Acquarello steineriano natalizio tutorial

Acquarello steineriano natalizio – tutorial passo passo per realizzare un quadretto in tema natalizio, adatto a bambini  a partire dalla classe terza della scuola primaria. Può essere una bella decorazione della casa, un bel regalo per una persona cara, un meraviglioso biglietto di auguri…

La tecnica dell’acquarello steineriano prevede l’utilizzo del foglio bagnato, e l’uso dei soli colori primari. Una caratteristica di questa tecnica è inoltre quella di lavorare per superfici di colore e non per contorni. Se è la prima volta che vi cimentate, vi consiglio di leggere questa presentazione:

Acquarello steineriano natalizio – Materiale occorrente:
– un foglio di carta da acquarello
– una spugna
– acquarello blu di prussia, rosso carminio e giallo limone
– un barattolo di acqua
– pennello

Acquarello steineriano natalizio – Come si fa:

Preparate un bello sfondo col blu di prussia, partendo dai margini del foglio col colore più concentrato, e sfumandolo con pennellate tondeggianti e dolci verso il centro:

col rosso carminio definite la linea che separa cielo e terra (il rosso e il blu, mescolandosi, formeranno un bel viola):

Sfumate il rosso nel blu creando in basso un paesaggio notturno e in alto un bel cielo, seguendo la direzione delle pennellate precedenti:

riprendete il blu di Prussia, e scurite ulteriormente il paesaggio, creando colline, nella valle, con poche pennellate fate sorgere un villaggio visto in lontananza:

Ora lavate bene il pennello, asciugatelo, e schiarite il punto più chiaro del cielo, asportando il colore del foglio. Procedete così più volte: lavate il pennello, asciugatelo, asportate del colore dal foglio, rilavate il pennello, asciugatelo, e togliete altro colore:

con la stessa tecnica schiarite dei raggi che partendo dal punto chiaro che avete creato si diramino in tutte le direzioni:

Sempre asportando il colore, create nel paesaggio una stradina serpeggiante che porti al villaggio:

e delle finestrelle nelle casette. Col blu di prussia, abbozzate delle figure nella stradina che si stanno avviando per via, infine col pennello pulito e pochissimo giallo limone illuminate la stella.
Questa è la pittura bagnata:

E questa la pittura asciutta:

Recite per bambini INVERNO

Recite per bambini INVERNO – una raccolta di recite e brevi dialoghi sul tema dell’inverno, di autori vari, per bambini della scuola d’infanzia e primaria.

Oggi è il 21 dicembre

L’Autunno e l’Inverno si incontrano. Il primo si ritira, mentre l’altro giunge con un pesante ramo di abete.

Autunno:  Finalmente arrivi! Credevo che ti fossi smarrito.
Inverno: Hai fretta, forse? Lo sai che non posso correre: sono vecchio e pieno di malanni.
Autunno: Lo so, lo so. Ma io sono così stanco! Non vedo l’ora di riposarmi un poco…
Inverno:

Autunno: Sì. I campi sono seminati e le foglie sono cadute. L’uva ha dato il vino, e io ne ho ancora qualche corbellino di quella scelta. Le castagne sono sempre la gioia dei bambini. Ecco tutto.
Inverno: E i poveri? Sono sempre tanti?
Autunno: Purtroppo sì. Se tu sapessi con che spavento ti vedono arrivare!
Inverno:  Cercherò di non trattarli male. Guarda che cosa porto per loro: giornate di tiepido sole. Non sono molte, ma di più non ho potuto avere. In questa scatolina, indovina che cosa c’è? La carità: la regalerò ai ricchi perchè imparino a donare ai poveri.
Autunno: Bravo. Ma sarai ugualmente una stagione molto triste.
Inverno: Se ci si vuol bene, mio caro, nessuna stagione è triste. E poi guarda che cosa spunta dall’orlo del mio sacco: la festa di Natale, tanto cara agli uomini. E andandomene guarda laggiù che cosa lascerò: teneri germogli di grano, e pratoline, e violette… ti sembro proprio tanto triste?
Inverno:  e a te, buon riposo!
(G. Fanciulli)

(In costruzione)

Tutte le opere contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.

Le proprietà fisiche dei corpi

Le proprietà fisiche dei corpi unità didattica completa per bambini della scuola primaria, con idee per le lezioni ed esperimenti scientifici per dimostrare i concetti.

Se domandiamo ai bambini cosa si intende per corpo, ci sentiremo rispondere: “Cose come la cattedra, la lavagna, il banco, sono corpi”. I bambini classificano per tipi e non per definizioni, ma se ci pensiamo anche lo scienziato si serve di questo tipo di classificazione quando non ha ancora colto i caratteri essenziali specifici di una determinata serie di oggetti.
Se poi chiediamo ai bambini se il pensiero, la bontà, la giustizia, la verità, sono corpi, ci risponderenno di no, perchè non si vedono: i bambini pensano che un corpo deve essere percepito dalla vista; questo spiega perchè trovino difficile considerare l’aria un corpo.
Tuttavia è semplice spiegare loro che il carattere di “visibile” non è sufficiente a designare il “corpo”, e basterà far osservare loro che, per esempio, la luce che emana da una lampadina elettrica, o da una qualsiasi altra fonte luminosa, anche se si vede, evidentemente non è un corpo.
Tornando a chiedere ai bambini cosa si intende con “corpo”, i bambini diranno che un corpo si deve poter toccare, deve essere in qualche modo percepito col tatto. “Ma allora è un corpo il calore che emana dalla stufa, dal sole, da qualsiasi altra fonte di calore?”. A questo ulteriore stimolo, i nostri piccoli scienziati cercheranno espressioni più precise, ad esempio diranno che un un corpo si deve poter prendere in mano, perchè se stringo la mano in una stanza luminosa non afferro nulla, puure non posso portare un pezzo di calore da un luogo all’altro come posso fare con un pezzo di legno o di ferro.
In questo modo ci stiamo avvicinando alla realtà un passo alla volta, ma non l’abbiamo ancora raggiunta. A questo punto ancora il bambino non potrà credere che l’aria sia un corpo, perchè non si può (o meglio non di si accorge di potere) stringere nella mano.

Le proprietà fisiche dei corpi

Primo esperimento
Prendiamo una bilancia e proviamo a spiegargli il grande mistero: mettiamo su uno dei piatti una moneta, una pallina, una riga, una matita, e la bilancia perderà costantemente il suo equilibrio, obbligandoci, per ristabilirlo, a gettare un peso corrispondente sull’altro piattello.
Ripesiamo ora attentamente la moneta (o meglio ancora, se l’abbiamo, una sfera di metallo). Poi togliamola dalla bilancia, facciamola riscaldare e rimettiamola sul piatto: rimessa sul piatto il suo peso sarà identico a prima.
Pesiamo ora una torcia elettrica spenta, e poi ripesiamola accesa: anche in questo caso i due pesi saranno identici.
La luce e il calore non sono corpi perchè non hanno un peso, o meglio non hanno un peso controllabile da alcuna bilancia, per quanto precisa essa sia. La precisazione è dovuta, in quanto la fisica afferma l’equivalenza tra massa ed energia, e questo conduce teoricamente ad affermare che anche calore e luce hanno un peso (un chilogrammo di ghiaccio pesa lievemente meno dell’acqua che risulta dalla sua fusione). Ma si tratta di differenze talmente minime e imponderabili anche con le più sensibili bilance di precisione che, per non portare i bambini nel campo dell’indimostrabile (che per loro equivarrebbe a incredibile), non è un gran male mantenere provvisoriamente questo vecchio carattere distintivo della fisica classica, aggiungendo che quel “non peso” è legato agli strumenti di cui noi disponiamo per controllarlo, e al nostro senso barico.

Quello che possiamo definire come “corpo” ha un peso avvertibile dal nostro senso barico, o almeno da strumenti che lo sostituiscono. Naturalmente un corpo può essere percepito anche con gli altri sensi: visivo, uditivo, olfattivo, gustativo, termico; ma l’essenziale sarà sempre che cade sotto il senso barico e, quando ciò non è possibile per le dimensioni o la lontananza dal corpo, o impossibile da controllare per l’insufficiente finezza del  senso, bisognerà comunque dimostrare, per effetti, che esso pesa.
Con questo criterio, il bambino non sbaglierà più, mentre altre definizioni di “corpo”, come “corpo è tutto ciò che cade o può cadere sotto il dominio dei sensi”, oppure “corpo è una porzione di materia collocata nello spazio”, possono confonderlo: la prima può portarlo a credere che siano corpi anche la luce, il calore e il suono; la seconda, rigorosamente scientifica, è superiore in questa prima fase alla sua capacità di astrazione.

Stabilito questo primo carattere dei corpi, non ci sarà molto difficile fargli notare che essi possono presentarsi sotto diversi stati, anzi che uno stesso corpo può passare dall’uno all’altro di questi stati per effetto di un aumento o di una diminuzione di calore. Non è ancora il momento di dirgli che anche la pressione può essere causa di cambiamento.
I corpi che i bambini ci hanno nominato di primo acchito (cattedra, lavagna, banco) sono corpi che hanno una forma propria ed occupano perciò uno spazio determinato e invariabile. Ma ve ne sono altri che, pur avendo un volume costante, cioè occupando una stessa quantità di spazio, variano di forma, a seconda del recipiente che li contiene: un litro di acqua, o di latte, o bibita, è sempre un litro, ma assume forma conica, cilindrica, prismatica a seconda del recipiente che lo contiene.
C’è inoltre una terza categoria di corpi che non hanno ne forma ne volume costanti, ma, assumendo la forma del recipiente che li contiene, non giungono, come i liquidi, ad un determinato livello, bensì lo occupano tutto, per grande che sia, e tendono ad espandersi in uno spazio sempre maggiore, così che, aprendo il recipiente che li contiene, essi ne escono fuori.

Le proprietà fisiche dei corpi

Secondo esperimento
Mettiamo in una bottiglietta qualche cristallo di iodio (se non si trova in farmacia, si può acquistare la tintura di iodio, versarla in un piattino di plastica e lasciare evaporare a temperatura ambiente la base alcolica: sul piattino si formeranno i cristallini di iodio) chiudiamo ermeticamente per evitare le fuoriuscita dei vapori, e facciamolo riscaldare: magnifiche colorazioni rosso-violacee, cioè vapori di iodio, riempiranno la bottiglia. Mettiamo la stessa quantità di iodio in una seconda bottiglie, di forma e dimensioni diverse: quelle stesse colorazioni riempiranno tutto la bottiglia, mentre la quantità di liquido che serve a riempire la bottiglietta non sarà naturalmente mai sufficiente a riempire anche la bottiglia.

Se tutti i gas si vedessero, come i vapori di iodio, e se avessero tutti un odore, il bambino si convincerebbe facilmente della loro esistenza. Ma quando gli parliamo dell’aria, il bambino avrà dei dubbi: nessuno dei suoi sensi riceve da essa qualche impressione, che possa fargli ritenere che l’aria è un corpo, e molto meno quella sensazione barica che ha imparato a ricercare come primo contrassegno dei corpi.
Facciamogli capire, prima di tutto, quanto peso esercita una pressione, e che il peso altro non è che la pressione esercitata da un corpo su un altro che gli impedisce di cadere.

Le proprietà fisiche dei corpi

Terzo esperimento
Prendiamo un bicchiere pieno d’acqua e facciamo il classico esperimento di capovolgerlo su un foglietto di carta (una cartolina va benissimo) fatto prima aderire perfettamente all’orlo del bicchiere: l’acqua non si versa.

Evidentemente c’è una forza che sostiene l’acqua, qualcosa al di fuori deve esercitare una pressione sul foglio di carta, superiore al peso dell’acqua contenuta nel bicchiere, e, poichè non c’è altro che aria sotto il bicchiere, l’aria soltanto può essere la causa del fenomeno.

Le proprietà fisiche dei corpi

Quarto esperimento
Prendiamo una bottiglia dal collo largo e non lavorato, e dopo averne rarefatto l’aria con  la combustione di un pezzo di carta (la carta bruciando consuma l’ossigeno dell’aria in essa contenuto), collochiamo rapidamente alla sua imboccatura, come un turacciolo, un uovo sodo sgusciato.
Lo vedremo presto allungarsi, assottigliarsi e infine precipitare, con una piccola detonazione, sul fondo della bottiglia. Chi ha esercitato sull’uovo un peso capace di operare il prodigio? L’aria, nient’altro che l’aria.

Ora proviamo a dare ai bambini l’idea del peso che l’atmosfera esercita su tutti i corpi, proponendo l’esperimento del Torricelli.
La realizzazione dell’esperimento prevede l’uso di un tubo barometrico e di mercurio. Si riempie il tubo di mercurio, si versa altro mercurio in una scodella, si chiude col pollice il tubo e si capovolge tenendolo chiuso fino a portare il foro al di sotto del mercurio contenuto nella scodella:

Si osserva che, liberando l’apertura, il mercurio scenderà nel tubo di circa 24 cm. Chi è che sostiene il peso della colonnina alta circa 76 cm che vi rimane sospesa, contrariamente a quanto il bambino si attenderebbe dovesse avvenire per effetto della gravità?
L’aria; nient’altro che l’aria che preme sul mercurio della scodella.

Le proprietà fisiche dei corpi

Poichè l’esperimento prevede l’uso di mercurio, possiamo mostrare ai bambini un video:

E anche se non vogliamo fare ora il semplice calcolo del peso di quella colonnina di mercurio, corrispondente a quello della pressione atmosferica, rimandandolo alle lezioni riguardanti la meccanica degli aeriformi, da cui sapremo di reggere sulla testa il bel peso di oltre due quintali, potremo sempre darne un’idea al bambino versando il contenuto del tubo barometrico in un recipiente qualsiasi ed invitandolo a reggere quel recipiente.
Non c’è alcun dubbio che l’aria pesi un peso controllabile e misurabile, e che debba perciò essere considerata a tutti gli effetti un corpo.
Ma il bambino si porrà a questo punto una nuova domanda: “Se l’aria pesa, e pesa così considerevolmente su ogni porzione della superficie del nostro corpo come pesa sul mercurio, come mai non ci schiaccia?”

Rifacciamo l’esperimento dell’uovo sodo che funziona come tappo della bottiglia, ma senza consumare l’ossigeno dell’aria in essa contenuta (non bruciamo la carta al suo interno): l’uovo vi resterà immobile nella sua funzione di tappo.
Ricordiamo l’esperimento della cartolina che, sostenuta dall’aria, sosteneva l’acqua contenuta nel bicchiere capovolto. Per dimostrare la pressione dell’aria dall’alto al basso (che è quella a cui noi diamo il nome di peso) occorre eliminare quella dal basso verso l’alto, altrimenti, sollecitato da due forze contrarie, l’uovo non obbedisce a nessuna delle due.

Allo stesso modo, se due bambini spingono con uguale forza un banco, uno verso destra e l’altro verso sinistra, il banco rimarrà dov’è, non si accorgerà nemmeno di essere spinto.

Le proprietà fisiche dei corpi – Il “trasformismo” della materia

Dicendo che i corpi possono presentarsi sotto tre aspetti diversi, abbiamo già accennato ai bambini che uno stesso corpo può assumere l’uno o l’altro di questi aspetti: l’esempio più facile è quello dell’acqua che, sottoposta ad un notevole raffreddamento, solidifica, mentre sottoposta all’azione del calore si trasforma in vapore acqueo.
Con grande meraviglia dei bambini potremo fabbricare, seduta stante, del ghiaccio artificiale, mettendo un po’ di acqua in una provetta e immergendola in un miscuglio frigorifero (ad esempio neve mista a sale).
Ma potremo anche partire dallo stato solido per arrivare al liquido e all’aeriforme, servendoci della cera o di qualsiasi altro corpo facilmente fusibile con un fornelletto.

Le proprietà fisiche dei corpi – Proprietà classiche dei corpi

Stabilito ormai che cosa si intenda per corpo, quali siano gli aspetti sotto cui i corpi possono presentarsi, e come ciascuno di essi possa assumere l’uno o l’altro dei tre stati della materia arriveremo a ricercare coi bambini quali siano i caratteri propri a tutti i corpi, e quali invece siano propri solo a quelli che si trovano in un determinato stato della materia.
Una proprietà comune a tutti l’abbiamo già incontrata, ed è il peso, ma ce n’è un’altra, intuitiva, che il bambino ha già implicitamente osservato e che già faceva capolino, nei sui primi tentativi di definizione di corpo, quando diceva che il corpo deve potersi “toccare”.

Questo toccare, almeno nei corpi solidi, equivale per il bambino ad isolare il corpo nello spazio, a limitarlo per mezzo della superficie, a verificare quanto si stende in lunghezza, in larghezza, in profondità. Se il bambino lo leva dal luogo dov’è collocato, lo spazio che occupava si confonde con lo spazio circostante non occupato da oggetti, ma, se il corpo potesse lasciare una traccia nello spazio, il bambino potrebbe avere davanti a sè, ben definita, la porzione di spazio precedentemente occupata dal corpo: questa porzione si chiama volume, e la proprietà del corpo di occupare quello spazio si chiama estensione.
Che anche i liquidi occupino uno spazio è intuitivo e non c’è bisogno di alcun esperimento particolare. Un liquido che riempie un recipiente occuperà tanto spazio quanto ne occupa il recipiente, eliminato lo spessore delle pareti del recipiente stesso.
Degli aeriformi potremo dire la stessa cosa se li consideriamo in recipienti chiusi, e potremo perciò richiamarci all’esperimento dei vapori di iodio; ma, anche immaginando di stappare i recipienti, essi occuperanno sempre tutto lo spazio disponibile.

Le proprietà fisiche dei corpi

Quinto esperimento
Diciamo ora ai bambini di mettere un libro nello spazio preciso occupato da un altro libro: per farlo i bambini dovranno levare quello che già si trova in quello spazio per collocarvi l’altro che noi gli abbiamo indicato.
Facciamo gettare ai bambini un sasso in un bicchiere pieno d’acqua, e un po’ d’acqua (tanta quanta corrisponde al volume del sasso) uscirà dal bicchiere.
Se il bicchiere non è pieno d’acqua e vi immergiamo un corpo qualsiasi, l’acqua si sposterà per lasciar posto al corpo, elevando il suo livello nel recipiente.
Se in una scodella piena di latte vogliamo versare dell’acqua, i due liquidi potranno mescolarsi, ma una parte del miscuglio dovrà traboccare dagli orli della scodella.
Questa proprietà generale della materia per cui nessun corpo può occupare la porzione di spazio già occupata da un altro corpo, si dice impenetrabilità, e si può sperimentare in tantissimi modi.
E’ però facile che il bambino non creda all’impenetrabilità dei gas, e in particolare dell’aria, perchè, mentre l’aria è dappertutto, noi ci muoviamo al suo interno liberamente. Possiamo allora ricordargli, per analogia, quello che succede quando si tuffa in piscina: l’acqua si sposta al suo passaggio, si apre davanti a lui e si richiude dietro di lui, ma dove si stende il suo corpo non può contemporaneamente stendersi l’acqua. Nella vasca da bagno si può vedere l’acqua che si alza di livello quando ci immergiamo, ma questo fenomeno non  è visibile in piscina, o al mare, perchè lo spazio occupato dal nostro corpo è infinitesimo in rapporto alla loro estensione.
Ebbene, ciò che avviene nell’acqua avviene anche nell’aria; essa si sposta al suo passaggio; si apre davanti a noi, si richiude dietro di noi, ma dove si trova il nostro corpo non ci può essere contemporaneamente aria.

