa tutto il possibile per tornare a trascorrere la festa natalizia con la propria famiglia. (F. Monelli)
Nel presepe dalle valli sbucano fiumi; le montagne sono ripide e selvagge. Sembra un paese vero. C’è quello che porta la ricottina. C’è il cacciatore col fucile, c’è quello che porta l’agnello e fuma una lunga pipa; c’è il mendicante. C’è la gente che balla fra il tamburino, il piffero e la zampogna davanti al presepe. C’è l’osteria dove si mangia il maiale e la gente beve, accanto alla fontana dove la donnina lava i panni. I re magi spuntano dall’alto della montagna con i servitori che guidano i cammelli. La stella splende sulla grotta e gli angeli vi danzano sopra leggeri e celesti come i pensieri dei bambini e degli uomini, in questi giorni. (C. Alvaro)
S’avvicina il momento della nascita di Gesù bambino. La notte è tranquilla. La luna è nascosta. All’improvviso le campane si svegliano e, da collina a collina, si rispondono in mezzo alla nebbia. Da vicino e da lontano, su prati e su boscaglie, si innalzano e si abbassano e sembrano ripetere sonore e chiare: “Pace”.
San Francesco d’Assisi trovandosi, nella notte di Natale, in un paesello di montagna, si recò in una grotta e, per raffigurarsi meglio la scena della natività, vi depose una mangiatoia e, ai lati di questa, mise un asino e un bue. Mentre era immerso in profondi pensieri, vide apparire sulla paglia Gesù bambino che lo benediceva sorridendo. Questo fu il primo presepe.
A Natale, la tavola è imbandita festosamente e sopra vi compaiono saporite pietanze e dolci squisiti. Ma il pranzo più prelibato è quello che si celebra in pace e allegria e soprattutto quello che lascia il posto agli ospiti che possono bussare alla porta.
Natale è la festa più bella di tutte, perchè con la nascita di Gesù, l’innocenza tornò nel mondo. Da allora, questa è la festa della speranza e della pace. Tutto sembra fatto per la gioia dei ragazzi che sono la speranza del mondo. Nei paesi s’è lavorato tutta la settimana per fare il presepe. Nel fondo si tendono rami di aranci carichi di frutta. Si lanciano ponti coperti di muschio da un punto all’altro, si costruiscono montagne ripide e selvagge, steccati per le mandrie, e laghetti. (C. Alvaro)
Che cosa c’è, nell’anno, di più soave, bello, gioioso? Nel Natale è la festa luminosa della natura, della vita, dell’incanto e della grazia. Il Natale è la gioia delle nostre case, anche dove esistono preoccupazioni e tristezze. (Breviario di Papa Giovanni)
I pastori vegliavano nella notte quando furono sorpresi dalla luce e dalle parole di un angelo. E appena videro, nella poca luce della stalla, una donna giovane e bella, che contemplava in silenzio il figliolo, e videro il bambino con gli occhi aperti allora, quel corpicino roseo e delicato, quella bocca che non aveva ancor mangiato, il loro cuore s’intenerì. Offrirono quel poco che avevano, quel poco che è tanto se è dato con amore: il latte, il formaggio, la lana, l’agnello. (G. Papini)
Una felice tradizione racconta che San Francesco d’Assisi, tre anni prima di morire, fece apparecchiare il primo presepe a Greccio, nella selva, fra la mangiatoia e il fieno, con l’asinello e il bue. Era limpidissima la notte di Natale: la selva splendeva di lumi e risonava di canti. Da ogni parte il santo aveva chiamato i suo i fratelli e la gente devota. Fu celebrata anche la messa, e san Francesco, come inebriato di allegria, cantò il Vangelo. (F. Flora)
Il presepe sorge di sughero e di muschio a creare una regione di piccole valli, ove qua l’argento crea un fiumicello e là uno specchio, cinto di terra, forma il lago, e variamente le casette e i pastori e gli animali formano gruppo, e una fontana con un piccolo vero zampillo fluisce: e nella grotta Maria e Giuseppe, l’asino e il bue, aspettano Gesù bambino. All’ora della nascita, tra i lumi delle candele, spente le altre luci in ogni stanza, lo porta nella bambagia il più piccolo della casa. Ed è la festa più cara, dove gli adulti e i vecchi ritrovano per poco l’infanzia e odono il canto degli angeli che dice gloria e pace sulla terra agli uomini di buona volontà. (F. Flora)
E il gallo cantò: “Cuccurucù, è nato Gesù!”. “Do?”, chiedevano i buoi dalle stalle. “Betlem, betlem!” belavano le pecore. Passava il vento: “Ave, ave, ave!”. Come fuori al transitar della notte, la luce si faceva strada da oriente, si profilava l’oro dell’aurora in cammino. I pastori, trasognati, si levarono abbagliati dalla gran luce. E il cielo era pieno di incanti. “Che c’è, che c’è, che c’è?”, diceva una cincia. “Dio, dio, dio!” garrivano tutti gli uccelli. E l’intero firmamento di astri cedeva il posto a uno solo. (F. Tombari)
Anticamente con la parola “avvento” si indicava soltanto il giorno della nascita di Gesù. Ora invece si intende indicare anche un periodo precedente il Natale e che esattamente comprende le quattro domeniche prima della festa. In principio, durante l’avvento, si osservava il digiuno, ma col tempo questa regola severa fu abbandonata ed attualmente viene rispettata solo dagli ordini religiosi. L’avvento è un periodo di meditazione e di attesa. Il ciclo dell’anno liturgico inizia proprio con l’avvento.
Il Natale si celebra in tutto il mondo cattolico il 25 dicembre e ricorda la nascita di Gesù a Betlemme. Questo avvenimento segna una data fondamentale anche nella Storia che, da questo momento, si divide in due grandi periodi: quello che comprende gli anni prima della nascita di Cristo, e quello degli anni trascorsi dopo. Tutti gli avvenimenti della Storia perciò vengono considerati come avvenuti “avanti Cristo” e “dopo Cristo”.
Nell’aria di Natale si entrava decisamente solo con l’arrivo degli zampognari. Giungevano all’improvviso, si fermavano alle porte del paese, e cominciavano subito a suonare. Erano di solito due. Non guardavano in faccia nessuno mentre suonavano, i loro occhi pareva non vedessero, come quelli delle statue. E il loro viso era immobile, fisso, non diceva nulla. Il più giovane, finita la suonata, faceva il giro della cerca, ignorando il folto cerchio dei ragazzi. Raccolto qualche soldo, la zampogna ripigliava come prima. Gli zampognari entravano anche nelle case dove c’era il presepe, e in quelle suonavano anche la “pastorella” come si sarebbe cantata in chiesa la notte di Natale. Poi ripartivano, nevicasse o piovesse. Passati gli zampognari, il Natale pareva più vicino. L’aria della festa restava nel paese come un’attesa fiduciosa, una buona notizia, un’allegria comune. (G. Titta Rosa)
Ad un tratto cominciai a udire un suono di campane, lontano, lontano, d’una dolcezza infinita. Erano cinque campane che sonavano a concerto: prima la più piccina, poi la grandicella, poi ancora la piccina, e così via: la mezzana, la grande… intrecciandosi strettamente via via, fino alla maggiore che chiudeva la cantata con il suo vocione, e dicevano: – Sai bene, sai bene che domani è Natale.- (F. Chiesa)
E’ festa grande il giorno di Natale! Ogni bambino nel lettino sogna una cesta di dolci e di balocchi, e appena sveglio, con i piedi scalzi, corre a guardare l’albero, felice.
L’albero è pieno di luci e di fuochi che fan sembrare d’oro e di cristallo ogni ninnolo appeso. Ed anche l’albero, anche l’abete è felice. Egli pensa: “Quand’ero nel bosco, sognavo d’avere la vela un giorno, e condurre col vento una nave lontana! E tutto allora io mi beavo di questo mio sogno e ne fremevo impaziente d’attesa.
Ora che più non odo l’usignolo, che nel mio verde teneva dimora, pur sono felice perchè qui ricolmo di luci e di doni, mi beo delle voci di tanti bimbi, che sì, non conosco, ma sono buoni, e trillano sereni come i miei passerotti. Questa casa se non è quieta come il verde bosco dove sono nato, tuttavia rispetta il giorno santo che Gesù nasceva. E qui mi sento come in Paradiso.” (G. Serafini)
A mezzanotte, ben coperti, chiudevano la porta e s’avventuravano nell’ombra, sulla strada piena di neve, per recarsi alla messa di Natale. Ai rintocchi della campana, la montagna si popolava di lumi, di fiaccole. Quando i rintocchi tacevano, si distingueva lontano la nenia di una zampogna, rispondeva più vicino il gaio ritornello di uno zufolo, che si intrecciava a una sinfonia di pifferi e di viole: erano i pastori che lasciavano nell’ovile le pecore e scendevano a messa. E lungo la via si affratellavano coi contadini che portavano manciate di grano da far benedire, con i montanari dalle grosse scarpe ferrate e dai cappelli ornati di vischio. (O. Visentini)
Felice giorno di Natale, quando i piccoli con le gambine si agitano per l’impazienza, e gli occhi accesi, spiano davanti alle porte chiuse, dietro alle quali di preparano luminose e fragranti meraviglie, e stanno a guardare con visi intenti la mamma che cuoce il pesce per la cena! Con vecchie canzoni sulle fresche labbra, trotterellano verso la nonna, che sogna nell’alta poltrona davanti al fuoco, per baciarle le mani piene di rughe. Poi arriva anche il babbo. Racconta di Gesù bambino: che gli è venuto incontro coi i capelli che sembravano d’oro e le mani piene di meravigliose cose variopinte. Fuori urla la bufera, una slitta si ode tintinnare lontano e tutto ciò è così pieno di mistero e così grande e così gioioso che non lo si può mai dimenticare. (M. R. Rilke)
La sera della vigilia di Natale la luce dei negozi pioveva sulle merci esposte fuori, e i riflessi si stendevano sul selciato appiccicaticcio della via. Il cielo era nascosto da una nebbiolina che tremava intorno agli aloni dei fanali. Per le vie strette e irregolari non passavano nè automobili, nè tram. Ceste colme di arance fra le arance di carta velina. Mele rosse e lucenti.
A passarci accanto scorgevo l’interno illuminato di una bottega. Continuando la via, mi restava negli occhi l’immagine di quell’interno: lo splendore della lampada sospesa nel mezzo sotto il piattello bianco, la luce che pioveva in basso, dolce, sulle persone che parlavano, sul cranio lucido del bottegaio e sui suoi gesti silenziosi. Seguitavo a camminare. Senza scosse passavo sul selciato umido e sconnesso, sui ricami di fanghiglia iridati dai riflessi incerti delle luci, sui rifiuti, sui detriti, sull’umidore in ombra.
L’indomani era festa! Un sorriso mi saliva dall’anima agli occhi e alle labbra. Camminavo nella città, fra la gente, i passi suonavano quieti sul selciato. Accanto, altri rumori di passi. L’attesa colava nella via come un liquido impalpabile. Tutti si muovevano come me, attenti a evitare ogni stridore che rompesse l’incanto. (M. Cancogni)
Erano venuti per fare raccolta di muschio e di fronde verdi, essendo l’antivigilia di Natale, vale a dire il momento di costruire in una delle cappelle della chiesa il presepe. Chi portava un sacco, chi un cesto, chi un falcetto, chi semplicemente le proprie mani, le quali pure bastavano a strappar via dai tronchi lunghi strascichi di edera ed a svellere alla terra e ai ceppi quelle belle zolle pelose, d’un verde forte e dorato, morbide e pulite, che anche gli angeli potevano essere contenti di farvi due passi sopra. Il maestro sceglieva qua e là nel bosco i più bei rami d’agrifoglio, di tasso e di pino silvestre. (F. Chiesa)
Dettati ortografici sul Natale e l’Avvento L’attesa
Presto sarà Natale: la più dolce, la più attesa festa dell’anno. Si comincia ad attenderla sin dal primo venire del freddo, sin dal primo giorno di cielo buio. E i giorni passano. Le ultime foglie secche fuggono crepitando dinanzi al vento gonfio di neve. Il sole e l’azzurro non sono più che un lontano ricordo. Sembra che la primavera non debba venire più, che gli alberi non avranno più fiori, che il cielo non avrà più luce. Allora tutte le speranze si rifugiano nel Natale, questo giorno tiepido e risplendente, questo spuntare miracoloso di frutti d’oro e d’argento e di candeline accese sui rami degli alberi, questo palpitante accendersi di stelle, nel purissimo azzurro del cielo del presepe. Ai primi di dicembre il Natale si annuncia con la vista e l’odore dei mandarini, quei mandarini avvolti nella carta velina colorata che, a bruciarla, vola sin quasi al soffitto, e se giunge a toccarlo è di buonissimo augurio. Poi i dolci nelle vetrine, le botteghe adorne di foglie di alloro, di stagnola, di striscioline di carta, le mostre di giocattoli in tutte le strade; ed ogni giorno che passa è un passo di più verso la sempre più grande, sempre più risplendente luce del Natale. (G. Mosca)
Dettati ortografici sul Natale e l’Avvento – tutte le opere contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere.
Dettati ortografici LA FESTA DEGLI ALBERI – 21 novembre. Una raccolta di dettati ortografici di autori vari per la scuola primaria. Difficoltà ortografiche miste.
In molte parti del mondo, sia i grandi che i bambini, piantano gli alberi in un giorno speciale chiamato “Festa degli alberi”. Essa cade in giorni diversi nei vari paesi del mondo. Se tu fossi un bambino indiano o una bambina messicana, avresti un albero tutto tuo! In quei paesi ogni volta che nasce un bimbo, i genitori piantano un albero dandogli il nome del bambino. In Israele, gli scolari piantano gli alberi in un giorno chiamato Tu B’ Shebat. Molto tempo fa infatti, in quel giardino, gli Ebrei piantavano un albero per ciascun bimbo nato in quell’anno, un cedro per i maschi e un cipresso per le bambine.
Dettati ortografici LA FESTA DEGLI ALBERI Il 21 novembre si celebra la festa degli alberi. Perchè amiamo gli alberi? Perchè la loro funzione è benefica. Gli alberi purificano l’aria; sentite che buon odore quando attraversiamo un bosco? Gli alberi trattengono le acque che altrimenti irromperebbero a valle, trascinando terra, piante, e purtroppo anche case. Gli alberi fanno da riparo ai venti. Danno bellezza al paesaggio: osservate la diversità fra una zona alberata e una zona brulla. Gli alberi ci danno il legno, materiale prezioso per costruire… che cosa? Guardiamoci intorno e cerchiamo tutto quello che è fatto di legno. Legno di quali alberi? Abete, castagno, pino, noce. E ancora, gli alberi ci danno la frutta. Ricordiamo gli alberi più noti: il castagno, l’olivo, il pero, il melo, il susino, il noce…
Dettati ortografici LA FESTA DEGLI ALBERI
Se l’albero è così utile e benefico, cosa possiamo fare noi per lui? Innanzitutto piantarli: sui margini dei fiumi, sulle pendici scoscese, nelle zone brulle, nei luoghi frequentati dai bambini. Un albero viene danneggiato se lo si lega stretto, se vi si piantano chiodi, se si strappa la corteccia, se si spezzano i rami, se il tronco viene ferito. Cerchiamo di proteggere questi giganti buoni. Sembrano potenti, ma anche un bambino può far loro del male.
Dettati ortografici LA FESTA DEGLI ALBERI Il 21 novembre è la festa degli alberi. In questa data si vogliono ricordare a tutti, ma soprattutto ai bambini, le grandi virtù di questi giganti della foresta, e insieme richiamare l’attenzione sull’importanza che essi hanno per tutti noi. Vuol far presente anche i gravi danni arrecati dal disboscamento, dovuti ad incuria e speculazioni disoneste. In questi casi è necessario il rimboschimento. E a questo rimboschimento partecipano i bambini con la festa degli alberi.
Dettati ortografici LA FESTA DEGLI ALBERI Un albero è tutto un vario, singolare, molteplice mondo. Eccone uno, tacito, solitario, immobile, gigantesco, sul ciglio dell’aspra strada di campagna. Sembra un essere dormiente, sembra serrato in non si sa quale suo cruccio, ed allarga, sul terreno diseguale, la sua ombra fresca e ferma. Si passa, di solit, vicino ad un albero, lo si sfiora, ci si appoggia a lui, si gode della sua ombra, quasi sempre senza pensare che vive come noi. (C. Allori)
Dettati ortografici LA FESTA DEGLI ALBERI – Rispettate gli alberi Rispettate gli alberi per il verde delle loro foglie, per il profumo dei loro fiori, per la bontà della loro frutta, per la delizia della loro ombra. Rispettateli perchè sono amici dell’uomo, perchè rendono più bella la campagna, perchè proteggono gli uccellini.
Dettati ortografici LA FESTA DEGLI ALBERI – L’albero Quando in un lontano giorno il seme cadde in terra e germogliò, la radice era soltanto un filo che succhiava; guarda che cosa è diventato quel filo: braccia nerborute di gigante che non mollano la presa. Guarda il tronco: era uno stelo sottile, verde, debole. Si piegava ad ogni soffio di vento. Ora è diventato una colonna, bella, diritta, solida.
Dettati ortografici LA FESTA DEGLI ALBERI
Gli alberi, oltre ad essere belli e a rendere suggestivo il paesaggio, sono utili all’uomo. Tutti conoscono i prodotti degli alberi da frutto, necessari alla nostra alimetazione, tutti sanno che dall’albero si ricava il legname così utilizzato dalle industrie, ma bisogna anche sapere che l’albero ci è utile con la sua sola presenza perchè difende il terreno dalle alluvioni, perchè modifica il clima rendendolo più fresco e più salubre, perchè bonifica l’aria.
L’albero nella storia Gli antichi amavano molto gli alberi. I Greci adoravano il dio Pan, nume dei boschi; i Romani il dio Silvano, simile, nell’aspetto, al dio dei Greci. Tutti i popoli germanici ritenevano sacri gli alberi e compivano i loro sacrifici e i riti religiosi nelle foreste, presso una quercia.
L’albero L’albero si incontra in ogni regione del mondo nelle sue diverse specie e varietà, ed è prezioso per i suoi prodotti e per l’influenza che esso ha sulla temperatura dell’ambiente e sulla vita stessa dell’uomo. Vi sono alberi da frutto, peschi, peri, meli, susini, ciliegi; alberi che danno ottimo legname utilizzato nelle industrie, alberi che, come l’olivo, ci forniscono un ottimo condimento per i nostri cibi.
Parla l’albero Sono nato da un piccolo seme, che un vecchio piantò nella terra; l’uomo sapeva che non mi avrebbe visto crescere, ma pensò ai figli dei suoi figli. Crebbi esile pianticella prima, poi tronco robusto e vigoroso. Invano il vento si accanì contro di me. Opposi alla sua forza la mia chioma rigogliosa e, con i miei fratelli, difesi dal turbine il paesello che stava sotto la mia protezione.
I boschi I boschi abbelliscono il paesaggio e lo rendono più suggestivo. Ma soprattutto, influiscono sul clima mitigandone il calore. Inoltre, gli alberi si oppongono efficacemente alla violenza dei venti e, trattenendo le acque, alimentano le sorgenti. Le radici impediscono lo scoscendamento del terreno ed evitano le frane. Gli alberi sono altresì di ostacolo alle valanghe a cui oppongono la resistenza dei loro tronchi proteggendo la zona anche dalle inondazioni.
Il culto degli alberi Fin dalla più remota antichità, gli alberi sono sempre stati sacri all’uomo e i grandi poemi, testimonianze delle prime civiltà, lo provano. Gli antichi Romani avevano il fico ruminale, perchè la leggenda diceva che sotto ad esso erano stati trovati Romolo e Remo. La pianta più cara ai Latini era la quercia, anche perchè si cibavano delle sue ghiande. La palma era l’albero sacro dei Fenici e dei Cartaginesi, l’olivo dei Greci, il tiglio dei popoli germanici, la vite degli Indo-Persiani. (A. Beltramelli)
I nemici dell’albero L’albero va curato come tutti gli esseri viventi. Le intemperie, gli insetti ed altri animali possono essere i suoi nemici. Gli insetti ne bucherellano la corteccia, vi scavano delle lunghe gallerie e ne divorano le foglie, i frutti e anche l’interno dei tronchi. Le intemperie possono spezzare rami, strappare foglie, schiantare tronchi. Anche le capre possono essere dannose agli alberi. Esse possono arrampicarsi sui dirupi arrivando così a brucare i giovanissimi arbusti di cui divorano le gemme.
L’albero L’albero giovane è come un bambino. Quando il sole lo riscalda, nella tiepida primavera, apre le gemme, mette le prime foglie e diffonde intorno a sè la stessa dolcezza che viene dagli occhi dei bambini. In seguito, l’albero acquista vigore, e spande i suoi rami, si riveste di foglie e mormora e freme, e canta quando il vento soffia. (F. Ciarlantini)
Gli alberi Come sono belli, alti e fronzuti, diritti contro il vento che li scuote! Gli alberi danno la bellezza ai luoghi dove crescono, danno la salute perchè purificano l’aria, proteggono il paese perchè trattengono le acque dirompenti che porterebbero la rovina. Rispettiamo gli alberi, i giganti della montagna, che ci danno soltanto bene.
Rispetta l’albero L’albero si può danneggiare incidendo la sua corteccia, troncando i rami, legandolo troppo stretto e piantando chiodi nel suo tronco. Si difende curando le sue ferite, e cioè otturando le cavità con gesso o altro, sostenendolo con pali durante la crescita, proteggendolo dall’opera nefasta degli insetti. Proteggi l’albero e l’albero ricambierà le tue cure dandoti ombra, i suoi frutti e il suo legno.
Il bosco Le piante crescono invadendo il regno dell’aria coi robusti polloni e penetrando la terra con le grosse radici: i rami si dividono, si moltiplicano, scendono, fanno capolino dappertutto: sono brune in cima, pallide in basso, e offrono tutte le più delicate tinte al verde da quello opalino, trasparente, pallido, sino al vigoroso e forte che quasi sembra nero. Il sole manda negli interstizi certi raggi sottili che paiono capelli biondi luminosi, getta in terra tanti cerchietti lucidi che sono la sua piccola e ridente immagine; la luce è buona e dolce nel bosco. (M. Serao)
Rispetta gli alberi Gli alberi rendono l’aria pura e balsamica; le radici, affondando nel terreno, impediscono che l’acqua trascini con sè la terra fertile. Se tu trovi una fresca sorgente nel bosco, lo devi in parte, anche agli alberi che con le loro radici trattengono il terreno e con questo l’acqua. Invece del torrente rovinoso, hai lo zampillo che dà origine al limpido ruscello.
L’albero e gli uccelli All’uscita del campo e della foresta, che era autunnalmente spoglia e aperta alla vista, come se fosse stato spalancato un portone per dare accesso alla sua vacuità, cresceva bella e solitaria, unica, fra gli alberi, ad aver conservato il fogliame intatto, una rugginosa, fulva pianta di sorbe. Cresceva su un rialzo fangoso del terreno e protendeva verso l’alto, fino al cielo, nella plumbea oscurità delle intemperie che precedono l’inverno, i piatti corimbi delle bacche indurite. Gli uccelli invernali dalle penne chiare come le aurore del gelo, fringuelli e cinciarelle, venivano a posarsi sul sorbo, beccavano lentamente , scegliendole, le bacche più grosse e, sollevando i capini, allungando il collo, le inghiottivano faticosamente. Fra gli uccelli e l’albero s’era stabilita una sorta di viva intimità. Come se il sorbo capisse e , dopo aver resistito a lungo, si arrendesse, cedendo impietosito: “Che posso fare per voi! Ma sì, mangiatemi, mangiatemi pure. Nutritevi.”. E sorrideva. (B. L. Pasternak)
Conoscere le piante Avete mai pensato solo per un momento a quello che gli alberi rappresentano ancora oggi per noi? Guardate, ecco, ho una matita in mano: la grafite è chiusa nel legno. Di quale legno? Si sa tutti che il legno è fornito dagli alberi, ma qual è l’albero che ha fornito questo particolare legno di grana fine, senza fibre, facile da essere tagliato, adatto, insomma, a fare matite? Forse nessuno di voi immagina che sia un ginepro della Virginia, il Red Cedar degli Americani, importato in Inghilterra nel 1600 e oggi coltivato proprio per questo uso industriale. Per matite meno costose si adoperano anche il legno di ontano e di tiglio, che sono alberi caratteristici del nostro paese. Scrivo su della carta, naturalmente, come su della carta fate ogni giorno i compiti di scuola. La carta di che cosa è fatta? Di stracci. Sì, anche, ma soprattutto di legno, preparati convenientemente, ridotto in pasta e poi steso. I migliori legni per fare ciò sono quelli di abete e di pioppo. Un albero così simpatico, dalle foglie che si agitano al vento sui lunghi peduncoli, dai tronchi chiari e di così rapida crescita. Oltre alla cellulosa per la carta, il legno per i fiammiferi, quante ne sono le utilizzazioni: pali, imballaggi, tutto ciò che richiede un legno leggero, unito, facile da lavorare e, naturalmente, anche i mobili. Tutti sappiamo che tavoli, armadi, sedie, poltrone sono di legno di vari tipi, lucidati o verniciati, oltre che di pioppo sono fatti di abete, di quercia, di noce, di castagno. Il mio tavolo, per esempio, ha il piano in compensato di quercia. Che cos’è il compensato? E’ un procedimento moderno per cui si ottengono fogli di vari spessori di sottilissimi strati di legno pressati e incollati insieme, e che offrono il vantaggio di essere leggeri, resistenti, e possono essere utilizzati nei modi più vari. Mentre il grande scrittoio giù a casa di mio nonno è un solido pesante tavolo di noce massiccio, ben levigato e costruito a regola d’arte, come si faceva cento anni fa, e che ha la durata di parecchie generazioni. Un mobile signore, dunque, benchè di forma che noi può non piacere più. E la seggiola su cui siedo? E’ di acero chiaro, fresco, leggero, piacevole alla vista e al tatto. Sicuramente sarete stati a sentire un concerto. Ebbene, davanti a quella massa di lucenti violini, vi siete domandati qual è il legno sonoro, meraviglioso, che diede la possibilità ai liutai di Cremona di costruire i loro famosi strumenti ricercati in tutto il mondo? Anch’esso è l’acero. Ogni giorno si adoperano tanti oggetti e utensili comuni, anche esteticamente così poco interessanti, ma così utili, ormai fissati nelle loro semplici forme, perchè le migliori, da generazione a generazione, e tutti di legno o in parte di legno. Mestoli per esempio, e ciotole per la cucina, e s manici di martelli o di cacciavite, e casse nelle quali vengono spedite le merci, dalla frutta alle conserve. Oggetti rozzi, eppure son fatti di faggio, uno degli alberi più belli delle nostre montagne, che da tempo immemorabile vive sul nostro suolo.
Dettati ortografici LA FESTA DEGLI ALBERI
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Poesie e filastrocche GLI ALBERI – una raccolta di poesie e filastrocche sugli alberi, di autori vari, per bambini della scuola d’infanzia e primaria.