Le proprietà fisiche dei corpi

Sesto esperimento
Per convincere praticamente i bambini che dove c’è un corpo non ci può essere aria, o meglio ancora, reciprocamente, che dove c’è aria lo spazio non può essere occupato da un altro corpo, possiamo fare un semplice esperimento.
Prendiamo una ciotola trasparente d’acqua e cerchiamo di mettere sul pelo dell’acqua un bicchiere vuoto capovolto: il livello dell’acqua nel bicchiere sarà uguale a quello dell’acqua presente nella ciotola.


Ma  se premendo e inclinando il bicchiere faremo uscire le bolle d’aria in esso contenuta, l’acqua salirà dentro di esso per un buon tratto.

 L’acqua non poteva entrare nel bicchiere finchè vi era aria, perchè l’aria, come tutti i corpi, è impenetrabile.

Mettiamoci ora alla ricerca di qualche altra proprietà generale della materia. Se prendiamo un po’ di chicchi di caffè e li maciniamo, otterremo da ogni chicco un numero grandissimo di granelli. Ma ognuno di quei granelli è ben lontano da rappresentare la più piccola parte in cui quel corpo solido si può suddividere.
Se mettiamo un po’ di zucchero o un po’ di sale in un bicchiere d’acqua, queste sostanze si divideranno e si suddivideranno in parti così minime che non ci sarà più possibile afferrarne con l’occhio l’esistenza.
Se soffiamo con forza in uno spruzzatore, o schizziamo fuori l’acqua da una peretta di gomma, essa si suddividerà in una quantità di minutissime goccioline, e così avverrebbe per qualsiasi altro liquido.
Questa possibilità di dividersi in parti piccolissime si chiama divisibilità, ed è anch’essa una proprietà di tutti i corpi.

La più piccola parte ottenibile da queste divisioni si chiama atomo, da una parola greca che vuol dire appunto “indivisibile”. Questo “indivisibile” non è affatto indivisibile, ma ci conviene per il momento considerarlo come tale. Che esso sia effettivamente tale dal punto di vista chimico, ma che, viceversa, lo si debba pensare fisicamente divisibile, e che ciò sia stato confermato praticamente con la divisione dell’atomo, in questa prima fase di osservazione dei fenomeni della natura è prematuro da affrontare. Rimandiamo queste nozioni ad un secondo momento. La momentanea “ignoranza” non costituisce però ne un errore (in quanto l’atomo scisso non rappresenta più il corpo semplice, o elemento, che eventualmente volessimo considerare), ne un ostacolo alla comprensione dei fenomeni che ci prepariamo a spiegare.
Questi atomi, dunque (a cui, del resto, neppure il fisico ha cambiato il nome), si riuniscono in piccoli gruppi detti molecole per effetto di una reciproca attrazione, e le molecole a loro volta si attraggono a formare il corpo; se si respingessero, il corpo, evidentemente, non starebbe unito, ma ogni particella se ne andrebbe per suo conto nello spazio. E’ ciò che avviene, in parte, nei corpi aeriformi, che in quella loro tendenza ad espandersi, mentre provano la loro divisibilità, mostrano di essere forniti di ben poca attrazione tra le particelle che lo costituiscono, attrazione che è anch’essa una proprietà della materia e prende più propriamente il nome di coesione.

L’aver ammesso che i corpi sono formati da particelle piccolissime di materia ci conduce ad un’altra interessante considerazione. Le particelle che formano un corpo sono saldate, fuse insieme? Oppure, nella loro attrazione reciproca, le particelle mantengono una certa distanza tra loro in modo da formare nel corpo degli spazi invisibili tra loro?
Tutto induce a ritenere esatta la seconda supposizione, evidentissima per gli aeriformi, ma non evidente nei solidi e nei liquidi se non con l’aiuto di qualche esperimento.

Le proprietà fisiche dei corpi

Settimo esperimento
Se metto dell’acqua all’interno di un recipiente di terracotta non verniciato e osservo, dopo poco tempo la superficie esterna di esso, vi noterò minutissime goccioline che ne inumidiscono tutta la superficie. Ma come può essere uscito il liquido dal vaso che io non ho toccato? Evidentemente esso si è fatto strada attraverso piccoli spazi che io non vedo osservando la terracotta, e che si chiamano pori.
I membri di un’accademia scientifica, l’Accademia del Cimento,  vollero un giorno (circa 3 secoli e mezzo fa) provare se il volume di una certa quantità di acqua fosse comprimibile. Fecero fare per questo una bella sfera d’argento fuso, la riempirono d’acqua, la chiusero ermeticamente, poi si dettero a percuoterla con dei martelli, per ridurre, ammaccandola, il volume della sfera, e con esso il volume dell’acqua. Ma non le avevano ancora prodotta alcuna ammaccatura, che la sfera si era tutta ricoperta di goccioline d’acqua, le quali, evidentemente, erano trapelate attraverso i pori dell’argento. Essi ne dedussero che l’acqua non fosse comprimibile, e si sbagliarono (la scienza è poi riuscita a ridurre il volume dell’acqua a meno della metà sotto una pressione di cinquantamila atmosfere), ma dimostrarono intanto certamente una proprietà dell’argento, condivisa anche da ogni altro corpo solido, e cioè la porosità.
Questa stessa caratteristica detta porosità si può trovare facilmente anche nei liquidi, riempendo d’acqua a metà circa un vasetto di vetro, quindi versandovi sopra, con molta cautela e fino a riempimento dell’alcol colorato che, per la sua leggerezza maggiore di quella dell’acqua, dovrà stare a galla. A questo punto chiudiamo il vasetto con un tappo attraversato da una cannuccia trasparente, e introduciamo nella cannuccia  altro alcol colorato fino a un certo livello. Agitando il vaso, l’alcol e l’acqua si mescoleranno e il livello del liquido nella cannuccia discenderà, dimostrandoci una riduzione di volume.
Poichè abbiamo già dimostrato l’impenetrabilità della materia, non si potrà risolvere altrimenti il problema se non supponendo che i due liquidi siano penetrati reciprocamente l’uno nei pori dell’altro.

Le proprietà fisiche dei corpi

Ottavo esperimento
Per dimostrare una proprietà dei corpi detta variabilità di volume, in genere si usa per i solidi l’anello di Gravesande,

photo credit http://museo.liceofoscarini.it/

per i liquidi e gli aeriformi un’ampolla di vetro apposita che presenta un’imboccatura a forma di tubo di piccolo calibro, in cui si introduce, a seconda dei casi, un liquido colorato o un gas, che dovrà, aumentando di volume, spingere in alto una goccia di mercurio contenuta nel cannello.
Ma si possono fare le stesse esperienze senza questi apparecchi.

Le proprietà fisiche dei corpi

Esperimento
Si prende un bicchiere; si appoggia sull’apertura del bicchiere un foglio di cartoncino rigido, e in questo si pratica un taglio lungo perfettamente quanto il diametro di una moneta e largo quanto la costa della medesima, in modo che essa, infilata nel taglio, cada nel bicchiere come dentro a un salvadanaio. Togliamo la moneta, riscaldiamola, e vedremo che la moneta non passerà più nel taglio, e dimostrerà così di essere aumentata di volume.
Come potremo convincere il bambino che questo apparente aumento di materia non è che un allungamento degli spazio intermolecolari e interatomici, un allontanamento tra particella e particella che costituiscono il corpo, e non un accrescimento della sostanza di cui il corpo è composto? Semplicemente pesando la moneta riscaldata e mostrando che nell’aumento di volume non subisce alcun aumento di peso verificabile.

La variabilità di volume nei liquidi o negli aeriformi può essere dimostrata facilmente con una bottiglietta qualsiasi tappata da un tappo entro il quale si è infilata una cannuccia trasparente. Per i liquidi si introduce dell’acqua colorata in modo che il livello superi l’imboccatura della cannuccia: riscaldando l’acqua, essa corre su per la cannuccia mostrando con evidenza l’aumento di volume.
Per i gas lasciamo lasciamo all’imboccatura di base della cannuccia una gocciolina di acqua colorata: scaldando l’aria contenuta nella bottiglia, la goccia d’acqua salirà rapidamente lungo il tubo.

Passiamo ad un altro ordine di osservazioni: ce ne offre l’occasione il gioco della palla. Battendo sul terreno la palla si schiaccia, cioè ne tocca la superficie orizzontale non in un punto, come avviene se io la poso delicatamente a terra, ma per un’estensione circolare che potrei anche ottenere annerendo il piano, ad esempio, con del nerofumo.
Quando poi la palla ci rimbalza nuovamente tra le mani, è ancora perfettamente rotonda, e non porta nessuna traccia della deformazione.
Prendiamo un elastico: tirandolo si allunga e cessando la trazione torna alla lunghezza originaria.
Questa proprietà per cui i corpi riprendono la forma o il volume primitivo quando cessa la causa di alterazione su di essi, si chiama elasticità.

Prendiamo la lama di un coltello ed incurviamola: cessando di esercitare questa forza la lama torna rettilinea. Attorcigliamo due funi legate ad uno stesso corpo pesante che faremo girare rapidamente: e le funi torneranno a dividersi non appena cesseremo di costringere il peso a ruotare nella direzione da noi voluta.
Anche se non vogliamo ora parla di elasticità alla compressione, alla tensione, alla flessione, alla torsione, ci basta averle dimostrate per effetto.

Potremo anche proporre al bambino dei divertenti giochi che gli fissino nella memoria queste proprietà: per esempio, chiediamogli di  trovare il modo di allontanare una moneta dall’estremità di una fila di altre monete identiche, unite costa a costa, senza toccarla in nessun modo.

Basterà urtare la moneta che si trova all’estremità opposta, e quella da noi indicata si allontanerà, senza che si muovano le monete intermedie.

Evidentemente le particelle che le compongono devono essersi spostate con violenza verso l’ultima, che ne è fuggita lontano, ma devono anche essere ritornate nella posizione primitiva.

Un apparecchio molto simile al pendolo di Newton:

si può costruire prendendo un’asta di legno e facendovi alcuni fori distanti l’uno dall’altro quanto il diametro di alcune palline di legno, tutte uguali. Attaccando le palline a dei fili che passino per i fori praticati, fermando l’estremità superiore dei fili con un nodo, e sospendendo la riga a due sostegni qualsiasi, avremo  tanti pendoli che si toccano fianco a fianco. Scostando la prima di queste palline e lasciandola cadere contro la successiva, l’ultima si scosterà senza che si muovano le intermedie:

Con questi esperimenti non avremo dimostrato l’elasticità dei solidi, ma solo di alcuni solidi, e non potremo generalizzare da questi pochi casi, se non avvisando il bambino che gli scienziati hanno fatto esperimenti che dimostrano come tutti i corpi siano elastici e che quelli che a lui non appaiono tali lo sono in così piccola misura da richiedere, per la dimostrazione, mezzi di cui è possibile disporre solo nei laboratori. Questa precisazione è importantissima per non assecondare la pericolosa tendenza, già propria dei bambini, di generalizzare da uno o pochi casi, cioè di formulare la legge in base a un numero insufficiente di osservazioni o di esperimenti.

Ci sarà però facile dimostrargli l’elasticità di qualche liquido, invitandolo a girare il rubinetto dell’acqua potabile: l’acqua, per il suo peso, scenderà precipitosamente nella vaschetta, ma in breve il bambino si troverà tutto cosparso da un’infinità di goccioline minutissime di acqua, quasi argentee in quella loro piccolezza di volume. Ma come l’acqua è saltata addosso a lui? Non doveva dunque scendere verticalmente, anelando, per il peso, a cadere sempre più in basso? Doveva, ed è caduta, ma le gocce d’acqua che, cadendo, non hanno potuto infilare il foro del condotto hanno naturalmente battuto con violenza sul fondo della vaschetta: ed ecco che esse hanno fatto come la sua palla di gomma e sono rimbalzate con violenza verso l’alto, ad investirlo, a spruzzarlo, agili, leggere e perfettamente rotonde.
Non ci sarà nemmeno difficile mostrare ai bambini l’elasticità di un gas: l’aria che un bambino comprime in piccolo volume quando gonfia le gomme della sua bicicletta vuole riacquistare quello che aveva in origine e sfugge, sibilando, dalla valvola, non appena essa le venga aperta. Se possiamo procurarci una pompa da bicicletta in cui scorre uno stantuffo di gomma a perfetta tenuta infilato e fermato ad un’asta di metallo, in modo da poterlo spingere in giù, faremo vedere che l’aria compressa là dentro dalla discesa dello stantuffo lo spingerà indietro, al cessare della nostra pressione, per riacquistare il volume primitivo, qualora noi si tappi con un dito il foro inferiore, invece di infilarlo sopra la valvola del pneumatico.
Chiuderemo questi nostri cenni sulle proprietà generali dei corpi con alcuni esperimenti riguardanti l’inerzia.

Le proprietà fisiche dei corpi

Le proprietà fisiche dei corpi – Il gioco delle bocce può offrire utile materiale didattico

Noi usiamo comunemente il termine “inerte” per indicare ciò che non si muove, che non lavora, che non produce.  Scientificamente, però, la parola ha un altro valore: indica cioè non soltanto la quiete, anche il moto.
Nel primo senso la cosa è troppo evidente per aver bisogno di spiegazione; un corpo inanimato non potrà mai mettersi in movimento se una forza ad esso estranea non verrà a smuoverlo. Non è altrettanto evidente, o almeno così sembra a prima vista, il fatto che un corpo inanimato non possa mai cessare quel movimento dopo che gli è stato impresso, se una forza estranea non interviene per fermarlo, nè possa accelerare o rallentare il suo moto senza cause esteriori che possano produrre su di lui tali modificazioni.
Il moto, una volta impresso ad un coro, dovrebbe durare per anni, per secoli, per millenni, se si realizzassero condizioni ambientali tali da non poter influire minimamente su di esso. Non è facile dimostrare al bambino questa legge: possiamo solo parzialmente basarci su esperimenti e abbiamo bisogno, per completare le nostre spiegazioni, di supporre, di astrarre, di immaginare, di costruire una realtà su elementi irreali. Il bambino ci potrà capire? Possiamo tentare.

Le proprietà fisiche dei corpi – Esperimento
Prendiamo una boccia e diciamo al bambino di farla rotolare  in un cortile o su una strada pavimentata a ciottoli: urtata, nella sua corsa, dagli spigoli dei sassi, la boccia non andrà molto lontano. Facciamo poi rotolare la boccia su una strada di terra battuta: la palla arriverà molto più lontano, e ancora più lontano potrà andare su una bella strada asfaltata.
Certo, anche in questo caso la boccia, sia pure a notevole distanza, si fermerà, ma per liscio che sia il pavimento, vi sarà pur sempre un po’ di attrito tra la boccia e il terreno, senza considerare la resistenza opposta al moto della boccia dall’aria. Il bambino stesso può provare questa resistenza mettendosi a correre: l’aria gli aliterà sul viso come se improvvisamente si fosse levato il vento. Senza queste cause la boccia una volta messa in moto non si fermerebbe più.

Possiamo fare esempi di questo moto osservando una gran quantità di eventi quotidiani, che il bambino ha sperimentato inconsapevolmente mille volte, ma senza mai averli analizzati nelle loro cause e nei loro effetti.
Se il bambino si trova su un vagone del treno lanciato a velocità notevole, all’arresto del treno si sentirà spingere con forza nella stessa direzione seguita dal vagone, perchè il suo corpo, che si muoveva con esso nella stessa direzione, tende a permanere in quello stato di movimento. Se il treno da una traiettoria rettilinea passa ad un tratto a descriverne una fortemente curva,  il bambino si sentirà come lanciato al di fuori, per la tendenza che il suo corpo aveva di continuare il moto secondo la traiettoria rettilinea. Se di un treno in rapida corsa si arresta improvvisamente il motore, i vagoni che seguono la locomotiva urteranno l’uno con l’altro, si accavalleranno addirittura, per quella forza d’inerzia che tende a farle persistere nel movimento iniziale.

Un fenomeno analogo avviene anche per i liquidi: se la pioggia violenta ci ha sorpresi per la strada senza ombrello, possiamo liberare il cappello dall’acqua che lo inzuppa scuotendolo come se no volessimo gettare a terra, mentre poi lo tratteniamo saldamente; ma le gocce, cui già era stato impresso il movimento di discesa, lo continuano per inerzia ed escono dal cappello per cadere sul terreno.

Negli aeriformi potremo far osservare al bambino il vapore acqueo che esce da una pentola che bolle: le molecole che lo costituiscono continuano a salire finchò non trovano un ostacolo che le arresti nel loro cammino e che, nel nostro caso, sarà rappresentato dal soffitto della stanza in cui ci troviamo. Non che tutti i gas si comportino come il vapore acqueo, preso qui come esempio perchè visibile: il vapore infatti sale perchè è più leggero dell’aria, ma esistono anche gas più pesanti dell’aria. Detto questo anche per i secondi vale le legge per cui una volta iniziato il moto le loro molecole tenderebbero a muoversi infinitamente, se non arrestate da ostacoli. Ma non complichiamo per ora questo concetto con la qualità del moto che un corpo, per inerzia, dovrebbe seguire: l’uniformità della velocità e la l’andamento rettilineo della traiettoria percorsa sarebbero complicazioni astratte e non controllabili attraverso l’esperienza diretta.
D’altra parte non siamo interessati alla compiutezza delle nozioni, ma piuttosto al fatto che quelle illustrate siano esatte e che mai il bambino debba farle proprie per autorità. Vogliamo che il bambino assimili queste nozioni attraverso quella convinzione incrollabile che può dare solo l’esperienza concreta.

Le proprietà fisiche dei corpi – Ogni classe di corpi tende a differenziarsi dalle altre

Dopo aver condotto il nostro piccolo scienziato allo studio delle proprietà generali della materia, sia attraverso l’osservazione di fenomeni naturali, si attraverso la loro riproduzione artificiale per mezzo di esperimenti, ci rimarrà ancora un lungo cammino da percorrere per guidarlo nello studio  delle proprietà comuni solo a certi stati della materia.
Noi finora abbiamo volutamente fermato l’attenzione su caratteri che si riscontrano in qualsiasi corpo, ed abbiamo insistito perchè il bambino non generalizzasse precipitosamente in legge le conclusioni a cui i suoi sensi parevano guidarlo nei rapporti di un determinato stato della materia.
Questo era indispensabile, perchè, insieme ai caratteri generali, ogni corpo ne possiede altri particolari del suo stato, ed altri ancora specifici a un gruppo di quello stato, ed altri infine del tutto individuali che lo differenziano fra tutti e costituiscono il suo essere.
I solidi, ad esempio, hanno caratteri propri, quali la durezza e la tenacità; i liquidi proprietà specifiche come la scorrevolezza delle molecole e il potere di trasformare in liquido un solido immerso in essi; mentre l’espansibilità e la tensione sono fenomeni che si riscontrano solo negli aeriformi.
Così alcuni caratteri fisici sono propri, ad esempio, solo di certi corpi solidi, come la plasticità, la malleabilità, la duttilità, la friabilità, la fragilità, ecc…, mentre la forma, il sapore, il calore, l’odore ecc… sono proprietà essenzialmente individualizzatrici.

Le pianure italiane

Le pianure italiane materiale didattico vario per la scuola primaria.

Le pianure italiane
La Penisola Italiana, circondata a Nord dalle Alpi e percorsa in tutta la sua lunghezza dagli Appennini, presenta poche e non vaste pianure. L’unica che meriti tale nome è la pianura padano-veneta. Le altre o sono ristrette e limitate fasce costiere oppure sono conche interne, chiuse tra le catene dell’Appennino.

La Pianura Padana
Con i suoi 46.000 kmq di superficie, la Pianura Padana è la più vasta delle pianure italiane ed occupa da sola circa 1/7 della superficie totale del territorio italiano. E’ situata in quella zona che alla fine dell’era terziaria non era che un vasto golfo del Mare Adriatico. I detriti trasportati dal Po e dagli altri fiumi provenienti dalle Alpi e dall’Appennino Settentrionale respinsero gradatamente l’acqua marina, colmarono il golfo, trasformandolo prima in laguna, poi in palude ed infine in terreno compatto e fertile.
Dall’estremità meridionale dei laghi è breve il passo alla pianura. Già i fiumi che ne escono nel loro andare calmo e largo lo preannunciano. A destra e a sinistra delle loro rive i colli man mano si abbassano e si discostano; le ultime ondulazioni si vanno spianando come gli orli di un manto regale che si adagino al suolo. Comincia la grande pianura padana che insensibilmente degrada dalle Prealpi verso la lunghissima ruga trasversale in cui scorre il Po e poi insensibilmente risale verso le prime pendici dell’Appennino. L’orizzonte si fa sterminato, il cielo si distende a perdita d’occhio, sparso di nuvole bianche, sopra la terra di un verde uguale e intenso, rigata da strade dritte, fitta di città popolose e operose. Eppure anche questa grande e bella e ricca Valle Padana è il risultato di una millenaria e dura e oscura fatica. Nell’età in cui la valle del Po giaceva ancora fuori d’Italia, di là dal civile dominio di Roma, i rudi coloni cominciarono con infaticabile pazienza a costruir difese contro le acque rapinose, a colmare gli stagni, a spianare i campi, a dissodare le macchie, a mondare la terra, a coltivarla, e così di generazione in generazione, di secolo in secolo, finchè questa terra è diventata una delle più produttive regioni agricole d’Europa.
Oggi, soltanto qualche meandro dei maggiori fiumi, là dove essi si svolgono lontani dagli abitati entro più folte cortine di boschi, può ancora evocare la solitudine del paesaggio primordiale. Per tutta la restante ampiezza della sua superficie, la valle del Po è una maglia fittissima e interrotta di canali, di argini, di filari, d’alberi rettilinei, di strade, di rotaie, di fasci di fili elettrici, di città e di villaggi posti ai punti di incrocio dei traffici secondo un piano che, osservato dall’alto, dà l’impressione di un disegno eseguito dall’ingegnere di una gigantesca bonifica.

Le pianure minori italiane
Le altre pianure italiane sono piuttosto piccole e quasi tutte situate in vicinanza del mare. Sono per lo più dovute al lento e progressivo depositarsi dei detriti che i fiumi erodono dai monti e spingono verso il mare.
Le principali sono:
– il Valdarno inferiore, la Versilia e la Maremma Toscana in Toscana;
– la Campagna Romana e l’Agro Pontino nel Lazio;
– la Pianura Campana, formata dai depositi alluvionali del Volturno e dall’abbondante materiale vulcanico eruttato dai vicini crateri di Roccamonfina, dei Campi Flegrei e del Vesuvio, e la Piana di Pesto, in Campania;
– la Terra d’Otranto e il Tavoliere in Puglia;
– la Piana di Catania, formata dai depositi alluvionali del Simeto, in Sicilia;
– il Campidano, tra i golfi di Cagliari e di Oristano, in Sardegna.
Fra le pianure interne ricordiamo:
– la Pianura di Pistoia e di Firenze e la Val di Chiana in Toscana;
– la Conca di Spoleto, la Conca di Foligno e la Conca di Terni in Umbria;
– la Conca dell’Aquila, la Piana di Sulmona e la Conca del Fucino, in Abruzzo.

Come nacque la Pianura Padana
La pianura del Po è filiazione diretta dei due sistemi montani delle Alpi e dell’Appennino, nel senso che è nata effettivamente per l’accumulo di materiali rocciosi derivati dalla loro graduale demolizione ad opera dell’aria e dell’acqua, erosi e trasportati in basso da ghiacciai, da torrenti e da fiumi, e da questi ridotti in ciottoli, in ghiaia, in sabbia, in melma. E’ certo che se la montagna ha fornito i materiali, il maggior lavoro nella gigantesca impresa l’hanno compiuto i fiumi.
All’uscita delle valli, che avevano percorso ripidi e impetuosi, essi venivano perdendo velocità e capacità di trasporto. Avveniva quello che anche oggi possiamo vedere allo sbocco di valli secondarie nella principale e cioè la formazione di cumuli appiattiti costituiti di massi e ciottoloni, primi depositi perchè più voluminosi e più pesanti. Tanti erano i maggiori fiumi alpini e appenninici sboccanti al piano, altrettanti furono questi cumuli. E per il loro sviluppo in estensione, vennero stabilendosi dei contatti fra l’uno e l’altro, così da dare in complesso origine a un piano inclinato, a partire dalle falde alpine e appenniniche.

Pianura Padana
Nel paese di mia madre v’è un campo quadrato, cinto di gelsi.
Di là da quel campo altri campi quadrati, cinti di gelsi.
Rogge scorrenti vi sono, tra alti argini, dritte, e non si sa dove vanno a finire.
La terra s’allarga a misura del cielo, e non si sa dove vada a finire.
Nel paese di mia madre v’han ponti di nebbia, che il vespro solleva da placidi fiumi;
varca il sogno quei ponti di nebbia, mentre le rive si stellan di lumi.
Pioppi e betulle di tremula fronda accompagnan dell’acque il fluire;
quando nei rami s’impigliano gli astri, in quella pace vorrei morire.
Nel paese di mia madre un basso tugurio sonnecchia sul limite della risaia
e ronzano mosche lucenti, ghiotte intorno ad un ammasso di concio.
Possanza di morte, possanza di vita, nell’odore del concio; ne gode
la terra dall’humus profondo, sotto la vampa d’agosto che immobile sta.
Nel paese di mia madre quando il tramonto s’insanguina obliquo sui prati,
vien da presso, vien da lontano una canzone di lunga via;
la disser gli alari alle cune, gli aratri alle marre, le biche all’aie fiorite di lucciole,
vecchia canzone di gente lombarda: “La violetta la vaa la vaaa…”. (A. Negri)

Origine delle pianure
Le varie pianure, pur conservando sotto certi aspetti qualche tratto comune, si differenziano molto l’una dall’altra. Anche tra le pianure fertili e coltivate, comprese nelle zone temperate (come ad esempio tutte le pianure italiane), si manifestano notevoli differenze, a seconda della relativa estensione, della rete idrografica sufficiente o no all’irrigazione, ma, soprattutto, in relazione alla loro origine.
Infatti on tutte le pianure si sono formate nello stesso modo.
Pianure alluvionali sono quelle che si sono venute formando, nel lungo corso di secoli e millenni, per l’erosione dei fiumi che scendendo a valle, portarono con sè ogni sorta di detriti e colmarono in tal modo laghi, golfi, insenature.
Tipico esempio di pianura alluvionale è la Pianura Padana, costituitasi per l’apporto di limo e di detriti del Po, là dove un tempo esisteva soltanto un golfo marino. I depositi alluvionali hanno, come conseguenza, il continuo avanzamento della foce dei fiumi, e l’arretramento di città che da costiere diventano sempre più di terraferma (vedi ad esempio Adria, un tempo celebrato porto sull’Adriatico ed ora distante circa venti chilometri dalla costa).
Le pianure alluvionali in genere sono costituite da ottimo terreno dalla composizione assai minuta, detto “terreno di medio impasto” perchè contenente in giuste proporzioni silice, argilla, calcare e humus, complesso di sostanze organiche putrescenti, cariche di batteri, indispensabile al processo vegetativo: così che il terreno alluvionale permette una ricca e varia vegetazione, anche di quelle colture che trovano l’optimum in altri tipi di terreno (come certo terreno vulcanico per gli ortaggi, il terreno di collina per vini scelti e frutta, certo terreno di costa per agrumi e fiori).
Alcune pianure, dette strutturali, sono dovute a sollevamenti dei fondali marini a piattaforma; altre sono costituite da ceneri e da frammenti di lava eruttati dai vulcani: sono le pianure vulcaniche; vi sono poi le pianure di bacino lacustre, così chiamate perchè si sono formate da riempimento alluvionale entro conche lacustri (e perciò alla testata dei laghi subalpini). E’ facile trovare, in tali piane, delle miniere di lignite, dovute all’accumulo di alberi trascinati nella conca dai fiumi o cresciuti sul fondo della conca stessa prima del riempimento alluvionale.
Abbiamo dunque, secondo l’origine, quattro tipi di pianure, che in Italia sono così distribuite:
– alluvionali: Pianura Padano-Veneta 46.000 kmq di superficie, di fronte ai 15.000 di tutte le altre pianure assommate); il Campidano in Sardegna; le piane dell’Arno in Toscana e del Crati in Calabria; la piana di Catania in Sicilia; l’Agro Pontino,
– strutturali: Tavoliere di Puglia e altre minori,
– vulcaniche: la Campagna di Roma e quella Campana,
– di bacino lacustre: Piane della Val Tiberina, d’Assisi, di Terni, di Spoleto, di Gubbio, del Mugello, del Casentino, ecc…

Tutte le opere contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.

I laghi italiani materiale didattico

I laghi italiani materiale didattico vario per la scuola primaria: dettati, letture, materiale per ricerche, mappe e cartine. In fondo alla pagina trovi altri articoli sull’argomento: i laghi in generale, leggende sui laghi italiani, ecc…

I laghi alpini
Frequentissimi in tutta la cerchia alpina, sembrano gemme strappate al nostro bel cielo per ricreare lo spirito di chi sa raggiungerli. Se ne scoprono a tutte le altitudini, anche sopra i 3000 metri, come è il caso del bellissimo Lago Azzurro di Cima Tessa, nelle Alpi Venoste (m 3045).
Ognuno ha un nome spesso suggerito dal colore delle acque (Lago Verde nel gruppo del Monte Rosa; Lago Blu in cui si specchia il Cervino, ecc…) o dalla località in cui si trova (Laghetti di Resia presso il passo omonimo; Lago di Carezza nelle Dolomiti, ecc…); ognuno ha una sua particolare bellezza che non si dimentica.
Sono quasi sempre dovuti all’opera di escavazione dei ghiacciai ed hanno generalmente dimensioni modestissime. L’uomo però ha imparato ad ampliarli, ad arricchirli di acque con dighe e sbarramenti, allo scopo di trasformarli in preziosi serbatoi per le centrali idroelettriche.
Altri laghi, prodotti dalla glaciazione quaternaria, sono quelli racchiusi entro anfiteatri morenici: nell’anfiteatro di Rivoli Torinese i due laghi di Avigliana (Grande e Piccolo); nell’anfiteatro di Ivrea il lago di Candia e il lago di Viverone; tra le morene frontali del Varesotto e della Brianza, i laghi di Monate e di Comabbio; il lago di Varese di Biandronno;  il lago di Montorfano; i laghi di Alserio, di Pusiano, di Segrino, di Annone. Nel Friuli, intermorenico è il lago di San Daniele.

I laghi prealpini
Passando in rassegna i nostri laghi prealpini cominciando da occidente, troviamo il lago d’Orta, tutto in territorio piemontese (lunghezza sulla mediana km 13,4; perimetro km 33,5; area kmq 18; altezza allo specchio m 290 s.m.; profondità massima m 143; media m 71); è un lago a deflusso invertito cioè con lo scarico delle acque non verso sud, ma verso nord.
Con la sponda occidentale in Piemonte e quella orientale in Lombardia e l’estremità a nord nel Canton Ticino è il Lago Maggiore o Verbano, il secondo d’Italia per vastità (lunghezza sulla mediana km 13,4; perimetro km 33,5; area kmq 18; altezza allo specchio m 290 s.m.; profondità massima m 143; media m 71);(lunghezza km 65; larghezza da km 2 a km 4,5 secondi i luoghi; perimetro km 166; area kmq 216; profondità massima m 372). Suo immissario, con  altri corsi minori, è il Ticino, che ne esce unico emissario a Sesto Calende. Ha un golfo importante, il Golfo Borromeo o di Pallanza. Di fronte alla riva tra Baveno e Stresa sorgono le Isole Borromee. Alle alluvioni del fiume Toce è dovuto il distacco, dal bacino maggiore, dell’attuale Lago di Mergozzo.  Il Verbano ha un bacino l’impluvio vastissimo: il livello del lago è quindi assai variabile. Molto pescoso, ha importanti centri turistici: Stresa, Baveno, Verbania, Cannero, Luino, Laveno.
Tributario del lago Maggiore per messo del fiume Tresa è il Lago di Lugano o Ceresio, in buona parte in territorio svizzero (lunghezza massima km 12; area 49 kmq; larghezza massima 3 km; profondità massima 388 m).
Fra monti elevati si stende coi suoi rami il suggestivo Lago di Como o Lario. Da nord, dove l’Adda sbocca dalla Valtellina, si spinge fino al promontorio di Bellagio col nome di Lago o Ramo di Colico; poi si biforca nei due rami di Como e di Lecco (lunghezza fra Como e Gera 50 km; lunghezza del ramo di Lecco 19 km; area 146 kmq; larghezza minima 650 m; larghezza massima 4,4 km). Due i principiali tributari: l’Adda e la Mera; unico emissario l’Adda che, lasciato il ramo di Lecco, si allarga poi a formare i due laghi di Garlate e di Olginate.
Sempre procedendo verso oriente, le Prealpi racchiudono i più modesti laghi di Endine o di Spinone nella bergamasca Val Cavallina; di Idro o Eridio nella bresciana valle delle Chiese (oggi trasformato in bacino idrico artificiale); di Ledro nella trentina valle omonima.
Ben più importante il lago di Iseo o Sebino, per metà bergamasco e per metà bresciano, che occupa il fondo di sovrescavazione glaciale della Valcamonica (altezza m 185; lunghezza 25 km; larghezza massima 4,7 km; area 62 kmq; profondità massima 251 m). Immissario è il fiume Oglio. Dalle azzurre acque del Sebino emerge Montisola, la maggiore isola lacustre italiana (4,5 kmq; altezza m 600).
Ed eccoci al Lago di Garda o Benaco, il maggiore dei laghi italiani, “vastissima conca dall’empito marino” come la definisce il Morandini, che da Desenzano si protende per quasi 52 chilometri sino a Riva, quasi congiungendo la pianura lombarda, attraverso dolci colline moreniche, alle giogaie alpine (profondità massima 346 m; area 370 kmq; perimetro 155 km; larghezza massima 17,5 km; larghezza minima 2,4 km). Fra i due grandi golfi di Desenzano e Peschiera si protende nel lago la catulliana “perla delle penisole” Sirmione, nota anche per la fonte termale subacquea della Boiola.
Modesto è il bacino d’impluvio del Garda, per cui poco rilevanti sono le variazioni di livello. L’immissario più importante è il Sarca, ma piccoli torrenti scendono nel lago da tutti i versanti. Emissario è il Mincio, a Peschiera. Unica isola notevole è quella di Garda, a est di Salò. Data la vastità, nel Garda, più che in altri laghi, sono accentuate le sesse; vi è anche una forte corrente profonda, il corrivo.

Come sono nati i laghi prealpini

E’ ormai accertato che con l’erosione glaciale è connessa l’origine dei laghi prealpini. Dall’esame della posizione del materiale che costituisce l’alta pianura lombarda si può lecitamente dedurre che, quando sono scesi la prima volta i ghiacciai dalle Alpi (e sono scesi almeno quattro volte, con discese alternate  a fortissimi ritiri) le valli erano già formate, erano già state in precedenza scavate dai fiumi. Il ghiacciaio non ha fatto altro (fenomeno grandioso, tuttavia!) che “ultrascavare” queste valli, trasformando un buon tratto del loro sbocco nelle Prealpi in lunghe conche in contropendenza, cioè in navicelli, perciò il laghi; le valli furono allargate con l’erosione dei versanti in modo che questi vennero resi più ripidi (le famose valli a U).
E le isole? E le biforcazioni dei laghi? Le isole rappresenterebbero dei resti di diaframmi che un tempo separavano due valli; queste vengono occupate dalla colata glaciale che s’affonda nelle due vallate, allarga i versanti e riduce quindi il vecchio diaframma a semplici isolotti.
Quanto alle biforcazioni, di cui l’esempio classico è quello dei due rami del Lago di Como, è accettabile l’ipotesi che si tratti di due antiche valli che scendevano da un gruppo di basse montagne del centro lago; l’avanzata glaciale ha torto di mezzo le due basse testate delle due valli, è penetrata in esse e, ulteriormente scavandole, le ha trasformate in conche, cioè in laghi. (G. Nangeroni)

Laghi costieri e lagune
Effetto dell’alluvionamento marino sono anche i laghi costieri, assai frequenti in Italia; antiche insenature più o meno ampie, sbarrate da cordoni litoranei accumulati dalle onde. Tali i due maggiori laghi costieri italiani, quello di Varano (60 kmq) e di Lesina (51 kmq) e altri minori del Gargano, i laghi di Burano nella maremma toscana, e il Sorso in Sardegna, gli stagni della costa siciliana presso Capo Faro e del retroterra del golfo di Cagliari, i laghetti di Tindari in Sicilia, i laghi pontini e di Fondi, di Sabaudia, ecc…
Di lagune vere e proprie, prosciugate alla fine del Medioevo e all’inizio dell’Età Moderna quelle che anticamente circondavano Ravenna, oggi in Italia rimangono soltanto quelle venete, tra la foce dell’Isonzo e il delta del Po.
Lagune vive sono gli specchi d’acqua prossimi al mare, da cui sono separate da cordoni litoranei interrotti in più punti, e quindi direttamente soggette all’azione delle maree e delle relative correnti; lagune morte sono quelle più interne, ove l’azione delle maree arriva indirettamente e debolmente.
La laguna Veneta comprende la Laguna di Chioggia, di Malamocco e di Venezia; quella Friulana comprende la Laguna di Marano e di Grado.
Durante l’alta marea le acque marine penetrano nelle aperture dei cordoni litoranei, dette porti, e scavano i canali che percorrono in ogni senso la laguna viva e che, per la loro profondità, sono i soli navigabili. Nella laguna morta, le correnti di marea arrivano troppo attenuate per scavare e tenere sgombri i canali, quasi sempre tortuosi e poco profondi. Tuttavia anche nelle lagune vive è l’opera umana che deve intervenire per tener sgombri i canali dai depositi alluvionali.
Nel Veneto gli spazi lagunari adattati dall’uomo per la pesca e la pescicoltura sono chiamati valli. Le valli più estese sono quelle di Comacchio, originariamente ad acque dolci, dall’uomo trasformate in specchi salati per ospitare e conservare il pesce di mare.