Nel bosco Nel bosco ogni vecchio gigante sia abete, sia quercia, sia pino, ha intorno, ai suoi piedi, un giardino di piccole piante. Son muschi, son felci, son fiori, e fragole rosse e lichene cui l’albero antico vuol bene suoi teneri amori. E mentre le fronde superbe protende più su verso i cieli ai pensa a quegli umili steli nell’ombra, fra l’erbe. (L. Schwarz)
Albero secco Un albero secco fuori della mia finestra solitaria leva nel cielo freddo i suoi rami bruni. Il vento rabbioso la neve il gelo non possono ferirlo. Ogni giorno quell’albero mi dà pensieri di gioia: da quei rami secchi indovino il verde a venire. (Wang Ya-Ping)
Pioppi al tramonto Io so chi colora di rosso, nell’ora già prossima a sera, il cielo, soffuso di un pallido blu: i giovani pioppi a specchio nell’acqua laggiù. Li ho visti piegare il pennello dell’agile chioma e intingerlo dentro il ruscello di limpida porpora, sempre, a quell’ora. Poi, subito ritti, con zelo svettando; striare di rosso la pagina chiara del cielo. So ancora nel suo folleggiare nel fosso nel suo folleggiare monello si lascia sfuggire talora qua e là qualche macchia vermiglia che a nube sospesa somiglia. (G. Vaj Pedotti)
Pini in cortile Crescono i pini di fronte alla scala. Toccano coi rami il muro della casa dai tegoli bruni; e di mattina e di sera li visita il vento e la luna. Nelle tempeste d’autunno sussurrano un verso vago; contro il sole d’estate ci prestano un’ombra fresca. Nel colmo della primavera una pioggia sottile, a sera, riempie le loro foglie d’un carico di perle pendule; e alla fine dell’anno, il tempo della gran neve stampa sui loro rami una trina lucente. (liriche cinesi)
Alberi Alberi! Frecce voi siete dall’azzurro cadute? Quali tremendi guerrieri vi scagliarono? Sono state le stelle? Vengon le vostre musiche dall’anima degli uccelli, dagli occhi di dio. (F. Garcia Lorca)
Il pioppo Il pioppo nell’azzurro è un vivo tremolio di grigio e argento; fa in mezzo ai rami il vento lento sussurro. (G. Camerano)
Festa a scuola Mamma, lo sai che abbiamo fatto festa a scuola, stamattina? Allineati dapprima; e poi, con il maestro, in testa a piantar gli alberelli siamo andati. E ne abbiamo piantati un per ciascuno, ma bello come il mio non è nessuno: svelto, diritto, a cuspide perfetta, verde cupo nel folto e chiaro in vetta. Un per ciascuno, eravamo in cento: Ora cento alberelli al sole, al vento, come fiere sentinelle se ne stanno… e pensa che bel bosco diverranno! (L. Salvatore)
Castagni Nulla è più bello dei frondosi e ampi castagni a selve sterminate in mezzo a questi monti… Nulla è più dolce. Cascano con tonfi leggeri le castagne, e a quando a quando ne sguscia fresca sotto il piede una. Casca in gran copia e tutte l’erbe imbruna di bei cardi spinosi il frutto buono. (G. Marradi)
Speranza C’è un grande albero spoglio in mezzo all’orto: pare che soffra e non si possa coprire e riscaldare. Vola sui nudi rami un passero sperduto, e cinguetta più forte in segno di saluto. Geme l’albero: “Un tempo fui giovane e fui bello: candidi fiorellini erano il mio mantello.” Il passero cinguetta: “Oh vecchio albero, spera! Si scioglieran le nevi: verrà la primavera. (M. Dandolo)
L’alberetto Sul principio del boschetto l’alberetto guarda intorno, aspetta e spera primavera. Non ha foglie, non ha fiori, non ha umori; non ha nidi, nè richiami sopra i rami. AL suo piede una viola sola sola, stenta a fare capolino tra uno spino. Fischia il vento, scuro è il cielo: ahi, che gelo! Com’è triste, nell’aspetto, l’alberetto. (F. Socciarelli)
Il bosco Specie per voi bambini il bosco è bello, ospita tanti uccelli e tanti nidi: c’è talvolta un ruscello e l’eco che risponde ai vostri gridi. D’estate che bell’ombra! Che frescura! Quante frutta selvatiche e gustose in mezzo alla verdura! E di notte, quante voci misteriose! Anche d’autunno, quando s’è spogliato e di frutta e di nidi, è bello ancora, ma i colpi del pennato vi si fanno sentir fino all’aurora. Or più non vi canta l’assiolo con la sua voce dolorosa: “Chiù!” E’ l’inverno, e il boscaiolo picchia di scure e molto butta giù. E taglia tanta legna, chè i bambini quando sentono il freddo stanno male. Avran tutti i camini un ceppo per la notte di Natale. (F. Socciarelli)
Due palme Due palme son nel giardino; al mattino che allegro cinguettio le anima al sole. E se talvolta il fragore di motorini, camion o altro motore lo sovrasta per poco, ben presto passa il rumore, ma il cinguettio rimane come limpida acqua da cui traspare incantato fondo di mare. (F. Gisondi)
Alberi Sempre fermi, sempre ritti, sempre zitti, come impavidi soldati, stanno i buoni alberi, armati sol di foglie e fiori e frutti, di cui fanno dono a tutti. Tutto danno quel che hanno e per sè tengono solo un gorgheggio d’usignolo un fischietto di fringuello un sussurro di ruscello. (D. Valeri)
Il ciliegio Ho un ciliegio nell’orto (proprio sotto al murello) vecchio, rugoso e storto, che rinnova il mantello ad ogni primavera; e tra le nuove foglie, quando viene la sera, i passeri raccoglie. Nel sussurrar del vento, tra il cinguettar vivace, parla, sereno e lento: “Son vecchio, ma mi piace allargare i miei rami nell’aria cilestrina, udir questi richiami di sera e di mattina…”. “Se poi i dolci frutti” un passero gli dice “te li mangiamo tutti, ancora sei felice?” “Ma sì!” lieto risponde il ciliegio. “La vira di queste annose fronde se non dona… è finita”. (G. Fanciulli)
Boschetto In questo boschetto di poche gaggie ricanta un uccello le sue poesie. Se un cuore vi passa, si ferma e ristà, riparte provvisto di felicità. E’ un bosco d’un’ombra armoniosa e leggera e un angelo viene a dormirvi la sera. Per farsi un lettuccio men duro raccoglie, dai ceppi muschiosi, bracciate di foglie. E vede, addondando nell’umida cuna passare tra i rami più alti la luna; e sente tra fronde dal vento toccate tremore e bisbigli di calde nidiate; e trova la pace d’un sonno tranquillo tra un canto d’uccello e il canto d’un grillo. (R. Pezzani)
Il testamento dell’albero Un albero d’un bosco chiamò gli uccelli e fece testamento: “Lascio i miei fiori al mare, lascio le foglie al vento, i frutti al sole e poi tutti i semetti a voi, a voi, poveri uccelli, perchè mi cantavate la canzone della bella stagione… E voglio che gli stecchi, quando saranno secchi, facciano il fuoco per i poverelli. (Trilussa)
L’abete Nel nord sull’altura nuda un abete sorge solo, ha sonno, e di ghiacci e di neve lo cinge un bianco lenzuolo. Sognando va d’una palma, che nel remoto levante, solinga e muta s’attrista sopra il dirupo bruciante. (E. Heine)
L’arbusto Un arbusto si protende dalla roccia alta sul mare; vede un solco che risplende, ode l’onda sussurrare… E vorrebbe volar via per svanire nell’azzurro, dietro la fiammante scia, dietro il magico sussurro.
Il pioppo Conosci il riso del pioppo al margine del ruscello? E’ come un allegro monello che sia cresciuto troppo. Ride alla melodia dell’ospite usignolo, ride alla luna e al volo d’un’ala che sfiora e va via. Quando scherzoso arriva tra le fogliette il vento, ride e fruscia contento d’una risata viva. E guarda piegando piano la cima di qua e di là, l’acqua passata che va lontano lontano lontano. (L. P. Mazzolai)
La foresta Pare un gran tempio ad agili colonne, un tempio antico, scuro, con tappeti di muschio e con festoni verdi e lieti. Un tempio antico che ha per finestra il cielo; di canzoni n’ha tante e la preghiera la dicono gli uccelli mane e sera. (M. Bertolini)
Nel libro della natura Vanta una storia la quercia superba, ma l’ha forse men grande un filo d’erba? (M. Spiritini)
Se odorano le felci Se odorano le felci e il sole entra discreto tra le foglie e l’aria sfiora tra i castagni il sonno degli uccelli prendi la tua sorella per mano falle un cuscino di muschio e nel silenzio ascolta l’ora più bella del bosco. Domani la pioggia ed il vento avranno disperso l’incanto. (L. Deli Gazo)
Pini All’estremo orizzonte i grandi pini se n’andavano curvi in lunga traccia, a uno a uno come pellegrini: e ciascuno recava per bisaccia, alto sopra la livida brughiera, una nuvola d’oro della sera. (D. Valeri)
L’olivo Argento placcato di verde mi sembra la foglia che il verno giammai non dispoglia nè il vento disperde. Egli offre la drupa sua nera in tempo d’avvento, al tordo che vola contento, all’uomo che spera. E quando il freddo è più vivo, con funi, con scale, con cesti e panieri si sale la pianta d’olivo. Usando un arnese ad uncino s’incurvan le vette, si strusciano e s’empion sacchette chè aspetta il mulino. (F. Socciarelli)
La canzone dell’ulivo Non vuole per crescere, che aria, che sole, che tempo, l’ulivo! Nei massi le barbe, e nel cielo le piccole foglie d’argento! Tra i massi s’avvinghia, e non cede se i massi non cedono, al vento. (G. Pascoli)
Il canto del ciliegio
Sorrise con l’aprile la gioia in ogni cuore e zefiro gentile vide i ciliegi in fiore. I bianchi fiorellini zefiro si portò e in frutti corallini il maggio li cambiò. Su verde ramo appese con le ciliegie rosse dai bimbi sempre attese e piccoline e grosse. Al vivido richiamo venite coi cestelli ma resti sopra il ramo la parte degli uccelli! “Uccelli e bimbi avanti!” canta il ciliegio, “I frutti che porto sono tanti! Venite! Ne ho per tutti!”
I doni dell’albero
L’albero è tanto bello, l’albero è tanto buono, ha sempre pronto un dono per te e per l’uccello. A te regala l’ombra, la frutta nutriente e la provvida legna per la stagione algente. E ti dà il legno, utile per i mobili tuoi, chiedendoti bonario: “Che cosa ancora vuoi?” “Io voglio che tu arrsti i venti e le bufere, le frane, le alluvioni di morte messaggere…” “Lasciatemi dunque vivere sulla natia pendice; non venirmi a tagliare! Ti aiuterò felice.” (T. Romei Correggi)
Alberi
Gli alberi tengono il cielo azzurro prigioniero dei rami, si vestono di silenzi e di abbandoni e tremano di voli e di canzoni. Spandono un lume di fiori ai mesi chiari e camminano col vento per ignoti reami. La notte li ritrova incappucciati monaci solitari nel convento: ma, dove cantò l’usignolo, resta, nel fiato dell’alba, l’eco di un singhiozzo d’oro. (I. Dell’Era)
L’albero taciturno
L’albero aveva un cartello che solo gli uccelli potevan decifrare: “S’affittano rami per nidificare” dicea la scritta che un uomo non avrebbe potuto capire. Pur malgrado l’annuncio non venne alcun uccello, nè picchio, nè fringuello, e, deserto di nidi, a capo chino muor di tristezza l’albero, lungo il cammino. (A. M. Ferreiro)
L’albero
Vennero da vie lontane le rondini rapide e snelle a bere presso le fontane ancora fresche di stelle. Il sole apparve dal tetto effondendo oasi d’oro e l’albero del giardinetto sfavillò come un tesoro. S’accese di mille collane e stette estatico a udire le voci delle campane. Dalla dolce terra veniva musica d’onde lontane e verso il suo cuore saliva. (G. Titta Rosa)
Il cipresso
Al margine di un breve praticello sta un cipressetto solo e sembra triste tutto ravvolto nel verde mantello. Scherza, invece, col vento; a nascondino fa con la luna, o pure, in cima ai rami svelto l’appende come un lampioncino. Più spesso a sera, quando tutto imbruna, chiama le stelle a inghirlandargli il capo, fino all’alba le conta ad una ad una! E se piove, se rugge la tempesta, si piega, grida, stringe le sue braccia, ma non si spezza e fermo al suolo resta. Chè un bel nido protegge: un nidietto fragile e lieto, colmo di gorgheggi, tesoro grande per il cipressetto. (T. Stagni)
La quercia caduta
Dov’era l’ombra, ora sè la quercia spande morta, nè più coi turbini tenzona. La gente dice: “Or vedo: era pur grande!”. Pendono qua e là dalla corona i nidietti della primavera. Dice la gente: “Or vedo: era pur buona!”. Ognuno loda, ognuno taglia. A sera ognuno col suo grave fascio va. Nell’aria, un pianto… d’una capinera che cerca il nido che non troverà. (G. Pascoli)
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Dettati ortografici sugli ALBERI – Una collezione di dettati ortografici sugli alberi per la scuola primaria, di autori vari.
La quercia La quercia è un albero rude e forte, che si innalza lento, vestito di una scorza ruvida, ma che custodisce un legno che dura in eterno e resiste alle insidie del tempo. Quando la quercia è ancora giovane, è un albero come un altro. Non diventa bella che quando ha mezzo secolo, e con gli anni va sempre crescendo la maestosità del portamento, la frondosità dei rami, la densità delle sue fresche ombre. La quercia è nel fiore della sua bellezza quando conta almeno un secolo di vita, ed è bellissima quando è tre, quattro volte centenaria. (P. Mantegazza)
Alberi di montagna in primavera Anche gli alberi si vestono a festa! In basso, sulle prime pendici, ecco gli alberi da frutta, spogli da alcune settimane della neve invernale, rivestirsi d’un’altra neve, quella dei loro fiori. Più su, i castagni, i faggi, i diversi arbusti, si ricoprono delle loro foglie dal verde tenero e da un giorno all’altro par che la montagna si sia rivestita con un meraviglioso drappo, in cui il velluto si mescola con la seta. (G. Reclus)
Il mandorlo fiorito Quale miracolo è mai avvenuto questa mattina? E’ caduta una neve odorosa oppure miriadi di farfalle si sono posate sui rami del mandorlo? Pur ieri l’alberello era nudo e freddo. Ma stanotte, all’alito dei venti, esso è sbocciato, è fiorito; s’è ricoperto di candide ali, di mille stelline. Sembra cosparso di fior di farina soffice e fragile con lievi riflessi di rosa. Gli occhi restano beati a mirarlo; ed intanto, nel cuore, passa nascosto il primo soffio della primavera. (F. Lanza)
Una gemma si apre Osserviamo le gemme del castagno: al centro, la bambagia avvolge le sue tenere foglioline; all’esterno una solida corazza di scaglie disposte come le tegole d’un tetto, le chiude strettamente. Le parti dell’armatura scagliosa sono incatramate con un mastice che, simile a vernice disseccata, diventa molle, in primavera, per permettere alla gemma di schiudersi. Le scaglie, non più incollate fra loro, si allargano vischiose, e le prime foglie si spiegano al centro della loro culla socchiusa. (H. Fabre)
Ciliegio in fiore L’albero era sino a ieri nudo; nudo nel tronco, nei rami qua e là contorti dall’aspro battere del vento. Cosa sarà accaduto perchè, stamane, io abbia visto invece dell’albero, una nube bianca fatta tutta di fiori stretti così fittamente gli uni agli altri da formare una cosa sola, impalpabile, quasi aerea, attraverso la quale non mi riesce più di distinguere nè rami, nè tronco? (A. Anile)
La prima fogliolina Nessuno s’è trovato mai davanti a un albero nel momento preciso in cui spunta la prima fogliolina. Tutti abbiamo questo desiderio perchè ci piacerebbe tanto poter dire: “Sono io che quest’anno ho visto per primo la primavera”. Ma, dopo aver tanto atteso, una mattina ci alziamo, scendiamo giù in cortile, e vediamo che le foglie sono già tutte spuntate. (Giovanni Mosca)
Il mandorlo frettoloso Un mandorlo frettoloso ha già spiegato al solicello la sua bianca fioritura; non gli importa se una brinata farà cadere troppo presto quella bella veste; come sempre, vuole essere il primo ad annunciare la primavera! I meli, i peri, i peschi, più prudenti, rimangono indietro. (G. Fanciulli)
Gli aranci In primavera, la Sicilia odora di zagare dalla Punta del Faro alla Conca d’Oro, dall’Agro trapanese a quello di Catania. Nei mattini tersi, nelle serene notti di luna, la soavissima fragranza dei sui venti, si diffonde sin nei più interni quartieri delle popolose città dell’isola e pare che ogni casa abbia un arancio fiorito davanti alla porta. Migliaia di aranci intanto costellano le distese degli aranceti siciliani. Quelle migliaia di piccole sfere, nelle cupole dei fitti e slanciati alberi, sembrano granelli di sole splendenti. (G. Patanè)
Il castagno
Il castagno, per l’alto valore nutritivo dei suoi frutti, è considerato l’albero del pane delle nostre montagne. Esso alligna tra i 400 e i 1000 metri d’altitudine. Il castagno giovane ha un tronco diritto e liscio, color bruno chiaro; il castagno vecchio è ricoperto di una corteccia bruna e screpolata. Di solito questa pianta raggiunge i dieci metri d’altezza, ma qualche castagno gigante può raggiungere anche i trenta metri. Le foglie, a punta di lancia e con il margine seghettato, sono lunghe quindici, venti centimetri. Il castagno fiorisce in maggio – giugno. I suoi fiori sono di due specie. Alcuni sono ricchi di polline giallo; quando questo viene portato via dal vento i fiori seccano e cadono. Altri fiori invece ricevono il polline trasportato dal vento e dagli insetti, si ingrossano e diventano castagne. Il frutto matura da settembre a novembre. Il riccio è la buccia verde e spinosa in cui sono racchiude una, due o tre castagne.
La palma
La palma esiste fin dai tempi preistorici in alcune zone dell’Africa e dell’Asia. Fuori da queste regioni o non fiorisce o non fruttifica, è unicamente ornamentale. Si trova infatti anche in Italia, ove fu importata dagli Arabi. La foglia della palma fu simbolo di vittoria: i trionfatori romani usavano fare il loro ingresso solenne in Roma con un ramo di palma in mano. Essa è pure simbolo di fede.
L’olivo
L’albero dell’olivo è sempre stato considerato con grande rispetto: esso è infatti simbolo di pace, di bellezza, di sapienza. Due colombe che tenevano nel becco un ramoscello di olivo annunciarono a Noè la fine del diluvio. Nelle religioni greca e romana l’olivo era sacro ad Atena e a Minerva. In Grecia i vincitori dei giochi olimpici venivano incoronati con rami di olivo e di palma. E ancora oggi l’olivo è simbolo di pace.
Fioritura
Il mandorlo si è tutto magnificamente coperto di fiori biancorosei, che brillano al nuovo sole come gemme cristalline e fragranti. Le margheritine silenziose e tranquille tremolano in bianca folla al tiepido vento. La giunchiglia piega sul gracile stelo il velato suo calice. Persino nelle lande più pietrose e deserte, qualche fiore solitario apre all’aria nuova le sue tre o quattro foglioline, soffuse di un pallido rosa, o venate di tenui righe violacee. In ogni albero canta un nido e in ogni cuore resuscita una speranza. (E. Nencioni)
Un piccolo vandalo
Luigi non ama gli alberi. Uno dei suoi passatempi preferiti, quando va a giocare nel prato, è quello di incidere nel tronco delle sue vittime arboree disegni e messaggi che salutano la sua squadra di calcio preferita. Le piante non sopportano scherzi del genere; la corteccia salta via a pezzi strappata dal temperino di Luigi. Il povero albero soffre, proprio come soffriremmo noi se ci strappassero la pelle a pezzetti per incidere dentro un bel disegno. (M. Bettini)
Il bosco
Qui la vegetazione è libera; le piante crescono invadendo tutto e penetrano la terra con robuste radici. Le fronde salgono, scendono, si dividono, si moltiplicano liberamente; offrono le più delicate tinte del verde; da quello opalino trasparente, pallido, sino al vigoroso e forte che sembra quasi nero. Giungono odori forti e sani: i profumi che esalano quegli alberi meravigliosi, i rigogli della loro gioventù, i succhi di vita che salgono in essi e rompono la corteccia. Quiete stupenda in tanta vitalità, sicurezza profonda in tanta libertà. (M. Serao)
L’albero di sera
C’è un pino in cui di notte si raccolgono a dormire i passeri. Ma ci sono tanti alberi che servono da albergo agli uccellini! Vi è mai capitato di osservare a sera, quando essi giungono da tutte le parti e pare che affondino nell’albero ospitale? Un gran frastuono, pigolii, cinguettii… al più piccolo rumore silenzio improvviso. Poi di nuovo il frastuono dell’albero immobile, sì che pare da sè cinguetti. (G. Pascoli)
Il platano
Era mezzogiorno d’estate. Due viaggiatori camminavano sotto il sole ardente. Erano stanchi, accaldati. Scorsero un platano e con un sospiro di sollievo si rifugiarono e si sdraiarono alla sua fresca ombra. Riposavano e intanto guardavano su trai rami frondosi. Disse uno dei due al compagno: “Ecco un albero sterile e inutile all’uomo”. L’altro approvò. L’albero prese la parola e li rimproverò: “Come? Proprio mentre godete dei miei benefici mi trattate da sterile e da inutile?”. (Esopo)
Il pioppo
Il pioppo è uno degli alberi più belli della nostra zona temperata. Alto, snello, robusto, si lancia in alto, diritto come un cipresso, ma non mai triste e severo come lui. I suoi filari non guidano al cimitero, ma fanno da lieti colonnati ai fiumi ed ai canali, diritti come sentinelle. (P. Mantegazza)
Il ciliegio
La frutta saporitissima che viene raccolta a ciocche, a mazzolini caratteristici anche per il vivo colore, è la ciliegia. L’albero, il ciliegio, fu importato in Europa dall’Asia Minore. Spesso arriva fino a venti metri di altezza. Il tronco del ciliegio è robusto e coperto di corteccia bruno – rossastra. La chioma è tondeggiante. Le foglie sono ovali, larghe, lucide, doppiamente seghettate, tinte di un verde assai scuro. I fiori, a mazzetti bianchi, profumati, si sviluppano numerosissimi in primavera: l’albero, a distanza, tutto bianco, sembra quasi coperto di neve.
Alberi da frutto I prodotti degli alberi sono noti. Innanzitutto la frutta. E’ la cosa più evidente. Vediamoli un po’ da vicino questi alberi da frutto: sono meli, peri, ciliegi, susini, peschi,… Facendo ricerche nell’ambiente, i bambini saranno in grado di descrivere questi alberi e i loro prodotti. In autunno sarà facile osservare il castagno e l’olivo che ci danno i loro prodotti. L’albero si incontra pressochè in ogni regione del mondo, nelle sue diverse specie e varietà, ed è prezioso per i suoi prodotti e per l’influenza che esso ha sulla temperatura dell’ambiente e sulla vita stessa dell’uomo. Affonda nel terreno le sue robuste radici, eleva il suo tronco rivestito di una corteccia rugosa, e si espande in alto con i rami rivestiti di foglie le quali formano la chioma.
Gli alberi nella storia Gli antichi amavano molto gli alberi. Nei tempi più remoti, si usava seppellire i defunti alla radice dell’albero, con la convinzione che essi sarebbero risorti nel tronco e nelle foglie. Questa pratica era in uso fino a poco tempo fa in Giappone dove si credeva che in alcuni alberi fossero rinchiusi gli spiriti degli eroi nazionali sepolti al loro piede. Usanze simili si riscontrano tuttora presso alcuni popoli primitivi d’Africa e d’Asia. I Greci adoravano il dio Pan, nume dei boschi. Essi lo raffiguravano incoronato di rami di pino, con le orecchie dritte, in mano un bastone da pastore e il fianco sinistro coperto da una pelle di daino. I Romani adoravano il dio Silvano dall’apparenza simile a quella di Pan. Essi credevano che negli alberi fossero ospitate le Ninfe, divinità considerate come forme ed energie della natura. Tutti i popoli germanici ritenevano sacri gli alberi e compivano i loro sacrifici e i riti religiosi nelle foreste, presso una quercia, ritenuta simbolo della divinità.
Boschi e macchie Gli alberi possono ergersi isolati oppure riuniti in gran numero in un’estensione che generalmente si chiama bosco. Più precisamente prende il nome di foresta quando è formata da alberi di alto fusto, selva quando ha un’estensione minore della foresta, macchia quando è una radura disseminata di alberi. I boschi possono essere costituiti da piante a foglie larghe o a foglie minute, o come si dice aghiformi. Molti dei primi si spogliano della loro vegetazione in autunno; gli altri sono nella maggior parte delle specie sempreverdi. A seconda degli alberi che lo compongono, il bosco può assumere diverse denominazioni: querceto, faggeto, pineta, abetaia. Si chiama ceduo il bosco sottoposto a taglio periodico.
Utilità degli alberi I boschi non soltanto abbelliscono il paesaggio, elemento questo niente affatto da trascurare, ma influiscono sul clima mitigando il calore. Inoltre, gli alberi si oppongono efficacemente alla violenza dei venti e alimentano le sorgenti. Le radici impediscono il franamento del terreno ed evitano le frane. Gli alberi sono di freno alle valanghe a cui oppongono la resistenza dei loro tronchi e proteggono dalle inondazioni in quanto, con le loro radici, consolidano il terreno e impediscono l’infiltrazione rapida delle acque nel sottosuolo. Inoltre, com’è funzione di tutte le piante, durante il giorno esse assorbono anidride carbonica ed emettono ossigeno e quindi rendono l’aria più salubre.
Gli alberi non crescono ugualmente in tutte le zone. A seconda degli alberi che vi prosperano si possono distinguere quattro zone in Italia.
Vi è la zona calda, denominata anche zona dell’ulivo dove, oltre all’ulivo crescono la quercia da sughero, il leccio, il carrubo, il pistacchio, il pino da pinoli, il pino marittimo, il cipresso e l’eucalipto.
Nella zona temperata, o zona del castagno, abbiamo oltre al castagno due specie di quercia, il cerro e il rovere. Nella zona fredda o zona del faggio (fino a 1200 metri) crescono la betulla, l’ontano e il tiglio.
Nella zona rigida o zona delle conifere, troviamo l’abete rosso e il larice. Le conifere hanno, in particolare, la proprietà di rendere l’aria balsamica e pura. Sono alberi che hanno il frutto a cono (pino, abete, …) comunemente detto pigna. Il pino, nelle sue diverse specie, si può trovare tanto in montagna che in riva al mare. In quest’ultimo caso si tratta del pino marittimo; l’altro è il pino a ombrello. Facendo un’incisione nel tronco di quest’albero, si vedrà gocciolare una sostanza attaccaticcia e profumata, la resina, che è utilizzata in varie industrie. Mescolata a nero fumo forma la pece dei calzolai; la si usa nei fuochi d’artificio e per rendere più vibranti le corde del violino; e nella fabbricazione dei balsami.
Il tronco del pino, così alto e diritto, viene utilizzato per fare gli alberi delle navi. L’olmo, l’ontano e il pioppo ci danno la cellulosa, ampiamente usata nelle più svariate industrie, come la fabbricazione della carta, della stoffa e perfino degli esplosivi.
Il legno dell’ontano che, crescendo vicino all’acqua è molto resistente all’umidità, viene utilizzato per i pali delle palafitte. Dalla corteccia di quest’albero si ricava il tannino, sostanza colorante usata in tintoria.
L’età degli alberi Gli alberi possono raggiungere anche migliaia e migliaia di anni di vita. In Sicilia esiste ancora il castagno dei cento cavalli, chiamato così perchè, secondo la tradizione, Giovanna d’Aragona, sorpresa dalla tempesta, si rifugiò sotto la sua chioma con cento cavalieri del seguito. Pare che questo immenso albero abbia almeno quattromila anni! A Somma Lombardo esiste un cipresso che si dice abbia duemila anni. L’età di un albero si può constatare soltanto quando l’albero è abbattuto. Infatti, poichè il tronco aumenta di solito di uno strato all’anno, contando in un tronco tagliato questi strati, che sono disposti in cerchi concentrici, si può sapere approssimativamente quanti anni è vissuto l’albero.
Il papiro L’albero che permise agli uomini di scrivere è il papiro. Il papiro è una grande erba perenne acquatica, con radice sotterranea strisciante, dura e carnosa. Il fusto esterno, triangolare, si erge diritto da due fino a cinque metri, e termina con chioma a ombrello: una specie di piumino. Oggi il papiro si trova con maggiore facilità e diffusione, ma è meno cercato. Lo si trova in Palestina, in Africa, a Malta, ed anche in Sicilia presso Siracusa, dove lo trapiantarono gli Arabi. Gli antichi trassero dalla corteccia del papiro un foglio largo, lungo e sottile, molto pieghevole, su cui poterono scrivere. Il papiro deve considerarsi quindi come una specie di “albero della scienza” poichè alla sua corteccia furono affidati, fino dall’alba della civiltà, i pensieri dell’uomo, le sue idee storiche, letterarie, artistiche, scientifiche. (G. Bitelli)
Sugli alberi Il nostro giardino era pieno d’alberi. C’era un ippocastano rosso con due rami a forca che per salire bisognava metterci dentro il piede, e poi non potendolo più levare ci lasciavo la scarpa. Dalle ultime vette vedevo i coppi rossi della nostra casa, pieni di sole e di passeri. C’era una specie d abete, vecchissimo, su cui si arrampicava un glicine grosso come un serpente boa, rugoso, scannellato, storto, che serviva magnificamente per le salite precipitose quando si giocava a nascondersi. Io mi nascondevo spesso su quel vecchio cipresso ricco di cantucci folti e di cespugli, e in primavera, mentre spiavo di lassù il passo cauto dello stanatore, mi divertivo a ciucciare la ciocca di glicine che mi batteva fresca sugli occhi come un grappolo d’uva. (S. Slataper)
Il re delle Alpi Il larice viene definito il re delle Alpi. E’ un albero maestoso che può raggiungere i 50 metri di altezza; il suo legno duro e resistentissimo viene usato soprattutto per le costruzioni navali. E’ una delle poche conifere che perdono le foglie durante l’inverno. E’ l’albero più tipico delle nostre Alpi, dove forma grandi boschi e si trova fino a 2200 metri di altezza. Altri alberi che popolano le nostre montagne sono il pino, l’abete e il faggio.
Proteggiamo l’albero I boschi sono affidati alla protezione dello Stato il quale soltanto ne può consentire l’abbattimento. Per questo, esiste uno speciale corpo di Guardie Forestali che hanno l’incarico non soltanto di difendere gli alberi dal vandalismo degli uomini, ma di curarli perchè non deperiscano e di ripopolare, mediante appositi vivai, le zone che ne sono sprovviste.
Ma la difesa dell’albero è affidata soprattutto al senso civico di ogni cittadino che deve apprezzare gli alberi non soltanto per il guadagno che ne può ricavare, ma anche perchè proteggono la salute, rendono bello il paesaggio, oppongono una valida difesa contro i pericoli delle alluvioni e delle valanghe. Come si può danneggiare un albero? Non soltanto con l’abbattimento, il che produce un danno definitivo ed irraparabile, ma anche strappando i rami senza discriminazione, scortecciando i tronchi, piantando chiodi sul tronco o stringendolo con fili di ferro. Tutti questi traumi possono danneggiare la salute dell’albero e causare anche la sua morte.