I laghi vulcanici
i laghi vulcanici sono caratteristici dell’Antiappennino laziale. Di forma press’a poco circolare e generalmente profondi, occupano i crateri di vulcani spenti. Ricordiamo il Lago di Bolsena, il Lago di Vico, il Lago di Bracciano, il Lago di Albano e il Lago di  Nemi.
Il Lago di Bolsena o Vulsino ha una superficie di 115 kmq e una profondità di 146 m. Abbraccia numerosi antichi crateri dei Monti Vulsini ed accoglie alcune isolette.
Il Lago di Vico o Cimino ha una superficie di 12 kmq e una profondità di 50 m. Riempie le cavità crateriche dei Monti Cimini.
Il lago di Bracciano o Sabatino ha una superficie di 57 kmq e una profondità di 160 m. Ha forma quasi circolare e si trova sui Monti Sabatini.
Il Lago di Albano ha una superficie di 6 kmq e una profondità di 179 m. Occupa uno dei crateri di quello che fu un tempo l’antico Vulcano Laziale.
Il Lago di Nemi ha una superficie di 1,5 kmq ed una profondità di 34 m. Anch’esso occupa un cratere dell’antico Vulcano Laziale.
Fra i laghi dell’Italia centrale solo il Trasimeno non ha origine vulcanica, ma è un lago relitto. E’ cioè un lago formatosi in epoche remote quando, in seguito ad alcuni sconvolgimenti della crosta terrestre, uno specchio di mare rimase isolato e circondato da terre. Ha una superficie di 138 kmq e una profondità media di circa sette metri.
Un tempo il più grande lago dell’Italia centrale era il Fucino, chiuso fra il Monte Velino e i Monti Simbruni, nella Marsica, con un’estensione di 165 kmq. Tentativi per prosciugarlo vennero compiuti fin dall’epoca romana. Ripresi nel Medioevo, furono coronati da successo soltanto nel secolo scorso ed ora l’alveo del Fucino è diventato una delle zone agricole più produttive dell’Italia centrale.

I laghi artificiali
Dagli ultimi anni del 1800 ad oggi si sono costruiti in Italia, per mezzo di dighe di sbarramento, numerosi bacini o laghi artificiali, che hanno cambiato sensibilmente il paesaggio alpino e appenninico. Queste riserve d’acqua sono state rese indispensabili dal bisogno di produrre energia idroelettrica e da quello di irrigare, anche nei periodi di siccità, vaste zone agricole per una maggiore produttività. Questi laghi artificiali sono ormai molto numerosi nel nostro paese.

Il lago malato
L’Umbria ospita nel suo territorio il maggior lago dell’Italia peninsulare, il Trasimeno. Esteso su una superficie di 128 kmq, inferiore di poco a quella del Lago di Como, il lago ha una forma grossolanamente circolare; il suo perimetro misura circa 54 km e la massima profondità raggiunge circa sei metri.
Questo grande specchio lacustre offre un paesaggio tra i più dolci e riposanti: le sue basse rive, coperte di vegetazione, si protendono nell’acqua e in alcuni tratti quasi vi si confondono; tutt’intorno è un susseguirsi di colli ondulati, coperti di olivi e disseminati di casolari e di piccoli centri abitati; la superficie del lago, che si estende uniforme a perdita d’occhio, è interrotta dolo da tre piccole isole, emergenti dalle acque con i loro dossi verdeggianti: a sud l’isola Polvese, che è la più vasta; presso la costa settentrionale la piccola isola Minore e, vicina ad essa, la Maggiore, la sola che abbia oggi un notevole nucleo di popolazione. Ma fino a quando questo paesaggio potrà conservare le sue suggestive caratteristiche? Da tempo ormai il Trasimeno è noto come il “lago malato”, che vede ridurre ogni anno la sua superficie e profondità, mentre la vegetazione palustre che ha invaso le rive si spinge sempre più avanti guadagnando terreno sullo specchio d’acqua e ne ha ormai raggiunto anche il centro, dove il livello delle acque non supera oggi i tre metri; il lago, che si va trasformando a poco a poco in una grande palude è destinato ad estinguersi e a scomparire entro breve periodo, se non interverrà un cambiamento delle condizioni attuali.
Le condizioni in cui si trova il lago hanno fatto ritornare di attualità l’idea del completo prosciugamento, idea che già si era fatta strada nei secoli scorsi per porre un definitivo rimedio alle inondazioni delle campagne circostanti; ora si riaffaccia con un altro scopo, quello di evitare che una ulteriore riduzione del livello dell’acqua finisca col trasformare tutto il lago in una malsana palude, come sta ormai verificandosi nei larghi tratti di esso. Questa soluzione, che risolverebbe per sempre il problema idrologico del Trasimeno, non trova però tutti d’accordo: si pensa che l’estinzione di un così vasto specchio lacustre potrebbe forse portare sensibili modificazioni del clima di tutto il bacino che secondo alcuni sarebbe mitigato, nell’inverno, dalla massa d’acqua del lago (ma la scarsa profondità delle acque sembra escludere che esse possano esercitare un’azione mitigatrice sulla temperatura delle aree circostanti); e che si verrebbe ad eliminare l’attività di pesca, la quale, sia pure ridotta, costituisce ancora una risorsa per una parte della popolazione rivierasca.
Perciò, contro all’idea di accelerare il processo naturale già in atto, si avanzano progetti per arrestarlo, anzi per ripristinare lo specchio lacustre nella sua integrità, convogliandovi acqua anche da zone esterne al suo troppo ristretto bacino imbrifero, in modo da compensare le perdite per evaporazione e riattivare e regolarizzare in pari tempo il corso dell’emissario.
Di recente sono già stati restituiti al lago i due immissari Tresa e Rio Maggiore, le cui acque vengono immesse nel bacino attraverso il fosso dell’Anguillara. Di vorrebbero inoltre far giungere al Trasimeno, mediante un canale, le piene dell’alto Tevere che si verificano nella Val Tiberina; si eviterebbero così i danni causati dalle inondazioni in quella conca dell’Umbria settentrionale, si innalzerebbe il livello del lago arrestandone l’impaludamento, e infine le acque deviate ritornerebbero al Tevere più a valle, attraverso l’emissario ed il corso del Nestore, attenuandone l’irregolarità del regime. (M. R. Prete Pedrini)

Tutte le opere contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.

I fiumi italiani

I fiumi italiani materiale didattico vario per la scuola primaria: dettati, letture, tabelle, mappe e cartine… Per il materiale sul fiume in generale vai qui 

I fiumi italiani

Le abbondanti piogge delle Alpi, le nevi e i ghiacciai, alimentano numerosi corsi d’acqua che per la maggior parte finiscono nel più grande fiume d’Italia: il Po.
Il Po attraversa tutta la Pianura Padana e sbocca nell’Adriatico con un largo delta, cioè si divide come le dita della mano. Il Po nasce dal Monviso e prima di arrivare al mare compie  un viaggio lungo ben 652 chilometri. Lungo il suo percorso riceve le acque di numerosi fiumi che prendono il nome di affluenti. I principali sono il Ticino, l’Adda, l’Oglio e il Mincio.
Tutti questi fiumi scendono dalle Alpi, così come l’Adige e il Piave. Anche dall’Appennino scendono numerosi fiumi, ma non molto lunghi e di solito poveri d’acqua.
Due soltanto sono importanti: l’Arno, che attraversa Firenze, e il Tevere, che attraversa Roma. Entrambi finiscono nel mar Tirreno.
Nell’Italia meridionale sono da segnalare il Volturno e il Garigliano.
Tra i fiumi che scendono dall’Appennino sono da segnalare anche il Liri e il Volturno.

Principali fiumi italiani

Po (652 km), Adige (410 km), Tevere (405 km), Adda (313 km), Oglio (280 km), Tanaro (276 km), Ticino (248 km), Arno (241 km), Piave (220 km), Reno (211 km), Volturno (175 km), Tagliamento (170 km), Ombrone (161 km), Dora Baltea (160 km), Brenta (160 km), Liri – Garigliano (158 km), Tirso (150 km), Basento (149 km), Aterno – Pescara (145 km), Imera – Salso (144 km), Isonzo (136 km), Ofanto (134 km), Flumendosa (127 km), Mannu – Coghinas (123 km), Bacchiglione (118 km), Bradano (116 km), Sangro (115 km), Simeto (113 km), Livenza (112 km), Metauro (111 km).

Caratteristiche dei fiumi italiani
Che differenza c’è tra i fiumi alpini, quelli appenninici e quelli calabresi e insulari?
Quelli che scendono dalle Alpi provengono quasi tutti dai ghiacciai e dai nevai; sono perciò in piena nei sei mesi di primavera e estate; ma non sono piene rovinose, perchè alcuni, prima di giungere al piano, attraversano estesi laghi in cui smorzano il loro impeto e chiarificano le loro acque torbide.
Invece quelli che scendono dall’Appennino, alimentati quasi esclusivamente dalle piogge, sono in generale poveri di acque ed irregolari, passando dalle piene improvvise, talora rovinose della primavera e dell’autunno, alle magre eccessive d’estate.
Quelli, poi, calabresi e delle isole, hanno piene solo invernali, perchè è d’inverno che qui piove, salvo rimanere completamente asciutti d’estate, quando la vegetazione più ne avrebbe bisogno. Questi fiumi sono chiamati fiumare.

Fiumi tributari dell’Adriatico
I fiumi alpini che sfociano nell’Adriatico in territorio italiano sono i fiumi veneti e il Po, che raccoglie le acque degli affluenti di sinistra, provenienti dalle Alpi, e di quelli di destra provenienti dagli Appennini. Tutti questi fiumi costituiscono, presi insieme, il sistema idrografico padano-veneto, che è il maggiore d’Italia. Dagli Appennini scendono all’Adriatico tutti i fiumi del versante esterno della catena, dalla Romagna alla Puglia.
Dei fiumi veneti il più importante è l’Adige, il secondo fiume italiano per lunghezza (km 410) e il terzo per ampiezza di bacino.
L’Adige, che ha le sue sorgenti sotto il Passo di Resia, forma la Val Venosta e la Val Lagarina, ricevendo l’Isarco e l’Avisio da sinistra, il Noce da destra, finchè, sbicato in pianura, bagna Verona e si dirige verso l’Adriatico.
Il più lungo fiume italiano è il Po, lungo 652 km e con un bacino fluviale che ha un’estensione di 75.000 kmq. Nasce da un laghetto nel Pian del Re a 2000 metri di altitudine sul Monviso, nella Alpi Cozie, e dopo aver percorso i primi 30 km in una valle angusta a forte pendenza, giunge al piano presso Saluzzo, ove si allarga e diventa meno impetuoso. Bagna poi Torino, Casale Monferrato, Piacenza, Guastalla  ove raggiunge la sua massima larghezza (m 1500) e diviene accessibile ai natanti piuttosto grossi. Da Cremona in poi procede lento con ampie curve (meandri) e sul suo letto si accumulano tanta sabbia e melma che, in regime di acque alte, il Po scorre prevalentemente sopra il livello della pianura. Per questo, onde evitare dannosi straripamenti, esso è stato fiancheggiato da potenti arginature fino all’Adriatico. Qui il Po si getta attraverso un delta costituito da sette rami principali e da altrettante bocche secondarie sparse su una costa paludosa di 50 km.
I sette rami principali della foce del Po sono: il Po di Levante, il Po di Maestra, il Po di Tolle, il Po di Gnocca, il Po di Goro, il Po di Volano, il Po di Pila.
Le sue acque trasportano ancora abbondanti detriti e il delta avanza nel mare con una media di sette metri all’anno.
Nel suo lungo corso il Po riceve numerosi affluenti da sinistra (Alpi) e da destra (Appennini).
Tutti questi fiumi che, insieme con il Po, solcano la pianura padana, sono i costruttori della pianura stessa. Infatti, nel corso di millenni e millenni, essi hanno trasportato una quantità immensa di detriti, che lentamente hanno colmato l’ampio golfo del Mare Adriatico che, in epoca lontanissima, occupava il posto della pianura padana.
Gli affluenti di sinistra sono i più importanti perchè provengono dalle Alpi e sono  quindi più ricchi di acque. I principali sono:
– la Dora Riparia, che nasce dal Monginevro, percorre la Val di Susa e confluisce nel Po nelle vicinanze di Torino. Presso la sorgente riceve l’affluente Ripa, da cui prende il nome;
– la Dora Baltea, che sgorga dal Monte Bianco, raccoglie le acque provenienti dal Gran Paradiso, dal Cervino e dal Monte Rosa, percorre la Val d’Aosta, e bagna Aosta e Ivrea. Ad Aosta riceve il fiume Balteo, da cui trae il nome;
– la Sesia, che nasce dal Monte Rosa, attraversa la Valsesia, bagna Varallo e Vercelli;
– il Ticino, che ha le sue sorgenti sulle pendici del San Gottardo, in Svizzera, percorre la Valle Levantina in territorio elvetico, attraversa il Lago Maggiore, poi bagna Pavia. Tra i fiumi italiani viene subito dopo il Po per la portata d’acqua;
– l’Adda, che nasce presso il passo dello Stelvio, percorre la Valtellina, entra nel lago di Como, ne esce presso Lecco, e attraversa fertili campagne, bagnando Lodi. L’Adda è il quarto fiume italiano per la lunghezza di corso (313 km) e per portata d’acqua;
– l’Oglio, che sgorga dalle propaggini dell’Ortles, percorre la Val Camonica, attraversa il lago d’Iseo e, prima di sfociare nel Po, riceve le acque del Mella e del Chiese;
– il Mincio, che ha le sorgenti nel gruppo dell’Adamello, col nome di Sarca entra nel lago di Garda, ne esce con il nome di Mincio e poi bagna Mantova, intorno alla quale forma tre piccoli laghi.
Gli affluenti di destra del Po, ad eccezione del Tanaro che nasce dalle Alpi Marittime, provengono tutti dall’Appennino Settentrionale. I principali sono:
– il Tanaro, che sgorga dal Saccarello, riceve la Stura di Demonte e la Bormida con l’Orba, e scorre tra le Langhe e il Monferrato con un corso totale di 276 km;
– la Scrivia, la Trebbia, il Taro, la Secchia, il Panaro, che hanno origine dall’Appennino Ligure e dall’Appennino Tosco-Emiliano, e percorrono valli trasversali e quasi parallele tra loro. Hanno regime torrentizio; quasi asciutti in estate, si gonfiano e spesso straripano durante le piogge primaverili ed autunnali.
I fiumi appenninici che si versano direttamente nell’Adriatico si susseguono l’uno dopo l’altro dall’Emilia Romagna alla Puglia; essi sono numerosi, ma nel complesso poveri d’acqua, perchè hanno corsi brevi, carattere torrentizio e vanno soggetti a lunghi periodi di magra.
Quelli di maggiore portata sono i fiumi abruzzesi e molisani, aumentati dalle acque, relativamente copiose, del Gran Sasso e della Maiella. Il principale è l’Aterno, che raggiunge l’Adriatico con il nome di Pescara. Poverissimi d’acqua sono, normalmente, i fiumi pugliesi.

I fiumi del versante ligure-tirrenico
I fiumi più importanti della Penisola mandano le loro acque nel Mar Tirreno perchè, in corrispondenza di questo mare, gli Appennini si allontanano dalla costa e lasciano ai corsi d’acqua agio di distendersi.
Dei fiumi che interessano la Liguria meritano di essere ricordati la Roia (km 59) che nasce presso il Passo di Tenda, e la Magra (km 62) che scende dal Passo della Cisa.
La bella serie di fiumi del versante ligure-tirrenico ha inizio con il Serchio, al quale seguono l’Arno, la Cecina, l’Ombrone, il Tevere, il Liri-Garigliano, il Volturno e il Sele.
Il Serchio (km 89) percorre la Garfagnana, tra l’Appennino e le Alpi Apuane, bagna Lucca, entra in pianura e sfocia in mare poco a Nord dell’Arno.
L’Arno (km 241) è il maggiore dei fiumi toscani e uno dei più importanti d’Italia per ricchezza d’acqua. Nasce dal Monte Falterona, scende ripiido per la Valle del Casentino e riceve le acque della Chiana. Lambisce, quindi, il gruppo montuoso del Pratomagno, riceve le acque del Sieve, e puntando decisamente a Ovest, si dirige verso il mare che raggiunge dopo aver bagnato Firenze, Empoli e Pisa.
A Sud dell’Arno, troviamo la Cecina (km 74) che scende dai Monti Metalliferi, e l’Ombrone Grossetano (km 161) che attraversa la Maremma Toscana.
Il Tevere (km 405) è il più importante fiume dell’Italia Peninsulare. Nasce dal Monte Fumaiolo, a breve distanza dalle sorgenti dell’Arno, e nel primo tratto corre nella stretta Val Tiberina. Lambita l’altura di Perugia, riceve da destra il Nestore, che gli porta le acque del Lago Trasimeno. Prima di raggiungere Roma riceve la Nera e l’Aniene. Sbocca nel Tirreno con due rami che racchiudono l’Isola Sacra.
A monte della sua confluenza con il Tevere, la Nera riceve le acque del Velino, che vi si precipitano con un triplice salto dando luogo alla suggestiva Cascata delle Marmore.
Il Liri-Garigliano (lm 168) nasce in Abruzzo col nome di Liri e scorre nel Lazio dove riceve il Gari, da cui il nome Garigliano.
Il Volturno (km 175) è il maggior fiume della Campania. Nasce nel Gruppo della Meta (Molise) e, in Campania, si arricchisce delle acque del Calore. Sfocia nel Golfo di Gaeta, a Sud del Garigliano.
Il Sele (Km 64) ha corso breve ma è ricchissimo di acque, tanto che una delle sue copiose sorgenti alimenta l’Acquedotto Pugliese. Sbocca nel Golfo di Salerno dopo aver attraversato la Piana di Pesto.

I fiumi del versante ionico
Al Golfo di Taranto scendono dall’Appennino Lucano il Bradano (km 167), il Basento (km 149), l’Agri (km 136) e il  Sinni (km 100), tutti fiumi della Basilicata.
Veramente più che fiumi dovrebbero chiamarsi torrenti, perchè in estate sono poverissimi d’acqua (il Basento, anzi, nei mesi di agosto e di settembre è quasi sempre asciutto). In inverno, invece, sono soggetti a piene impetuosissime e trasportano a valle grandi quantità di detriti che poi depositano lungo la pianura costiera.
Le stesse caratteristiche dei fiumi lucani ha il Crati (km 81), il più lungo fiume della Calabria; scende dalla Sila e giunge al mare dopo aver attraversato la Piana di Sibari. Degno di note è il Neto che ha le sorgenti poco a nord di quelle del Crati. Le sue acque e quelle dei suoi affluenti hanno consentito la costruzione di grandi serbatoi artificiali sulla Sila.

I fiumi delle isole
Anche i fiumi delle Isole della regione italiana sono brevi e poveri di acque come gran parte dei fiumi dell’Italia Peninsulare.
In Sicilia il fiume di maggior bacino è il Simeto, che sgorga dai Monti Nebrodi, lambisce le falde dell’Etna, raccoglie le acque provenienti dai Monti Erei e raggiunge il Mar Ionio nel golfo di Catania, dopo un percorso di 113 km. Il più lungo fiume siciliano è invece il Salso o Imera Meridionale, detto così perchè, come altri fiumi dell’isola, ha acque salmastre. Esso nasce dalle Madonie e dopo un percorso di 144 km raggiunge il Mar di Sicilia nel golfo di Gela. Anche il Platani sfocia nel versante meridionale dell’isola, come il Belice, che scorre presso le rovine dell’antica colonia greca di Selinunte.
In Sardegna il fiume più importante è il Tirso. Nasce sull’altopiano di Buddusò, accoglie le acque del Taloro e del Flumineddu e dopo un percorso di 150 km si getta nel Mar di Sardegna all’altezza del golfo di Oristano. Il Flumendosa nasce nel Gennargentu e dopo un percorso di 127 km sfocia nel Mar Tirreno. Il Coghinas, il terzo fiume sardo, è formato dal Rio Mannu di Ozieri, proveniente dall’altopiano di Campo Giavesu e dal Rio Mannu di Berchidda, proveniente dal Massiccio del Limbara. Dopo un percorso di 123 km il Coghinas sfocia nel golfo dell’Asinara. Tutti e tre questi fiumi sono stati sbarrati con potenti dighe, onde fosse possibile raccogliere in grandi bacini artificiali le acque necessarie all’irrigazione e alla produzione di energia idroelettrica.

I fiumi italiani
Osservate l’imponente sistema del Po con i suoi piccoli affluenti di destra e i grandi affluenti di sinistra (con i laghi prealpini); i fiumi adriatici disposti come i denti di un pettine; i complicati fiumi del Tirreno (con tre laghi vulcanici e col Trasimeno, che non è vulcanico). Le lineette indicano le principali cascate.

Il delta del Po con i suoi sette bracci principali
Ogni anno qualche braccio si prolunga sempre più per centinaia di metri nel mare in conseguenza delle fanghiglie e sabbie trasportate e abbandonate dal Po nel mare. Duemila anni fa questo delta non esisteva, era tutto mare.

I fiumi delle tenebre
Grazie alla permeabilità dei terreni (terreni a struttura granulosa, sabbie, terreni coltivati) e grazie anche alle fessure e ai crepacci, l’acqua penetra fino a grande profondità, si raccoglie nelle cavità sotterranee, forma laghi e canali; e scorrendo sull’argilla e sulle rocce, passando da cavità a cavità del sottoterra, dà luogo ad un grande sistema di circolazione sotterranea, che può essere paragonata a quello della superficie terrestre.
Anche in Italia possiamo trovare fiumi e laghi sotterranei.
Un fiume, la Pinca, percorre le famose grotte di Postumia. Un altro fiume, il Recca Timavo, scorre per trentacinque chilometri nella grotta di San Canziano, dove spumeggia anche per una trentina di cascate prima di uscire “a riveder le stelle” a circa tre chilometri da Monfalcone.
Nel Buco dell’Orso, presso Como, nasce e scompare sottoterra un piccolo torrente. Così il Sagittario (che nasce negli Abruzzi sotto il paese di Villago) riceve acqua, per via sotterranea, dal lago di Scanno.

Crepuscolo di sabbiatori del Po
I barconi risalgono adagio, sospinti e pesanti;
quasi immobili, fanno schiumare la viva corrente.
E’ già quasi notte. Isolati, si fermano:
si dibatte e sussulta la vanga sott’acqua.
D’ora in ora, altre barche sono state fin qui.
I barconi nel buio discendono grevi di sabbia,
senza dare una scossa, radenti: ogni uomo è seduto
a una punta e un granello di fuoco gli brucia alla bocca.
Ogni paio di bracca strascina il suo remo,
un tepore discende alle gambe fiaccate
e lontano s’accendono i lumi.
… In distanza, sul fiume, scintillano i lumi
di Torino. Due o tre sabbiatori hanno acceso
sulla prua il fanale, ma il fiume è deserto. (C. Pavese) (rid.)

I pioppi sulla riva del fiume
Ora, nella brumale tristezza novembrina,
nell’aria senza raggio nè respiro nè moto,
voi vi drizzate fermi al cielo grave e vuoto,
ombre vane, confuse nell’ombra vespertina.
Non più ansia di volo, nè canto, nè tremore.
Le rade ultime foglie si levano dal ramo,
silenziose, quasi a un tacito richiamo.
Ora, nell’infinito silenzio, più non sento
che lo striscio tranquillo del gran fiume che va,
che va per la sua lenta strada d’eternità,
senza mai posa, sena mai posa o mutamento. (D. Valeri)

Tutte le opere contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.

Lanterna di carta per San Martino

Lanterna di carta per San Martino in due versioni, una più semplice e una un po’ più elaborata, con tutorial fotografico e modello stampabile gratuitamente in formato pdf. E’ un altro classico della scuola steineriana, dopo la lanterna di cartapesta e la lanterna a stella.
Entrambe le versioni sono di grande effetto e richiedono pochissimo tempo per la realizzazione.


Prima versione

Se anche non volete usare il modello, si tratta come vedete di piegare un margine superiore e laterale destro di circa 2 cm per chiudere la lanterna, e di un margine inferiore più largo per la base. Quindi si divide in foglio in quattro parti uguali (escluso il margine) e si tracciano le diagonali di ogni rettangolo ottenuto:


Le linee in rosso sono da tagliare:

tutte le altre linee da piegare:

si procede quindi alla chiusura della forma, così:

e si ripiega verso l’interno il margine superiore:

ora si deve soltanto dare forma alla lanterna spingendo verso l’interno i rombi che corrispondono ai quattro spigoli laterali della lanterna:



Seconda versione

potete usare il modello, o un foglio a vostra scelta, di forma rettangolare. Io ho usato una pittura:

segnate un margine laterale così, piegando la carta (un paio di centimetri circa):

voltate (io ho tracciato a matita le piegature per facilitare la spiegazione):

Piegate il foglio a metà, escludendo il margine:

poi dividete ogni metà ancora in due, così:

otterrete quattro rettangoli uguali:

piegate ora a metà nel senso della lunghezza:

e poi ogni metà ancora in due:

otterrete questa griglia:

dividete la parte superiore (prima fila di rettangoli) in tre, nel senso della lunghezza, lasciate liberi i rettangoli della quarta fila di rettangoli, e tracciate le diagonali di ogni rettangolo della seconda e della terza:

tagliate in questo modo e piegate la carta lungo ogni linea tracciata:

incollate le linguette:

e il fondo della lanterna:

rivoltate verso l’interno il margine superiore:

quindi spingete verso l’interno ogni rombo che si trova in corrispondenza dei quattro spigoli del parallelepipedo:

e questo è il risultato:

Questo articolo fa parte dell’Album di Vita pratica:

Tutti gli album

Lavoretti per San Martino QUADRO TRASPARENTE 6

Lavoretti per San Martino QUADRO TRASPARENTE 6 con modelli scaricabili e stampabili in formato pdf. Il quadretto può essere messo alla finestra, davanti ad una candelina, oppure può essere inserito in una lanterna di cartone.

Lavoretti per San Martino QUADRO TRASPARENTE 6

Questo è il disegno a contorni, se preferite ritagliare il quadro dal cartoncino nero (le parti tratteggiate sono indicazioni per il ritaglio e lo strappo delle veline colorate):

trasparente 6

Questa è la sagoma in nero, già pronta per la stampa e il ritaglio:

trasparente nero 6

Lavoretti per San Martino QUADRO TRASPARENTE 6
come si fa

Dopo aver ritagliato il quadro, potete utilizzare lo schema a tratteggio per le veline:

Io ho preparato prima le lanterne, e poi i tre cerchi concentrici della luce:

poi ho preparato le stelle e la luna:

e infine il cielo, prima con veline ritagliate:

e poi con striscioline strappate:

Lavoretti per San Martino QUADRO TRASPARENTE 6

Questo articolo fa parte dell’Album di Vita pratica:

Tutti gli album

Lavoretti per San Martino QUADRO TRASPARENTE 5

Lavoretti per San Martino QUADRO TRASPARENTE 5 con modelli scaricabili e stampabili in formato pdf. Il quadretto può essere messo alla finestra, davanti ad una candelina, oppure può essere inserito in una lanterna di cartone.

Lavoretti per San Martino QUADRO TRASPARENTE 5
materiale

Questo è il disegno a contorni, se preferite ritagliare il quadro dal cartonicino nero (le parti tratteggiate sono indicazioni per il ritaglio e lo strappo delle veline colorate):

Lavoretti per San Martino QUADRO TRASPARENTE 5 – trasparente solo contorni

Questa è la sagoma in nero, già pronta per la stampa e il ritaglio:

Lavoretti per San Martino QUADRO TRASPARENTE 5 –  nero

Lavoretti per San Martino QUADRO TRASPARENTE 5
come si fa:

Dopo aver ritagliato il quadro, potete utilizzare lo schema a tratteggio per le veline.

Questo articolo fa parte dell’Album di Vita pratica:

Tutti gli album

Lavoretti per San Martino QUADRO TRASPARENTE 4

Lavoretti per San Martino QUADRO TRASPARENTE 4 con modelli scaricabili e stampabili in formato pdf. Il quadretto può essere messo alla finestra, davanti ad una candelina, oppure può essere inserito in una lanterna di cartone.

Lavoretti per San Martino QUADRO TRASPARENTE 4
modelli:

Questo è il disegno a contorni, se preferite ritagliare il quadro dal cartonicino nero (le parti tratteggiate sono indicazioni per il ritaglio e lo strappo delle veline colorate):

Lavoretti per San Martino QUADRO TRASPARENTE 4 – solo contorni

Questa è la sagoma in nero, già pronta per la stampa e il ritaglio:

Lavoretti per San Martino QUADRO TRASPARENTE 4 – nero


Lavoretti per San Martino QUADRO TRASPARENTE 4
come si fa

Dopo aver ritagliato il quadro, potete utilizzare lo schema a tratteggio per le veline.

Lavoretti per San Martino QUADRO TRASPARENTE 4

Questo articolo fa parte dell’Album di Vita pratica:

Tutti gli album

Lavoretti per San Martino QUADRO TRASPARENTE 3

Lavoretti per San Martino QUADRO TRASPARENTE 3 con modelli scaricabili e stampabili gratuitamente in formato pdf. Il quadretto può essere messo alla finestra, davanti ad una candelina, oppure può essere inserito in una lanterna di cartone.

Questo è il disegno a contorni, se preferite ritagliare il quadro dal cartonicino nero (le parti tratteggiate sono indicazioni per il ritaglio e lo strappo delle veline colorate):

Lavoretti per San Martino QUADRO TRASPARENTE 3
modello solo contorni

Questa è la sagoma in nero, già pronta per la stampa e il ritaglio:

Lavoretti per San Martino QUADRO TRASPARENTE 3
modello nero

Questo articolo fa parte dell’Album di Vita pratica:

Tutti gli album

Lavoretti per San Martino QUADRO TRASPARENTE 2

Lavoretti per San Martino QUADRO TRASPARENTE 2 con modelli scaricabili e stampabili gratuitamente in formato pdf. Il quadretto può essere messo alla finestra, davanti ad una candelina, oppure può essere inserito in una lanterna di cartone.

Lavoretti per San Martino QUADRO TRASPARENTE 2
modelli

Questo è il disegno a contorni, se preferite ritagliare il quadro dal cartonicino nero (le parti tratteggiate sono indicazioni per il ritaglio e lo strappo delle veline colorate):

solo contorni

Questa è la sagoma in nero, già pronta per la stampa e il ritaglio:

nero

Lavoretti per San Martino QUADRO TRASPARENTE 2
come si fa

Dopo aver ritagliato il quadro, potete utilizzare lo schema a tratteggio per le veline.

Questo articolo fa parte dell’Album di Vita pratica:

Tutti gli album

Lavoretti per San Martino QUADRO TRASPARENTE 1

Lavoretti per San Martino QUADRO TRASPARENTE 1 con modelli scaricabili e stampabili in formato pdf. Il quadretto può essere messo alla finestra, davanti ad una candelina, oppure può essere inserito in una lanterna di cartone.

Lavoretti per San Martino QUADRO TRASPARENTE 1
modelli

Questo è il disegno a contorni, se preferite ritagliare il quadro dal cartoncino nero (le parti tratteggiate sono indicazioni per il ritaglio e lo strappo delle veline colorate):

solo contorni

Questa è la sagoma in nero, già pronta per la stampa e il ritaglio:

nero

Lavoretti per San Martino QUADRO TRASPARENTE 1
come si fa

Dopo aver ritagliato il quadro, potete utilizzare lo schema a tratteggio per le veline:

la procedura più semplice è ricavare per prime la luna e la luce per la lanterna, e le due nuvolette bianche intorno ai due elementi:

quindi incollarle tra loro, e poi nel quadretto:

completando con le veline azzurre e marroni stappate a striscioline irregolari:

Lavoretti per San Martino QUADRO TRASPARENTE 1

Questo articolo fa parte dell’Album di Vita pratica:

Tutti gli album

Lanterna per San Martino con sagome ritagliate

Lanterna per San Martino con sagome ritagliate disponibili per il download e la stampa in formato pdf.

Lanterna per San Martino con sagome ritagliate
modelli

Questo è il disegno a contorni, se preferite riportare la sagoma sul cartoncino nero e poi ritagliarla:

Lanterna per San Martino con sagome ritagliate solo contorni

Queste sono le sagome già pronte per la stampa e il ritaglio:

 

__________________________________
Lanterna per San Martino con sagome ritagliate

Lanterna per San Martino con sagome ritagliate

Questo articolo fa parte dell’Album di Vita pratica:

Tutti gli album

Consigli per favorire la composizione scritta in quarta classe

Consigli per favorire la composizione scritta in quarta classe – idee, riflessioni e materiali.

“Le idee non vengono da sè allo spirito del bambino; bisogna aiutarlo a trovarle. E ancora meno prenderanno l’ordine e la forma che devono rivestire; bisogna insegnar loro a comporre”  O. Crèard

Col metodo globale, e quindi col metodo attivo che può considerarsi il metodo globale proiettato in tutte le classi, si può parlare di espressione fin da quando il bambino traccia il suo primo geroglifico sotto l’illustrazione della scheda che gli è posta tra le mani.
I bambini hanno un ricchissimo e incantevole mondo interiore che è patrimonio anche di quelli che, all’apparenza, sembrano meno dotati. Compito dell’insegnante sarà quello di rimuovere gli ostacoli che si frappongono fra questo mondo interiore e la sua possibilità di espressione e di favorirne la manifestazione nella forma migliore.
Comporre, parola comunemente usata nelle nostre scuole, significa mettere insieme qualcosa; ma per mettere insieme qualcosa, ci vuole qualcosa da mettere insieme. L’insegnante dovrà aiutare il bambino nella ricerca di questo qualcosa e a metterlo insieme. Dovrà insegnargli a comporre.
Ma come? Con tutto lo sbandieramento della spontaneità, adesso parliamo di insegnare a comporre? Noi pretendiamo, nelle nostre scuole, di insegnare la storia, la geografia, l’aritmetica; ma, per quel che riguarda l’espressione, pretendiamo che il bambino, come dicono a Napoli, nasca imparato.
Si può insegnare a nuotare in due modi: o gettando l’inesperto nell’acqua e lasciarlo annaspare e magari bere un po’ finchè  non riuscirà a stare a galla, oppure insegnandogli quei movimenti regolari che faranno di lui un nuotatore di stile. Col primo modo difficilmente lo diverrà.
Per quel che riguarda il comporre, noi ci regoliamo come nel primo caso: lasciamo che il bambino trovi faticosamente da sè il suo modo di esprimersi e che si arrangi come può. Ora, questo non è giusto e nemmeno onesto, e il risultato, nella maggior parte dei casi, lo vediamo in quei bambini che, come si dice, non riescono a comporre. E quando questo diventa un giudizio, quando il bambino si sarà messo in testa, per colpa nostra, di non essere capace a comporre, ecco che fra il mondo interiore di quel bambino e la sua espressione si sarà formato un muro che, col passare del tempo, diverrà sempre più massiccio e insuperabile. Bisogna evitare che questo muro sorga, bisogna evitare che nel bambino si formi il complesso di non avere idee e di non saperle esprimere.
A tale scopo l’insegnante dovrà adoperarsi, in tutti i modi, per rimuovere non solo gli ostacoli che si frappongono fra il ricchissimo mondo interiore del bambino e la sua possibilità di espressione, ma anche per facilitargli il cammino che dovrà percorrere e infine per insegnargli l’uso di quei mezzi di cui la natura l’ha dotato.
Uno degli ostacoli che non soltanto non rimuoviamo, ma che nella maggior parte dei casi siamo stati proprio noi a creare, è la brutta copia. La brutta copia è un elemento negativo che deve essere rimosso. Parleremo poi degli elementi positivi, tra i quali annoveriamo:
1. l’arricchimento del linguaggio
2. l’uso consapevole dei sensi
3. l’espressione del mondo interiore
4. la tecnica di questa espressione
5. la forma dell’espressione.