L’albero va curato come tutti gli esseri vivi. Gli insetti, le intemperie, alcuni animali possono essere i nemici dell’albero. Gli insetti ne bucherellano la corteccia, scavano sotto di essa lunghe gallerie e pur così piccoli come sono, possono provocare la morte dell’albero in brevissimo tempo. Anche le capre sono nemiche dell’albero. Infatti esse brucano anche i teneri germogli dei rami. Animali del bosco, come scoiattoli, ghiri ed altri, rodono talvolta anche la corteccia, causando danni rilevanti a questi giganti che non possono opporre nessuna valida difesa contro i loro dentini implacabili.
Il sottobosco Non dimentichiamo il sottobosco e quello che esso ci fornisce: funghi, fragole, lamponi, mirtilli. Anche questi prodotti minori della foresta hanno il loro valore tanto più che non implicano spese di sorta.
Guarda da vicino un albero Guarda da vicino un albero: vedrai tante cose che neppure immaginavi e rimarrai stupito. Guarda le sue radici, o almeno quello che affiora di esse. Sono grosse, nodose, capaci di sollevare la durissima crosta della terra. Se il vento tira forte e vuol sradicare l’albero, non può; ci sono le radici che tengono il tronco saldamente piantato sul terreno e il vento si sforza e ulula in una vana rabbia.
Quando il seme cadde in terra e germogliò, la radice era soltanto un filo che succhiava; guarda che cosa è diventato quel filo: braccia nerborute di gigante che non lasciano la presa. Guarda il tronco. Era uno stelo sottile, verde, debole. Si piegava a ogni soffio di vento. Ora è diventato una colonna, bella, diritta, solida. Colui che per primo fabbricò una chiesa coi suoi colonnati e i suoi pilastri e le sue volte profonde, si ispirò agli alberi di un bosco.
Una corteccia dura, legnosa, ruvida, copre questo tronco diritto. La pioggia l’ha gonfiata, il vento l’ha screpolata, gli insetti l’hanno percossa, sforacchiandola da tutte le parti; sembra una cosa insensibile, tanto è ruvida, rozza, eppure, se la ferisci col tuo coltellino, se ne stacchi un pezzo, da quella ferita gemerà il sangue dell’albero, e l’albero, indifeso, in quel punto sarà alla mercè della tempesta e del freddo e se non correrà ai ripari potrà anche morire per quella ferita che tu hai inferto alla corteccia che lo proteggeva.
La ferita si rimarginerà, ma rimarrà un gonfiore scabro che non se ne andrà più. Quel gonfiore scabro è la cicatrice, il ricordo del dolore che egli ha sofferto. Guarda i rami. Sono come grandi braccia che si tendono per proteggere. Proteggono tutto ciò che si rifugia sotto di essi: il coniglio pauroso che si nasconde nell’ombra, l’uccellino che vuol dormire. Proteggono anche te che cerchi ristoro al solleone. E il vento va ad infrangere la sua violenza contro la chioma ampia del bell’albero grande.
Guarda la foglia. E’ così delicata nella sua nervatura che sembra un ricamo. Guardala contro luce; nessuno saprebbe fare una cosa delicata e perfetta come la gemma, che meraviglia! La gemma, dentro, è un astuccio di velluto, e fuori è impellicciata come una bambina freddolosa. L’acqua e il freddo non riescono a penetrare nell’interno e, se è necessario, la gemma si riveste di resine e di cera o, magari, di una crosta dura come il metallo. A lei è affidato il tesoro dell’albero che è anche il suo avvenire: la foglia, il fiore, il frutto.
Il fiore si apre, così rosato e lieve che sembra quasi impossibile sia potuto sbocciare da un ramo tanto duro e ruvido. Fa la stessa impressione della mano morbida di un bambino posata sulla guancia rugosa del nonno. Ma i fiori degli alberi durano poco: oggi li vedi, domani non li vedi più. C’è solo una sfiorita di petali per terra. L’albero ha fretta: deve preparare i suoi frutti, prima verdi, duri, informi, poi grossi, rotondi, morbidi e coloriti che sembrano messi lì apposta per bellezza, come si mettono le palline lucide e sono felice.
Ecco, tutto questo è l’albero; basta che lo guardi da vicino, tanto da vicino per sentire il suo grande cuore battere nel tronco ruvido, da sentire la sua linfa vitale frusciare lungo le sue vene generose. (M. Menicucci)
La storia dell’uomo e del bosco C’era un uomo che possedeva un bosco. Questo bosco era fatto di alberi alti e fronzuti, castagni, pini, lecci e querce. A primavera pareva vivo: gli uccellini facevano il nido sui rami e svolazzavano di qua e di là, cinguettando. Fra le erbe ronzavano gli insetti e volavano le farfalle. C’era un bel fresco sotto gli alberi del bosco e in mezzo a quegli alberi l’uomo aveva la sua casa.
In autunno la famiglia andava a raccogliere le castagne e i bambini più piccoli cercavano i pinoli. Durante l’inverno, nel camino della casa, ardeva un bellissimo fuoco che illuminava e scaldava. La famiglia mangiava la polenta e anche i funghi quando ne trovava. Qualche volta mangiava anche le salsicce perchè con le ghiande si poteva allevare un maiale grasso e bello.
Un giorno salì, fino al bosco, un tale che non si era mai visto. Disse all’uomo: “Volete vendere il bosco?” L’uomo stette un pezzo a pensare, poi disse: “E io come camperò? Il bosco mi dà tutto: pane, companatico e la legna per l’inverno”.
L’altro si mise a ridere. “Siete un uomo semplice che non farà mai fortuna. Quando mi avrete venduto il bosco, io farò tagliare gli alberi e li porterò con via. Voi sul terreno rimasto libero, potete seminare il grano e piantare le patate. Senza pensare che io vi darò molti milioni e con questi potrete spassarvela un bel po’. L’uomo si mise a pensare ancora, poi disse: “Va bene, accetto. La cosa mi conviene”.
Dopo alcuni giorni vennero i boscaioli e cominciarono ad abbattere gli alberi. I grossi tronchi cadevano giù di schianto, con un gran frastuono di rami fruscianti; poi, con le mine, gli uomini fecero saltare le radici. Gli uccelletti fuggivano spaventati abbandonando i nidi. Anche le lepri scappavano e i conigli selvatici, le martore, le donnole e le faine.
“Non credevo che nel bosco ci fossero tanti animali!” diceva l’uomo meravigliato, e guardava i carri che portavano via, albero per albero, tutto il suo bosco. C’era rimasto solo un pino verde che pareva triste in tanta solitudine.
Il terreno restò sgombero e il sole, che ora spadroneggiava, seccò ben presto le erbe e i cespugli. L’uomo si mise a vangare la terra e da boscaiolo si fece contadino. Seminò il grano e piantò le patate. Diceva: “Avremo un bel raccolto!”, ma la moglie non era contenta.
“Senza il bosco mi sento sperduta” diceva, “C’era una bell’ombra e un bel fresco. Ora la casa mi sembra senza difesa”. I ragazzi, che non potevano più andare in cerca di castagne e di pinoli, furono mandati con un branco di tacchini e un piccolo gregge di pecore, in giro per la montagna. Il raccolto fu buono. La terra grassa produsse molto grano e molte patate e nella casa del contadino sembrò entrare l’agiatezza.
Poi venne l’autunno e con l’autunno le piogge. “Piove molto quest’anno” disse un giorno la moglie: “Piove più degli altri anni. Forse è perchè non ci sono più gli alberi” “Stupidaggini” rispose il marito; “la pioggia viene dal cielo e gli alberi non c’entrano per niente”. “Ma la pioggia viene giù a precipizio per il monte e si porta via la terra.” Il contadino dovette convenire che era vero. L’acqua, non più trattenuta dalle grosse radici, lavava il terreno e se lo portava a valle.
“E’ una brutta storia” disse la moglie “Qualche anno così e non ci resterà più terra, soltanto roccia. Intanto, a valle, il torrente gonfio rumoreggiava e il contadino seppe che gli abitanti del villaggio cercavano di rinforzare gli argini per paura delle piene.
L’inverno passò e fu un inverno molto più freddo del solito. C’era poca legna e nella casa, non più riparata, il vento entrava da padrone. Finalmente venne la primavera e tutta la famiglia respirò di sollievo. Senza la protezione del bosco aveva passato delle brutte giornate.
Il contadino aveva seminato anche stavolta grano e patate, ma il terreno, lavato dalle piogge, non era più fertile e ricco come prima. Il raccolto fu scarso. Il sole che batteva a piombo seccava anche le erbe e il gregge trovò poco da pascolare. “Non so com’è” diceva la donna, “Ma quando c’erano gli alberi si stava meglio. L’aria era più fresca e più buona e i ragazzi erano pieni di salute. Ora sono pallidi e meno forti. E poi, tutto era più bello. Se ne sono andai anche gli uccelli.
Infatti, nelle ore calde, non si sentiva nemmeno un cinguettio, solo il falco roteava in alto silenziosamente. Tornò l’inverno e con l’inverno la neve. La famiglia si chiuse in casa per non soffrire il freddo. Quell’anno la neve fu molta. C’erano dei mucchi alti che il vento spostava e faceva turbinare. “Non mi piace questa neve” diceva la donna “Non ne ho mai vista tanta.”
L’inverno fu lungo e cattivo, ma finalmente si aprì, nel cielo, uno spiraglio d’azzurro. La donna respirò di sollievo. Arrivava la primavera. Il contadino era pensieroso; le cose non andavano bene. Sotto la neve che si scioglieva non si vedeva la terra, ma la roccia. La terra se ne era andata a valle con la furia dell’acqua. Una mattina, tutta la famiglia uscì dalla casa a prendere il primo raggio di sole. C’era ancora tanta neve che scintillava intatta.
Ad un tratto si sentì un rumore lontano. Pareva un muggito. La donna ebbe paura. “Che cos’è?” Il contadino tendeva l’orecchio. Anche le pecore erano inquiete e si accalcavano le une accosto alle altre, come se volessero sfuggire un pericolo. L’uomo andò sopra un’altura e guardò lontano. “Si vede un polverio bianco…” Il rombo si faceva più forte; veniva dall’alto del monte. “Andiamo via” disse l’uomo, “Andiamo a metterci al riparo di quei massi. Fuggiamo di qui, è troppo scoperto…” Scapparono tutti meno le pecore chè non c’era tempo di radunarle.
Ora il rombo era forte e cupo e si avvicinava. “La valanga!” gridò l’uomo diventando bianco di paura. E si prese i figlioli tra le braccia e si nascose con loro dentro una grotta. Il turbine di neve si avvicinava con un rombo come il tuono. Ma non era tuono, il cielo restava sereno. Era una gran massa di neve che rotolava per il fianco della montagna, s’ingrossava lungo il cammino, schiantava, rovinava, travolgeva tutto al suo passaggio, non più arrestata dagli alberi che per tanto tempo le avevano sbarrato il passo.
Passò come un turbine, si scontrò con la casetta, la seppellì, la travolse, si perdette a valle con un muggito lungo e pauroso… E la famiglia uscita salva dalla grotta, stava a vedere, piangendo, la rovina che la valanga si era lasciata dietro e pensava che se ci fossero stati gli alberi, quella rovina non sarebbe avvenuta… (M. Menicucci)
Morte di un albero La donna lavava i piatti con un gran ciabattare e scrosciare d’acqua. Il marito fumava, leggendo il giornale. Era sera e faceva molto freddo. Brutta annata: gelate, tramontana, ventaccio e poca legna. La donna era di malumore e brontolava.
“Con tanti alberi, qui nel viale, non si può avere un ciocco di legna da buttare sul fuoco. Qui signori del Municipio! Tutto per la bellezza del paese! Come se la bellezza si potesse mangiare!” Il marito non diceva niente. Sapeva che la moglie bisognava lasciarla sfogare.
“Vorrei sapere che cosa ci stanno a fare quegli alberi sulla strada! Per dar fastidio! D’inverno ti levano la luce e d’estate ti coprono la finestra che non si può vedere neanche chi passa. C’è questo qui davanti poi, che è un castigo. Sembra che per i passeri non ci sia che quell’albero. Tutti lì, tutti lì, e la sera ti stordiscono per il chiasso che fanno e la mattina ti svegliano all’alba. E se per caso ti vien voglia di sederti all’aria fresca… sudicioni! L’altr’anno mi rovinarono il vestito nuovo!”
L’uomo fumava e taceva, ma gli si vedeva un risolino sotto i baffi. “Tu ridi, eh, ridi! E non vedi che siamo senza fuoco? Lo sai che la legna è quasi finita e l’inverno è appena cominciato? Ridi, invece di procurarti un po’ di fascine e di ciocchi!”.
La donna tacque per riprendere fiato. “Dimmi un po’” disse dopo un momento di silenzio “Non potresti tagliare qualche ramo?” “Sì, per andare in prigione!” rispose, flemmatico, l’uomo.
“In prigione! In prigione ci manderei quei signori del Municipio che non sanno far altro che piantare alberi! E perchè, poi? Per scimmiottare la città. Sicuro! E intanto, la povera gente non ha nemmeno il sole, chè se lo ruban tutto loro, foglie e rami!”.
La donna gettò uno sguardo iroso fuori della finestra dove s’intravedeva la sagoma scura e stecchita del grande albero spoglio. L’albero dormiva. Aveva perduto da un pezzo le foglie e ora si era chiuso tutto nella scorza dura per impedire che il gelo frugasse nelle fibre tenere e bianche.
Un sonno lungo, il suo, che cominciava ai primi freddi e finiva in primavera. Ma quanti sogni! Che cosa può sognare un albero? L’inverno che finisce e tutto e ancor freddo, immobile ma i rami cominciano a rabbrividire e, dentro, la linfa preme, gonfia la corteccia fin che la spacca e la gemma verde si affaccia per godersi il primo tepore dell’aria. Allora l’albero riviveva ed era una vita magnifica e possente. La linfa gagliarda andava su e giù finchè prorompeva in migliaia di germogli che scoppiavano da tutte le parti, si aprivano e mettevano le foglie, belle, grandi, lucide.
Passato quel primo tripudio di giovinezza in cui l’albero si sentiva un po’ pazzo, cominciava il lavoro calmo dell’estate. Diventava bello. Chi si ricordava più di quello scheletro magro ed asciutto? Il vento giocava coi rami, li strapazzava un po’, ma rifaceva subito pace portando profumi e tepori. Il sole si divertiva a trapelare tra le foglie e a ricamarle d’oro fino.
E poi, i passeri. Pettegoli, prepotenti, che allegria mettevano nel vecchio tronco! Non ci facevano il nido, preferivano il tetto, più sicuro, ma il primo volo, ai piccini, glielo facevan fare lì, dal tetto all’albero, che li accoglieva tutto intenerito, poveri piccoli piumaccioli, morbidi, tondi e tanto felici!
Poi la sera, a nanna, fra i suoi rami. Che chiasso! La gente alzava la testa, sorridendo e qualcuno si divertiva a fare un colpo con le mani, forte. E allora tutto lo stormo scappava, spaventato e nell’albero si faceva un gran silenzio. Ma non avevano paura, fingevano soltanto; tornavano alla spicciolata perchè sapevano che era un gioco e ci si divertivano anche loro. E, dopo un momento, riecco il cicaleccio fitto fitto. Avevano tante cose da dirsi, la sera! Infine, pian piano, qualcuno, stanco, taceva. Stava un po’ zitto e raggomitolato, con gli occhietti semichiusi, poi, tutt’a un tratto, ficcava la testina sotto l’ala e buonanotte a tutti!
Questo sognava il grande albero, ma nessuno lo immaginava, vedendolo così cupo e immobile. Di che cosa si accorgono gli uomini, egoisti e meschini? Ma l’avrebbero lasciato vivere se non fosse stato per l’odio di una donna.
“Un mezzo ci sarebbe per far seccare l’albero!” disse l’uomo levandosi la pipa dai denti e sputando lontano. La donna si fermò davanti a lui con le mani sui fianchi.
“Forse” riprese il marito “se l’albero seccasse, ci toccherebbe parecchia legna. Non per questa stagione, naturalmente, ma si potrebbe far provvista per l’inverno che viene. Non la porterebbero via tutta”. “Parla dunque” “In una sera di gelo, basta rovesciare, sulle radici dell’albero, un paiolo di acqua calda. Non so com’è, ma l’albero secca”. Una luce cattiva passò negli occhi della donna. “Ma io direi di farlo vivere” si affrettò a dire l’uomo, pentito di quanto si era lasciato scappare. “In fondo è un bell’albero e ha faticato per crescere”.
La donna non lo degnò di una risposta: prese il paiolo e andò a metterlo sul fuoco. “Non ci pensi molto, tu” disse l’uomo andandosi a mettere davanti alla finestra. Gli dispiaceva d’aver parlato, ma non credeva che la moglie mettesse subito in atto il suo progetto. L’albero si levava nella notte come un fantasma nero. Un soffio di tramontana fece vibrare i vetri. “Dove la trovi una notte più fredda di questa?” disse la donna “Vogliono gelare persino i sassi della strada”. E alimentò il fuoco sotto il paiolo. Il marito tacque. S’era pentito delle sue parole, ma ormai sapeva che c’era più nulla da fare. Aveva rimorso di veder uccidere deliberatamente l’albero che, infine, era una creatura viva. Poi pensò che, forse, quella poca acqua non sarebbe stata sufficiente ad uccidere un colosso così. La donna prese il paiolo, si ravvolse in uno scialle e scese nella strada.
Il cielo, scintillante di stelle, prometteva una gelata bianca come un sudario di morte. L’albero si destò. Un’onda di tepore saliva lungo le sue fibre con una dolcezza primaverile. Stupì. Ad ogni suo risveglio era abituato a vedersi attorno una fioritura leggera e il cielo azzurro, tenero e soave. Invece era notte e tutto era nudo, scheletrito e deserto.
Ma il tepore persisteva e l’albero si rallegrò. Dilatò le sue fibre e lo accolse trepidante. Le radici, anch’esse improvvisamente rideste, si abbeverarono a quel calore dolce, fremendo. Il tronco si scosse e aprì i suoi pori già serrati contro il gelo e il tiepido succo salì, ricercò la sua vita più profonda, la rianimò, diffondendo sotto la corteccia un benessere gaudioso. E per l’albero fu primavera. Ecco, la sua rinascita cominciava. Il gelo delle sue membra si scioglieva, le ombre dei sogni fuggivano di fronte a questa magnifica realtà; l’albero si preparò a ricevere il nuovo, benefico afflusso di vita… Una raffica violenta lo investì; rigida come una lama si infiltrò nelle fibre dilatate e indifese; lo frustò fino al midollo tenero e bianco, serrò in una morsa gelida le radici deste e vive, scosse i rami vibranti e li fermò in un abbraccio mortale… Poi passò come un impeto di furia vittoriosa, oltre l’albero, che restò immerso in uno stupore desolato… Il vecchio cuore, colpito dall’inganno, impietrì senza più vita. Sopra un ramo, un passero pigolò piano, e nel sonno si scosse tutto rabbrividendo. (M. Menicucci)
Le piante si difendono dalla siccità e dal freddo eccessivi, liberandosi delle foglie
La caduta delle foglie è un fenomeno che avrai osservato tante volte: è lo spettacolo suggestivo e poetico che l’autunno ogni anno ci offre. Gli alberi restituiscono alla terra le loro verdi spoglie. Nelle regioni a clima temperato, come l’Italia, la caduta delle foglie avviene ai primi freddi autunnali. In altri paesi delle regioni tropicali la caduta delle foglie coincide con l’inizio dell’estate. Come mai le piante si comportano in così diversa maniera? Non è il caldo o il freddo che direttamente fanno cadere le foglie. E’ un’altra la ragione. Tu sai che le piante traspirano attraverso le foglie, cioè eliminano vapore acqueo. Nelle regioni tropicali il periodo estivo è caratterizzato dalla mancanza di piogge: le piante seccherebbero tutte se continuassero a traspirare regolarmente attraverso le foglie. Invece le lasciano cadere e passano il periodo di siccità in una specie di sonno estivo. Nelle regioni temperate accade che all’inizio dell’autunno il freddo fa abbassare la temperatura del terreno: le radici delle piante, allora, non riescono più a trarre da esso quella quantità d’acqua di cui ha bisogno. Se la traspirazione delle piante continuasse normalmente, le piante seccherebbero completamente. E così, più o meno rapidamente, le piante si liberano dalle foglie. In certe piante (faggio, nocciolo) la caduta delle foglie ha inizio dalla cima dei rami e va verso la base. In altri invece (tiglio, salice, pioppo) avviene il contrario: cadono prima quelle più in basso e poi quelle dei rami superiori. La caduta delle foglie è certo una perdita di sostanze per le piante: è un danno ma presenta anche dei notevoli vantaggi. D’altra parte la pianta, prima di perdere il suo verde manto, ha compiuto una… operazione di recupero delle cellule delle foglie: ha portato via amidi, zuccheri, grassi, li ha messi da parte nel tronco per utilizzarli poi in primavera per creare nuove e più giovani foglie. Ecco perchè le foglie, prima di cadere, cambiano colore e diventano gialle, o arancione o brune in infinite sfumature, creando con i loro colori il meraviglioso paesaggio autunnale. La pianta dunque cede alla terra solo gli scheletri delle foglie, ricche soprattutto di una sostanza, che si è accumulata durante l’estate, l’ossalato di calcio. Questa sostanza non solo non è più utile alla pianta, ma ne riuscirebbe dannosa, se la conservasse ancora. La caduta delle foglie ha un po’ anche il compito di purificare la pianta e liberarla dalle sostanze inutili e dannosi: un’operazione simile all’escrezione degli animali. Le foglie cadute al suolo lentamente si decompongono e contribuiscono alla formazione dell’humus, che è un elemento fondamentale per la fertilità del terreno. Come si staccano le foglie? E’ forse il vento che le porta via con il suo gelido soffio? Certo le foglie cadono più facilmente e rapidamente per lo stimolo di cause esterne; ma è la pianta stessa, che lavora per liberarsi delle foglie. Essa forma sul picciolo delle foglie una specie di anello di cellule, che ha il compito di operare la separazione delle foglie dalla pianta. Basta allora un alito di vento o il peso stesso delle foglie a determinarne la caduta.
Alberi nani
I giardinieri giapponesi sanno ottenere incantati giardini in miniatura, allevando gli alberi in piccoli vasi, ove vegetano lentissimamente per decine e decine di anni, assumendo l’aspetto di vecchie piante, pur essendo alte pochi centimetri. Per ottenere questo nanismo, si seminano in piccoli vasi i semi più piccoli delle piante in terriccio povero: le piantine vanno poco innaffiate e abbondantemente potate. La radice principale viene tagliata, le radici laterali vengono in parte scoperte. Si cerca di dare alla pianta la forma di un vecchio albero con tronco e rami tortuosi. Un tale ricorda di aver osservato in Giappone una pianta di ciliegio, che aveva l’età di centocinquanta anni. A questo tipo di allevamento si presta bene l’albero della canfora, con foglie alterne sempreverdi, picciolate ovali, a fiori piccoli e biancastri; così pure il cedro, resinoso, dal caratteristico odore aromatico, la quercia e l’albero del pane, dai cui frutti si ricava un lattice, che col calore si rapprende formando una specie di pane, commestibile.
Albero tuttofare
Un europeo viaggiava per i paesi dell’India meridionale sotto un sole implacabile, quando, stanco e spossato per il lungo cammino, decise di bussare ad una solitaria capanna circondata da altissime palme di cocco. L’ospitalità dell’indiano fu veramente squisita: per prima cosa gli offrì una bibita dissetante affinché si ristorasse, poi gli servì un pranzo così vario e nutriente che il viaggiatore, meravigliato, domandò al suo ospite chi in quel luogo così solitario lo provvedesse di tutte quelle cose. “Le mie palme!” gli rispose l’ospite. “La bibita dissetante che vi ho offerto è ricavata dal frutto prima che sia maturo. Questo latte, che voi trovate così gradevole, è contenuto nell’interno della mandorla. Questa verdura così delicata è il tenero germoglio dell’albero di cocco. Il vino, di cui voi siete così contento, è anch’esso fornito dal cocco, durante tutto l’anno. E infine, tutto questo vasellame e questi utensili di cui ci siamo serviti a tavola, sono stati fatti con il guscio del cocco.
Vita dell’albero
Vive col tempo, con le stagioni, progredisce, si protende, si innalza. Nei suoi anelli concentrici sono impresse le vicende di tutte le annate trascorse, sì che leggendo in un tronco tagliato, puoi avere notizia non solo della sua età, ma della siccità o meno di tutte le annate da lui vissute. Combatte con le intemperie, con gli animali, coi parassiti, coi venti, coi fulmini; si difende, si cura, si guarisce da solo. Guardalo. Pesa quintali e quintali e non ne vedi il peso; vedi la forza semmai, lo slancio, la leggerezza, la freschezza, la grazia. (F. Tombari)
Alberi in fiore Sull’alto della collina, il contadino ripartisce lo stabbio col tridente e attorno a lui è già una vasta punteggiatura sulla terra grigia. Col solito anticipo sugli altri alberi da frutta i mandorli sono già fioriti; tutta la collina ne è bianca e rosa. Da quando Maria posò tra i suoi rami Gesù neonato, per nasconderlo agli sbirri di Erode, secondo quello che narrano i vecchi, il mandorlo si affretta ogni anno a fiorire, anche a costo, come spesso capita, di perdere fiori e frutti alla prima gelata. In fondo alla valle si estende il mosaico verdegrigio dei campicelli. Sui rettangoli e quadrati verdi, frotte di ragazzi e donne già zappettano per dare aria alla terra incrostata e liberare il grano tenero dalle erbe selvatiche; sulle parti grigie, uomini con zappa, aratri e bestie lavorano alle semine di granoturco, di piselli, di fave, di ceci, di lenticchie, mondano i fossi, rafforzano i cigli, le fratte. (I. Silone)
Dettati ortografici sugli ALBERI – Tutte le opere contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere.
Dettati ortografici sull’olivo – una raccolta di dettati ortografici, di autori vari, per bambini della scuola primaria. Difficoltà ortografiche miste.
Le olive sono ormai tutte nere e grasse e a spremerle emanano il loro denso liquore; gli olivi, poveretti, implorano di essere alleggeriti da tanto peso. Non ne possono più. E le raccoglitrici cercano in terra e non lasciano che una sola bacca sfugga ai loro sguardi. Cantano, intrecciano stornelli. Una canta e le altre rispondono. Così per tutto il giorno. Verso il tramonto le lavoratrici si radunano e partono intonando ancora una canzone. (A. Palazzeschi)
L’olivo Con la vite e col grano, l’olivo è la terza pianta propria del nostro suolo. Pianta povera, modesta nell’aspetto, mite nei frutti, cresce sui colli, esposta al sole e ai danni degli insetti, che ne rovinano il tronco. Per crescere e fruttificare bene, impiega circa trent’anni: però chi la pianta non la pianta mai per sè, ma per i figli e i nipoti e per amore verso la terra. (F. Tombari)
L’olivo Veste di grigio-verde le nostre colline, e di notte s’inargenta ai raggi della luna. I suoi rami sono contorti, ma le foglioline robuste sono dritte e lucide come piccole lame. Si afferra con le radici al terreno, si nutre d’aria, di sole, di salmastro. I suoi frutti non sono dorati, profumati, grossi, ma sono quei piccoli tesori bruni nei quali si nasconde tanto oro: l’olio che cola dal frantoio e va ad allietare la nostra tavola. (G. Vaj Pedotti)
Il dolce olivo Dovunque l’aria sia mite e il clima non troppo mutevole, ne umido, ne secco, l’olivo resiste: all’opera attenta dell’uomo è legata la sua lunga vita. Beato chi ha piantato l’albero d’olivo, nella propria terra, a difesa del grano che non ama essere investito dal vento invernale; beato chi può raccoglierne le bacche, appena macchiate di violetto o biancastre, o screziate, o verdoline, in questo mese dolce, dopo il primo temporale d’autunno, sulla terra ancora dura che odora di vendemmia! Dalle vigne ove rare piante segnano i confini, alle coste ondulate delle colline, alla pianura gialla e nera di ristoppie arse dal fuoco, il paesaggio di questa terra agli olivi affida la sua decorazione: quel distacco ricco di ombre ferme che variano dal grigio all’argenteo, dal verde al cupreo, a seconda dei riflessi della luce, dello splendore del giorno, della trasparenza della sera. Tra gli spazi di questo paesaggio, ecco donne ricurve: soltanto le mani si muovono, e il grembiule si gonfia di olive. Qualcuna è salita sull’albero e scrolla con grazia esitante i rami più alti. (R. M. De Angelis Beltempo)
La raccolta delle olive
Alla metà di novembre i contadini raccolgono le olive. Quanti mesi sono passati da quando gli olivi, nelle chiare giornate di aprile, si coprirono di fiorellini gialli!
Ora i campi sono squallidi. Viti, pioppi, gelsi sono tutti senza foglie. L’aria è bigia e fredda, senza voli e senza canti. I contadini escono di casa ben coperti, camminano per la viottola fino agli ulivi che occupano la parte più alta della collina, dove la terra è più asciutta e sassosa, poi si accingono al lavoro pazienti. L’aria è fredda e le mani presto si intorpidiscono. Ma i contadini resistono alle fatiche e al disagio per ore e ore; sanno che le olive costituiscono il raccolto più ricco dell’anno; sono il loro tesoro, e non vogliono perderne nemmeno una. (G. Fanciulli)
L’olivo è un albero sempreverde, dalle foglie coriacee, verdi di sopra, biancastre di sotto, fortemente cutinizzate, rivestite cioè di cutina, una sostanza dura e impermeabile che permette al fogliame di difendersi dal freddo e dall’umidità. Il frutto dell’olivo è l’oliva, una drupa con polpa oleosa e nocciolo duro nell’interno. Dell’olivo esistono due sottospecie: l’olivo coltivato (olivo gentile) e l’olivo selvatico detto anche oleastro.
Questo non è da confondersi con l’olivastro, chiamato anche erroneamente olivo selvatico e che invece proviene da seme di olivi coltivati e cresce nelle siepi e nei boschi senza coltura. Produce frutti più piccoli, meno carnosi che danno generalmente un prodotto più scarso, ma superiore per qualità a quello dell’olivo coltivato. Le olive sono ricoperte da una pellicola verde che con la maturazione diventa, man mano, più scura, fino a raggiungere una tinta bruno – violacea o nerastra. Le olive, a seconda della qualità, vengono utilizzate in vari modi, conciate, salate, seccate, ma l’utilizzazione più importante è quella dell’estrazione dell’olio.
L’olivo cresce in regioni che hanno un clima dolce e uniforme. Non prospera dove è troppo freddo, ma nemmeno dove è troppo caldo. Qualunque terreno, purchè non sia paludoso, conviene all’olivo. Nei terreni fertili esso è più produttivo, ma la qualità del suo frutto è inferiore a quello che può dare in un terreno sassoso sito in posizione alquanto elevata e che costituisce l’ambiente ideale.
Il legno dell’olivo, che si presenta compatto ed elegantemente variato per l’andamento delle sue fibre, è molto usato nell’industria per la fabbricazione di mobili e per lavori di tarsia. L’olivo cresce con lentezza e può vivere anche più di quattro o cinque secoli. Si dice che lo pianta il nonno per il nipote. In alcune regioni, si usa raccogliere le olive percuotendo l’albero con un lungo bastone, ma questo sistema è dannoso. Il miglior modo di procedere alla raccolta è quello di cogliere l’oliva a mano.
L’olivo fu conosciuto fin dalla più remota antichità. I Greci premiavano i vincitori dei giochi con corone di olivo e fecero di questa pianta il simbolo della saggezza, dell’abbondanza, della pace. Quest’albero fu tenuto in considerazione anche dai Romani; spesso, i popoli vinti chiedevano la pace a Roma portando rami di olivo. Secondo la Bibbia la colomba del diluvio tornò nell’Arca con un ramoscello di olivo nel becco, simbolo della pace tra Dio e gli uomini.
L’olivo viene distribuito insieme alle palme, nelle chiese la domenica prima di Pasqua, chiamata perciò domenica delle palme o degli ulivi, in ricordo del giorno in cui Gesù entrò in Gerusalemme, festeggiato dalla folla che agitava rami di palma e di ulivo in segno di giubilo.
Dettati ortografici sull’olivo – Tutte le opere contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere.
Poesie e filastrocche per San Martino per bambini della scuola materna e primaria.
San Martino Umido e freddo spunta il mattino, ed a cavallo va San Martino Quand’ecco appare un mendicante, lacero e scalzo vecchio e tremante Il cavaliere mosso a pietà, vorrebbe fargli la carità Ma nella borsa non ha un quattrino, e allora dice Oh poverino Mi spiace nulla io posso darti, ma tieni questo per riscaldarti Divide in due il suo mantello, metà ne dona al poverello Il sole spunta e brilla in cielo, caccia la nebbia con il suo velo E San Martino continua il viaggio, sempre allietato dal caldo raggio.
San Martino Nero il cielo era; la pioggia fitta al suol precipitava nè una casa nè una roggia al meschin si presentava avanza sconfortato, le sue gambe eran tremanti ecco un giovane soldato si presenta a lui davanti snello biondo ardito e bello, ei sta ritto sul cavallo guarda e subito il mantello svelto taglia senza fallo ne dà mezzo al poveretto, che l’indossa, e il donatore fissa. Dice ” Benedetto, sia per sempre il tuo buon cuore.” Il meschino era Gesù, e Martin si prosternava ora non pioveva più, ecco il cielo rischiarava riapparì smagliante il sole, s’udì dolce un’armonia gelsomini, rose, viole, infioravano la via. (N. Giustino)
San Martino La nebbia agl’irti colli piovigginando sale e sotto il maestrale urla e biancheggia il mar; ma per le vie del borgo dal ribollir dei tini va l’aspro odor de i vini l’anime a rallegrar. Gira su ceppi accesi lo spiedo scoppiettando: sta il cacciator fischiando su l’uscio a rimirar. Tra le rossastre nubi stormi d’uccelli neri com’esuli pensieri nel vespero migrar. (G. Carducci)
San Martino Lampioncini colorati che sfilate lungo i prati stan le stelle ad osservare per vedervi scintillare voi fiorite nei giardini come lieti fiorellini stan le stelle ad osservare per vedervi scintillare siete come le farfalle, bianche rosse verdi e gialle stan le stelle ad osservare per vedervi scintillare.
San Martino Chi passa al gran galoppo su quel cavallo bianco? Un prode cavaliere con la sua spada al fianco. Poi torna al suo castello e per il bosco va gli uccelli lievemente gorgheggiano qua e là.
San Martino Se passa un cavaliere con un pennacchio rosso sull’elmo è san Martino, senza mantello indosso. Il sole novembrino che stacca foglie gialle, pelliccia bionda e soffice gli cade sulle spalle (R. Pezzani)
La leggenda di San Martino San Martino sul destiero galoppava, galoppava, tutto avvolto nel mantello, tutto assorto nel pensiero. Nero il cielo, freddo il vento ed un turbine di foglie… Era autunno. San Martino galoppando udì un lamento. “Muoio”, un poverello ripeteva irrigidito. San Martino con la spada tagliò a mezzo il suo mantello. Che tepore! Al poverino gli ritorna sangue e vita, or ch’è avvolto nel mantello del pietoso San Martino. Ricomincia a galoppare nel grigiore il cavaliere quando tiepido il bel sole, per prodigio, ecco riappare! D’un azzurro intenerito che ricorda primavera si sinnova tutto il cielo, pare il mondo rifiorito. (Olga Siniscalchi)
Poesie e filastrocche per san Martino – tutte le opere contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere.
Dettati ortografici NOVEMBRE – Una raccolta di dettati ortografici, con vari livelli di difficoltà, sul mese di novembre, per bambini della scuola primaria.
Novembre E’ un mese freddo, nebbioso, umido. Gli alberi sono spogli e alzano, verso il cielo grigio, le loro braccia stecchite. I prati sono umidi di nebbia, la siepe è nuda e mostra l’intrigo dei suoi rami spinosi. Si sente l’inverno vicino.
Fa freddo Le belle giornate di sole ormai se ne sono andate. Il cielo, quasi sempre grigio, nebbioso, lascia cadere una pioggerellina minuta e fredda. Gli animali si sono rifugiati sotto terra, nelle loro tane tiepide e sicure, i rettili sono nascosti nel profondo dei crepacci, i pipistrelli, a testa in giù, si sono appesi sotto la volta delle grotte oscure. Si sveglieranno a primavera.
I doni di novembre Novembre porta la pioggia, la nebbia, la brina. Il cieso è sempre grigio, cade una pioggerella minuta e fredda, i prati sono zuppi di umidità, sopra ogni filo d’erba brilla una goccia. Se questa umidità si gela, avremo la brina, la fredda sorella della neve.
L’estate di San Martino Nei primi giorni di novembre, talvolta il cielo si rischiara. Il sole appare tra la nuvolaglia grigia, i fioretti si schiudono, le erbe raddrizzano i loro steli. Sembra tornata la primavera. Ma è soltanto l’estate di San Martino.
L’estate di san Martino Il cielo è nebbioso; i rami secchi degli alberri, ormai privi di foglie, lasciano cadere lente gocce di umidità rappresa. Ma ecco che, un bel giorno, il cielo si rasserena, il sole torna a scaldare, tiepido, la terra, i passeri cinguettano, qualche fiore sboccia pensando che sia primavera: è l’estate di San Martino, breve, dolce stagione, piena di tepore e di bellezza.
Novembre Il cielo non ha più il suo bel colore azzurro. Ora è bigio e coperto di nuvole dense. Gli alberi hanno perduto le foglie. Erano così belli, vestiti di verde! Sono rimasti nudi e stecchiti e rabbrividiscono al vento freddo che scuote i rami con triste fruscio.
Freddo Il freddo è arrivato. Gli alberi hanno ormai perso tutte le foglie, e scheletriti e nudi, rabbrividiscono al vento che soffia, violento, fra i rami. Lucertole, bisce, insetti, sono tutti giù, sottoterra, immersi nel letargo. Si sveglieranno a primavera. I prati sono senza erba; sulle zolle si forma la brina e sui cespugli secchi si posano i passeri infreddoliti alla ricerca di un granellino per sfamarsi.
Novembre Una nebbia leggera leggera ingombra l’orizzonte. E’ una nebbia uguale, soffice, trasparente, quasi un velo che non nasconde, ma dà bellezza nuova al paesaggio. Tutto tace nella campagna. Di tratto in tratto, a voli brevi, i passeri si slanciano, dai comignoli al piano, e lo scricciolo dal cespuglio alla macchia. (A. Stoppani)
Novembre Al tempo degli antichi Romani, che furono quelli a dar il nome ai mesi, l’anno cominciava con marzo, ed ecco che novembre era, appunto il nono mese. Mutò il calendario, ma il nome restò, così come sono restati quelli di settembre, di ottobre e di dicembre.
Giorno di nebbia La nebbia, fitta, umida, silenziosa, bianca, al mattino avvolge in un velo leggero le persone, le automobili, i contorni delle case. Sembra di vivere in un mondo sconosciuto, in mezzo ad ombre. Perfino i suoni sembrano avere un tono più lieve. Verso mezzogiorno la nebbia si dirada e il sole appare in cielo.
Nebbia Leggera e silenziosa è calata la nebbia. Nasconde col suo velo la luce pallida del sole, i colori degli ultimi fiori dell’autunno. Le case, gli alberi, le persone sembrano ombre. Io cammino adagio, stretto alla mano della mamma. Forse tra poco un raggio di sole riuscirà a sciogliere il velo fitto della nebbia. Allora guarderò lassù per rivedere il cielo.
Pioggia Il cielo è grigio, pare che un velo lo ricopra tutto. Piove piano, piano. Le gocce si rincorrono in un gioco scherzoso. Ecco, ora una goccia leggera batte ai vetri della finestra. Toc, tic, tac. La pioggia canta la sua canzone. Io l’ascolto in silenzio e osservo nella pozzanghera del cortile il cielo che si riflette.
Arriva il gelo Viene nelle notti serene, quasi all’improvviso. Si stende tacito sulla terra che si irrigidisce e diventa dura come la pietra. Al mattino un’aria tagliente ci sferza il viso. Tutte le pozzanghere e i fossi sono ricoperti di uno strato di ghiaccio.
Novembre
Un uomo vestito di grigio, magro e palliduccio, avanza a gran passi. Porta con sè un sacchetto, poche foglie ingiallite e molti crisantemi bianchi. Ma che cosa perde da quel sacchetto? Chicchi di grano? Si capisce, è Novembre, il seminatore.
L’autunno intorno a noi
Guarda: ogni stagione ha la sua poesia di giorni e di cose. Se la primavera inventa i colori, l’autunno li cancella. La terra ha lavorato a dar fieni e biade, ed ecco l’autunno coprirla di foglie cadute, velarla di nebbie sottili, perchè s’addormenti e dolcemente riposi. Gli alberi fino a ieri così folti di chiome, così beati d’ombre e popolati di nidi, ingialliscono e si spogliano. E dove sono gli uccelli?
Nel mese di novembre continua la semina del frumento, delle fave, dell’orzo e della segale. Da per tutto, negli orti e nei giardini, fioriscono i crisantemi. Le giornate sono sempre più brevi. Nel calendario romano novembre era il nono mese dell’anno ed era dedicato a Diana, la dea della caccia. Il mese di novembre è consacrato al culto dei defunti.
Dice la terra: “Ho maturato il grano e l’uva, ho dato il pane agli uomini e alle formiche; dopo tanta fatica, devo riposare. Datemi il seme, che io lo chiuda dentro di me, perchè appena tornerà il sole maturerò ancora le piante che devono darvi il pane”.
Un uomo vestito di grigio, magro e palliduccio, avanza a gran passi. Porta con sè un sacchetto, poche foglie ingiallite e molti crisantemi bianchi. Ma che cosa perde da quel sacchetto? Chicchi di grano? Si capisce, è Novembre, il seminatore.
Novembre
Ottime, per la semina, queste giornate di novembre brumose, nebbiose, piovigginose; così la terra è molliccia e le formiche non rubano i chicchi, e i passerotti non li beccano e i polli, razzolando, non li trovano. E intanto, si colgono gli ultimi frutti: no, gli ultimi frutti sono, veramente, le olive. Or che la campagna si addormenta nel riposo invernale, le olive rimangono alla pioggia e al gelido vento sui rami fronzuti. (T. Pellizzari)
L’ultimo raccolto di novembre
Quando la campagna si addormenta nel riposo invernale, le olive rimangono alla pioggia e al gelido vento, nei rami fronzuti. E si gonfiano. E si annerano. E si colmano di olio odoroso. E il contadino comincia a coglierle. E le frangerà sotto la macina. E le torchierà nel pressoio. E dal pressoio, fluiranno taciti rivi d’oro. (T. Pellizzari)
Novembre in campagna
Una nebbia leggera leggera ingombra l’orizzonte. E’ una nebbia uguale, soffice, trasparente, quasi un velo che non nasconde, ma dà bellezza nuova al paesaggio. Tutto tace nella campagna… Di tratto in tratto, a voli brevi e furtivi, i passeri si slanciano dai comignoli al piano e lo scricciolo dal cespuglio alla macchia. (A. Stoppani)
Fiori di novembre
I giardini non hanno più fiori: soltanto i crisantemi fanno nei cespugli una macchia rossastra, gialla, bianca. Sono fiori grandi, rotondi, fitti di petali, oppure semplici e piccoli come margherite. La gente li coglie per portarli alle tombe dei morti e il cimitero, in quei giorni, sembra un grande, magnifico giardino. Ma non c’è allegria come negli altri giardini.
Novembre
Novembre è un mese triste. Porta la brina, la nebbia, la pioggia. Il cielo è quasi sempre nuvoloso. I rami degli alberi sono stecchiti perchè hanno perdute tutte le foglie. In questo mese si ricordano le persone care che non ci sono più. Sulle loro tombe si portano i crisantemi che fanno, nel cimitero, un grande giardino. Pure, qualche cosa di allegro c’è anche a novembre. Si raccolgono le castagne che piacciono molto ai bambini. Nei campi il contadino semina. I chicchi affondano nel terreno lavorato. A primavera la terra sarà tutta verde e fresca.
Estate di san Martino
Novembre è un mese triste: nebbia, freddo, cielo nuvoloso, alberi che si spogliano. Passano gli ultimi stormi di uccelli migratori che si dirigono verso i paesi caldi. Sui rami degli alberi, ormai privi di foglie, si formano grosse gocce di umidità rappresa. Gli insetti sono spariti, la natura è brulla e silenziosa. Ma ecco che un giorno il cielo si rasserena, il sole torna a scaldare tiepido, la terra, i passeri cinguettano, qualche fiore sboccia illudendosi che sia tornata la primavera. Non è primavera: è l’estate di san Martino, breve dolce stagione piena di tepore e di bellezza.
E’ novembre Presto, cogliamo questi ultimi lampi di bellezza della terra esausta che si prepara a morire. Quante volte avremmo voluto fissare sulla carta l’emozione, il nostro amore per la zolla grassa, bollente, coperta di verde, per la spiga pesante che il sole abbrustolisce, per il grappolo azzurro, lustro, per il ramo curvo carico di frutta! Non abbiamo saputo! Non perdiamo questi splendori estremi. Riempiamoci gli occhi del vermiglione, della porpora, dell’arancione dei pampini agonizzanti; del giallo e del bianco dei fiori ritardatari. L’erba fresca inzuppata di rugiada, le foglie scintillanti nelle mattine ancora soleggiate, i campi e le prode fumanti come la groppa di un bue che ha lavorato troppo. Domani il sipario della nebbia calerà su tutto e sul nostro cuore. Non vedremo, non ameremo più nulla che i nostri ricordi. (A. Soffici)
Giornate novembrine In questi giorni d’autunno, solo la natura ha colori smaglianti, più festosi di quelli di primavera. Le foglie delle viti e dei boschi vanno dal giallo canarino al rosso carabiniere, passando attraverso ogni sfumatura; l’oro grezzo, il bronzo nuovo, il cuoio vecchio, il pane. La gente in ogni villaggio, la mattina dei Santi, quando ci sono passato, andava al cimitero a portare fiori. Avevano tutti l’abito buono. I giovani o quasi giovani vestiti come in città, i vecchi contadini ancora con il fazzoletto di seta bianca legato al collo, il cappello di feltro tondo con qualche buffetto, il sigaro toscano o la pipa tra i denti, la carnagione arrossata dal sole e dai buoni vini. La gente andava a piedi, in motoretta, con le donne aggrappate al sellino posteriore, o in automobile. C’erano automobili a centinaia da tutte le parti, vecchie rabberciate e ridipinte, quasi nuove ben lucidate, e nuovissime appena uscite dal negozio. Si allineavano in bell’ordine, all’ingresso del cimitero, dove il vigile, vestito a nuovo, faceva autorevoli segni. Le donne portavano grandi mazzi, tenuti stretti al petto come un bambino, per lo più crisantemi color d’oro, grandissimi, certamente molto più grandi di quelli che si usavano prima della guerra, rinchiusi in sacchi di plastica, perchè non si sciupassero. L’ordine era nelle cose ma anche nei sentimenti, nell’obbedienza ai precetti e alle tradizioni, nella pietà per i defunti. (L. Barzini J un)
Colore di novembre Novembre: mese delle prime brinate, delle prime nebbie, delle uggiose piogge. Qualche volta fa la sua apparizione la neve; sovente accade già di trovare, il mattino, fontane e ruscelli gelati. Nelle case, sui focolari scoppiettanti, o sulle stufe che brontolano, c’è quasi sempre una pentola che fuma. I bimbi disegnano casine, barche ed alberi sui vetri appannati. In questo mese, l’acqua è davvero presente in quasi tutti i suoi travestimenti.
Il mese di novembre La campagna lentamente si spoglia. I campi arati fumano, e la prima nebbia li fascia; e gli alberi nudi levano come scheletri le braccia. Cadono pioggerelle fini, e intanto i solchi e le zolle si vanno riempendo di semi che danno frutti alla nuova stagione. I contadini piantano nuovi vigneti e nuovi filari di alberi. Si raccolgono le prime olive da mangiare dolci; sulle bancarelle dei fruttivendoli fanno spicco i vivaci colori delle mele, delle pere, dei cachi, mentre le caldarroste spandono all’intorno un gradevole profumo. Nei giardini sbocciano gli ultimi fiori: i crisantemi, bianchi, viola, gialli, dal profumo amaro.
Tempo di caccia Il primo sole del novembre si affaccia malinconico alle ultime cime della montagna, già biancheggianti per la neve caduta di fresco, e, mandando i suoi languidi raggi attraversi ai rami brulli dei castagneti, tinge di rosa la croce di ferro del campanile.
Qualche nuvola bianca sta fissa sui monti più lontani, uno strato bigio di nebbia allaga la pianura, e il villaggio dorme ancora sotto un freddo e splendido sereno d’autunno.
I cacciatori son già tutti partiti, dopo che ha suonato la campana dell’alba; vi è stato allora un breve segno di vita, qualche latrato, qualche fischio, qualche colpo alle porte per destare i compagni addormentati, e poi deserto e silenzio turbato soltanto ad intervalli dal fruscio delle foglie secche dei platani della piazzetta, che bisbigliano lievi lievi, portate in giro sul lastrico da radi sbuffi di tramontana. (R. Fucini)
San Martino
Nacque nel 316 in Ungheria. Suo padre era un ufficiale romano. Ancora ragazzo fu avviato alla carriera delle armi che più tardi, divenuto prete, abbandonò. Fu eletto vescovo di Tours. Morì nel 397. La leggenda narra che San Martino, il santo della carità, divise il proprio mantello con un povero incontrato in una rigida giornata autunnale. Come premio a questo suo atto generoso, Dio mutò la temperatura di quella giornata in un clima di primavera. Da quel giorno quel periodo venne chiamato “l’estate di San Martino”. San Martino è considerato anche il simbolo dell’abbondanza.
San Martino
Nacque in Pannonia. Suo padre, tribuno romano, fece di lui un soldato. Ebbe innato il senso della carità. E’ particolarmente noto l’episodio di cui fu protagonista in una fredda giornata di novembre. Mentre a cavallo percorreva un solitario sentiero, si imbatté in un poveretto tremante. Non esitò a dividere con lui il suo mantello. Nella notte, in sogno, gli apparve un giovane uomo rivestito del drappo che aveva donato al poveretto e lo ringraziò. Commosso da questo strano sogno, non esitò a convertirsi al Cristianesimo. Fondò poi alcuni monasteri ed ebbe grande popolarità. La sua tomba divenne meta di numerosi pellegrinaggi, cosicché in quel luogo sorse una stupenda Basilica.
Dettati ortografici su NOVEMBRE – tutte le opere contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.
Poesie e filastrocche su NOVEMBRE – Una collezione di poesie e filastrocche sul mese di Novembre per bambini della scuola d’infanzia e primaria.
Novembre Il novembre sta alla porta freddoloso e intabarrato, poggia in terra la sua sporta ed un sacco ben legato. Scioglie il sacco: nebbia, neve… La va mal pei poverini! Ma la sporta è colma e greve di castagne pei bambini. (Ferraresi)
Novembre Io son novembre: i buoi conduco all’aratura e nella terra scura nascondo i semi d’or. Cadon le foglie, i rovi splendon di bacche rosse, s’empion rivi e fosse e a me si stringe il cor. (D. Valeri)
Nenia di novembre Al contadino, nel novembre, piace la terra che riposa contemplare in pace. Al contadino, nel novembre, piace pensare alla semente che nei solchi giace. Al contadino, nel novembre, piace pei campi lavorati camminare in pace. (V. Masselli)
Novembre E’ triste questo mese! Nella campagna spoglia trema sui rami, appesa, qualche ingiallita foglia! Nei prati brulli e arsicci lassù sulle montagne, sgusciano fuor dai ricci le lucide castagne. (Bruno Grella)
Novembre Sferza, fischiando, il vento gli alberi nudi, ch’alzan verso il cielo gli scheletrici rami e tutto, intorno, dice che presto arriverà la neve, il gelo. Non più frutti negli orti, non c’è quasi più un fiore nei giardini, è questa la stagione del crisantemo, il triste fior dei morti. A mazzi, od in corone, tra i salici ed i neri cipressi dei solinghi cimiteri or tutte se ne infiorano le tombe, perchè nella lor casa ultima e mesta abbiano pur gli estinti un pio giorno di festa. (U. Ghiron)
Novembre La donnetta nello scialle si rannicchia intirizzita, piovon foglie e foglie gialle sulla terra insonnolita. Nubi fosche, nubi nere, van pel cielo a stormi, a frotte, calan rapide le sere, scende rapida la notte. (A. Ferraresi)
Novembre Un velo d’acqua trema al calore d’un raggio una foglia di faggio si distacca e non cade. Lembi di nebbie rade fumano a fior di terra dal leggio di una serra piovon gocce iridate. Sulle cose create che sembravano morte che sembravano assorte in un sonno dolente ecco! vola il sole d’oriente con la chioma di nubi (R. Mucci)
Chi lo sa? Ora dormono tutti i prati, senza l’erbe, senza i fiori; dove mai son rimpiattati i grillini saltatori? Dove mai saranno andate le graziose farfalline? Perchè mai si son chetate le cicale canterine? Chi lo sa? (B. L. Pistamiglio)
Galline Al cader delle foglie, alla massaia non piange il vecchio cor, come a noi grami: chè d’arguti galletti ha piena l’aia; e spessi nella pace del mattino delle utili galline ode i richiami: zeppo, il granaio, il vin canta nel tino. Cantano a sera intorno a lei stornelli le fiorenti ragazze, occhi pensosi, mentre il granoturco sfogliano e i monelli ruzzano nei cartocci strepitosi. (G. Pascoli)
La foglia nella pozzanghera Sullo specchio appannato d’una pozzanghera ho visto cadere una foglia. Tremava nell’acqua limacciosa portando con sè l’ultimo brivido del vento di novembre. Girava lentamente lungo le sponde del livido lago senza approdare mai. Nel silenzio si udì cadere qualche goccia e la fragile foglia rovesciò l’oro di tutte le stagioni nell’acqua fangosa. (M. Altieri)
Novembre San Martino cavaliere trova un cielo di nuvole nere: ogni nuvola un mantello che regala al poverello. Dolce tepore si scioglie nell’aria rifattasi celeste; splendono le foglie nell’effimero oro della veste. (Ignazio Drago)
Canzoncina di novembre Schiarita di novembre, al tuo breve sereno già il camposanto di fioretti è pieno. Di solingo giardino quasi marmoree panche, aspettano le tombe, al sole, bianche. L’erba, che ai sonni invita, come d’aprile è folta; gonfiano le radici un’altra volta. Come aprile sia tornato e l’amoroso affanno, dentro la terra i morti crederanno. Schiarita di novembre, al pallido sereno il camposanto di fioretti è pieno. (U. Betti)
Novembre Gemmea l’aria, il sole così chiaro che tu ricerchi gli albicocchi in fiore e nel prunalbo l’odorino amaro senti nel cuore. Ma secco è il pruno e le stecchite piante di nere trame segnano il sereno; e vuoto è il cielo e cavo al piè sonante sembra il terreno. Silenzio intorno. Solo alle ventate di lontano, da giardini e orti, di foglie è un cader fragile. E’ l’estate fredda dei morti. (G. Pascoli)
Gemmea: limpida e fredda come una gemma. che tu ricerchi: tanto chiaro è il sole che vien quasi da ricercare gli albicocchi fioriti, come se fosse già primavera. del prunalbo… nel cuore: l’atmosfera fa quasi sentire quell’odore amarognolo proprio del biancospino (prunalbo). Ma secco: è un’illusione, quel presentimento di primavera: gli alberi sono secchi. le stecchite… il sereno: rami stecchiti tracciano disegni oscuri contro il fondo sereno del cielo. cavo… il terreno: in quell’atmosfera secca e cristallina il terreno risuona sotto i passi, come fosse vuoto. alle ventate: ad ogni folata di vento. fragile: le foglie morte battono al suolo col rumore secco e breve delle cose che si rompono. l’estate: la cosiddetta “estate di San Martino”. Ma è un’estate senza calore, appropriata alla ricorrenza dei defunti.
Novembre Io son novembre: i bovi conduco all’aratura e nella terra scura nascondo i semi d’or. Cadon le foglie, i rovi splendon di bacche rosse, s’empiono e rivi e fosse, e a me si stringe il cuor. (Diego Valeri)
Canzoncina di novembre Schiarita di novembre, al tuo breve sereno il camposanto di fioretti è pieno. Di solingo giardino quasi marmoree panche, aspettano le tombe, al sole, bianche. L’erba, che ai sonni invita, come d’aprile è folta: gonfiano le radici un’altra volta. Che aprile sia tornato e l’amoroso affanno, dentro la terra, i morti crederanno. Schiarita di novembre, al tuo breve sereno il camposanto di fioretti è pieno. (Ugo Betti)
Novembre Al monte e alla pianura ecco novembre toglie anche l’ultimo verde, e morte, al suol, marciscono le foglie. Sferza, fischiando, il vento gli alberi nudi, ch’alzan verso il cielo gli scheletriti rami e, tutto, intorno, dice che presto arriverà la neve, il gelo. Non più frutti negli orti, non c’è quasi più un fiore nei giardini; é queste la stagione del crisantemo; il triste fior dei morti. (Ugo Ghiron)
Novembre Oh, quei fanali come s’inseguono accidiosi là dietro gli alberi, tra i rami stillanti di pioggia sbadigliando la luce sul fango. Oh, qual caduta di foglie, gelida, continua, muta, greve, sull’anima! Io credo che solo, che eterno, che per tutto il mondo è novembre. (G. Carducci)
Inverno vicino
Oh, come piove! …Da più giorni, il cielo, tutto il suo pianto, inconsolabilmente versa alla terra… D’ogni intorno un velo, grigio, si stende sull’immensità, Oh, come piove! … Son le vie, veloci torrenti, e laghi immensi le campagne. Che grigiore! … Non s’odono più voci: squallida, desolata è la città. Ma dove, i poverelli, senza tetto e senza pane, dove, nel rigore di sì cruda stagione hanno ricetto? Qual è il rifugio della povertà? Pietoso concedi agli indigenti un poco del tuo pane e un po’ di sole: accogli gli infelici, i sofferenti, tra le grandi braccia di pietà. (Gaetano Corrado)
Novembre
Dicon le siepi brulle: “O dolce sole di marzo, quando ci darai di nuovo il verde delle foglie, le viole?” Dice sotto la gronda il nido vuoto: “Quando ritornerà la rondinina, che mi ha lasciato per un lido ignoto?” Dicono i morti nella terra greve: “Siamo più tristi e desolati qui, sotto il bianco mantello della neve!” Dicono i poverelli, che la sera han per coperta il cielo senza stelle: “Torna per noi, sorella primavera!” (Zietta Liù)
Fuochi di novembre Bruciano nella gramigna Nei campi, Un’allegra fiamma suscitano E un fumo brontolone. La bianca nebbia si rifugia Fra le gaggie, Ma il fumo lento si avvicina. Non la lascia stare. I ragazzi corrono intorno Al fuoco Colle mani nelle mani, Smemorati, Come se avessero bevuto Del vino Per lungo tempo si ricorderanno Con gioia Dei fuochi accesi in novembre Al limitare del campo. (A. Bertolucci)
Paesaggio Nell’autunno sereno la pianura non offre al sol che bacche aspre di arbusti e tra un grigiore argenteo di fusti riposa, stanca d’ogni genitura. Uomini attendon gravi all’aratura spingendo i bovi sotto il giogo angusti, altri già spargon, d’una sacca onusti, il seme biondo sulla zolla oscura. Raggiano i monti vigilando eccelsi l’opere agresti, e nel loro grembo giace qualche nuvola, e qualche fumo impigra. A tratti un volo da spogliati gelsi si leva e, come a non turbar la pace laboriosa, tacito, trasmigra. (F. Pastonchi)
Poesie e filastrocche su NOVEMBRE – Tutte le opere contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere.