Consigli per favorire la composizione scritta in quarta classe – La brutta copia

Il bambino, nel quale noi avremo cura di non creare inibizioni di sorta, deve sapersi esprimere con naturalezza, sia a voce sia per iscritto e, come non usa la brutta copia quando parla, così non la dovrà usare quando scrive. Ma, ci si dirà, in questo caso i suoi elaborati si presenteranno pieni di cancellature, di ripensamenti, e che cosa si mostrerà al dirigente scolastico, abituato a quei bei quaderni dove sono stati ricopiati i componimenti precedentemente revisionati dall’insegnante?
Il fatto è che noi non li vogliamo questi famosi quaderni di bella copia, perchè non pretendiamo di dare a bere che il bambino “nasca imparato”. Vogliamo, invece, che  egli sia sincero in tutte le sue manifestazioni e quindi, anche nei suoi errori, nelle sue incertezze, nei suoi ripensamenti.
I nostri alunni imparano fin dalla prima classe a fare a meno del quaderno di bella copia. Intanto, l’uso delle schede esclude a priori la bella copia. Anche la scheda di classe, che pure è il risultato di una rielaborazione, non avrà il carattere di una bella copia, anche se bella e anche se copia.
I bambini, compilando le schede, dovranno per forza abituarsi all’ordine, alla concisione, all’esattezza e scriveranno soltanto dopo aver pensato ed elaborato l’espressione giusta. Non ci sarà bella copia in quanto non ci sarà brutta copia. Non dovrà esistere nulla di sciatto, niente di disordinato, niente di improvvisato nel lavoro dei  nostri bambini.
Le cancellature, gli errori, i ripensamenti, anche se vi saranno, e saranno sempre in numero molto limitato, son anch’essi l’espressione di un fatto interiore, sono la dimostrazione sincera degli sforzi, dei tentativi, delle esperienze dei bambini.
Abolendo la brutta copia si potrà ottenere, fin dalla prima classe, che i bambini scrivano frasi sia pur previ, ma corrette, senza cancellature, senza periodi da rifare e questi bambini, nelle classi superiori, arriveranno a scrivere pagine e pagine senza nulla di sciatto nè di disordinato. Provare non costa nulla, anche se bisognerebbe aver cominciato dalla prima classe, anzi, fin dal primo giorno di scuola. Ma anche nelle classi successive, qualora l’insegnante non l’abbia ancora fatto, si potrà ottenere che i bambini, sapendo che la brutta copia non ci sarà, cerchino di scrivere meglio, di pensare prima di scrivere, di non fare errori, di non buttare giù frasi disordinate che dopo sarà difficile correggere, di elaborare la frase prima di scriverla.
Infatti sarà più facile al bambino evitare un errore piuttosto che correggerlo; gli sarà più facile usare l’espressione giusta piuttosto che modificare quella sbagliata; più facile scrivere addirittura in bella scrittura piuttosto che farlo dopo essersi abituato a una scrittura sciatta, appannaggio della cosiddetta brutta copia.

Consigli per favorire la composizione scritta in quarta classe – Arricchimento del linguaggio

Per lavorare bene, occorrono strumenti adatti: per esprimersi bene occorre padronanza di una lingua ricca.
Questo è lo scopo delle numerosissime esercitazioni di arricchimento del linguaggio che sempre suggeriamo. Se il bambino ha un linguaggio povero, si esprimerà poveramente. Bisogna fargli conquistare un linguaggio ricco, variato, che sarà uno strumento efficace ed efficiente per l’espressione del suo pensiero. Ogni parola nuova è suscitatrice di un pensiero nuovo.
Un esempio: prediamo la parola “foglia”. Se, invece che foglia, diciamo “fogliolina”, l’idea che questa seconda parola richiama è diversa da quella di “foglia”. Facciamo una prova. A un bambino facciamo scrivere una frase con la parola “foglia”, a un altro con la parola “fogliolina”. La frase del secondo bambino sarà più particolare, mentre quella del primo, sarà ovvia e banale. Il primo potrà scrivere “La foglia è verde”, oppure “Gli alberi hanno le foglie”. Ma il secondo dovrà considerare il significato di “fogliolina” ed allora potrà scrivere “A primavera gli alberi mettono le foglioline”, oppure “Dalla gemma è spuntata la fogliolina”. C’è differenza. E se diciamo “fogliaccia”, ecco che questa parola susciterà il concetto di una foglia grande, spiegazzata, inutile, ingombrante. E la frase scritta rifletterà questo concetto.
Diciamo per esempio “fogliame”. Alla mente si presenterà l’immagine di una chioma fronzuta e fitta, di un pergolato coperto di verde. Perciò suggeriamo, parlando della compilazione delle schede, di non trascurare questa importantissima parte fatta di nomenclatura, di espressioni, di modi di dire, di famiglie di parole, di alterati, di derivati, di azioni e cose che possano riferirsi all’argomento trattato.
La ricchezza del linguaggio contribuisce notevolmente alla ricchezza delle idee.
Ipotizziamo che l’argomento da trattare sia l’albero. Nella scuola tradizionale l’insegnante seduto alla sua cattedra fa la sua bella lezione sull’albero, mostra magari alcune illustrazioni, nomina le varie parti, le varie caratteristiche, i vari tipi di alberi e gli alunni, buoni buoni ad ascoltare e l’insegnate giù a rovesciare sulle loro teste tutto lo scibile di cui è venuto in possesso. E poi il dettatino, il componimentino… dopo di che l’argomento è esaurito: l’albero è dimenticato e quando il bambino ne potrà osservare uno, non si ricorderà nemmeno che a scuola ci ha passato intorno magari due mattinate.
Nella scuola attiva la cosa è ben diversa.  Consideriamo qui che, al fine del comporre, le esercitazioni che i bambini faranno sull’argomento albero saranno molteplici. Esempi:

Albero: alberino, alberuccio, alberello, alberaccio, alberone. Alberata, albereto, alberare, inalberare.

L’albero è (può essere): grande, alto, fronzuto, chiomato, spoglio, fiorito, stento, robusto, stecchito, carico (di foglie, di fiori, di frutti), frondoso, ombroso, ramificato, abbattuto, stroncato, scortecciato,…

L’albero: stormisce, svetta, fruscia, germoglia, fiorisce, fruttifica, si riveste, si spoglia, tende le nude braccia al cielo, protegge i nidi, …

Azioni e cose relative ad un albero: chioma, tronco, rami, foglie, fronde, fiori, frutti, radici, ceppo, ceppaia, gemma, ciocca, corteccia, scorza.
Scortecciare, stroncare, troncare, svellere, spiantare, diradare, abbattere, ramificare, fruttificare, sradicare, estirpare…
Bosco, boscaglia, boscoso, boschivo, boschereccio, bosco ceduo, imboschire, imboscare, rimboschire, diboscare, guardaboschi, boscaiolo,…
Foresta, forestale, selva, selvatico, selvoso, inselvarsi, inselvatichirsi, macchia, scoperto, radura, …

Modi di dire: dal frutto di conosce l’albero; uccel di bosco; …

Come possono i bambini sapere tutte queste parole e tutte queste espressioni? Molte potranno essere trovate o nel linguaggio già noto, oppure in appositi brani che l’insegnante potrà avere scelto e predisposto. Inoltre, i bambini imparano presto l’uso del vocabolario. In alcuni vocabolari ci sono delle tavole di nomenclatura su un argomento specifico. I bambini potranno consultarle efficacemente e facilmente. In caso contrario, l’insegnante potrà dettare parole ed espressioni e invitare i bambini a ricercarne il significato sul vocabolario. Per ribadire i concetti, e come esercitazione linguistica, i bambini potranno costruire delle frasi sulle parole e sulle espressioni date.
Ma ecco un ulteriore gruppo di esercitazioni, sempre sull’argomento albero, che saranno anche oggetto e frutto di ricerche:

Completa il seguente brano con i seguenti verbi opportunamente coniugati: abbattere, schiantare, sradicare, frusciare, germogliare, maturare.
I buoni giganti della foresta hanno__________. Si sono coperti di una verde chioma fronzuta ed ora __________ i loro frutti. Il vento leggero li fa __________ dolcemente, ma se il vento si farà violento, allora potrebbe _________ e _______________. Non è raro vedere, dopo l’uragano, qualche bell’albero _________ dal vento, giacere a terra, senza più vita.

Aggiungere gli aggettivi appropriati per completare le seguenti frasi:
Il __________ alberello è sostenuto da un palo che gli impedirà di crescere storto. Il ______ albero della foresta non ha più bisogno di sostegno. Il suo ________ tronco resiste alla tempesta, la sua chioma ____________ è un valido ostacolo alla furia del vento.

Fin qui gli esercizi relativi all’arricchimento del linguaggio, passeremo poi alle ricerche ed ai compiti di osservazione.

Consigli per favorire la composizione scritta in quarta classe – L’uso consapevole dei sensi

I sensi mettono l’essere animato in contatto col mondo esterno. Quelli dell’uomo non sono limitati ai cinque che tutti i ragazzi hanno imparato. Tuttavia, limitandoci ed essi, proviamo a chiederci se sappiamo farne uso nella piena consapevolezza delle umane possibilità.
Ci rendiamo conto di vedere, sentire, odorare, gustare, toccare? Non ce ne rendiamo conto più di quanto non avvenga di quel tesoro della nostra salute fisica, finchè non l’abbiamo perduta, o della funzione di un organo interno, finchè questo non si ammala.
Naturalmente non è così per tutti: poeti, scrittori, pittori, musicisti sono dotati di una forte sensibilità che permette loro di trasfigurare la realtà che percepiscono per mezzo dei sensi, in bellissime immagini,  meravigliosi concetti, stupende architetture musicali.
Ma senza pretendere nei nostri ragazzi  le eccezionali facoltà che possiedono pochi esseri privilegiati, cerchiamo di utilizzare ai fini dell’insegnamento questi sensi dei quali non sappiamo perfettamente servirci e ce ne serviamo male.
Se non esistesse diversità di attitudine nell’uso dei sensi non sapremmo spiegarci perchè taluni vedono nel cielo uno spettacolo vario e suggestivo, mentre altri vedono solo la pioggia o il sereno; perchè questi godono della bellezza di un albero carico di frutti, quelli vedono soltanto se i frutti sono maturi e buoni da mangiare.
E’ necessario che i ragazzi imparino a guardare, udire, toccare, gustare, odorare; è necessario che imparino a rendersi conto della funzione di questi sensi perchè, per mezzo di essi, possano sentire, comprendere, descrivere gli esseri che li circondano. E ciò che impareranno a sentire avrà dentro di loro una rispondenza che non li farà essere sordi e ciechi al meraviglioso spettacolo della natura.
In quarta classe, come nelle classi precedenti, si sforzeremo perchè i bambini si rendano conto dei meravigliosi mezzi si cui sono dotati.
Facciamo un esempio. Mettiamo in mano a un bambino una rosa e diciamo: “Chiudi gli occhi e toccala. Poi dirai che cosa sentono le tue dita”. Egli eseguirà e potrà dire che la rosa ha petali vellutati, morbidi, serici, …; che il gambo è spinoso, le foglie sono dentellate, lisce, fresche… Ha esercitato il senso del tatto, isolandolo dagli altri, facendo convergere in esso tutta la sua attenzione e ottenendo una più completa percezione.
Ora facciamo la stessa cosa con l’odorato. Il ragazzo sentirà il profumo della rosa, e questo profumo sarà soave, o acuto, o forte, o delicato…
Quando proveremo ad esercitare il tal modo la vista,  potrà descriverci l’aspetto della rosa, il colore, la forma, il numero dei petali, ecc… E se ne compiacerà, indugiando nella descrizione come non avrebbe fatto se avesse dovuto parlare della rosa, usando contemporaneamente tutte le facoltà sensoriali.
Sullo stesso oggetto non potremo esercitare il senso del gusto e dell’udito.
Ci varremo, per questo, di un frutto che, all’esame del senso gustativo, sarà saporito, succoso, agro, acerbo, ecc…; di un oggetto di metallo che, percosso, darà un suono squillante, argentino, sordo, sonoro, ecc…
Non limiteremo l’esperienza a un singolo oggetto. Quando i ragazzi si saranno familiarizzati all’esercizio dei loro sensi, proporremo una scena da esaminare analiticamente, con l’aiuto dei cinque sensi, usati uno per volta.
Supponiamo che il tema sia “La strada”. Che cosa potrà distinguere l’alunno nei rumori della strada, quando avrà imparato a isolare l’udito dagli altri sensi e a isolare l’una dall’altra le stesse percezioni uditive? Stridio di tram sulle rotaie, rotolare di carri, squillo di clacson, voci di venditori ambulanti, grida di ragazzi… L’odorato stesso percepirà  l’odore di benzina degli automezzi, o l’odore d’erba e di fieno di una strada di campagna, della polvere di una vecchia strada non asfaltata.
Diamo qui alcuni spunti di esercitazioni  riservandoci di riprendere ed approfondire l’esperienza in quinta classe:

Esercizi per l’uso consapevole della vista

– In questo prato (servirsi di un’illustrazione o meglio della realtà) vedo…( l’erba verde, i fiori sbocciati, una casetta col tetto rosso, un albero frondoso, un uccellino che vola, ecc…)

– Ho osservato un albero e ho visto…. (il tronco ruvido, i rami pieni di foglie, la chioma frondosa,  le radici poderose, un nido nell’incavo di due rami, ecc…)

_ Altri soggetti: il muro, il cielo, la siepe, una casa, la strada, una zolla di terra, un fiore, un insetto, una farfalla, un bruco, ecc…

– I colori. Trovare tutto ciò che è di un bel rosso acceso, ciò che è candido, che è azzurro intenso, nero, giallo, verde. (Un colore per volta)

– Aggiungere, ad ogni colore, l’aggettivo o gli aggettivi che a esso si possono riferire: rosso acceso, verde tenero, bianco immacolato, nero cupo, ecc…

– Trovare ciò che è candido, bianco, biancastro… Nero, nerissimo, cupo…  Giallo, giallino, giallastro, gialliccio… Turchino, turchiniccio, celeste, celestino, azzurro, azzurrino, azzurrognolo, azzurro intenso… Grigio, grigiastro, bigio, grigiognolo… Verde, verdino, verdastro, verdone, verdolino…

– Trovare che cosa è argenteo, dorato, purpureo, vermiglio, incolore, trasparente, variopinto, iridescente, opaco, smagliante, cangiante, iridato.

– Trovare ciò che biancheggia, rosseggia, verdeggia, nereggia.

– Ricopiare le seguenti espressioni in due colonne, una per quello che è chiaro, una per quello che è scuro: il fondo del pozzo, il muro soleggiato, la sabbia ardente, l’entrata della grotta, la foresta, l’ombra dell’albero, la strada non asfaltata, il cielo di primavera, il vetro pulito.

Dire cos’è che risplende, che abbarbaglia, che acceca, che scintilla. Dire che cos’è che rischiara, che illumina, che fa brillare. (Scrivere una frase per ciascuna espressione).

– Trovare che cos’è che produce un’ombra fitta, il buio, un’ombra leggera. Che cos’è che si vede brillare alla luce del sole, al lume di luna, al lume di una lampada.

Con gli occhi vedo queste cose belle… Queste cose brutte…

– Fare due colonnine con le seguenti espressioni, una per le cose piacevoli a vedersi, una per le cose spiacevoli: il cielo sereno, un vestito sudicio, un viso roseo, un viso giallognolo, un viso corrucciato, un viso ridente, una farfalla, un rospo, un fiore sbocciato, un fiore appassito, un colore brillante, un serpente, un colore smorto, un gioiello, un cielo grigio.

Completare: Io vedo il _____________ di una lampada. Il vedo il _____________  di un lampo. Io vedo _____________ dell’alba. Io vedo _____________  del tramonto. Io vedo _____________ del fuoco. Io vedo _____________ del sole. Io vedo _____________ del gioiello.

– Comporre delle frasi usando le seguenti espressioni: aguzzare lo sguardo, fare l’occhiolino, strizzare l’occhio, puntare gli occhi, perdere la vista, riacquistare la vista, schiarire la vista, leggere negli occhi, a colpo d’occhio, un colpo d’occhio, dar la polvere negli occhi, crescere a vista d’occhio, sognare a occhi aperti, andare a occhi chiusi, parlarsi a quattr’occhi.

Esercizi per l’uso consapevole dell’udito

– Dalla strada si levano questi rumori… Dal prato… Dalla casa… Dal bosco… Dall’officina… Da una scuola… Dalle vicinanze di un corso d’acqua… Dalla riva del mare… Dalla piazza del mercato…

– Completare: io sento __________ delle ruote del tram. __________delle ruote dell’automobile. __________del passaggio del treno. __________ della tromba. __________ del tuono. __________ del campanello. __________ delle campane. __________ del pulcino. __________ del bue. __________ del gatto. __________ del fulmine. __________ delle mani. __________ delle labbra. __________ dei passi.

– Che cos’è che sferraglia? Che squilla? Che rimbomba? Che schiocca? Che risuona? Che rintrona? Che esplode? Che scoppia? che brontola? Che fruscia? Che cigola? Che geme? Che urla? Che stride? Che rulla? Che suona?

– Qual è l’animale che gorgheggia? Miagola? Cinguetta? Raglia? Pispiglia? Pigola? Geme? Gracchia? Ulula? Stride? Canta? Gracida? Frinisce? Parla?  Mugola? Guaisce? Grugnisce? Ringhia? Sibila? Squittisce? Ronza?

– Chi è che ha una vocina, una vociona, una viciaccia, una vocetta. 

– Scrivi una frase per ognuna di queste espressioni: voce aspra, chioccia, roca, argentina, metallica, armoniosa, sgarbata, dolce, debole, forte, acuta, stizzosa, sdegnosa, alterata, fiacca, profonda, sommessa, pietosa, lamentosa, sonora, ferma, femminile, maschia, sottile, cavernosa, accorata.

– Questi sono rumori piacevoli.

– Questi sono rumori spiacevoli.

– Copia le seguenti parole in due colonnine, una per i rumori (o suoni) deboli, una per i rumori (o suoni) forti: ronzio, scoppio, rimbombo, cigolio, stridio, sferragliamento, scampanellio, brontolio, mormorio, fruscio, esplosione, chiacchiericcio, pigolio, ululato. Poi componi per ognuna di queste parole una frase appropriata.

– Completa con un verbo che si riferisca al senso dell’udito: la ruota della carrucola __________. Il campanello della porta__________. La campana della chiesa__________. La porta che non è unta__________. I freni dell’autocarro__________. I denti della sega__________. I tasti del pianoforte__________. Le corde della chitarra__________. Il cane che si è fatto male__________. La cicala in agosto__________. La rana nel fossato__________. Il pianoforte scordato__________.

Per l’uso consapevole dell’odorato

– Compilare delle frasi includendovi le seguenti parole: naso, nasuccio, nasone, nasino, annusare, nasale, nasata.

– Queste sono cose che hanno un buon odore. Queste sono cose che hanno un cattivo odore. Queste sono cose che hanno un odore acuto. Queste sono cose che hanno un odore soave. Queste sono cose che hanno un odore  leggero. Queste sono cose che hanno un odore gradevole. Queste sono cose che hanno un odore sgradevole. Queste sono cose che hanno un odore nauseante. Queste sono cose che hanno un odore piccante. Queste sono cose che hanno un odore aromatico.

– Nel prato possiamo sentire questi odori. In cucina possiamo sentire questi odori. Per la strada possiamo sentire questi odori. Al mercato possiamo sentire questi odori. 

– Completare: l’odore acuto del ______________. L’odore soave del ______________. L’odore leggero del ______________.  L’odore amarognolo del ______________.  L’odore cattivo del ______________. L’odore appetitoso del ______________. L’odore nauseante del ______________. 

– Completa le seguenti frasi con le parole: nauseante, appetitoso, acuto, dolce, piccante, soave. L’odore della rosa è ______________.  L’odore del pepe è ______________.  L’odore del garofano è ______________.  L’odore della violetta è ______________.  L’odore dell’uovo guasto è ______________.  L’odore della carne arrosto è ______________. 

Per l’uso consapevole del gusto

– Compilare delle frasi con le seguenti parole: lingua, linguina, linguona, linguaccia, linguetta.  Linguacciuto, linguaggio, linguata, scilinguagnolo.

– Chi è che ha la lingua lunga? Corta? Bifida? Puntuta? Morbida? Rasposa? Sudicia? Patinosa?

– Che cos’è che ha un sapore buono? Cattivo? Amaro? Dolce? Salato? Agro? Acido? Gustoso? Disgustoso? Piccante? Aromatico? Dolciastro? Amarognolo? Salmastro? Rancido? Insipido?

Per l’uso consapevole del tatto

– Con le dita posso sentire la __________ del velluto; __________ del metallo; __________  del marmo; __________ del ghiaccio__________ ; __________ della palla ; __________ della corteccia dell’albero.

– Trovare il nome di alcune cose che hanno una superficie liscia; ruvida; morbida; fredda; calda; levigata; rotonda; piana; soffice; tiepida; rugosa;

– Scegliere fra le seguenti parole: caldo, umido, soffice, morbido, freddo, scabroso, liscio, ruvido, spinoso, rugoso, la risposta alle seguenti domande: com’è il velluto? Il tronco dell’albero? La pelle dei vecchi? Il vetro? La mano dell’operaio? Lo stelo della rosa? Il petalo del fiore? Il bucato messo ad asciugare? Il ghiaccio? La sabbia sotto il sole?

– Delle seguenti parole fare due colonnine, una per quelle che esprimono una cosa piacevole a toccarsi, l’altra per le cose spiacevoli: grinzoso, liscio, levigato, scabroso, bruciante, gelato, soffice, cedevole, morbido, duro, spinoso, vellutato, fresco.

– Completare le seguenti frasi scegliendo fra le parole: tocca, stringe, preme, accarezza, sfiora, tasta. La mano __________ un’altra mano. __________ la guancia. __________ il campanello. __________  una stoffa. __________  la tastiera. __________ i capelli.

– per quel che si riferisce al tatto, un fiore può essere __________ . La neve __________. La pietra__________ . La sabbia__________ . La pelle__________ . La stoffa__________ . La pelliccia__________ . Una superficie__________ .

Consigli per favorire la composizione scritta in quarta classe – Il giornale di classe e il giornale murale

In quarta può accadere che alcuni ragazzi, anche se abituati fin dalle prime classi ad esprimersi a voce e per iscritto in assoluta libertà, o per pigrizia o perchè presi da altri interessi, sentano meno il bisogno di raccontare per iscritto le loro esperienze individuali, spontaneamente e frequentemente, come avveniva quando erano più piccoli.
Occorre perciò offrir loro delle motivazioni nuove e valide allo scrivere. Lo svolgimento del “tema” attraverso la ricerca e l’organizzazione delle notizie o l’esplorazione di un determinato ambiente può accrescere l’interesse per la composizione. Un altro mezzo di grande efficacia è la realizzazione di un giornalino stampato o manoscritto (o di un giornale parlato, o di un giornale murale). Un giornalino permette di ricondurre il linguaggio alla sua funzione naturale ed essenziale che è quella di comunicare agli altri; esso è in stretto rapporto di continuità con il testo libero e offre ai ragazzi una validissima motivazione: si scrive non più solo perchè il maestro legga e per ricevere un buon o cattivo voto, ma si scrive per il giornale; lo scritto di ognuno potrà essere letto da tutti i compagni della classe, dagli amici delle classi vicine, dalle famiglie; il pensiero e l’esperienza individuale quindi acquisteranno significato proprio per il fatto di divenire sociali.
Il giornale murale è un giornale rudimentale la cui realizzazione può essere molto semplice e rapida: un grande foglio di carta da pacchi farà da sfondo ai vari pezzi che potranno essere testi liberi, composizioni, cronache, relazioni di contenuto vario; o potranno gravitare tutti intorno a un unico centro di interesse, ad un argomento di studio e di ricerca.
Si potranno stabilire rubriche fisse; la pagina sportiva, la pagina degli esperimenti scientifici, l’angolo della biblioteca, il cantuccio degli indovinelli, ecc…
Il giornale sarà abbellito e completato da disegni, fotografie, grafici, decorazioni varie. Cerchiamo di far collaborare tutti gli alunni alla stesura periodica del giornale, suddividendo e alternando i compiti secondo le preferenze e le capacità di ciascun bambino; soprattutto cerchiamo di evitare che il nostro giornale sia costruito solo di temi belli accuratamente scelti, corretti e ricuciti da noi per l’applauso di genitori e colleghi; esso dovrebbe essere al contrario lo specchio delle capacità vere dei ragazzi, del loro lavoro, del loro sforzo comune.

La redazione del giornalino di classe implica un insieme di attività che sono per i bambini causa ed effetto della maturazione: esige la capacità di assumere iniziative personali, di sottostare ad un giudizio; di impostare un lavoro in collaborazione e di suddividerlo in parti senza operare ingiuste esclusioni; di assumersi la responsabilità di scegliere e di migliorare le capacità di scelta; di valutare con serenità e con intelligenza, di migliorare il proprio gusto; di saper correggere ed autocorreggersi; di prevedere modi e tempi di esecuzione, di risolvere problemi pratici di procedimento.

Come si compone il giornale di classe stampato o murale
– comitato di redazione: un gruppo di bambini che ha l’incarico di scegliere le composizioni (prose e poesie), le relazioni, le cronache, i disegni;
– gli illustratori: provvederanno ai disegni
– gli impaginatori: dovranno stabilire l’impaginazione del materiale, disponendolo in modo logico secondo le rubriche preventivate, e in modo armonico distribuendo con equilibrio e senso delle proporzioni i testi scritti e le illustrazioni;
– il materiale: composizioni, relazioni, cronache, resoconti sulla vita della scuola, della famiglia, della città, sugli avvenimenti di attualità che hanno destato interesse, sui problemi della piccola comunità. Anche la corrispondenza scolastica può fornire materiale interessante

Scrivere per il giornale non è un esercizio meramente scolastico. La classe cessa di essere un ambiente artificiale e diviene una comunità nella quale tutti collaborano con gioia per lo stesso scopo, attuando così il primo tirocinio concreto della libertà. Bisogna però guardarsi dal trasformare il giornale in una vetrina nella quale fanno bella mostra di sè soltanto i primi della classe.

Acquarello steineriano LE ZUCCHE

Acquarello steineriano LE ZUCCHE tutorial per realizzare coi bambini della scuola d’infanzia e primaria due versioni diverse di zucca, tipico frutto autunnale, e simbolo della festa di Halloween. Una terza versione, adatta anche ai bambini più piccoli, qui 

Se sei alle prime esperienze con questa tecnica di pittura, qui puoi trovare tutte le indicazioni di base:

Acquarello steineriano LE ZUCCHE
Prima versione

Acquarello steineriano LE ZUCCHE – Materiale occorrente
– una bacinella d’acqua e una spugna per stendere il foglio bagnato sul tavolo
– pennello
– un vaso d’acqua e uno straccetto (o una spugna)
– colori ad acquarello: giallo oro, blu oltremare, rosso vermiglio.

Acquarello steineriano LE ZUCCHE – Presentazione

Dopo aver immerso il foglio nell’acqua, stendetelo sul tavolo, evitando bolle e ondulazioni:

Iniziate dipingendo un punto giallo limone al centro del foglio:

ingrandite il punto finchè riesce a stare comodo sul foglio, non  troppo schiacciato dai bordi inferiore e superiore:

Quando il punto non può più crescere mantenendo la sua forma circolare, iniziamo ad espanderlo a destra:

e a sinistra, sempre lasciandogli un margine interno per non essere schiacciato:

Riempiamo ora la cornice attorno al giallo col blu oltremare, seguendo la forma del punto giallo e stando molto attenti a che i due colori non si tocchino tra loro:

 Con gesti morbidi, dal basso verso l’altro e rispettando il gesto del giallo, trasformiamolo in arancione utilizzando il rosso vermiglio, stando attenti a lasciare in altro una zona gialla:

Col blu oltremare trasformiamo la zona gialla in alto in verde:

e facciamo crescere verso il picciolo della zucca:

riprendiamo poco giallo limone per illuminare il blu oltremare della cornice, trasformandolo in un verde leggero leggero:

Questa è la pittura asciutta:

Acquarello steineriano LE ZUCCHE
Seconda versione

Acquarello steineriano LE ZUCCHE – Materiale occorrente
– una bacinella d’acqua e una spugna per stendere il foglio bagnato sul tavolo
– pennello
– un vaso d’acqua e uno straccetto (o una spugna)
– colori ad acquarello: giallo limone, giallo oro, blu oltremare, rosso vermiglio.

Acquarello steineriano LE ZUCCHE – Presentazione

Dopo aver preparato il foglio bagnato come spiegato sopra, riempiamolo di giallo limone, seguendo il gesto di luce che più ci piace:

Col blu oltremare creiamo in basso una base ondulata verde, adatta a sostenere qualcosa di grande e tondo:

col giallo oro facciamo un punto circa al centro del foglio:

e facciamolo crescere:

Quando il punto comincia ad avere poco spazio sopra e sotto, continuiamo a farlo crescere ancora un po’ a destra e a sinistra:

Col rosso vermiglio trasformiamo il giallo oro in arancione, lasciando uno spazio giallo in alto, che trasformeremo in verde col blu oltremare:

dipingendo anche il picciolo della  zucca:

Questa è la pittura asciutta:

Acquarello steineriano LE ZUCCHE

MISURE DI SUPERFICIE esercizi per la classe quarta

MISURE DI SUPERFICIE esercizi per la classe quarta – composizioni e scomposizioni, esercizi vari e problemi per la classe quarta della scuola primaria scaricabili e stampabili in formato pdf.

Le misure di superficie

E’ in vendita un terreno. Occorre sapere quanta superficie di terra è contenuta nel suo perimetro. Il terreno deve essere misurato; si deve conoscere la misura della sua superficie: l’area del terreno.
L’area di un poligono non può essere misurata con il metro. Infatti, per calcolare l’area, si deve misurare l’estensione della superficie contenuta nel perimetro. Tale superficie non è estesa soltanto in lunghezza, ma ha due dimensioni: la lunghezza e la larghezza.
Per calcolare l’area di un poligono occorre una misura che sia appunto estesa in lunghezza e in larghezza.
La misura adatta alle superfici è un quadrato che ha il lato lungo un metro: il metro quadrato. Si è scelta la figura del quadrato, perché esso è un poligono regolare di facile misurazione. Il lato di questo quadrato è lungo un metro, perché il metro è misura conosciuta e di facile uso.
Il metro quadrato è l’unità principale delle misure di superficie e si scrive m².

Per misurare le superfici più piccole del metro quadrato si usano i sottomultipli del m². Invece per misurare le superfici del m² si usano i multipli del m².

I multipli del m² sono:
decametro quadrato, che di scrive dam² e vale 100 m²
ettometro quadrato, che si scrive hm² e vale 10.000 m²
chilometro quadrato, che si scrive km² e vale 1.000.000 m²

I sottomultipli del m² sono:
decimetro quadrato, che si scrive dm² e vale 0,01 m²
centimetro quadrato, che si scrive cm² e vale 0,0001 m²
millimetro quadrato, che si scrive mm² e vale 0,000001 m².

Ogni unità di misura di superficie vale 100 volte quella immediatamente più piccola; perciò si ha:
m² 1 = dm² 100
m² 1 = cm² 10.000
m² 1 = mm² 1.000.000

dam² 1 = m² 100
hm² 1 = m² 10.000
km² 1 = m² 1.000.000

Il decimetro quadrato dm²: il metro quadrato è formato da 100 quadratini, ciascuno dei quali ha il lato di un decimetro.
m² 1 = dm² 100
dm² 1 = m² 0,01

Il centimetro quadrato cm²: il decimetro quadrato può essere a sua volta suddiviso in 100 quadratini, ciascuno dei quali ha il lato di un centimetro.
dm² 1 = cm² 100
cm² 1 = dm² 0,01

Il millimetro quadrato mm²: il centimetro quadrato è formato da 100 quadratini, ciascuno dei quali ha il lato di un millimetro.
cm² 1 = mm² 100
mm² 1 = cm² 0,01

Il dm², il cm² e il mm² si usano per misurare piccole superfici, come quella di un francobollo, di un foglio di quaderno, di una cartolina, ecc…

Dal m² al mm²
Qual è la principale unità di misura delle superfici?
Prendi un foglio di carta da imballaggio, ritaglia un quadrato con il lato lungo un metro: avrai così il metro quadrato. Col metro quadrato da te costruito, puoi misurare alcune superfici: quelle di un corridoio, della tua stanza, della tua aula; potrai dire: “Questo corridoio ha la superficie di m²____; la mia stanza ha la superficie di ²_____; la superficie della mia aula è di m²______”

Da una pagina di quaderno ritaglia un quadrato con il lato lungo un decimetro: avrai così il decimetro quadrato. Col decimetro quadrato da te costruito, puoi misurare alcune superfici minori: quella di un quadro, di una sedia. Potrai dire: “Questo misura dm²______; quest’altro dm²_______; ecc…”

Ripeti la stessa costruzione e le stesse misurazioni per il centimetro quadrato. L’idea del millimetro quadrato te la può dare la capocchia di uno spillo.

MISURE DI SUPERFICIE

ESERCIZI COI NUMERI ROMANI per la quarta classe

ESERCIZI COI NUMERI ROMANI per la quarta classe della scuola primaria, stampabili e scaricabili gratuitamente in formato pdf.

I Romani, per scrivere i numeri, usavano segni diversi dalle cifre arabe. Questi segni erano lettere dell’alfabeto:

I = 1
V = 5
X = 10
L = 50
C = 100
D = 500
M = 1000

Per scrivere i numeri, i Romani osservavano tre regole fisse:

1. Non scrivevano più di tre volte lo stesso segno. Ad esempio:
3 = III;
30 = XXX;
300 = CCC.

2. Quando una cifra di valore minore era scritta alla sinistra di una cifra di valore maggiore, doveva essere sottratta da questa. Ad esempio:
IV = (V – I) = (5 – 1) = 4
IX = (X – I) = (10 – 1) = 9
XL = (L – X) = (50 – 10) = 40
CD = (D – C) = (500 – 100) = 400

3. Quando una cifra di valore minore era scritta alla destra di una cifra di valore maggiore, doveva essere aggiunta a questa. Ad esempio:
VI = (V + I) = (5 + 1) = 6
LX = (L + X) = (50 + 10) = 60
DC = (D + C) = (500 + 100) = 600
MD = (M + D) = (1000 + 500) = 1500

Il sistema metrico decimale secondo il metodo Montessori

Il sistema metrico decimale secondo il metodo Montessori

– il sistema metrico decimale come disciplina pratica
– cenni storici
– le grandezze e la loro misura: misura delle lunghezze e delle superfici; misura dei volumi; misura delle capacità; misura di peso e peso specifico (relazione tra volume, capacità e peso; calcolo del peso specifico).

Quando si affronta un argomento pratico, cioè un tema che ha attinenza alla realtà, occorre far convergere in esso diverse discipline . Il considerare separatamente le discipline come, per esempio, l’aritmetica, la geometria, l’algebra è determinato dal fatto che esse vengono intese come discipline astratte. Tuttavia, un qualsiasi oggetto reale risulta tale in quanto composto, o meglio qualificato, da molti attributi come il colore, il peso, la forma, ecc… che in esso tutti convergono e che possono venir studiati separatamente e in forma astratta come colore, peso, forma, ecc…

Allo stesso modo, in una disciplina attinente alla realtà, devono convergere varie discipline astratte o elementi da esse derivati.

Se sono necessari elementi che appartengono ad altre discipline per la formazione di una scienza pratica, la sua possibilità di sviluppo è dipendente e tale sviluppo può aver luogo soltanto quando si siano approntati i necessari contributi collaterali.

Mentre nella disciplina astratta l’approfondimento dei dettagli porta chiarezza, in una disciplina pratica, la chiarezza è raggiunta dalla totale convergenza dei suoi elementi formativi.

Nello studio del sistema metrico decimale, ossia nello studio delle misure, occorre perciò utilizzare molti elementi propri dell’aritmetica, della geometria, della fisica e perfino di materie estranee all’argomento, come geografia e storia, dirigendole tutte verso applicazioni pratiche; su oggetti della realtà suscettibili di misurazione. Le misure oggetto di studio nel nostro sistema metrico non sono soltanto quelle che vengono applicate alle ricerche scientifiche, per determinare le qualità intrinseche della materia o alle dimensioni microscopiche, ma più spesso sono grossolane valutazioni quantitative di oggetti connessi con le necessità sociali della vita dell’uomo.

Il sistema metrico decimale, rispetto a tutti gli altri sistemi di misure, ha due vantaggi che gli danno una indiscutibile superiorità. Il primo è dato dal fatto di fondarsi su di un accordo internazionale di unificazione, che rende uniformi le valutazioni delle quantità e perciò facilita la conoscenza e gli accordi commerciali tra i paesi che l’adottano. L’altro vantaggio è quello di aver applicato ai calcoli di misure quantitative il sistema a base dieci.