Racconti per San Martino: racconti adatti a bambini della scuola d’infanzia e primaria su San Martino
San Martino San Martino era un bel soldato, giovane e forte. Se ne andava, in un giorno di novembre, lungo una strada di campagna e si riparava dalla pioggia con un pesante martello che l’avvolgeva tutto. “Che brutta stagione!” disse guardandoci attorno.
Gli alberi avevano perduto le loro foglie e alzavano i rami stecchiti e nudi verso il cielo grigio, tutto uguale, che prometteva pioggia per chissà quanto tempo. Non c’era un fiore nei prati; quella poca erba era tutta inzuppata d’acqua e in mezzo vi saltavano le rane e facevano gre gre.
La strada era deserta, tutti stavano riparati dentro le case. Soltanto un mendicante se ne stava seduto sopra un paracarro, al margine della strada e tremava sotto la pioggia, cercando di ripararsi sotto pochi cenci che ormai erano intrisi d’acqua e non servivano più a nulla.
“Poveretto!” disse Martino, fermandosi davanti a lui… “Vorrei tanto aiutarti, ma i soldati sono poveri e ti dico la verità che in tasca non ho neppure una moneta per farti bere qualcosa che ti scaldi”. “Non importa” rispose il poveretto rannicchiato sotto l’acqua. “Mi hai detto una buona parola. Anche questa è carità. Non capita spesso…”
“Aspetta!” disse ad un tratto Martino “Qualcosa ce l’ho”. Trasse la spada e tagliò il mantello in due parti. “Ecco qua” disse contento “Mezzo per uno e staremo abbastanza caldi tutti e due”. Posò il mantello sulle spalle del vecchio che lo guardava con riconoscenza e proseguì lietamente il suo cammino.
Poco dopo incontrò un altro mendicante, anche questi lacero e tremante sotto la pioggia gelida che veniva giù. “Quanti poveri ci sono al mondo!” disse fra sè Martino e la sua bella contentezza era svanita. Lo spettacolo della miseria gli aveva rattristato il cuore. Senza neppure pensarci su un momento, si tolse la metà del mantello che si era gettato sulle spalle e lo regalò al mendicante.
Martino camminava e pregava Dio per la povera gente e si sentiva il cuore pieno di amore e di pietà. Era così assorto nei suoi pensieri che non si era neppure accorto che aveva smesso di piovere. Guardandosi attorno pensò di sognare. Il cielo si era schiarito e le pozzanghere erano piene di riflessi azzurri. All’orizzonte era apparso un bellissimo arcobaleno e il sole era caldo e luminoso. Le siepi erano tutte fiorite e gli uccellini, sugli alberi, cantavano lietamente. Non pareva più autunno, ma la dolce e tiepida primavera.
Dio aveva voluto ricompensare l’atto generoso di Martino e gli aveva mandato un segno della sua benevolenza. Da allora, nel pieno dell’autunno, s’è sempre qualche giornata tiepida, il sole splende e i rami spogli provano anche a mettere qualche gemma. Gli uomini dicono che quella è l’estate di San Martino che il cielo, ogni anno, manda sulla terra per ricordare l’atto pietoso del Santo che regalò il suo mantello ai poveri. M. Menicucci
Il cavaliere della luce Questo è un racconto che si usa nelle scuole steineriane, che ho un po’ alleggerito (nei limiti del possibile) degli elementi che a mio parere calcano troppo la mano sulle simbologie religiose e morali. In effetti la storia di san Martino è un racconto semplice formato da due quadri soltanto: il taglio del mantello, e l’apparire del sole.
In un regno lontano lontano viveva tanto tempo fa un ragazzo, Martino. Questo ragazzo era molto stimato dal Re, per i suoi modi gentili e per il suo cuore coraggioso. Presto Martino imparò a cavalcare, a tirare di scherma e con la fionda. Non usciva mai dal castello, se non per qualche battuta di caccia, durante la quale il re lo voleva sempre al suo fianco. E Martino cresceva sempre più bello, e forte, e intelligente.
Così, quando venne il momento, il re lo mandò a chiamare, perchè già da tempo aveva pensato di fare di lui il suo consigliere. Quando Martino si trovò al cospetto del re, messo al corrente delle sue intenzioni (intenzioni che avrebbero certo lusingato cavalieri, nobili e principi di tutto il mondo), lui rimase un attimo in silenzio, poi chiese al re tre giorni di tempo per riflettere sulla proposta. Il re fu molto stupito, ma siccome aveva grande fiducia in Martino e lo stimava moltissimo, non si offese per nulla e accettò la sua richiesta.
Martino trascorse la prima notte nella torre del castello, e di notte, uscendo a guardare le stelle, sentì quanto piccolo era il regno in cui viveva e quanto grande era il cielo.
Il secondo giornò cavalcò a lungo, poi trascorse la notte in una grotta che conosceva bene, perchè era quella dove andava a giocare da bambino.
Lì fece un sogno: era a palazzo, durante una festa, al fianco del suo re. Tutti sorridevano, tutto era bello e ricco. Poi improvvisamente si alzava una nebbia grigia e lui si ritrovava solo, in una strada stretta mai vista prima. C’erano persone tristi, povere e affamate, e ogni volta che lui cercava di aiutarle, nel sogno rimaneva come immobilizzato. E più andava avanti per quella strada, più anche lui si trasformava: i suoi bei vestiti diventavano stracci, e lui sentiva fame e sete e freddo.
Si svegliò di colpo, senza sapere come finisse il sogno.
Il terzo giorno decise di andare in riva al mare, e la sera si addormentò su di una zattera ormeggiata agli scogli. E fu un sonno senza sogni. Quando si svegliò, si sentiva forte e sereno, e tornò dal re, che lo stava aspettando. “Caro re, ho pensato a lungo e mi sento onorato dalla vostra proposta, ma sento che il mio destino non è quello di restare a palazzo. Datemi il permesso di partire. E vi prometto che tornerò, non appena avrò trovato quello che cerco”. Di fronte a tanta fermezza, il re accettò la decisione di Martino, e sguainata la spada, lo nominò cavaliere dicendo: “Ora sei un cavaliere, avrai un cavallo, questo mantello rosso e la mia spada.”
Martino partì al galoppo su uno splendido cavallo bianco, col suo bellissimo mantello rosso e la spada dono del re. Compì molti atti eroici lungo la sua strada, e con la sua spada combattè ingiustizie e bugie. E passarono molti anni. Un giorno, era autunno inoltrato, Martino cavalcava pensando a quanto tempo era passato da quando aveva lasciato il suo regno. Era novembre. Le giornate si facevano sempre più fredde, e una fittissima nebbia avvolgeva tutte le cose. Si strinse nel suo mantello rosso. L’umidità dell’aria si sentiva fin nelle ossa. Ad un certo punto il cavallo si fermò, come se avesse sentito qualcosa.
Allora Martino scese dalla sella e vide, seduto sul ciglio della strada, un povero mendicante. Il freddo era insopportabile. Martino guardò tra le sue cose se c’era qualcosa che poteva essere utile per soccorre l’uomo, ma non aveva nulla. Allora, senza nemmeno pensarci un attimo, si tolse il mantello, lo alzò in aria, e impugnata la sua spada lo divise in due parti uguali. Poi con una metà andò a coprire il mendicante, e lui si accontentò dell’altra metà.
Quindi, senza dire una parola, rimontò in sella e si allontanò nella nebbia, sotto lo sguardo riconoscente dell’uomo. Subito dopo avvenne una cosa davvero incredibile: la nebbia sparì di colpo per lasciar filtrare i raggi del sole, ed erano raggi caldi come in estate, capaci di scaldare tutto il paese. Martino si tolse anche il pezzo di mantello rimasto, tanto faceva caldo. E capì che era il momento di tornare nel suo regno.
San Martino
Nacque nel 316 in Ungheria. Suo padre era un ufficiale romano. Ancora ragazzo fu avviato alla carriera delle armi che più tardi, divenuto prete, abbandonò. Fu eletto vescovo di Tours. Morì nel 397. La leggenda narra che San Martino, il santo della carità, divise il proprio mantello con un povero incontrato in una rigida giornata autunnale. Come premio a questo suo atto generoso, Dio mutò la temperatura di quella giornata in un clima di primavera. Da quel giorno quel periodo venne chiamato “l’estate di San Martino”. San Martino è considerato anche il simbolo dell’abbondanza.
San Martino
Nacque in Pannonia. Suo padre, tribuno romano, fece di lui un soldato. Ebbe innato il senso della carità. E’ particolarmente noto l’episodio di cui fu protagonista in una fredda giornata di novembre. Mentre a cavallo percorreva un solitario sentiero, si imbatté in un poveretto tremante. Non esitò a dividere con lui il suo mantello. Nella notte, in sogno, gli apparve un giovane uomo rivestito del drappo che aveva donato al poveretto e lo ringraziò. Commosso da questo strano sogno, non esitò a convertirsi al Cristianesimo. Fondò poi alcuni monasteri ed ebbe grande popolarità. La sua tomba divenne meta di numerosi pellegrinaggi, cosicché in quel luogo sorse una stupenda Basilica.
Racconti per San Martino – tutte le opere contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere.
Libri di lettura di Tolstoj – Racconti tratti dalle raccolte di Libri di lettura di Tolstoj per la lettura, il riassunto e l’analisi grammaticale.
Sto utilizzando con successo queste brevi letture di Tolstoj coi bambini di seconda e terza. Ci esercitiamo nella lettura, ma anche i bambini si cimentano nei primi riassunti e nell’analisi grammaticale, sottolineando e classificando nomi, verbi, aggettivi. Iniziamo anche a cercare le prime parole sul vocabolario.
Tolstoj dedicò alla stesura dei suoi quattro Libri di lettura, che inizialmente appartenevano all’Abbecedario, circa 14 anni di lavoro, condotto in larga parte all’interno della sua scuola a diretto contatto coi bambini.
Mi sento davvero di consigliarli:
Le letture seguono un ordine di complessità progressiva, e si caratterizzano tutte da una rappresentazione positiva della realtà, dalla scelta di temi vicini alla sensibilità dei bambini e che suscitano il loro interesse, e da un linguaggio accuratamente scelto per loro dallo scrittore al fine di ottenere uno stile conciso, semplice e soprattutto chiaro, senza per questo rinunciare alla bellezza della parola.
Ecco alcuni esempi di schede di lavoro.
Libri di lettura di Tolstoj
Leggi il seguente racconto, poi evidenzia i nomi, gli aggettivi qualificativi ed i verbi
I fili sottili Un uomo chiese a una filatrice alcuni fili sottili. La filatrice glieli preparò, ma l’uomo disse che non andavano bene, che gli occorrevano ancora più sottili. La filatrice allora rispose: “Se questi fili non sono abbastanza sottili per te, eccone altri” e gli mostrò una scatola vuota. L’uomo disse che non vedeva nulla; ma l’astuta filatrice rispose: “Appunto, sono tanto sottili che non si vedono. Non li vedo nemmeno io!” Allora quello sciocco, tutto contento, fece una grande ordinazione di quei fili e li pagò a prezzo d’oro.
Autocontrollo e autocorrezione
Nomi: fili, uomo, filatrice, scatola, ordinazione, sciocco, prezzo, oro
Aggettivi: sottili, vuota, astuta, contento, grande
Come imparai a cucire Avevo sei anni quando chiesi a mia madre che mi insegnasse a cucire. Mia madre rispose: “Sei ancora troppo piccola. Non riusciresti che a pungerti le dita”. Ma io insistetti. Allora mia madre tolse dal suo cestino un pezzo di panno rosso e me lo diede. Poi infilò un sottile filo rosso in un ago e mi insegnò come tenerlo. Cominciai a cucire, ma non riuscii a fare i punti regolari: uno era troppo lungo, uno troppo corto, un altro finiva troppo vicino all’orlo, non prendeva la stoffa e lasciava aperto un grosso buco. Alla fine mi punsi un dito. Non volevo piangere, ma storsi la bocca e la mamma se ne accorse. “Ebbene? Che cos’hai?” mi chiese sorridendo. Questo fu troppo per me, e scoppiai finalmente a piangere. Allora mia madre mi consolò e mi consigliò di andare a giocare. La sera, quando mi coricai, i punti danzavano ancora davanti ai miei occhi. Mi domandavo come avrei fatto a imparare a cucire, e la cosa mi sembrava tanto difficile che dicevo scoraggiata tra me e me: “No, non imparerò mai!”. Ora, divenuta grande, non mi ricordo neppure come feci ad imparare; e quando insegno a cucire a mia figlia, rimango sempre assai sorpresa nel constatare come faccia fatica a tener ben fermo l’ago tra le dita.
Libri di lettura di Tolstoj
La pietra Un mendicante bussò alla porta di un ricco e chiese la carità. Ma il ricco non gli diede nulla e gli gridò con sgarbo: “Vattene! Vattene!”. Il povero non si mosse. Allora il ricco andò in collera, raccattò una pietra e gliela scagliò contro. Il povero raccolse la pietra, la mise nella sua bisaccia, e mormorò: “Porterò questa pietra fin quando non sarà giunta l’ora di vendicarmi e di lanciarla contro di lui”. E infatti quell’ora giunse. L’uomo ricco commise un delitto. Fu spogliato di tutti i suoi beni e venne condotto in prigione. Mentre il ricco camminava lungo la strada, incatenato e deriso, il mendicante lo incontrò e lo riconobbe. Si fece avanti, tolse la pietra dalla bisaccia e alzò il braccio. Ma, dopo aver riflettuto un attimo, lasciò cadere a terra la pietra, dicendo: “Perchè mai ho portato questa pietra per tanto tempo? Quando egli era ricco e potente suscitava la mia ira; ora mi fa pena…”
Libri di lettura di Tolstoj
Il cieco e il sordo Un cieco e un sordo andarono a rubar piselli nel campo del vicino. Il sordo disse al cieco: “Tu ascolta bene e riferiscimi tutto. Da parte mia, terrò gli occhi aperti.” Giunti nel campo, fecero bottino e sedettero. Il cieco tastò i piselli e disse: “Quanti! E’ andata bene…” “Che dici? Chi viene?” chiese il sordo, che aveva capito male l’ultima parola. Il cieco, allarmato, cadde nel fosso che limitava il campo. “Che fai?” chiese il sordo stizzito. “Son caduto nel fosso. Che brutto incidente!” “Come? Vien gente?” e il sordo si diede subito alla fuga, seguito a balzi dal cieco.
Libri di lettura di Tolstoj
Il bambino trovato Una povera donna aveva una figlioletta che si chiamava Maria. Un giorno, di buon mattino, Maria uscì per attingere acqua dal pozzo e scorse sulla soglia della casa un piccolo involto. Posò il secchio e si mise a disfare l’involto. A un tratto, da quel fagottino di vecchi panni uscì uno strillo e Maria vide un bel bambino appena nato, che agitava le manine e vagiva, vagiva… Maria allora se lo prese in braccio, ritornò in casa e gli diede un po’ di latte. “Che cosa hai trovato?” le domandò la madre, che entrava nella stanza in quel momento. “Ho trovato un bel bambino. Era in un fagottino presso la porta” rispose Maria. “Che cosa gli daremo da mangiare?” sospirò la madre. “Siamo già così poveri anche noi! Andrò dal sindaco del villaggio e lo pregherò di tenerlo con sè”. A quelle parole, Maria si mise a piangere. “Oh, mamma,” supplicava la bambina “è tanto piccolo! Mangerà così poco! Lascialo stare qui. Guarda com’è bello con le manine rosse e le piccole dita…” La madre guardò il piccolo e ne fu commossa. Tennero il bambino e lo crebbero con ogni cura. Maria lo nutriva, lo fasciava e lo sfasciava, lo metteva nella sua piccola culla e alla sera, per addormentarlo, gli cantava le più belle canzoni.
Libri di lettura di Tolstoj
Bob, il cane dei pompieri Nelle città capita molto spesso che, quando le case bruciano, qualche bambino resti tra le fiamme. E non è facile salvarlo, perchè, pieno di paura, egli si nasconde in qualche angolo e il fumo impedisce di vederlo. A Londra, la capitale dell’Inghilterra, si ammaestrano i cani affinchè salvino i bambini in caso di incendio. Questi cani sono gli amici fedeli dei pompieri e vivono con loro. Quando brucia una casa, essi si slanciano tra le fiamme e portano in salvo i bambini. Un cane, di nome Bob, ne ha già salvati dodici. Un giorno, il fuoco di appiccò a una casa, e, quando i pompieri giunsero sul luogo, una donna corse disperata incontro ad essi. Con voce rotta dai singhiozzi, ella disse che nella casa c’era la sua bambina, di soli due anni. I pompieri mandarono subito Bob a cercarla. Il cane si arrampicò su per la scala e scomparve nel fumo. Cinque minuti dopo ricomparve: in bocca, stretta nella piccola camicia, teneva la bambina. La madre si precipitò verso la sua creatura, e quando la vide sana e salva scoppiò in un pianto di gioia. I pompieri, intanto, accarezzavano il cane e guardavano se si era ferito. Ma Bob si agitava, si dimenava inquieto, finchè riuscì a sfuggire alle loro mani. Il cane ritornò di corse nella casa in fiamme e i pompieri, per un attimo, pensarono che vi fosse rimasto qualche altro bambino. Ma quando Bob ritornò fuori, tutti scoppiarono a ridere. Il cane teneva tra i denti una grossa bambola di pezza.
Libri di lettura di Tolstoj
Gli eschimesi C’è sulla terra un paese dove la bella stagione dura solo tre mesi; per il resto dell’anno è inverno. D’inverno, le giornate sono tanto brevi che il sole, appena levato sull’orizzonte, si corica e tramonta. Anzi, per circa tre mesi il sole non si leva neppure, e c’è sempre buio. Anche in queste regioni vi sono degli uomini: gli Eschimesi. Essi non escono mai dal loro territorio; hanno una lingua propria e non comprendono le altre lingue. Di statura sono piccoli, ma hanno la testa piuttosto grossa. La loro carnagione non è bianca, ma color caffelatte. Hanno occhi piccoli, capelli neri, naso poco sviluppato, zigomi larghi e sporgenti. Gli Eschimesi vivono spesso in case di neve, che costruiscono in modo curioso: tagliano la neve dura in forma di mattoni, collocano questi blocchi l’uno sull’altro e così costruiscono i muri. Le finestre sono fatte con lastre di ghiaccio; le porte sono lunghe gallerie scavate nella neve. D’inverno, quando il vento fischia e copre le case di nevischio, in quelle case si sta bene e c’è caldo. Gli Eschimesi di cibano di carne di renna, di lupo, di orso bianco. Oppure di carne di pesce, che essi pescano abilmente, col rampone o con le reti, nei mari polari. Cacciano gli animali con l’arco e ne mangiano la carne cruda. Non hanno nè lino, nè canapa, nè lana, ma si vestono con pelli e si servono dei nervi degli animali uccisi per fabbricare le corde. Essi non conoscono il ferro. Per fare gli spiedi e le frecce, usano ancora le ossa degli animali. Donne e uomini, tutti vestiti allo stesso modo. Le donne, tuttavia, hanno stivali molto larghi, perchè vi mettono dentro i loro bambini. D’inverno, per oltre tre mesi, c’è buio su tutto il paese. Ma d’estate il sole non tramonta mai, e non c’è notte.
Libri di lettura di Tolstoj
La scimmia e il boscaiolo Un giorno un boscaiolo andò nella foresta, abbattè un albero e si accinse a tagliarlo. Sollevò una estremità del tronco abbattuto, l’appoggiò su un ceppo, ci si mise a cavalcioni e cominciò a segare. Poi piantò un cuneo nel punto in cui era arrivato con la sega e gli fu facile staccare un ciocco. Proseguì allora così: segava, piantava il cuneo, staccava il ciocco. Seduta sopra un albero, una scimmia lo stava a guardare con attenzione. Quando il boscaiolo si sentì stanco, si coricò all’ombra di una pianta e subito si addormentò. Allora la scimmia discese in fretta dal suo albero, si mise a cavalcioni del tronco, proprio come aveva visto fare dall’uomo, e lo volle imitare in ogni suo gesto. Fece per togliere il cuneo, piantato nel tronco dal boscaiolo, ma la spaccatura del legno si rinserrò e le prese dentro la coda. La scimmia, con la coda schiacciata nella fessura, si dibatteva, strillando per il dolore. Allora il boscaiolo si svegliò, la stordì con un colpo e la fece prigioniera. Tutto per colpa della coda! La scimmia infatti può ben tentare di copiare l’uomo, ma non può riuscirvi. Perchè la scimmia ha la coda, e l’uomo no…
Libri di lettura di Tolstoj
Il viaggio in città Mio padre stava andando in città. Io gli dissi: “Papà, portami con te!” “Che idea!” mi rispose “Tu moriresti di freddo lungo la strada!” Io mi voltai dall’altra parte, scoppiai in lacrime e corsi a rinchiudermi nella mia camera. Piansi a lungo e alla fine mi addormentai. Vidi in sogno un sentiero che usciva dal nostro villaggio e conduceva ad una cappella. Mio padre camminava su quel sentiero. Lo raggiunsi, e insieme ci avviammo verso la città. A un tratto, mentre camminavamo, vidi in lontananza il negozio di un fornaio. “E’ questa la città?” chiesi allora a mio padre. “Sì, è la città” rispose. Intanto eravamo giunti al negozio. Nella vetrina vidi molti pasticcini appena sfornati e chiesi: “Papà, compramene uno!” Mio padre mi accontentò: comprò un pasticcino e me lo diede. Proprio in quel momento mi svegliai. Mi alzai, mi vestii, infilai i guanti e uscii di casa. Nella strada c’erano ragazzi che scivolavano sul ghiaccio, che correvano e saltavano, e anch’io mi misi a giocare con essi, finchè fui tutto intirizzito dal freddo. Rientrai in casa per riscaldarmi, quando udii la voce di mio padre che era tornato in quel momento dalla città. Gli corsi incontro tutto contento e gli chiesi: “Papà, me lo hai comprato un pasticcino?” “Sì!” rispose; e mi porse proprio quel pasticcino che avevo visto in sogno. Allora fui preso da una tale felicità che saltai sulla tavola e mi misi a cantare.
Libri di lettura di Tolstoj
La tempesta nel bosco Un giorno, quand’ero ancora ragazzino, fui mandato nel bosco in cerca di funghi. Ne trovai in gran quantità e, dopo averne raccolti parecchi, pensai di fare ritorno a casa. Ma l’aria, quasi all’improvviso, si era fatta scura. Incominciò a piovere e a tempestare, mentre il tuono brontolava lontano. Preso dalla paura, mi rannicchiai sotto un grande albero. A un tratto, un lampo saettò nell’aria così vicino e luminoso che chiusi gli occhi abbagliato. Nello stesso tempo qualcosa scricchiolò sul mio capo. Udii uno schianto, un forte colpo sulla testa e caddi a terra svenuto. Rimasi così a lungo, immobile sotto l’acqua. Quando rinvenni, tutti gli alberi del bosco scintillavano, gocciolavano, mentre il sole gettava sprazzi di luce tra i rami. Gli uccelli cantavano. Ma il grande albero giaceva al suolo, schiantato e bruciacchiato; dal suo tronco si levavano ancora pennacchi di fumo. La terra, tutt’intorno, era cosparsa di schegge e frammenti di legno. I miei abiti erano fradici; la testa mi faceva male. Raccolsi in fretta i funghi, raccattai il mio berretto e corsi a casa. Non c’era nessuno. Presi un po’ di pane che stava sul tavolo, sedetti accanto alla stufa e mi addormentai. Quando mi svegliai, vidi che i miei funghi erano già in tavola, cotti ben bene, e che i miei genitori si accingevano a mangiarli. “Li mangerete così, senza di me?” gridai indispettito. “E tu, perchè dormi?” risposero i miei “Vieni, c’è posto anche per te. Purchè tu venga subito”.
Poesie e filastrocche IL GIORNO DEI MORTI – Una collezione di poesie e filastrocche sul tema, per la scuola primaria, di autori vari.
Crisantemi O pallidi fiori dei morti, vi guardo ma senza tristezza. Vi sfiora, con lieve carezza, negli orti la luce del sole un po’ stanca. Fiorite vicino alla scuola, e il canto dei bimbi consola la bianca ghirlanda dei petali fini. Novembre vi soffia dal colle, l’aroma del mosto che bolle nei tini. (M. Castoldi)
Il cimitero C’è un lungo sentiero fra siepi di mirto che va al cimitero. Silenzio! Si tace perchè i nostri morti riposino in pace. Dormono, e il sole coi raggi li bacia, e a marzo le viole profuman le fosse. Le croci già bianche non sono mai stanche di tender le braccia al cielo lontano. Silenzio! Andiamo… Lasciamo che i morti riposino in pace: silenzio! Si tace. (A. Caramellino)
Strada del cimitero Strada disabitata, in mezzo agli orti piena di fiori e di malinconia, strada che mena al soggiorno dei morti che frequenta la mia nostalgia: strada silenziosa dove l’erba prospera come in un vecchio monastero, solitaria straducola che serba come un sentor di ceri e di mistero. (G. Govoni)
Nel giorno dei morti Piove nebbia sulle croci. Poche voci van nell’aria pianamente; cantilene dolci e tristi, bisbigliate, fra le tombe seminate. Va la gente lenta, assorta; altra ne viene, altra sosta al tuo cancello per segnarsi, o campicello benedetto. Sulle braccia tese, ha un fiore ogni croce, e più d’un lume fioco spande il suo chiarore nelle brume. (M. Castoldi)
Camposanto Dormono i morti con le mani in croce. Che silenzio nel verde camposanto! Entro i cancelli pregano con voce sommessa i bimbi alle pie tombe accanto. Un passero risponde alla preghiera. Che dolcezza dormir tra bimbi e uccelli! “Grazie per la pietà vostra sincera!” dicono i morti, “grazie a voi, fratelli!”. (A. Colombo)
Sotto la pioggia O camposanto che sì crudi inverni hai per mia madre gracile e sparuta, oggi ti vedo tutto sempiterni e crisantemi. A ogni croce roggia pende come abbracciata una ghirlanda donde gocciano lagrime di pioggia. Sibila tra le festa lagrimosa una folata, e tutto agita e sbanda. Sazio ogni morto di memorie, posa. (G. Pascoli)
Il giorno dei morti
Vuoi darmi la mano? Andremo così, per il viale dei pioppi, laggiù, al Camposanto, coi fiori e coi ceri. Diremo una muta preghiera e i morti l’udranno. E poi ci daranno risposta in silenzio, di dietro agli avelli di marmo, e i tumuli gravi di terra. E noi li avremo nel cuore, e li vedremo vicini, vicini, vicini: i nonni dai bianchi capelli i bimbi coi riccioli biondi, le mamme, i papà, i fratellini… Diciamo una muta preghiera: li avremo qui tutti vicini. (Ada Capitani Campari)
Crisantemi A tratti versa qualche goccia il cielo, qualche piccola lacrima smarrita, e la selva si scuote irrigidita in un subito brivido di gelo. Il colchico nei luoghi più deserti sboccia pensoso, e sotto i pioppi lunghi sorgono nel silenzio umido i funghi, che tengo sempre i loro ombrelli aperti: e nei giardini taciti e negli orti nascon, quasi piangendo, i crisantemi, i crisantemi per i nostri morti. (M. Moretti)
I crisantemi Non più frutti negli orti, non c’è quasi più un fiore nei giardini, è questa la stagione del crisantemo, il triste fior dei morti. A mazzi od in corone, tra i salici ed i neri cipressi dei solinghi cimiteri, or tutte se ne infiorano le tombe, perchè nella lor casa ultima e mesta abbiano pur gli estinti un pio giorno di festa. (U. Ghiron)
Due novembre E’ il dì dei ricordi. I morti ritornano vivi, nei cuori. Rinascono tutti gli acerbi dolori d’antichi, di prossimi lutti. E il tempo che vola, che alterna le sorti del riso e del pianto, che dona conforti d’oblio, quest’oggi, più triste, ma pio, ripete una sola parola: “Ricorda i tuoi morti”. (D. Borra)
Un cimitero Nel cimitero che ha l’aspetto c’una gran casa son un solo muro che gira tutto attorno, (senza tetto perchè i poveri morti possan godere ancora un poco d’aria e la vista del cielo turchino nella lor triste vita solitaria) è tanto il verde e l’erba è così densa che camminando si lascia un sentiero come in un prato, con tanti fiori che quasi si pensa d’essere in un magnifico giardino abbandonato. La commovente confusione! I papaveri con le rose, i fiordalisi con i cardi, e tra le ortiche il dente di leone con le barbane, il fiore che si spegne con un soffio… Così diversi e così belli! Solo qui dentro tutti son fratelli. (G. Govoni)
La notte dei morti La casa è serrata: ma desta; ne fuma alla luna il camino, non filano o torcono: è festa. Scoppietta il castagno, il paiolo borbotta. Sul desco c’è il vino, cui spilla il capoccio da solo. In tanto essi pregano al lume del fuoco: via via la corteccia schizza arida… Mormora il fiume con rotto fragore di breccia… E’ forse (io non odo; non sento che il fiume passare, portare quel murmure al mare) d’un lento vegliardo la tremula voce che intuona il rosario, e che pare che venga da sotto una croce, da sotto un gran peso: da lunge. Quei poveri vecchi bisbigli sonora una romba raggiunge col trillo dei figli de’ figli. Oh! I morti! Pregarono anch’essi la notte dei morti, per quelli che tacciono sotto i cipressi. Passarono… O cupo tinnito di squille dagli ermi castelli! o fiume dell’inno infinito! Passarono… Sopra la luna che tacita sembra che chiami, io vedo passare un velo, una breve ombra, ma bianca, di sciami. (G. Pascoli)
Se torneranno Se torneranno i morti questa sera lasciando un poco il bianco cimitero, se torneranno come una preghiera dentro la cappa del camino nero, fate, o piccini, che non vadan via con gli occhi tristi e con le mani in croce cantando come mesta litania il loro pianto con la smorta voce! Se tornerà quaggiù la sorellina con le ali degli angeli e il sorriso, dopo aver camminato tra la brina, non scappi così in fretta in Paradiso, e baciandovi piano con le ali candide e rosa come un dì di maggio, preghi: “Signori, tien lontano il male”. Dica: “Addio, fratellini! Buon viaggio!”. Se tornerà, orfanelli, la mammina a rimirarvi ed a baciarvi il cuore, a pettinarvi un poco la testina, a contemplarvi con lo stesso amore, fate che trovi tanta gentilezza e tanto sole sul visetto buono, che non dica con voce di tristezza: “Sono cattivi, mio Signor, perdono!”. Se tornerà la nonna sempre bella, fate che venga presso il focolare a raccontarvi ancora la novella e voi fatevi tutti ad ascoltare. Se torneranno i morti questa sera non abbiate paura; vesti d’oro hanno, e di luce, e fior di primavera fra le mani, corolle di tesoro. Essi son vivi, o bimbi, più di noi, hanno sofferto ed ora stanno in festa. In cielo ancora li vedremo poi, con fiori tra le mani e fiori in testa. (L. Nason)
Poesie e filastrocche IL GIORNO DEI MORTI – Tutte le opere contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere.
Analisi grammaticale esercizi – classe terza. Nelle seguenti frasi distingui, sottolineando con colori diversi, i nomi, gli articoli, gli aggettivi qualificativi e i verbi:
Il cane custodisce il gregge, aiuta il cieco e fa la guardia alla casa.
Il contadino ara il campo, semina il frumento e falcia l’erba.
Ascolta le parole del tuo papà!
Saltai il muretto, mi inciampai e caddi in una pozza d’acqua.
Non ho fame, ma ho solo sete.
La mamma bacia i suoi bei bambini.
Questa bella bambola è del mio fratellino piccolo.
Gli scarponi e le calze di Gianni sono sporchi di fango.
Il cane di Ugo si chiama Fofi.
Il bimbo osserva le belle illustrazioni del suo libro nuovo.
Antonio è più attento di Giorgio.
Maria è meno studiosa di Antonella.
Il leone è feroce come la tigre.
Carlo è il più allegro della classe.
Il cacao è amarissimo, invece il miele è dolcissimo.
Lo la gli pronome e articolo – esercizi per la terza classe pronti per la stampa. Precisa se lo, la, le contenuti nelle seguenti frasi sono pronomi o articoli.
Gli porsi gli occhiali e gli raccomandai di averne cura.
Le ciliegie sono buone e tutti le mangiano.
Prendi la mela e tienila in serbo, la mangerai a merenda.
Lo zio è buono, ma tu non lo tratti bene.
Il cacciatore aveva scovato una lepre, ma non le sparò.
Domandai alla mamma se le sembrava che avessi fatto tardi.
Non chiamare la mamma, non la disturbare.
Chiamai l’idraulico e gli indicai il guasto.
Trovai tastoni il pulsante dell’interruttore e lo premetti con forza.
Preso lo sporco attrezzo, il contadino lo ripulì con cura.
Se lo dice lui è vero! Lo conosco come un ragazzo serio.
Dettati ortografici – GLI ANIMALI DEL FREDDO. Una collezione di dettati ortografici sugli animali del freddo: foca, tricheco, orso polare, ecc…
La foca piange
Per quanto viva nel mare, la foca è un mammifero. Essa ha uno spesso strato di grasso che le permette di trattenersi per ore ed ore sul ghiaccio senza congelarsi.
La voce della foca è un aspro latrato o muggito; quando è in collera ringhia come un cane. Ha sensi eccellenti e tutti ugualmente sviluppati. Il naso e le orecchie sono chiudibili a volontà dell’animale.
Gli occhi sono grandi e la pupilla non è tondeggiante e allungata, ma divisa in quattro raggi.
Da ciò probabilmente dipende la facoltà che la foca possiede di vedere ugualmente bene sia di giorno che di notte, come a diverse profondità sott’acqua.
La foca ha uno sguardo espressivo e quando sente dolore, piange. Questa è la riprova che la foca non è un pesce. E’ un mammifero e dei più sviluppati. O. Valle
La foca
Le foche rendono possibile, all’uomo che vive sulle nevi, la vita nella patria inospitale. L’uomo trae profitto di tutte le parti della foca. Sono per lui utili la carne e il grasso. Il sangue, cotto con acqua di mare, serve da minestra, l’olio si beve dalla brocca, che nella misera capanna non manca mai come da noi la caffettiera. Gli intestini, tesi sulle finestre, lasciano penetrare una scarsa luce nelle abitazioni e le proteggono dal freddo. La pelle fornisce il cuoio per le calzature e gli abiti. Non si gettano via neppure gli ossicini: servono da giocattoli per i bambini.
L’orso bianco Vive nelle regioni più fredde della terra, dove non esiste vegetazione e regnano i ghiacci eterni. E’ il re del Polo, sfida la bufera, i lastroni di ghiaccio gli servono da barca, la neve da cuscino. Essendo un carnivoro, si nutre di foche, di pesci e di lontre. Molti cacciatori polari e gli eschimesi gli danno una caccia spietata.
L’orso L’orso è un mammifero carnivoro, appartenente alla famiglia degli ursidi, molto affine a quella dei canidi. Vive in Europa (orso bruno del Trentino e dell’Abruzzo), in Asia (orso bruno della Siberia e orso nero del Tibet) e nelle due Americhe (orso bruno, grizzly, baribal). L’orso bianco è un animale artico, ha il muso e il collo lunghi, le orecchie corte. E’ un buon nuotatore e si ciba di foche, di pesci e di sostanze vegetali. Gli orsi hanno artigli poderosi, non retrattili; quasi tutti sono capaci di arrampicarsi. Attaccano di rado l’uomo, ma possiedono grande forza e sono animali assai temibili. Può raggiungere l’altezza di un metro e venti, la lunghezza di oltre due metri, il peso di duecento, trecento chili in individui adulti, prima del letargo invernale. Ha pelliccia molto folta, che va dal bruno-nero al bruno-grigio, al bruno-rossastro, a seconda della distribuzione geografica. E’ forestale, bisognoso di grande estensione per aggirarsi a piacere e per il reperimento del cibo. La fame lo spinge ad uscire solo o in piccoli gruppi, durane la notte o al crepuscolo o al mattino presto. Mangia mirtilli, bacche, frutta in genere, germogli e radici, coleotteri, lumache, chiocciole, pesci. Nel cavo degli alberi, ricerca i favi di miele, di cui è molto ghiotto. A volte fa scorribande nei coltivi e si rimpinza di grano, di segale, si orzo, di pannocchie. Non molesta l’uomo se non preso alle strette, ma è aggressivo sul bestiame, specialmente quando, magro ed affamato, si desta dal letargo. Allora abbatte pecore e anche vitelli. (G. Menicucci)
La foca E’ un animale mammifero marino. Nuota agilmente, e sulla terra si muove in modo buffo e pesante. La foca vive in branchi numerosi e alleva i piccoli con cura. Va a caccia di notte; di giorno se ne sta sdraiata al sole, sulle rocce e sulle spiagge. Abbaia come i cani, brontola rabbiosa, ruggisce nelle lotte, urla quando è colpita dall’arpione. L’uomo caccia la foca per l’ottima pelle, l’olio e i grassi; i popoli nordici ne usano gli intestini per confezionare mantelli impermeabili.
La foca La foca è un mammifero carnivoro pinnipede. Si conoscono molte specie di foche che vivono soprattutto nelle regioni artiche e antartiche. La foca monaca, di pelame bruno o nerastro sul dorso e quasi bianco sul ventre, abita il Mediterraneo e talvolta viene catturata sulle coste italiane. La foca ha un capo tondeggiante, privo di padiglioni auricolari. Le zampe posteriori non servono per camminare e restano protese all’indietro. Nuota molto bene e si ciba di pesci. La foca vive in gruppi numerosi; è un animale intelligente e facile da addomesticare.
Il colosso dei ghiacci Le regioni artiche non sono affatto regioni deserte come molti di voi potrebbero pensare, anzi. Vi abitano numerosi mammiferi: i lupi, i buoi muschiati, i caribù, le lepri del polo, i lemming, gli ermellini, e molti mammiferi marini, come le foche e i trichechi di cui parleremo questa volta. Oggi i trichechi i trovano solamente nell’estremo Nord della Groenlandia e nella zona circostante lo stretto di Bering: sono animali goffi, che possono raggiungere tranquillamente il peso di una tonnellata e mezzo e la lunghezza di quattro metri e mezzo. Sotto la pelle i trichechi hanno uno spesso strato di grasso, che li protegge dal freddo terribile e permette loro di nuotare senza danno nelle acque gelide del Mar Artico. Può darsi che i trichechi vivano anche altrove, ma si tratterebbe in questo caso di regioni inesplorate: infatti non si hanno notizie della presenza di trichechi se non nelle regioni che abbiamo detto. E pensare che di fu un tempo in cui i trichechi erano numerosissimi in tutta la zona intorno al Circolo Polare Artico: ma questi animali, come gli elefanti, possiedono una ricchezza che fa gola: l’avorio! I denti incisivi del tricheco sono sviluppati come due vere e proprie zanne: possono raggiungere i settanta centimetri di lunghezza e il peso di oltre tre chili. Furono proprio queste zanne a suscitare la cupidigia degli uomini, tanto che i trichechi furono massacrati senza pietà, e oggi di molti milioni di esemplari non ne rimangono che trenta-quarantamila. Un tempo tutto il tricheco ucciso veniva utilizzato, e lo stessa fanno oggi gli eschimesi che sfruttano la carne, il grasso, la pelle per gli usi più diversi. Un tempo le pelli dei trichechi venivano trasformate in cordami per navi e, a onor del vero, si trattava delle funi più solide che si possano immaginare. L’aspetto si questo grosso bestione, la femmina pesa circa due terzi del maschio, ricorda grosso modo quello di un vecchio contadino tranquillo e bonaccione. I lunghi baffi lucidi e rigidi contribuiscono non poco a dare al tricheco una certa aria simpatica. Quando è piccolo, il tricheco è ricoperto da una pelliccia giallo-bruna, che presto diventa bianca, per poi cadere. Fatto adulto, il tricheco non ha su tutto il corpo nemmeno un peluzzo ad eccezione dei baffi: la sua pelle si presenta nuda, piena di rughe e di grinze, coperta di cicatrice che testimoniano le feroci lotte combattute durante il periodo degli amori. Questo è l’unico momento in cui i l tricheco si mostra combattivo e feroce: per lo più .se ne sta tranquillo a ronfare sulla banchisa. Meglio non fidarsi troppo, però, della bonarietà del tricheco, né della sua lentezza, quando cammina sulla terraferma. Le sue zanne sono armi terribili con le quali il nostro amico osa affrontare persino l’orso bianco: per questo più permettersi di sonnecchiare pigramente sulla banchisa: nessuno degli animali polari, nemmeno il più feroce, oserebbe avvicinarsi a lui. Le zanne del tricheco hanno però anche un’altra funzione: oltre ad essere arma di difesa e piccolo aratro per stanare gli animali di cui esso si ciba sono utilizzate come bastone di sostegno. Il tricheco, infatti, se ne serve per sollevarsi e per reggersi in piedi sulle rocce e sul ghiaccio. Il suo nome scientifico, del resto, Odobenus, significa appunto “colui che cammina sui denti”. Ma il tricheco usa anche un altro sistema per camminare: come la foca e a differenza dell’otaria, porta avanti le pinne natatorie, si appoggia su di esse, e, dopo di aver sollevato in questo modo tutta la parte posteriore del suo corpo, con un brusco movimento si getta in avanti. Mamma tricheco è particolarmente affettuosa con le sue creature: due piccoli che nascono a primavera, pesanti già di una settantina di chili, e che deve allattare per due anni. Essa ama giocare con i suoi piccoli, li fa rimbalzare come palle e improvvisa con loro una specie di nascondino acquatico. Una particolarità anatomica dei trichechi è che sono praticamente privi di unghie: su ciascun dito delle cinque dita delle pinne natatorie anteriori hanno infatti solo una parvenza di unghie, sulle pinne posteriori hanno un’unghia sola, piuttosto lunga, sul dito esterno. Il tricheco si trascina faticosamente per terra, e si trova invece meravigliosamente a suo agio in acqua: per questo si tuffa spesso a grandi profondità in cerca di cibo: conchiglie, asterie, ricci di mare e molti altri invertebrati sono il suo pasto preferito. Il tricheco infatti non si nutre di carne o di pesci come le foche, ma si ciba quasi esclusivamente con i piccoli animali che abbiamo detto.: li pesca in acqua o, con le zanne, li cerca nel fango ai limiti della banchisa. Per triturare queste leccornie, il tricheco è armato di sedici denti, oltre alle due zanne che sono la sua più formidabile arma di difesa. Questi sedici denti hanno la forma di piccoli coni resistentissimi e smussati sulla punta.
Dettati ortografici – Tutte le opere contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere.
Dettati ortografici ANIMALI AFRICANI – una raccolta di dettati ortografici sugli animali africani: leone, leopardo, elefante, giraffa, ecc…
L’elefante. L’elefante è un mammifero erbivoro tra i più grossi attualmente esistenti sulla terra. Il suo muso è caratteristico per la presenza della proboscide, un organo muscoloso, lungo, robusto, mobile, formato dal naso e dal labbro superiore cresciuti insieme. I due denti incisivi superiori, enormemente sviluppati, sono detti zanne. La sua pelle è durissima, e per questo è chiamato pachiderma.
Leopardo. Questo feroce carnivoro, che vive in Africa e in Asia, è capace di arrampicarsi sugli alberi, dove sta in agguato per sorprendere la preda. E’ cacciato dall’uomo per la sua pelliccia, di colore giallognolo e macchiettata di nero.
Leone. Il leone è il re della foresta e il suo possente ruggito spaventa e mette in fuga antilopi, zebre e giraffe. Il suo mantello è di colore rossiccio; il capo è ornato di una folta criniera. Il corpo è forte ed agile. Con i robusti artigli e i denti acuminati avvinghia e sbrana la preda.
Giraffa. La giraffa è un mammifero ruminante che vive in tutte le regioni a steppe e a boscaglie dell’Africa. E’ molto alta, con un collo lunghissimo e due piccole corna. Il suo mantello è di colore giallognolo, con grandi macchie castane.
La nave del deserto. Gli Arabi chiamano il cammello “la nave del deserto”. In mezzo alle sabbie e tre le nuvole di rena che il vento spinge ad ondate impetuose, questo ruminante ha un grande vantaggio sugli altri animali: dotato di lungo collo, erge il capo e tiene le narici al di sopra del vortice polveroso, con gli occhi mezzo chiusi e difesi da densi peli. Il cammello porta enormi pesi; dà latte, carne, pelo, pelle; la notte serve da guardia come un cane; ha l’istinto di sentire le acque lontane; riconosce a meraviglia la strada; sopporta la fatica con grande mansuetudine. All’esterno del rumine del cammello vi sono tante tasche sempre piene di acqua; è la riserva da consumare in caso di bisogno. La gobba che ha sul dorso è formata di grasso che l’animale consuma in caso di carestia; essa infatti scema e sparisce nei giorni di fame. Come il soldato che intraprende una lunga marcia di guerra, il cammello ha i suoi viveri di riserva, indispensabili nella lotta contro la natura avversa dei paesi desolati. O. Valle
Il più bello dei felini: la tigre
La tigre può raggiungere la lunghezza di tre metri, compresa la coda; e l’altezza di più di un metro, misurata dalla spalla. Ha pellame fulvo, con larghe striature nere, nella parte superiore; nelle parti inferiori, biancastro.
La tigre è un terribile carnivoro, molto più coraggioso del leone. Essa si nutre di cervi, antilopi, giovani bufali, giovani cinghiali e anche di scimmie, di pavoni e altri animali. Se riesce a scoprire un luogo dove ci sia del bestiame domestico, fa strage di capre e cavalli. Va a caccia sempre da sola, silenziosamente, e non ruggendo come il leone. Avanza lentamente verso la preda, e la atterra con una zampata; dopo le torce il collo, fratturandole le vertebre cervicali.
Animali selvatici
Una mandria di zebre e di antilopi pascolavano nella radura. Erano migliaia e ricoprivano tutto il vasto pianoro come un immenso mantello che, al loro lento procedere sembrava fosse trascinato via da qualcuno, formando pieghe e viluppi a seconda degli avvallamenti del terreno. Fra le zebre e le antilopi, a passi lunghi e maestosi, camminavano alcune frotte di struzzi dalle smisurate zampe spoglie, di un vivido bianco e nero i maschi, e di un grigio sporco le femmine. (Cloete)
L’abbeverata
Non venivano avanti uno per uno, per due e nemmeno a gruppi, bensì in schiere compatte e serrate e facevano rintronare e tremare tutto il terreno fangoso. Dapprima una mandria di elefanti, guidati da una femmina gigantesca, scese sino all’acqua e si mise a bere, a ruzzare, a giocare, e in mezzo a loro si muovevano, imperturbabili, gli ippopotami che, come succhiando il fango coi piedi, sbucavano dall’acqua sempre più numerosi, per buttarsi sulla riva a pascolare l’erba folta. (Cloete)
La tigre La sua pelliccia è color giallo ruggine a strisce nere. La tigre non teme l’uomo. Vive lontana dagli abitati, nelle grandi foreste e tra le erbe alte. I suoi movimenti sono eleganti e rapidi. Sa strisciare come i serpenti, si arrampica sugli alberi, artiglia come le aquile. E’ il terrore di tutti gli animali, ma teme molto l’elefante, il rinoceronte, il bufalo; fa strage di cinghiali, cervi, antilopi. E’ un animale ricercato per i circhi e gli zoo.
La tigre La tigre è un grosso mammifero carnivoro della famiglia dei felidi. E’ un bell’animale per il suo mantello rosso fulvo a strisce nere verticali, mentre la gola e il ventre sono bianchi. La tigre è un animale asiatico: abita le foreste e le boscaglie fitte e umide (giungle). Si nutre di diversi mammiferi selvatici o domestici e divora in un sol pasto anche 40 chilogrammi di carne. La tigre è addomesticabile e vive senza difficoltà in cattività, dove però di rado dà alla luce figli.
Il leopardo Il leopardo ha mantello giallo con macchie e disegni neri; è diffuso in tutto il Continente Africano e in Asia. L’esemplare asiatico ha dimensioni maggiori di quello africano e vien detto pantera; questa presenta talvolta il mantello completamente nero. Di preferenza assale animali di piccola taglia; tuttavia non esita ad assalire anche mammiferi di grande mole. Esso sorprende gli animali con l’agguato: agilissimo e astuto, striscia sul terreno, appiattendosi e riuscendo a celarsi anche il erba poco alta. Compie balzi improvvisi e potenti; si arrampica sugli alberi con velocità incredibile; balza di ramo in ramo a grande altezza dal suolo, tenendosi in perfetto equilibrio con la più spericolata sicurezza. Di rado assale l’uomo. Ma vi sono esemplari antropofagi i quali, pur non tralasciando la caccia agli animali selvatici, attaccano anche l’uomo.
Il leone Attraversavo, in compagnia di ottimi amici e con una piccola scorta armata di gregari, un tratto di savana estesa lungo la riva destra del Giuba tra i villaggio fi Gar Uama e la carovaniera che porta a Bobbuin. Brillava sul cielo l’ultima falce di luna, dalla foresta esalava un mormorio sterminato come il frastuono dell’Oceano ce dà a chi ascolta il senso della madre natura: dai guaiti dei serpenti afflosciati nell’intrico erboso, al frullare garrulo degli aironi, delle otarde (grosso trampoliere), annaspante tra i rami e i tronchi; dalle lamentazioni gutturali di certe antilopi allo squittire elettrico delle gazzelle, degli struzzi, dei trampolieri, dal barrito misterioso dell’elefante al brulichio dei gattopardi, delle iene, degli sciacalli che vanno di notte rimuovendo gli anfratti della boscaglia o battono in cerca di preda i greti alluvionali. Noi camminavamo da lungo pezzo ascoltando. A un tratto gli indigeni si sono fermati, come colpiti da un avvenimento, in quel silenzio subitaneo, quasi sotto l’effetto paralizzante del panico. Anche noi ci siamo arrestati, trattenendo il respiro; sensazione di vuoto assoluto: tutto taceva, tutto era come inabissato. In mezzo a quel silenzio si percepì lontano, lontanissimo, un boato. Io, ignaro di cose d’Africa, non comprendevo che fosse: pareva un vocalizzo nasale, come se un basso dalla voce cupa si ostinasse a ripetere a lettera emme tenendo le labbra chiuse. Eppure faceva spavento. “E’ la voce del leone”, mi hanno detto gli indigeni. Fatto straordinario: quando risuona il grido del domatore tutti ammutoliscono. Non è semplice superiorità di forza fisica, giacché innumerevoli animali, quanto a massa e volume, meccanismo di muscoli, preponderanza di peso, potrebbero avere ragione di lui. E’ il sentimento di una dignità superiore, di una prevalenza ideale. Tutti temono il leone non perché egli sia il più brutale fra i bruti, ma perché egli è il più nobile. Il più fiero, il più dignitoso tra i viventi. Ogni animale tace e s’arresta davanti a chi lo supera nella scala dei valori, cioè davanti all’uomo, infinitamente più forte nello spirito, quantunque infinitamente più debole nel corpo. Questa è la vera spiegazione psicologica di quel fenomeno che tante volte è stato descritto e sul quale tante ironie si sono consumate: la timidezza del re della foresta di fronte al cacciatore. ((V. B. Brocchieri)
Il leone Il leone è un grosso carnivoro della famiglia dei felidi. Non vive nelle foreste e nei deserti, ma abita le boscaglie e le savane dove va a caccia di giorno e di notte. Assalta antilopi, giraffe, zebre e costituisce un pericolo per l’uomo. Il leone possiede una grossa testa, zampe robuste e coda con ciuffo nero in punta. Il pelame è color fulvo uniforme. I maschi hanno il collo rivestito da una caratteristica criniera. Oggi, vive in Africa e in Asia, ma in zone ormai limitatissime e protette (riserve), dove non può venir cacciato e sterminato come è accaduto in Africa e in certe regioni asiatiche in cui praticamente è scomparso.
L’elefante Esistono due tipi di elefanti: quella africana e quella asiatica. L’elefante asiatico è più piccolo. Una caratteristica dell’elefante è il naso prolungato, la proboscide, che può superare i due metri di lunghezza. Con la proboscide, l’elefante porta il cibo alla bocca, si fa la doccia, beve, fiuta, testa e carezza. Altra caratteristica degli elefanti sono le zanne, due denti inseriti nella mascella superiore che si sono allungati in modo enorme. Esse sono armi di difesa e di offesa: l’animale le adopera anche per scortecciare e sradicare alberi. L’elefante ha la pelle spessa, senza peli, di colore grigio. Ha un udito finissimo. Vive pacifico in famiglie e si lascia facilmente addomesticare.
L’elefante L’elefante è il più grande mammifero terrestre. Durante età antichissime ne esistevano parecchie specie, ora scomparse. Oggi vivono: l’elefante asiatico (dalle orecchie relativamente piccole) e l’elefante africano (dalle orecchie grandissime, simili a ventagli, che coprono parte delle spalle). L’elefante fa parte dell’ordine dei proboscidati. Il suo corpo è massiccio, di grande mole, sorretto da zampe robuste, simili a colonne. La pelle è di colore grigio, rugosa, spessa, quasi senza peli. I denti sono in tutto sei: due incisivi superiori che sporgono dalla bocca, detti zanne, e quattro molari distribuiti uno per lato in ciascuna mascella. L’elefante può vivere fino a 120-130 anni di età.
La giraffa E’ un mammifero, quadrupede, selvatico, erbivoro, ruminante. E’ il più alto degli animali: un maschio adulto misura da 5 a 6 metri. Almeno due metri spettano al collo. Eppure le vertebre che reggono questo collo smisurato sono solamente sette, come nella maggior parte dei mammiferi. Naturalmente sono vertebre… giganti. Questo simpatico erbivoro ha le misure tutte eccezionali: ha 2 metri di zampe e mezzo metro di… lingua! Eppure, con tanta lingua, la giraffa è muta. Alcuni naturalisti sostengono che la giraffa fischia per chiamare i piccoli. In genere si pensa che almeno la coda, in questo lungo animale, sia piccola. Nossignori; la giraffa può vantare una coda di m 1,20! Il peso della giraffa oscilla da kg 500 a 1000. Quando i giraffini nascono misurano già 2 metri e dopo tre o quattro settimane sono già alti 3 metri. Il nome della giraffa deriva dalla parola araba zurafah, che significa mite, buona. Infatti la giraffa dai dolci occhi è un animale tranquillo. Di giorno vaga nelle rade boscaglie africane, dove abita col piccolo branco delle compagne (10-20 individui). La giraffa cammina in modo goffo e curioso, muovendo insieme prima le due zampe di destra, poi quelle di sinistra, e galoppa dondolando il collo. Nella corsa non sembra veloce, eppure il suo galoppo è più rapido e più resistente di quello del cavallo. Non crediate però che la giraffa sia paurosa: è solo prudente. Se un leone, che fra gli animali è il suo nemico più pericoloso, attacca i suoi piccoli, li difende strenuamente, sferrando potenti calci. A sera la giraffa scende all’abbeverata. La povera bestia deve faticare molto per bere: per arrivare al pelo dell’acqua deve divaricare le zampe anteriori come le aste di un compasso, oppure deve ripiegarle, con buffe e scomode contorsioni. Pare impossibile, ma il suo collo non è abbastanza lungo!
Gli ippopotami La parentela tra ippopotami e suini è riconoscibile dal fatto che entrambi i gruppi sono forniti di canini potenti e di piedi con quattro dita. Gli ippopotami sono quasi del tutto nudi, salvo qualche raro pelo sul dorso e alcune setole rigide sul muso. Il corpo è potente, tocco; il collo è corto e robusto; la testa quadrata e enorme. L’ippopotamo pesa dal 2000 ai 2500 chili, talvolta perfino 3000. La femmina è molto più grossa del maschio. La pelle è di un colore che va dal rosso rame al grigio blu. Quando l’ippopotamo rimane per molto tempo fuori dell’acqua, e la sua pelle si secca, delle ghiandole sottocutanee secernono un liquido rossastro che aveva fatto pensare che l’animale perdesse sangue. Il muso è più voluminoso della scatola cranica. I canini ricurvi della mascella inferiore possono raggiungere la lunghezza di 70 cm e il peso di 4 kg. I canini superiori sono rivolti verso il basso e sono assai più piccoli. Di solito questi denti sono nascosti dalle labbra ma vi suono individui nei quali uno o due o anche tutti e quattro spuntano fuori dalla bocca. I canini dell’ippopotamo vengono utilizzati per l’avorio che è molto più pregiato di quello degli elefanti. Un tempo gli ippopotami vivevano lungo il Nilo, ma ormai sono stati del tutto sterminati a nord di Cartum. Questa specie si trova invece ancora lungo le coste di quasi tutti i grandi fiumi e laghi dell’Africa tropicale e in modo particolare nell’Africa equatoriale, dal Kenya fino al Senegal. Gli ippopotami sono buoni nuotatori, e infatti sono stati visti svariate volte in mare oltre le foci dei fiumi. Si è constatato anche che essi sono in grado di attraversare il braccio di mare che separa il continente africano da Zanzibar. Peraltro si incontrano anche nelle zone di notevole altitudine fino a 1500 e a 2500 metri sul mare, dove gli inverni possono essere freddi al punto che i laghi gelano. In realtà questi enormi animali possono sopportare il freddo grazie allo spessore della loro pelle. Di giorno rimangono a lungo nell’acqua dei fiumi o dei laghi; mangiano piante acquatiche e poi fanno dei bagni di sole, sdraiati su degli isolotti melmosi. Quando si immergono per dissotterrare i rizomi delle piante acquatiche dal fondo, restano sott’acqua da 1 a 4 minuti. Di notte compiono spesso delle spedizioni per saccheggiare le piantagioni e distruggere i raccolti calpestandoli. In genere vivono in mandrie di 20-30 animali, ma all’epoca dell’accoppiamento, i maschi si abbandonano a furiosi combattimenti. La gestazione dura circa otto mesi. Appena nato, il piccolo ippopotamo, che pesa all’incirca 40 chili, è condotto dalla madre in acqua. Quando vuol dargli il latte, essa si corica su un fianco per consentirgli di succhiare le mammelle. I giovani sono più scuri degli adulti e restano sotto la sorveglianza della madre durante il primo anno di vita- In acqua sono trasportati, di solito, sul dorso materno. All’uscita dell’acqua, gli ippopotami scrollano le orecchie e dimenano la coda rapidamente. Si riconosce la zona del territorio su cui essi vivono per il fatto che lasciano dappertutto depositi di escrementi. (H. Hvass)
La zebra Le zebre vivono nella savana dell’Africa a sud del Sahara e sono facilmente riconoscibili per le striature brune sul fondo biancastro della pelle. La coda termina con un lungo fiocco, le orecchie hanno una lunghezza intermedia tra quelle dei cavalli e quella degli asini. Le mandrie di zebre possono essere composte da parecchie centinaia di individui talvolta perfino da mille, che brucano placidamente tra le antilopi e le giraffe. Spesso degli uccelli bovari si appoggiano sul loro dorso; in caso di pericolo spiccano il volo dando così l’allarme. Ma ciò non preserva del tutto le zebre dal loro peggiore nemico: il nemico che osserva i movimenti del branco durante l’abbeverata, solitamente serale. La mandria di zebre è condotta da un maschio che mantiene la disciplina nel gruppo. Le zebre corrono in fretta, ma non sono molto resistenti e un buon cavaliere può riprenderle facilmente. Alcune zebre sono state addestrate nei circhi o attaccate alle carrozze, ma non è mai stato possibile addomesticarle completamente; in qualsiasi lavoro esse sono inferiori ai cavalli e agli asini.
Il rinoceronte africano Le specie di rinoceronti che vivono in Africa si differenziano da quelle asiatiche per la presenza di due o più corna sul muso, mentre i rinoceronti indiani ne posseggono solo uno. Hanno corpo massiccio, lungo anche quattro metri, rivestito di una robusta pelle che sembra una corazza. Le zampe sono corte e tozze, ma ciò non toglie che il rinoceronte possa caricare gli intrusi, correndo a una certa velocità. Il rinoceronte africano è diffuso particolarmente nelle regioni dei grandi laghi dell’est, poiché preferisce i terreni ricchi di acqua. Le sue abitudini sono prevalentemente notturne. Esce dall’ombra dei cespugli solo per pascolare e alle erbe preferisce gli arbusti verdi, compresi quelli spinosi. Nelle ore calde ama immergersi nelle acque fangose, dalle quali esce con uno strato di fango sulla pelle che, essiccandosi, forma una crosta protettiva contro le punture degli insetti.
La scimmia Se ne sta sui rami oppure gioca e fugge sulle cime degli alberi; si afferra ai rami con le mani e con i piedi; una grande famiglia di scimmie, per appigliarsi ai sostegni, usa anche la coda. Ci sono grosse scimmie: gli oranghi, gli scimpanzé, i gorilla. L’orango ha braccia lunghissime; non spicca salti e raramente cammina sul terreno; si sposta da un ramo all’altro e scende a terra solo se spinto dalla sete. Vive in Asia (nelle isole di Sumatra e Borneo). Lo scimpanzé vive in Africa. E’ l’animale più intelligente che esista. Può essere addomesticato e può imparare una quantità di cose. Cammina eretto come l’uomo, ma se avverte qualche pericolo si allontana a quattro zampe. E’ di colore nero.
La scimmia La scimmia è un mammifero e viene anche detto “quadrumane”; rappresenta senza dubbio un gruppo di animali molto intelligenti. Possiede una dentatura completa; cammina poggiando completamente la pianta del piede a terra, le unghie sono quasi sempre piatte, gli alluci e talvolta anche i pollici sono opponibili alle altre dita. Il pelame è di colorazioni molto varie e spesso vivaci. La scimmia abita le regioni tropicali. Moltissime specie vivono sugli alberi: sono agilissime ed hanno ottima vista; le specie che vivono a terra hanno sviluppatissimo l’olfatto.
Il gorilla Il gorilla è la più grande e più possente fra le scimmie. Pur possedendo una forza enorme, però, esso è abbastanza pacifico e non presenta alcun pericolo per l’uomo, se non viene molestato. E’ invece assai temuto dagli animali, che difficilmente osano attaccarlo, ben sapendo che avrebbero la peggio in un eventuale corpo a corpo. Il gorilla è alto fino a due metri in posizione eretta. Ha un corpo massiccio e arti assai muscolosi, muso prominente e ampie narici. Ne esistono due varietà, una di pianura con pelame grigio scuro, e una di montagna, che nel Congo vive fino a tremila metri, con le pelliccia completamente nera. Di solito vivono in branchi di pochi individui, comprendenti giovani e vecchi, e si costruiscono rudimentali abitazioni che hanno l’aspetto di piattaforme di rami e ramoscelli, poste sugli alberi a qualche metro da terra. Non conducono però vita arboricola, preferendo vagare durante il giorno sul terreno, alla ricerca di cibo. Si nutrono di foglie, di radici e di frutti che la foresta offre in abbondanza.
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Dettati ortografici SOLE TERRA LUNA – Una collezione di dettati ortografici e letture su argomenti di geografia astronomica per la scuola primaria: il sole, la luna e la terra…
Il sole già brilla all’orizzonte quando… non è ancora spuntato.
L’alba imbiancava appena il cielo quando la comitiva si rimise in cammino sul candidissimo nevaio per muovere alla conquista di una delle vette dell’imponente massiccio alpino. Verso le ore cinque e mezza il primo raggio di sole si diffuse sulla neve animandola d’una delicatissima tinta roseo – dorata.
“E pensare” esclamò uno degli alpinisti arrestatosi ad ammirare la scena, “che noi vediamo il sole sorgere là dietro quelle vette nevose, mentre in realtà è ancora immerso al disotto dell’orizzonte!”
“Come?” esclamò Carlo, “Noi vediamo il sole ed esso non è ancora spuntato? E perchè mai?”
“Per via della rifrazione atmosferica”, spiegò gentilmente l’alpinista. ” Tu avrai certo già osservato che immergendo obliquamente un bastone per metà nell’acqua, il bastone appare spezzato, perchè un raggio di luce (in questo caso i raggi che illuminavano il bastone e ritornano a noi) passando da un mezzo in un altro, cioè dall’aria nell’acqua o nel vetro, bruscamente devia, si frange, e continua la strada su un cammino diverso. Perciò i raggi luminosi dei corpi celesti, penetrando nell’oceano atmosferico vengono deviati, subiscono un processo di rifrazione; anzi, vengono più volte deviati, rifratti, a seconda degli strati atmosferici che attraversano, e queste rifrazioni continue fanno sì che essi percorrano una linea curva.
Perciò la visuale che noi abbiamo d’un corpo celeste corrisponde alla sua posizione reale, ma è diretta più in alto. Ecco perchè il fenomeno della rifrazione atmosferica ci dà un apparente anticipo nel sorgere degli astri ed un apparente ritardo nel loro tramontare.
Nelle zone equatoriali si vede, ad esempio, il sole sorgere con circa due minuti d’anticipo, mentre al Polo, dove il sole sembra rotolare attorno all’orizzonte, lo si vede sorgere con un anticipo di circa un giorno e mezzo e tramontare con uguale ritardo!”
Le fasi della luna
Perchè vediamo la luna talora illuminata in tutta la sua faccia che ci guarda, talora invece solo per metà come una falce e perchè talora essa ci rimane totalmente invisibile? La causa di ciò sta proprio nel moto di rivoluzione attorno alla terra.
Infatti quando la luna sorge insieme al sole, questo, che si trova al di là della luna, illumina solo quella faccia della luna che è a noi invisibile; e noi della luna vediamo a mala pena parte del bordo circolare. Abbiamo quindi la luna nuova, cioè oscura.
Quando, dopo circa una settimana, essa sorge a mezzogiorno, vale a dire quando il sole ha raggiunto il culmine del suo arco, noi la vediamo illuminata solo per un quarto e cioè la metà della faccia rivolta al sole: siamo al primo quarto; la mezzaluna volta la gobba a ponente, quindi, come dice bene il proverbio, è luna crescente.
Quando ancora, dopo un’altra settimana, essa sorge col tramontare del sole, noi la vediamo illuminata completamente per quella faccia volta al sole e a noi. Siamo in luna piena.
E quando, infine, ancora dopo una settimana, sorge a mezzanotte, la vediamo illuminata solo per un quarto, stavolta però con la gobba a levante, quindi è luna calante (ultimo quarto).
Così, dopo 29 giorni circa, ritorna a sorgere col sole al mattino e perciò ridiventa luna nuova. Questo tempo, compreso tra due fasi successive di luna nuova, si chiama mese lunare. Concludendo, le fasi della luna sono quattro: luna nuova, primo quarto, luna piena, ultimo quarto.
G. Nangeroni
E’ vero che se la terra invece di impiegare un giorno per girare attorno al proprio asse impiegasse solo qualche ora, noi saremmo lanciati nello spazio?
Sì, certamente. E te lo spiego. Lega un sasso ad uno spago, fa girare e poi lascia andare. Se hai fatto girare adagio il sasso con lo spago cadrà ai tuoi piedi; ma se lo hai fatto girare in fretta, sasso e spago saranno lanciati lontano. Non è così forse che si usa la fionda? Questa forza si chiama forza centrifuga.
Ebbene, torniamo alla terra. Se la terra impiegasse solo qualche ora, invece di ventiquattro, a fare il giro come vedremo, vuol dire che avrebbe una velocità molto maggiore e quindi imprimerebbe a tutti i corpi che stanno su di essa una forza centrifuga enorme. In tal caso tutti i corpi che non stanno proprio attaccati ad essa verrebbero lanciati nello spazio; così verrebbero lanciati nello spazio le pietre, gli animali, tutti noi, e verrebbero magari sradicate anche le piante che vedremmo volare nello spazio insieme con noi. Sarebbe veramente un caos.
Ma non abbiate timore! E’ da millenni che la terra possiede la velocità che ha oggi; e non c’è motivo di credere che essa aumenti o diminuisca la sua velocità, almeno per ancora qualche milione di anni! E ad ogni modo è più probabile che la velocità diminuisca.
G. Nangeroni
L’alba e il tramonto
Dato che ogni regione della terra, ad un certo punto della sua rotazione, volta le spalle alla luce ed entra nell’ombra (o viceversa), perchè noi non osserviamo questo passaggio in modo repentino, non passiamo, cioè, dalla luce all’oscurità e dall’oscurità alla luce in un solo attimo?
Se godiamo il beneficio di un passaggio graduale il merito è dell’atmosfera che circonda la terra. Già prima di apparirci sull’orizzonte il sole invia i suoi raggi sopra di noi, nella parte dell’atmosfera che li diffonde; in questo modo ci rischiara ancora prima che lo possiamo vedere. E’ l’alba.
Altrettanto avviene al tramonto. Il sole è già scomparso all’orizzonte e ancora il cielo è chiaro perchè gli ultimi raggi del sole, attraversandolo, vengono dispersi.
Le stagioni
Mezzanotte del 31 dicembe: insieme con alcuni diplomatici e dignitari, un alto funzionario dell’O.N.U. sta festeggiando il nuovo anno in una sala del grande Palazzo di Vetro, la sede delle Nazioni Unite a New York. Fuori il freddo è intenso, dai vetri si vede la neve che cade. Poco dopo mezzanotte, l’alto funzionario lascia la riunione, e, ben imbacuccato, si precipita all’aeroporto dove lo attende un aereo.
Dopo diverse ore di volo, una gentile hostess lo avverte che l’atterraggio è prossimo. Il funzionario si ritira nei bagni e, dopo qualche minuto, ne sce con un bel completo leggero estivo. No, non gli ha dato alla testa il brindisi di poche ore prima: questo cambio d’abito è una cerimonia alla quale è abituato, nei lunghi viaggi che la sua carica richiede. Casi del genere accadono abbastanza spesso a diplomatici o grandi uomini d’affari, che si spostano velocemente da un emisfero all’altro della terra.
Mentre, per esempio, a New York siamo in pieno inverno, sulle spiagge del Sud America infuria invece la canicola.
Perchè? Come può verificarsi una cosa simile? La colpa è della terra, o meglio, del modo in cui la terra gira intorno al sole. Prima di tutto, dobbiamo dire una cosa molto importante: i raggi del sole che arrivano sulla terra possono essere considerati tutti paralleli tra loro. Ciò si spiega con la grande distanza fra la terra e il sole.
Prendiamo ora in esame un fascio di questi raggi, che arrivano su una superficie. Se sono perpendicolari ad essa, i raggi colpiscono in pieno una parte della superficie; se invece arrivano obliqui, colpiscono una parte maggiore; tanto maggiore quanto più cadono obliqui. Essi sono tanto più obliqui quanto più ci spostiamo verso i poli. E’ evidente che lo stesso fascio di raggi solari riscalderà più intensamente una superficie piccola che una superficie grande. Da quanto abbiamo detto, è chiaro che le variazioni di temperatura, e quindi il susseguirsi delle stagioni, su una data zona della terra, dipendono dal modo in cui i raggi solari cadono su di essa.
A. Manzi
Conseguenze dei movimenti della terra
L’alternarsi del giorno e della notte, la durata del giorno stesso e quella dell’anno, l’avvicendarsi delle stagioni sono tutte conseguenze dei movimenti del nostro pianeta. Difficilmente si può trovare qualcosa di più singolare di questi fenomeni che regolano la nostra vita. La durata della nostra esistenza, i suoi vari periodi, le occupazioni, il calendario annuale e le epoche della storia sono vicende strattamente legate ai moti della terra, i quali appunto determinano il nostro tempo. Un tempo che è totalmente diverso da quello che si verifica su altri mondi.
Si pensi, ad esempio, alla luna, dove l’anno non conta che dodici giorni e dodici notte, pur avendo la stessa durata del nostro; su Giove l’anno è quasi dodici volte più lungo di quello terrestre, mentre il giorno è più breve della metà: un anno di 10.455 giorni! Su Saturno la sproporzione è ancor più straordinaria: un anno dura 30 dei nostri. Se quel pianeta fosse abitato da esseri uguali a noi, un bambino di 9 anni avrebbe in realtà vissuto 270 anni dei nostri.
La terra è rotonda
Prima osservazione. I viaggi che i navigatori hanno compiuto attorno al globo terrestre sono una prova della rotondità della terra. I navigatori, infatti, partiti da un punto, hanno potuto farvi ritorno senza mai invertire la rotta.
Seconda osservazione. Gli astronauti che si allontanano dalla terra a bordo di navicelle spaziali, vedono a poco a poco la superficie terrestre incurvarsi. Quando poi gli astronauti si allontano ulteriormente, vedono il nostro pianeta sospeso, come una grossa palla, nello spazio.
Terza osservazione. L’orizzonte, cioè quella linea circolare dove sembra che il cielo tocchi la terra, non è sempre ad uguale distanza: più saliamo, più questa linea si allontana, permettendoci di abbracciare con lo sguardo una zona sempre più vasta.
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Dettati ortografici LA SUDDIVISIONE DEL TEMPO – Una collezione di dettati ortografici sul tema della suddivisione del tempo, per la scuola primaria: il calendario, l’orologio, ecc…
Il sole, la luna e le stelle non soltanto furono le prime pietre miliari dell’uomo, ma anche il primo orologio.
Durante il giorno, l’antico cacciatore che viveva a nord dei tropici poteva vedere le lunghe ombre del mattino indicare l’ovest diventando via via più corte, finchè il sole raggiungeva il suo punto più alto nel cielo, a mezzogiorno; e poi di nuovo allungarsi, a poco a poco, con il calar del sole, puntando verso est.
Così dalla lunghezza delle ombre si poteva sapere all’incirca quel che noi diremmo “che ora è”.
Vegliando per sorvegliare il fuoco, gli uomini antichi si accorsero che la luna, quando è piena, giunge al suo punto più alto nel cielo a metà della notte.
Col tempo, gli osservatori più acuti impararono a giudicare le ore notturne dalla posizione di certe costellazioni che ruotano intorno alla Stella Polare. Il tempo scorre e contare i giorni e i mesi è ben diverso che contare i cervi uccisi o i denti di orso.
I nostri progenitori verosimilmente risolsero il problema incidendo una tacca su un bastone una pietra per segnare il passare di ciascun giorno: una tacca, un giorno; due tacche, due giorni; così via.
Col tempo si accorsero che passano sempre trenta giorni tra una luna piena e la seguente. Così essi marcarono con una tacca più grande il giorno in cui cadeva la luna piena.
Dodici di queste tacche più grandi ammontavano a 360 giorni; un anno circa. Così si ebbe un primo approssimativo calendario lunare, che comprendeva le quattro stagioni. L. Hogben
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Dettati ortografici SAN FRANCESCO – Una collezione di dettati ortografici su San Francesco, di autori vari, per la scuola primaria.
San Francesco era ricco e si fece povero. Vedeva in tutte le cose grandezza e bontà. Amava tutte le creature: le piante, i fiori, le erbe, il fuoco che riscalda e illumina, l’acqua che corre, canta, lava, disseta. Parlava agli uccelli, alle cicale, ai pesci. E le creature lo amavano, capivano le sue parole e lo seguivano.
San Francesco
Vi era in quel tempo molto odio nella città fra uomini e famiglie; le strade erano spesso insanguinate per zuffe feroci, di cui sola causa erano superbia ed egoismo. E Francesco parlò di carità, di amore, di umiltà, di pace. Prima fu deriso e maltrattato; poi la sua bontà e la sua dolcezza invincibili, l’amore accorato con cui parlava algi uomini che non erano buoni e non sapevano amare, vinsero i cuori più duri e in molti entrò la pace, e molti lo seguirono.
San Francesco
Un giorno San Francesco incontra un giovane che va a vendere delle tortore. Francesco lo guarda con occhio pietoso, ha timore che esse vengano poi uccise da persone crudeli e chiede al giovane le care bestiole. Il giovane regala le tortore a Francesco, che le porta al convento, ed esse, senza gabbia, stanno libere assieme ai frati, libere e felici fino a che Francesco dà loro il permesso di andar via.
Dettati ortografici SAN FRANCESCO
Dove compariva, l’aria fioriva tutta di miracoli limpidi. Un giorno San Francesco andava con alcuni dei suoi frati verso Alviano, un paesello, per predicare e convertire quella gente. Arrivato in paese, salì su un muretto della piazza dove c’era il mercato. Domandò il silenzio e incominciò. Tutti zitti e attenti.
Ma poichè si era d’aprile, il cielo era pieno di rondini che volavano attorno alle torri dove avevano i nidi, garrivano, garrivamo come delle matte, fino a disturbare il predicatore. Francesco allora si voltò alle rondini e disse: “Sorelle rondini, avete già parlato abbastanza. Ora state zitte, perchè devo parlare io”.
Come se fossero tanti cristiani, quelle rondini capirono a volo e, raccoltesi tutte sulle gronde delle case vicine, stettero lì ferme e quiete sino all’ultimo. Finita la predica, la gente di Alviano si raccolse tutta attorno a Francesco acclamandolo e dicendo “Quest’uomo è un santo”. C. Angelini
San Francesco
Il 4 ottobre dovrebbe essere giorno di festa per tutti gli animali. Tanti anni fa, infatti, proprio il 4 ottobre, andò in cielo San Francesco, il miglior amico degli animali.
Egli diceva: “Noi siamo tutti figli dello stesso Padre, il buon Dio che è in cielo, che è il creatore di tutte le cose: il sole. la luna, i fiori del prato, gli uomini e tutti quanti gli animali.”.
Così dunque egli chiamava il bianco bue: “Fratello bue!”. E il piccolo asino: “Fratello Asino!”. E la gallinella nera: “Sorella Gallina!”. E l’anitra chiacchierona: “La mia cara sorella Anitra, che parla troppo!”. P. Worm
Dettati ortografici SAN FRANCESCO
Una volta san Francesco, mentre con i suoi compagni si trovava a passare vicino alla cittadina di Brevagna, vide una moltitudine di uccelli posata sugli alberi che fiancheggiavano la via ed altri ancora intenti a beccare in un campo vicino.
Il santo si rallegrò alla vista di quelle innocenti bestiole; entrò nel campo e, mentre gli uccellini facevano circolo intorno a lui, alzò la scarna mano nel segno della benedizione e così parlò: “Fratelli miei uccellini, infinita è la riconoscenza che voi dovete avere verso Dio, vostro creatore, e continue lodi dovete fare di Lui, che vi ha dato il permesso di volare liberamente in ogni luogo.
Voi non seminate nè mietete, ma c’è Iddio che provvede al vostro nutrimento e dà fiumi e fonti perchè possiate bere. Vi dà, inoltre, le alte piante per costruire i vostri nidi e, benchè non sappiate filare nè cucire, Egli vi veste riccamente. Non peccate, quindi, di ingratitudine verso di Lui che tanto vi ama e studiatevi di lodarLo sempre”. Nell’udire queste parole, tutti gli uccelli cominciarono ad aprire i becchi, a muovere le alucce, a chinare il capo verso terra, a dimostrare, con atti e canti, che frate Francesco procurava loro gran gioia.
Finita la sua predica, il Santo diede agli uccellini il permesso di andarsene: e quelli, allora, si levarono in aria con meravigliosi canti e poi si divisero in quattro schiere: una diretta ad Oriente, un’altra ad Occidente, una terza verso Sud e la quarta verso Nord. (da “Fioretti di San Francesco”)
San Francesco
San Francesco saliva un giorno lentamente per la collina. Al suo passare le spine diventavano rose e i fiori si inchinavano. Ed ecco, un ramo secco di cipresso si impigliò nella tonaca del santo. San Francesco, tutto contento, prese con sè il ramo, pensando di farne un bel fuoco.
Appena fu giunto al convento, buttò il ramo secco nel grande camino; ma il ramo non volle ardere. San Francesco, allora, lo levò dal fuoco dicendo: “Tu vuoi vivere, fratello.
Bene, ti pianterò nel mio orto; crescerai, diventerai un grande albero, metterai tanti rami, e gli uccellini vi costruiranno il nido e canteranno lietamente. Infatti, con le sue stesse mani, il santo piantò il ramo secco e bruciacchiato nel suo piccolo orto; e il ramo mise le radici, crebbe, diventò alto alto.
Per anni e anni fu gran festa di voli e di canti. Oh, quante uova furono deposte! Quante si schiusero nei caldi nidi sostenuti dagli intricati e forti ram del cipresso, piantato dalle mani del santo! (N. Oddi Azzanesi)
San Francesco
Fra tutte del creature del mondo, San Francesco amava di più gli uccelli, bestiole innocenti; e, tra gli uccelli, l’allodola. E sapete perchè? Perchè, diceva, l’allodola è un uccellino senza superbia, che si accontenta di mangiare quello che capita, perfino un piccolo chicco di frumento che trova in mezzo al letame. E dopo aver mangiato tutto quello che le capita, che fa l’allodola? Sempre contenta, se ne sale in alto nel cielo, e comincia a cantare il suo ringraziamento… (G.. E. Nuccio)
San Francesco e gli uccelli
Un giorno, mentre Francesco predicava, sentì che le rondini, con le loro strida, coprivano la sua voce. Dolcemente egli disse loro di tacere e quelle tacquero finchè egli non finì di predicare. Nello stesso posto, scorgendo in quel prato moltissimi uccelli, Francesco rivolse loro la parola e quelli si affollarono intorno a lui per ascoltarlo e quando egli ebbe terminato il suo parlare, si sparsero per il cielo in direzione della croce che il santo aveva tracciato nell’aria. (M. Menicucci)
Dettati ortografici SAN FRANCESCO Un giorno di festa
C’è un giorno in cui tutti gli animali del mondo possono ballare, ridere, cantare ed è loro concesso ciò che vogliono mangiare. Ogni anno, il 4 ottobre, è il gran giorno di festa per tutti gli animali. Ma perchè il 4 ottobre? Perchè la notte prima, un uomo, il più grande amico delle creature, andò in cielo. Quest’uomo era San Francesco. Non è questa una ragione per fare festa, una grande festa? Ed è la festa di tutte le creature, perchè egli chiamava tutte le creature suoi fratelli e sorelle. Egli diceva: “Noi siamo tutti figli dello stesso padre: il sole, la luna, i fiori del prato, gli uomini e tutti gli animali”. Così era il poverello, sempre lieto e felice. (P. Worms)
San Francesco
La pietà di San Francesco per le bestie era infinita e senza esclusione. Gli agnelli belanti portati al mercato gli ferivano il cuore, e li riscattava vendendo il suo grande cappuccio, anche a costo di battere i denti dal freddo. Faceva dare miele e vino, d’inverno, alle api perchè il freddo non le uccidesse. Incontrando i vermi per strada li raccoglieva e li metteva da parte perchè non fossero calpestati. (L. Salvatorelli)
San Francesco d’Assisi
Tra le belle brigate d’Assisi che passavano la notte cantando e musicando, egli era il più ardente e il più ardito. Lo chiamavano “il fiore della gioventù”. Ma un bel giorno Francesco parve stanco di questa giovinezza dorata, sentì noia di festini e di feste, di tornei e cortei, e divenne solitario e pensoso. Che cosa era mai accaduto? Aperto a caso il vangelo, aveva letto l’invio che Gesù fa al giovane ricco di lasciare ogni cosa diletta e di seguirlo nell’umile povertà. Francesco, che aveva cuore generoso, l’intese come una chiamata. Lasciò brigate e fondachi, si spogliò di ogni cosa che apparteneva al padre, e fu tutto preso della povertà. (Cesare Angelini)
San Francesco
Il ricco Francesco, fattosi poverello per amore, andò mendicando di uscio in uscio, accettò l’ospitalità della buona gente, non curò l’ira dei suoi familiari nè il disprezzo degli altri. Fu uno dei più grandi imitatori di Gesù. Tutto sentì fraternamente: il sole, il vento, il fuoco, l’aria e l’acqua, la tortorella e il lupo, e lodò Dio a nome di tutte le creature in un suo inno al sole, “che è bello e radiante con grande splendore”. (Cesare Angelini)
Il santo poeta
Il santo poeta è da molti secoli nella memoria degli uomini e la sua poesia è ormai nella natura stessa. Francesco d’Assisi non è solo un santo che si veneri nelle chiese; è il poeta che noi sentiamo e veneriamo davanti a tutte le cose belle. Tutto ciò che vive e palpita sulla terra, dal cuore dell’uomo alla venatura di una foglia. Francesco amava col fervore più materno, col trasporto più ingenuo. (M. Moretti)
Dettati ortografici SAN FRANCESCO Nacque in Assisi nel 1182, da un ricco mercante di stoffe, Pietro Bernardone, e da una nobildonna provenzale, chiamata Pica. Trascorse la giovinezza tra i divertimenti, la musica e la vita delle armi.
Durante una malattia, a Spoleto, ebbe una visione che gli rivelò la sua vocazione: “…non al servizio degli uomini, ma al servizio di Dio”. Si recò a Roma in pellegrinaggio e, sulla porta di San Pietro, distribuì tutto ciò che aveva ai poveri; ritornò in Assisi in veste da mendicante.
La gente prese a schernirlo; il padre lo rinchiuse in casa, poi lo trascinò davanti ai Consoli della città. Francesco fu irremovibile. In presenza del vescovo di Assisi, si spogliò degli abiti, rinunciò ai beni paterni, indossò una specie di sacco (con un foro per lasciar passare la testa e con una croce cucita sulla parte posteriore) e si dichiarò, misticamente, sposo di Madonna Povertà.
Il suo esempio, la sua virtù, la sua parola, che predicava pietà, amore, pace e salvezza per le anime, attrassero gli umili e li consolarono, mentre si univano a lui i primi discepoli, che presto divennero moltissimi. Allora Francesco dettò una regola per sè e per loro; Papa Innocenzo III la approvò nel 1210.
San Francesco scelse come sede la Porziuncola vicino ad Assisi, attorno alla quale sorsero le umili capanne dei frati suoi seguaci. Francesco si recò missionario in Oriente. Ritornato in patria, nel 1224 salì in ritiro e in preghiera sul monte della Verna e qui ricevette le sacre stimmate.
Predicò e compì miracoli; finchè, vinto dal male, dalle fatiche, dalle terribili privazioni, e sentendo vicina la morte, si fece portare alla Porziuncola dove, nella notte fra il 3 e il 4 ottobre 1226, morì. Nel 1228, Papa Gregorio IX lo proclamò santo.
Nel 1230, il corpo di San Francesco fu traslato trionfalmente in Assisi e sepolto dove oggi sorge la basilica a lui dedicata. (G. D’Alesio)
San Francesco Il nostro grande poeta Dante Alighieri dice che con San Francesco d’Assisi “nacque al mondo un sole”. Un sole! L’immagine non poteva essere più ampia, nè più vera, perchè la luce di Francesco che tiene ancora estatica Assisi tra l’avorio delle sue pietre e il suo cielo felice, illuminò e illumina tutta l’Umbria, e l’Italia, e il mondo intero. Si sente che, parlando di lui, si parla dell’uomo che più si è avvicinato a Gesù, nella santità della vita, tutta ardore per Dio, tutto amore per il prossimo. Il bisogno della letizia era sempre vivo in san Francesco e nella sua predicazione. Egli tutto sentì in modo nuovo e fraterno: il sole e il vento, il fuoco e l’acqua e l’aria, la luna e le stelle, le tortorelle e il lupo; e, a nome di tutte le creature, lodò Dio in un suo inno al sole, che è bello e raggiante con grande splendore. (C. Angelini)
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Dettati ortografici CRISTOFORO COLOMBO – Una collezione di dettati ortografici e letture per la scuola primaria su Cristoforo Colombo e la scoperta dell’America (12 ottobre 1492).
Cristoforo Colombo
Cristoforo Colombo, tra i molti navigatori che intorno al 1500 compirono audaci viaggi di esplorazione per mare, alla ricerca di nuove terre o di più comode vie di navigazione, è certamente il più famoso. Egli era convinto che la nostra terra avesse la forma di una sfera; pensava, quindi, che chi partisse da un qualsiasi punto e navigasse sempre in direzione di ponente, avrebbe finito per giungere alle favolose terre di oriente: il Giappone, le Indie, la Cina.
Non gli fu però facile porre in atto il suo proposito, spesso giudicato addirittura pazzesco: ma, finalmente, dopo lunghi anni di insistenze e di preghiere, ottenne, dalla regina di Spagna, tre vecchie caravelle scarsamente attrezzate e male equipaggiate e potè cominciare il suo viaggio, tra stenti e pericoli di ogni sorta, con una ciurma inesperta e ribelle. Finalmente, il 12 ottobre 1492, dopo settanta giorni di navigazione, egli riusciva a toccare terra approdando su un’isola che dapprima credette fosse il lembo estremo delle Indie, ma che in realtà era quel nuovo mondo, fino allora sconosciuto, che prese il nome di America.
Dopo questo viaggio Cristoforo Colombo ne effettuò altri ancora; quindi numerosi navigatori di ogni nazione seguirono il suo esempio e percorsero gli oceani ormai aperti ad ogni impresa. Fu così che, per l’eroismo del grande genovese, ebbero inizio quelle straordinarie esplorazioni che raddoppiarono la superficie del mondo allora sconosciuto, dettero il via a nuovi studi e procurarono ricchezze favolose.
Cristoforo Colombo
Un tempo non si sapeva che la terra fosse rotonda. Cristoforo Colombo, marinaio genovese e grande navigatore, fu uno dei primi ad affermarlo. Al fine di dimostrare ciò che diceva, egli intraprese un viaggio verso le Indie. Fu un viaggio avventuroso, lungo e disagiato, ma finalmente, dopo tre mesi di navigazione, il 12 ottobre la terra fu avvistata.
Cristoforo Colombo
Era italiano il grande navigatore che scoprì l’America. Con pochi uomini, su tre caravelle: la Nina, la Pinta e la Santa Maria, ebbe il coraggio di attraversare l’oceano sconfinato. Gli uomini dell’equipaggio avevano perduto la fede in lui, ma lui non l’aveva perduta. Finalmente ecco la terra. Colombo scende sulla riva, si inginocchia e la bacia. Era il 12 ottobre 1492.
Cristoforo Colombo
Alle due dopo mezzanotte, la Pinta, che veleggiava in testa, sparò un colpo di bombarda. “Terra! Terra!”. Ed era vero, stavolta, e la videro tutti, ombra nera sul cielo turchino, un paio di leghe più avanti.
Fu un delirio, una frenesia, un tripudio che pareva fossero tutti impazziti. I rombi delle bombarde rintronarono la notte e bandiere di gala furono alzate.
Gli uomini si abbracciarono gridando, singhiozzando, corsero all’impazzata da poppa a prora, da una banda all’altra; come se l’angusto spazio delle navi non bastasse più al loro bisogno di agitarsi, di sbracciarsi, di gridarsi l’un l’altro che la prova sovrumana era finita, che avevano compiuto la più grande impresa di mare che mai fosse stata tentata dai tempi dei tempi. (M. Ghisalberti)
Cristoforo Colombo
Cristoforo Colombo nacque a Genova nel 1451 e morì a Valladolid nel 1506. Figlio di un cardatore di lana, fece, per qualche tempo, il mestiere del padre, quindi cominciò a navigare per vendere le sue mercanzie. Avendo sposato la figlia di un navigatore, ereditò, da quest’ultimo, carte e strumenti che lo invogliarono a intraprendere lunghi viaggi.
Convinto dal suo amico Paolo Toscanelli, bravissimo disegnatore di carte geografiche, il quale affermava che la terra era rotonda, Colombo concepì il progetto di una spedizione verso le coste orientali dell’Asia, per raggiungere le quali avrebbe attraversato l’Oceano Atlantico da oriente ad occidente.
Propose questa spedizione al Senato di Genova. La Repubblica genovese non accettò l’offerta e allora Colombo si recò in Portogallo dove presentò la stessa proposta al re di quel paese. Ma nemmeno qui Colombo ebbe fortuna. Anzi, si cercò di carpirgli la gloria del successo, inviando una spedizione sulla rotta da lui indicata.
La spedizione fallì e Colombo si recò allora in Spagna dove riuscì a presentare ai sovrani spagnoli la sua proposta, che fu presa finalmente in considerazione. Anzi, il genovese riuscì a stipulare con gli stessi sovrani, il 17 aprile 1492, un vero e proprio contratto in cui, in cambio delle terre da lui scoperte, gli venivano concessi il titolo di ammiraglio dell’oceano, il vicereame delle isole o terre da lui occupate, e una sovvenzione in denaro che doveva coprire le spese della spedizione. Gli furono concesse anche tre caravelle, la Nina, la Pinta e la Santa Maria, e con esse Colombo prese il mare, da Palos, un porto spagnolo, il 3 agosto 1492.
Dopo più di due mesi di navigazione verso occidente, in cui egli ebbe a lottare strenuamente contro lo scoraggiamento e le minacce dell’equipaggio, il 12 ottobre Colombo scorse il primo lembo di terra. Si trattava di un’isola dove le tre navi approdarono e che fu chiamata, da Colombo, San Salvador.
Convinto di essere sbarcato sull’estremo lembo dell’Asia, Colombo esplorò successivamente altre isole del luogo, quelle che un giorno si sarebbero chiamate le Bahamas. In una di queste costruì un fortilizio e lasciò una parte dei suoi uomini. Queste terre sconosciute erano abitate da uomini dalla pelle rossastra, molto ingenui e primitivi, che Colombo chiamò Indiani, sempre credendo di essere sbarcato in India.
Le due navi (la Santa Maria era nel frattempo naufragata) volsero la prua al ritorno e Colombo rientrò a Palos, accolto trionfalmente dai reali e dal popolo. Confermato nella sua carica di ammiraglio dell’oceano e vicerè delle Indie Occidentali, chè così egli aveva chiamato le terre su cui era sbarcato, Colombo allestì una nuova spedizione, questa volta con diciassette vascelli. Rifatto il vecchio percorso, sia pure con una certa deviazione, il navigatore scoprì altre isole nel periodo di tre anni (1493-96). In un terzo viaggio (1498-500) si inoltrò anche nel continente, ma qui la malvagità e le calunnie dei suoi nemici lo raggiunsero, sì che egli fu destituito, fatto prigioniero e mandato, in catene, in Spagna. Qui giunto tentò di discolparsi e, liberato, potè intraprendere una quarta spedizione (1502-1504) in cui riuscì ad allargare le sue scoperte e a farne delle nuove.
Tornato in Spagna, fu ancora calunniato e tradito. Abbandonato dalla corte e vituperato dal popolo, il grande navigatore morì in miseria il 20 maggio 1506.
Il viaggio di Colombo
Dopo circa settanta giorni di un viaggio pieno di pericoli e di minacce da parte dei marinai scoraggiati, Colombo riuscì finalmente a toccare terra. L’isola a cui per primo approdò fu, da esso, chiamata San Salvador. Nei giorni seguenti scopriva altre isole; poi tornò in Spagna dove ebbe accoglienze trionfali. (D. Martellini)
I primi segni della terra vicina
O fresco ramoscello di biancospino, verdissimo e fiorito, divelto appena dal tronco, che ti culli sulle onde dolcemente, e sei assalito e rapito e portato in trionfo sulle navi, e sollevato nell’azzurro religiosamente, chi può dire di che brivido sacro e di quanta poesia hai scosso e inebriato ogni cuore? O erbe verdi di fiume, che chiazzano le onde qua e là, portate dalle correnti alla foce; o piccolo nido pieno d’uova entro la biforcazione di un ramo, che la madre non ha abbandonato e continua a covare sull’onde; o giunchi verdi da poco divelti alla zolla natia, con ancora tra le radici qualche minuzzolo di terra! (A. Albieri)
Terra! Terra!
L’equipaggio della Pinta scorse una canna e un bastone lavorato con ferro; la gente della Nina vide pure altri segni della terra e un piccolo ramo di rose canine. E la caravalla Pinta, siccome più veloce degli altri legni andava innanzi alla Santa Maria, ammiraglia, scorse la terra e fece i segnali ordinati. Terra! Terra! Si grida dai tre ponti. (Dal giornale di bordo di Cristoforo Colombo)
Terra! Terra!
Alle due del mattino, un colpo di cannone tuona sull’oceano dalla tolda della Pinta che, navigando in testa per scandagliare il mare, ha scorto la terra a due leghe di distanza. “Terra! Terra!“. Il grido tanto a lungo represso, l’urlo forsennato si libera dai petti esultanti. (R. Rippo)
La scoperta dell’America
Spunta l’alba dell’undici ottobre. Un giunco verde, fiorito tocca la Santa Maria, e l’equipaggio della Pinta raccoglie una canna, poi un piccolo palo lavorato, mentre quello della Nina afferra un ramoscello carico di insetti. La vita li sfiora, la dolce vita da cui si credevano abbandonati. Poi cala la notte, ma i segni che la terra è vicina, sono ormai certi. (R. Rippo)
La partenza di Colombo
Era l’alba e il porto di Palos si svegliava alla luce del mattino. Tre caravelle erano in procinto di salpare. Il gran pavese sventolava al vento mattutino e l’equipaggio, arrampicato sulle sartie e sui pennoni, salutava festosamente chi rimaneva a terra. Sembrava un giorno come tutti gli altri, e invece era un giorno che la storia avrebbe ricordato come una data fondamentale.
L’equipaggio di Colombo
I mormorii si fanno, in breve, clamori e minacce. Ormai l’ammiraglio doveva affrontare la ribellione aperta dei suoi uomini che pur devono aiutarlo a compiere l’impresa. Egli è solo contro tutti: non un cuore che lo comprenda, che vibri dello stesso disperato amore per questa terra che gli manda incontro il profumo dei suoi fiori, il canto dei suoi uccelli, i suoi richiami più allettanti e, pure, come per un gioco crudele, gli si nasconde ancora e si vela! (A. Albieri)
Alla scoperta dell’America
La terra nascosta continua a mandare i suoi messaggi incontro ai naviganti; sono sciami di uccelli variopinti e canori che riempiono l’aria di trilli, di gorgheggi, di melodie e, la notte, continuano a passare, frusciando con innumerevoli battiti d’ali; sono pesci in gran numero; e poi un airone, un pellicano, persino un’anatra che volano, anch’essi, verso libeccio. Avventuroso mattino, quello dell’undici ottobre! Sereno e dolcissimo, con l’aria tanto imbalsamata, che a chiudere gli occhi si poteva pensare a giardini in fiore. (A. Albieri)
Le isole del nuovo mondo
Posso annunciare alle Vostre Altezze che io potrei fornir loro tutto l’oro di cui potranno aver bisogno, e con un po’ d’aiuto dalla loro parte, anche spezie e cotone. Potrò anche fornire aloe e tanti schiavi quanti mi comanderanno di spedirne. Io credo di aver trovato anche rabarbaro e cannella; e la gente che ho lasciata laggiù troverà mille altri prodotti, non essendomi io potuto fermare in nessun posto ed avendo sempre dovuto navigare. In verità, credo di aver ben compiuto il mio dovere. (Dalla lettera inviata da Colombo ai reali di Spagna)
La scoperta dell’America
Cristoforo si destò di soprassalto, scese dal lettuccio, cercò a tastoni in quell’angolo. Sentì sotto le mani il rocchio della sagola d’uno scandaglio che egli aveva adoperato qualche giorno prima. Lo prese e uscì sulla tolda. Bonaccia di vento e di mare; la nave era immobile.
Cristoforo si sporse col busto fuori bordo, fissò l’acqua nera e immota sotto si sè, vi tuffò il piombino dello scandaglio, lasciò svolgere cautamente la sagola. Non ne aveva sfilato nemmeno venti braccia quando sentì che il piombino toccava fondo. Nello sesso istante udì un frullare di piccole ali alto sul suo capo, un chioccolio d’uccelli migranti nella notte.
“Terra!” gli gridò, dentro, il cuore “ora sì, terra!”. Lasciò andare lo scandaglio, che giacesse là, su quel fondo saliente dell’abisso a dare il segno della prossima fine del mare. “Terra!” E un inno muto, solenne, immenso come quel mare che egli aveva varcato sollevò l’anima sua verso il cielo. … Di lì a poco l’equipaggio della Pinta vide galleggiare una canna e un bastone, e più tardi pescò un altro bastone ingegnosamente lavorato.
Si levò il mare grosso più che in tutto il viaggio, il vento divenne incostante, a groppi, come in prossimità della costa. Alcune procellarie stridettero rauche in cresta alle onde. Verso mezzogiorno il mare s’abbonacciò, e allora i marinai della capitana videro un giunco ancora fresco passare vicino alla nave e guizzare un grosso pesce verde, di quelli che non s’allontanano mai dagli scogli.
La Pinta s’accostò alla capitana e Martin Alonzo vociferò di aver visto un altro pezzo di canna, ed erba diversa dalla solita, erba di terra, e una tavoletta.
Poi fu la volta della Nina, che passò accosto, sopravvento. Vicente Pinzon agitò, come una bandiera, un ramo di spino carico di bacche rosse, ripescato poco prima da uno dei suoi uomini.
“Portatelo al signor Capitano” gridò. “E’ stato tagliato di fresco!”. Lo lanciò a bordo della Santa Maria. Giacomo lo afferrò a volo, si precipitò nell’alloggio di Cristoforo. “Guarda!” Il ramo gli tremava in mano, pareva che gli occhietti gli schizzassero dalle orbite, che l’esultanza gli mozzasse il respiro. Cristoforo prese il ramo, lo guardò quasi come una reliquia. Andò a deporlo ai piedi della statuetta della Vergine. Allora credettero tutti, e fu un velettare febbrile, un arrampicarsi sugli alberi, un ridere, un chiamarsi festoso. A sera, il Salve Regina echeggiò sul mare come un Gloria…
Alle due dopo mezzanotte, la Pinta, che veleggiava in testa, sparò un colpo di bombarda. “Terra! Terra!”. Ed era vero stavolta, e la videro tutti, ombra nera sul cupo turchino, un paio di leghe più avanti. Fu un delirio, una frenesia, un tripudio che pareva fossero tutti impazziti.
I rombi delle bombarde rintronarono nella notte, le bandiere di gala furono issate, il Gloria in excelsis eruppe da tutti i petti e parve che ogni gola trovasse la potenza sonora di un organo. Gli uomini s’abbracciarono gridando, singhiozzando, corsero all’impazzata da poppa a prora, da una banda all’altra, come se l’angusto spazio delle navi non bastasse più al loro bisogno di agitarsi, di sbracciarsi, di gridarsi, l’un l’altro, che la prova sovrumana era finita, che avevano compiuto la più grande impresa di mare che mai fosse stata tentata dai tempi dei tempi. (Mario Ghisalberti)
La caravella Era una bella barca davvero la caravella, barca festosa, tutta colori e gale, tutta luccichio e bandiere. Lunga una quarantina di metri, larga sette o otto, era dipinta sui fianchi di bei colori vivaci: azzurro, bianco, rosso, giallo. Ornamenti dorati erano dappertutto. Aveva tre alberi: il trinchetto a prua, il maestro al centro, l’albero di mezzana a poppa. Le funi della manovra, a gruppi di cinque, portavano cinque lettere per poterle riconoscere: A. V. M. G. P. (Ave Virgo Maria Gratia Plena). Così i marinai, nella manovra delle vele, invocavano la Madonna.
La vita a bordo Ma se la caravella era bella, la vita che vi si faceva sopra era dura. Il lavoro era febbrile, a tutte le ore del giorno e della notte; il mangiare consisteva sempre in pane secco e pesce salato. Solo il Capitano e i piloti avevano una tavola, i marinai mangiavano sui ginocchi o seduti sui talloni e tuffavano le mani in un unico piatto di legno messo in mezzo.
Il servizio era diviso in quarti di quattro ore a cominciare dalle otto del mattino.
Al primo quarto del giorno il mozzo voltava la clessidra, recitava l’Ave Maria e cantava: “Benedetta sia la luce e la santa croce; benedetto il Signore che è verità e la santa trinità”. La sera, al crepuscolo, il mozzo cantava: “Benedetta Maria che concepì il Signore, benedetto Giovanni che lo battezzò, Maria e Giovanni guardateci in quest’ore”.
Cristoforo Colombo Il 13 agosto 1476 Colombo si trovava a bordo di una delle navi genovesi che trasportavano merce a Lisbona. Verso sera il convoglio venne attaccato da una squadra navale franco-portoghese, e le navi genovesi, inferiori per numero e per armamento, vennero affondate.
Colombo, ferito, riuscì a nuotare per sei miglia e raggiunse la terra; fu quello il suo arrivo in Portogallo, il luogo in cui maturò il suo grande progetto.
Quando vi si stabilì Colombo, Lisbona, la capitale portoghese, era la città di mare più attiva, più intraprendente, più aperta ai grandi e audaci progetti. Il desiderio di scoprire la via di mare verso le Indie era vivissimo. Erano stati fatti molti tentativi e sempre per quella unica via ritenuta possibile: giungere alle Indie, circumnavigando l’Africa. Nessuno aveva pensato all’oceano fino al giorno in cui Colombo, forte della teoria del Toscanelli, propose al re del Portogallo di concedergli una piccola flotta per arrivare alle Indie dopo aver attraversato l’oceano. Il navigatore genovese destinava le innumerevoli ricchezze, che l’impresa avrebbe fruttato, all’allestimento di una poderosa crociata destinata a liberare definitivamente i luoghi santi.
Il re del Portogallo giudicò lui folle, e folli le sue idee. Tuttavia Colombo lo convinse a sottoporre il suo progetto alla Commissione scientifica per la navigazione: la Commissione non bocciò del tutto il progetto, lo ritenne realizzabile.
Colombo aveva speso tutto nel tentativo di far approvare il suo progetto. Temendo di essere arrestato per debiti, abbandonò Lisbona per la Spagna. Cercò di convincere i reali spagnoli; il suo progetto venne esaminato e giudicato inattuabile, da un’altra commissione. Per ben sei anni Colombo tenne duro, tra umiliazioni d’ogni genere. Infine, dopo tanti anni, la casa reale spagnola bocciava definitivamente il progetto ritenendo eccessive le spese per attuarlo.
Colombo, deluso nelle sue speranze, pensava di raggiungere la corte francese. Ma la regina Isabella lo fece richiamare: convinta dal suo confessore, amico di Colombo, lo finanziava e gli concedeva tra navi per tentare l’avventura. I sovrani avevano capito (nel frattempo il portoghese Bartolomeo Diaz aveva doppiato il Capo di Buona Speranza) che conveniva giocare quella carta: il rischio economico era minimo se si consideravano i vantaggi che potevano derivare dal felice esito della spedizione. Colombo ebbe tre caravelle, il titolo di Ammiraglio dell’Oceano e venne fatto vicerè e governatore di tutte quelle terre che avrebbe eventualmente scoperto. Dopo il primo viaggio, Colombo venne accolto in Spagna con tutti gli onori: il suo merito riconosciuto ed esaltato. Ma, in seguito, cadde in disgrazia. Le terre scoperte non erano favolosamente ricche come si sperava; la colonizzazione si presentava difficile; le Indie non erano state raggiunte.
Di tutto, Colombo venne ritenuto responsabile. Gli fu tolto il titolo di vicerè, e il suo successore, senza attendere ordini dai sovrani, lo spedì in Spagna incatenato, come un malfattore. I sovrani spagnoli ripararono quell’affronto, liberando il grande navigatore, ma Colombo non riacquistò mai più il favore, i benefici di cui aveva goduto un tempo. Finì i suoi giorni a Valladolid, fino all’ultimo convinto di aver raggiunto l’Asia, non un nuovo continente.
La grande avventura di Cristoforo Colombo Porto Palos, agosto 1492 Sta per salpare una strana spedizione capeggiata dal genovese Cristoforo Colombo, che si propone di raggiungere le Indie navigando verso ovest, presupponendo che la terra sia rotonda. L’equipaggio è di 87 uomini, in massima parte spagnoli. Si imbarcheranno su tre navi: la Santa Maria, ammiraglia, che stazza 230 tonnellate, è lunga 30 metri e larga 9; la Pinta di 75 tonnellate di stazza, 22 metri di lunghezza e 7 di larghezza; e la Nina che stazza 60 tonnellate, è lunga 20 metri e larga 7.
L’11 ottobre La terra nascosta continua a mandare i suoi messaggi incontro ai naviganti; sono sciami di uccelli variopinti e canori che riempiono l’aria di trilli, di gorgheggi, di melodie, e la notte continuano a passare, frusciando con innumerevoli battiti d’ali; sono pesci in gran numero; e poi un airone, un pellicano, perfino un’anatra che volano, anch’essi, verso libeccio. Avventuroso mattino, quello dell’undici ottobre! Sereno e dolcissimo, con l’aria tanto imbalsamata, che a chiudere gli occhi si poteva pensare a giardini in fiore. (A. Albieri)
L’impresa di Cristoforo Colombo Il tre agosto, Colombo, all’età di quarantun anni, partiva da Palos. Era il suo strano e meraviglioso viaggio, su un oceano che nessuno aveva mai solcato e per una meta che non si sapeva se fosse raggiungibile. Per due mesi le tre unità corsero per mari sconosciuti in balia d’eterne tempeste e bonacce, senza vedere terra alcuna. Le ciurme stanche tumultuavano, volendo tornare indietro, ma Colombo tenne fermo finchè un giorno potè mostrare alcune erbe galleggianti sulle acque del mare e un ramo appena diverto: prove che la terra era vicina. Infatti alle dieci di sera dell’undici ottobre, Colombo che vegliava tra l’ansia e il timore, vide in lontananza un lumicino che su muoveva e lo additò alla ciurma.
Poco dopo, alle due dopo mezzanotte, dalla nave che correva più avanti si levò il grido: “Terra! Terra!” All’alba ecco apparire sull’orizzonte un’isola tuta verdeggiante di boschi e di prati. Colombo sbarcò per primo tenendo in una mano la bandiera della Spagna e nell’altra la spada sguainata, ma appena toccata terra, si inginocchiò, la baciò, e fece piantare una croce. Quella prima isola scoperta venne chiamata San Salvatore.
Una lunga storia Da quattordici giorni le caravelle di Colombo avevano toccato la nuova terra sconosciuta e navigavano tra le isole meravigliose. Quel mattino, era il ventotto ottobre 1942, le caravelle gettarono le ancore nell’insenatura di una terra incantevole: l’isola di Cuba. Le sue rive verdissime si perdevano all’orizzonte. Un forte profumo emanava dai suoi boschi. Colombo e il suo equipaggio erano affascinati e felici. Poi Colombo mandò due suoi capitani ad esplorare la nuova terra. Quando tornarono, essi portavano con sè alcuni oggetti preziosi e frutti mai visti. Alcuni di questi erano avvolti entro lunghe foglie grigiastre. Ma bastava toglierle per vedere luccicare qualcosa che pareva d’oro. Gli indigeni li chiamavano maiz, li coltivavano estesamente e se ne nutrivano. Fu così che gli abitanti d’Europa conobbero, per la prima volta, il maiz che gli Indiani d’America coltivavano fin dai tempi dei tempi.
La nuova terra Queste isole erano molto fertili; possiedono molti porti e numerosi spiagge salubri e bellissime tutte accessibili, coperte di una lussureggiante vegetazione, con alberi di mille specie che quasi toccano il cielo. Io penso che essi non perdano mai le foglie, poichè li vidi così verdi e belli, come lo sono gli alberi in Spagna nel mese di maggio. Alcuni erano in fiore, altri carichi di frutti ed altri si trovavano in condizioni secondo la loro natura. Vi sono sei o sette specie di palme bellissime per la loro varietà. Vi sono delle pinete meravigliose, dei campi vastissimi, molte specie di uccelli e numerosissime qualità di frutta. Gli usignoli ed altri uccelli di mille specie cantavano nel mese di novembre, quando io giunsi in questi luoghi. (da una lettera di Cristoforo Colombo)
Le isole del nuovo mondo Posso annunciare alle Vostre Altezze che io potrei fornir loro tutto l’oro di cui potranno aver bisogno, e con un po’ di aiuto dalla loro parte, anche spezie e cotone. Potrò anche fornire aloe e tanti schiavi quanti mi comanderanno di spedirne. Io credo di aver trovato anche rabarbaro e cannella; e la gente che ho lasciata quaggiù troverà mille altri prodotti, non essendomi io potuto fermare in nessun posto ed avendo sempre dovuto navigare. In verità, credo di aver ben compiuto il mio dovere. (Dalla lettera inviata da Colombo ai Reali di Spagna).
Impressioni di Colombo dopo il suo primo viaggio E’ Colombo che parla del suo viaggio, dei suoi incontri, della sua meravigliosa avventura. La descrizione è semplice, limpida e serena come l’animo e il cuore del grande navigatore. Ho trovato moltissime isole popolate da innumerevoli abitanti e di tutte ho preso possesso in nome delle Vostre Maestà proclamandole padrone di queste terre e piantandovi la bandiera reale senza incontrare resistenza.
Tutte queste isole sono estremamente fertili: esse posseggono molti porti superiori ai nostri porti cristiani e numerose spiagge salubri e bellissime. Queste isole sono molto belle, tutte accessibili, coperte di una lussureggiante vegetazione, con alberi di mille specie che quasi toccano il cielo. Io credo fermamente che essi non perdano mai le foglie, poichè li vidi così verdi e così belli quali lo sono gli alberi in Spagna nel mese di maggio. Alcuni erano in fiore, altri carichi di frutti ed altri si trovavano in altre condizioni secondo la loro natura.
Gli usignoli ed altri piccoli uccelli di mille specie cantavano al mese di novembre quando io giunsi in questi paraggi. Vi sono delle palme di sei o sette specie, bellissime per la loro varietà. Vi sono delle pinete meravigliose, dei campi vastissimi, del miele, molte specie di uccelli e svariatissime qualità di frutta. Gli abitanti di queste isole non hanno ne ferro, ne acciaio, ne armi, delle quali d’altronde non sarebbero capaci di servirsi, non perchè essi non siano robusti, ma perchè sono sorprendentemente paurosi. Essi non hanno altre armi che una canna alla cui estremità vi è un piccolo pezzo di legno aguzzo.
Non conoscono ne sette ne idolatrie di alcun genere, e sono convinti solamente che la felicità e la forza sono in cielo. Credevano fermamente che io con le mie navi ed i miei uomini fossi sceso dal cielo, e con questa credenza essi mi ricevettero in tutti i luoghi dopo aver vinto la loro timidezza. Sono molto intelligenti, perfetti conoscitori di questi mari, e si rendono conto di tutto ciò che fanno, benchè non abbiano mai veduto gente civile, nè navi grandi come le nostre.
Appena arrivai alle Indie, nella prima isola dove atterrai, feci alcuni prigionieri, perchè apprendessero la nostra lingua e ci dessero le informazioni di ciò che vi era in questa regione: così noi arrivammo a comprenderci mutualmente con parole e con segni. Ancora oggi io ho con me questi Indiani, i quali mi sono di grande utilità, perchè credendo sempre che io venga dal cielo dal cielo, mi annunciano ai loro compatrioti come un inviato celeste. A questo annuncio tutti accorrono e ci portano da mangiare e da bere con una sorprendente affidabilità. (C. Colombo)
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