Prima che il sistema metrico decimale fosse stabilito e accettato da molte nazioni, ogni popolo aveva la sua particolare maniera di misurare, ereditata dalla tradizione. Possiamo dire che ogni paese avesse, come una propria lingua, così anche la sua propria maniera di misurare: alcuni usavano come riferimento di misura la lunghezza del piede o del braccio o della mano con pollice e mignolo stesi (palmo); altri la lunghezza di una certa pertica, ecc…

Per giungere a un criterio uniforme e universale, si stabilì di basare le misure su di un dato naturale che fosse comune a tutti i paesi, e di fondarsi su di una misura che proprio allora il progresso delle scienze e della matematica rendeva possibile: quella del meridiano terrestre. Di comune accordo, si scelse il meridiano che, passando per Parigi, va dal polo all’equatore. A Parigi, il 20 marzo 1791, l’Assemblea Costituente invitava Luigi XVI ad accordarsi con Giorgio III d’Inghilterra per l’adozione di un sistema metrico universale, la cui unità fondamentale fosse qualche cosa di indipendente dall’uomo, che appartenesse alla Terra, che non si riferisse a una particolare nazione, uguale per tutti gli uomini e per tutti i tempi. Il progetto venne rimandato per le vicende politiche dovute alla Rivoluzione; nel 1798 gli scienziati Delambre e Méchain, ai quali era stato affidato l’incarico di misurare l’arco di meridiano (quello a 2°20′ di longitudine est) compreso fra Dunkerque (Francia) e Barcellona (Spagna) conclusero i loro studi, deducendo, dalla misura di quell’arco di meridiano, la lunghezza dell’intero meridiano terrestre. Lo scienziato italiano Borda costruì il metro-campione, e nel 1799, con gli scienziati Laplace, Monge e Lagrange ideò le altre unità di misura (per i pesi, le capacità, ecc…) coordinandole con il metro. Questa lunghezza che (quasi) con esattezza potè essere misurata soltanto quando civiltà e cultura erano ad un livello avanzato, fu poi divisa e suddivisa di dieci in dieci, secondo il sistema di numerazione a base decimale, fino a che si giunse ad ottenere una lunghezza facilmente maneggevole che venne chiamata metro. Così la parola originaria metro, che in greco significa misura, divenne il nome proprio di tale grandezza. Su questi calcoli si costruì un regolo di platino-iridio, ossia un oggetto di metallo prezioso e inalterabile che rappresenta la misura effettiva base del sistema metrico decimale. Si conserva in Francia, negli archivi di stato, nel Pavillon de Breteuil, presso il Bureau International des Poids et des Misures, a Sèvres, un sobborgo di Parigi. La quarta parte del meridiano terrestre misura dieci milioni di metri, e perciò l’intero meridiano raggiunge quaranta milioni di metri. Il metro equivale quindi al decimilionesimo della quarta parte del meridiano terrestre.

Nel sistema metrico decimale bisogna considerare due elementi: il primo è l’unità di misura che si deve determinare, in relazione a tutto quanto è suscettibile di misurazione. Possono essere misure di linee e o di lunghezze (linea), misure di piani o di  superficie (quadrato), e misure di solidi o di volume (cubo). Il secondo elemento consiste nel procedere a riunire le unità in gruppi, secondo il sistema di misurazione a base 10, al fine di eseguire il calcolo delle misure.

Premesso questo, nel nostro sistema metrico, ai diversi gruppi decimali si assegnano nomi speciali derivanti dalla lingua greca:
10 – deca
100 – etto
1000 – chilo
10.000 – miria

(l’elemento miria, che indicava il valore 10.000, e il corrispondente simbolo M sono stati aboliti e ora M indica Mega ed indica un valore di 1.000.000).

Così non si dirà cento metri, ma un ettometro; non mille metri, ma un chilometro. Allo stesso modo dei multipli, anche i sottomultipli decimali, ossia la decima, centesima, millesima parte dell’unità, hanno un loro nome, questa volta derivante dal latino.
Le varie denominazioni sono:
1/10 – 0,1 – deci
1/100 – 0,01 – centi
1/1000 – 0,001 – milli

Ugualmente non si dirà la decima parte di un metro, ma un decimetro; non la centesima o millesima parte del metro, ma un centimetro o un millimetro. Il modo più comune per rappresentare il metro coi suoi multipli e sottomultipli consiste nell’usare i simboli dei prefissi, ai quali si unisce quello dell’unità principale di misura delle lunghezze:
km – chilometro – 1.000
hm – ettometro – 100
dam – decametro – 10
m – metro – 1
dm – decimetro – 0,1
cm – centimetro – 0,01
mm – millimetro – 0,001

Se si tratta di misure di superficie o di solidi, le denominazioni non cambiano; soltanto si aggiungono le relative indicazioni, mediante le parole quadrato e cubo. Diremo quindi metro quadrato, metro cubo, ettometro quadrato, ettometro cubo, ecc… Le indicazioni simboliche portano il segno numerico usato per i quadrati e i cubi dei numeri, per esempio hm² m³.

Quando si tratta di misure di superficie la relazione  fra esse è di 100 in 100, mentre per le misure dei solidi le unità procedono di 1000 in 1000, come già vedemmo nel sistema decimale.

Misure delle superfici:
km² – 1.000.000 m² – (1000 x 1000)
hm² – 10.000 m² – (100 x 100)
dam² – 100 m² – (10 x 10)
m² – 1 m²
dm² – 0,01 m²
cm² – 0,0001 m²
mm² – 0,000001 m²

Misura dei volumi:
km³ – 1.000.000.000 m³ – (1000 x 1000)
hm³ – 1.000.000 m³ – (100 x 100)
dam³ – 1.000 m³ – (10 x 10)
m³ – 1 m³
dm³ – 0,001 m³
cm³ – 0,000001 m³
mm³ – 0,000000001 m³

Bisogna sempre tener presente tale ordine di successione dei valori per eseguire i calcoli o per effettuare la riduzione, cioè per passare da un’unità all’altra.

Dalle tabelle presentate risulta chiaro che i sottomultipli dell’unità principale di misura numericamente sono frazioni decimali. Sono anche espresse da uno zero indicante l’unità principale, seguito dalla virgola che ci mostra che scendiamo ad una parte più piccola dell’unità.

L’unità principale è una quantità realmente determinata e costituisce, perciò, il punto di partenza della valutazione. Essa può effettuarsi nei due sensi opposti, percorrendo i gradi precisi e rigorosamente ordinati del sistema decimale. Per questo, le unità che vanno verso la direzione della diminuzione sono realmente frazioni dell’unità principale, matematicamente considerate.

Non possiamo ottenere un più o un meno, se non riferendoci a una misura convenzionale, stabilita in relazione alle differenti possibilità di misurazione.

Il decimetro, tuttavia, è una lunghezza e non è veramente frazione di alcuna cosa. Il metro corrisponde a 10 decimetri e alla decima parte del decametro. Quindi il decametro corrisponde a 100 decimetri.

Invece il decimetro cubo è la millesima parte dell’unità principale di misura dei volumi, che è il metro cubo. Nelle misure dei pesi, d’altra parte, che hanno come unità principale di misura il centimetro cubo, il decimetro cubo è mille volte maggiore dell’unità principale.

Le misure sono correlazioni decimali crescenti e decrescenti rispetto all’unità prestabilita. Ciascuna misura rappresenta un particolare aspetto: è un’unità in se stessa che serve per misurare. Opera infatti misurazioni tanto il centigrammo del farmacista quanto l’ettogrammo del fruttivendolo; il rapporto di queste misure con l’unità principale è una convenzione necessaria per orientarci sull’ammasso della materia. Non si può quindi parlare di calcoli sulle frazioni. La stessa virgola, poi, è una convenzione che ci mette in relazione col sistema di numerazione a base decimale. Le riduzioni in frazioni ecc… indicano semplicemente che si prendono in considerazione, per necessità pratiche, misure di varia grandezza, adeguate cioè a ciò che si deve misurare.

Se talvolta risulta necessario rappresentarle mediante frazioni (decimali) è perchè ogni altra misura è orientata verso un centro, l’unità fondamentale di misura. Il calcolo tuttavia si esegue come se non ci fosse discontinuità.

Nei numeri 1.000.000 100.000 10.000 1.000 100 10 1, l’uno è l’unità matematica. Nelle misure, invece, c’è un orientamento verso il centro: 1.000 100 10 1 0,1 0,01 0,001 e l’1 è l’unità di misura.

Non bisogna perciò considerare la frazione decimale come una difficoltà di calcolo.

Se torniamo alle aste numeriche che nella Casa dei Bambini costituiscono il primo materiale per contare, nell’asta più lunga troviamo rappresentata la lunghezza di un metro (asta del 10), mentre nella più corta la lunghezza di un decimetro (asta dell’1). Quelle intermedie corrispondono rispettivamente alle lunghezze di 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9 decimetri:

Nel materiale che ci era servito per contare, l’asta più corta rappresentava l’unità numerica che si ripeteva, nella successione, una volta di più, raggruppando nelle aste successive quantità e numeri crescenti fino al 10. Qui, invece, si rappresentano unità di misura determinate.

L’unità principale di misura delle lunghezze, cioè l’unità di misura delle linee, è il metro, l’asta lunga: quella del 10. Il metro si moltiplica e si divide determinando altre unità di misura, che procedono di 10 in 10 dando luogo tanto ai multipli del metro quanto alle suddivisioni decimali o sottomultipli. Nel sistema di numerazione, l’unità potrebbe venir rappresentata da un oggetto qualsiasi; una perla, una bambola, ecc… ma alla fine è pur sempre il numero uno. Invece le unità principali di misura risultano rappresentate da oggetti, soprattutto di dimensioni prestabilite. Tali unità sono il centro dal quale si parte: da un lato verso i multipli e dall’altro verso i suoi sottomultipli.

1000 m – chilometro – km – 1000
100 m – ettometro – hm – 100
10 m – decametro – dam – 10
1 m – metro UNITA’ PRINCIPALE DI MISURA – 1
10a parte del metro – decimetro – dm – 1/10 – 0,1
100a parte del metro – centimetro – cm – 1/100 – 0,01
1000a parte del metro – millimetro – mm – 1/1000 – 0,001

Ognuna di queste misure vale 10 volte quella immediatamente inferiore. Per esempio:
1 km = 10 hm
1 hm = 10 dam
proprio come accade nelle gerarchie della serie naturale dei numeri.

Ridurre una misura superiore in una inferiore equivale a scrivere un numero seguito da zeri a seconda  del suo posto nella gerarchia decimale.

Riferendoci alle misure, invece di quattro chilometri si dirà quattromila metri; oppure invece di due metri si dirà duecento centimetri. Si potrebbero anche ridurre i chilometri in millimetri, sebbene questa pratica non avvenga di solito. In tal caso avremo 3 km = 3.000.000 mm. Praticamente, l’unità di misura delle lunghezze usata per le grandi distanze (per misurare, ad esempio, la lunghezza di una strada che congiunge le città, ecc…) è il chilometro. Se invece si tratta di misurare lunghezze o altezze poco rilevanti, come possono essere quelle che si riferiscono a una casa, a un appartamento, a un mobile o alla misurazione di tessuti, l’unità di misura è il metro. Per misurazioni piccole (come quelle per un disegno) si usa sempre il decimetro o il doppio decimetro, che porta le graduazioni indicanti centimetri e millimetri.

Generalmente, in pratica, le altre misure non si usano. Così, ad esempio, dovendo misurare la distanza fra due punti di una strada, se resta una frazione di chilometro essa si esprime in metri. Allora si dirà, ad esempio, dodici chilometri e settecento metri, invece di dodici chilometri e sette ettometri. Quando, al contrario, si usa il metro, le sue frazioni si indicano in centimetri e non in decimetri. Per esempio si dirà quattro metri e sessanta centimetri, e non quattro metri e sei decimetri.

Quando si tratta poi di misurare una lunghezza piccola, per cui è indispensabile utilizzare i millimetri, tutte le unità di misura si esprimono in millimetri. Così, per esempio, si dirà quarantasei millimetri e non quattro centimetri e sei millimetri.

C’è ancora la presenza del metro, poichè in pratica si usa nella misurazione delle superfici. Ciò che in una superficie si può realmente misurare sono i suoi lati: il contorno, i limiti fatti di linee che la comprendono. Per il loro studio, si può ricorrere alla geometria, all’equivalenza tra figure piane e al modo di calcolare l’area della loro superficie. Per esempio, si voglia calcolare l’area di una terrazza di forma rettangolare, i cui lati misurano rispettivamente m 6 e m 4.

Il lavoro consiste nel misurare esattamente, mediante un metro a nastro o rigido, lunghezza e larghezza della terrazza. La sua area sarà espressa dal prodotto delle sue misure lineari, il prodotto 6×4. I lati quanto l’area della superficie vengono sempre calcolati come unità uguali, ossia come perle 6×4=24 perle. Questo perchè esse rappresentano un’astrazione numerica dell’unità ed esprimono, ma in forma geometrica, una semplice moltiplicazione di numeri.

Quando si deve misurare realmente una superficie, bisogna distinguere fra la misurazione reale che è misurazione di linee, e il calcolo che, mediante una moltiplicazione di numeri, rappresenta un prodotto in metri quadrati.

Il calcolo si indica con il simbolo m (metro) in questo modo: 6m x 4m ) 24m²

Le misure di superficie di indicano con misure quadrate, perchè l’area si ottiene sempre per mezzo di una moltiplicazione. Come nella scala delle unità delle misure di linee le unità procedevano di 10 in 10, così in quella delle misure di superficie bisogna considerare i quadrati corrispondenti, in quanto le misure di superficie procedono di 10² in 10².
Le misure sono:
km² – (1000m x 1000m) – 1.000.000 m²
hm² – (100m x 100m) – 10.000 m²
dam² – (10m x 10m) – 100 m²
m² – (1m x 1m) – 1 m²
dm² – (1/10m x 1/10m) – 0,01 m²
cm² – (1/100m x 1/100m) – 0,0001 m²
mm² – (1/1000m x 1/1000m) – 0,000001 m²

Le misure agrarie

Nella pratica le grandi estensioni di terreno si valutano in ettometri quadrati, ossia 100m x 100m = 10.000m². Questa misura-calcolo si chiama ettaro (simbolo ha). Parlando perciò dell’estensione di un terreno, si dirà che misura duecento ettari: vuol dire che è costituita di 200 quadrati, il lato di ciascuno dei quali misura 100 metri di lunghezza:

10.000 m² x 200 = 2.000.000 m²

Nella pratica si usa anche il decametro quadrato, che corrisponde ad un quadrato il cui lato misura 10m, e che si chiama ara (simbolo a) ed è l’unità di misura principale delle superfici agrarie.

Invece, per misurare grandi estensioni di terreno si impiega il chilometro quadrato.

Se consideriamo poi la serie dei valori relativi  alle misure quadrate o delle superfici, osserveremo che nel passaggio da un grado decimale all’altro, riferendoci al lato del quadrato, le misure non procedono di 10 in 10, ma di 100 in 100, proprio perchè se il lato procede di 10 in 10, le misure di superficie procedono di 10×10 in 10×10, cioè di 100 in 100. Se perciò, attraverso il calcolo scritto, si vuole ridurre una misura ad un’altra immediatamente inferiore, indicante la medesima superficie, bisogna moltiplicarla per 100.  Per esempio 25 ettari corrispondono a 2500 are che, a loro volta, corrispondono a 250.000  metri quadrati (o centiare; simbolo ca):
hm² = ha = 25
dam² = a = 2500
m² = ca = 250.000

Volendo misurare un terreno rettangolare molto grande, i cui lati misurano rispettivamente 10.ooo metri e 1000 metri, ossia 10 km per 1 km,  si effettuerà prima il calcolo in metri quadrati, così:

10.000m x 1.000m = 10.000.000m²

per esprimere poi il totale in ettari così:

10.000.000m² :  10.000 = 1.000 ha

Invece, se si trattasse di calcolare l’estensione di un paese o di una regione o di una provincia, ci si esprimerebbe in chilometri quadrati. L’ara, l’ettaro e il chilometro quadrato sono misure convenzionali che servono per esprimere, mediante numeri piccoli, una grande quantità di metri quadrati ottenuti col calcolo; non sono misure effettive, ossia oggetti che servono per effettuare misurazioni. Tali grandi misure si ottengono quindi unicamente mediante il calcolo.

Le carte topografiche si rilevano per mezzo di apparecchi speciali usati dagli ingegneri, i quali effettuano i calcoli con l’aiuto di linee e di angoli determinati mediante quegli strumenti.

Chiunque poi è in grado di calcolare l’area della superficie di un terreno, quando gli si diano le linee necessarie. A tale proposito, conviene ricordare le riduzioni di figure geometriche in rettangoli equivalenti, che vuol dire ridurre tutto il calcolo ad una moltiplicazione di due numeri.

Si abbia, ad esempio, un campo di forma triangolare la cui base misura 500m e l’altezza 405m. L’area della sua superficie sarà:

(500 x 405) : 2 = 202.500 : 2 = 101.250m²

il che equivale a 10 ettari e 1250m² (o ca).

Invece, se si tratta di un terreno trapezoidale, che ha i due lati di base rispettivamente di 300 e 200 metri e l’altezza che misura 160 metri, l’area della sua superficie sarà uguale a:

(300 + 200) x 80 = 500 x 80 = 40.000 m²

che corrispondono a 4 ettari.

Per il calcolo dei volumi, si usa come unità principale di misura il metro cubo (m³); non lo si usa però in modo effettivo, cioè non si trasporta materialmente nessun metro cubo, perchè anche i volumi si calcolano per mezzo delle linee. Per esempio, se si vuole conoscere la cubatura di una sala rettangolare, bisogna misurarne in metri lineari la lunghezza dei lati di base e poi l’altezza, fino al soffitto.

Prendiamo ad esempio un salone lungo 9m, largo 7m e alto 5m. Anzitutto bisogna considerare l’area della superficie del pavimento, che è 9m x 7m = 63m²; poi moltiplicare l’area del pavimento per l’altezza del salone: 63m² x 5m = 315m³.

Se invece si volesse calcolare il volume di una delle piramidi d’Egitto, basterebbe conoscere, in metri lineari, la misura del lato della base quadrata e la sua altezza. Calcolando l’area della superficie di base (quadrato del lato), avremo un numero in metri quadrati, che poi si moltiplica per la terza parte dell’altezza: otterremo, in metri cubi, il volume della piramide monumentale.

Possiamo preparare modelli di cartoncino e vari disegni con le piante dei principali monumenti corredate dalle relative misure. Tali modelli possono essere utilizzati tanto per uno studio di carattere storico ed artistico, quanto, attraverso il calcolo approssimativo delle loro dimensioni, per offrire ai bambini cognizioni tangibili sull’imponenza di alcune costruzioni edificate dall’uomo.

Nella vita di ogni giorno, le misure comunemente più usate sono quelle che si riferiscono al modo di determinare quantità si sostanze che, in se stesse, non hanno forma propria, come i liquidi: acqua, olio, vino, ecc… o anche si elementi secchi come grano, riso, farina, o anche sabbia, ghiaia da spargere in un giardino,  legna, ecc… Occorre quindi un’unità di misura delle capacità che sia basata sul metro, perchè anch’essa formi parte del sistema metrico, e le cui unità di misura procedano di 10 in 10 per poter essere comprese in quello decimale. L’unità principale di misura delle capacità è il decimetro cubo (dm³).

Fra il materiale usato nella Casa dei Bambini la torre rosa ha nel suo cubo maggiore, quello con lo spigolo di 10cm, il volume indicato come unità principale di misura delle capacità.

Attorno a questo cubo immaginiamo di costruire un rivestimento metallico a forma di scatola che lo contenga esattamente. Poi sostituiamo il cubo di legno con una quantità di acqua tale da riempire la scatola proprio fino al bordo: questa quantità rappresenta un litro, l’unità fondamentale di misura dei liquidi.

Una volta determinata tale quantità, nella pratica delle misurazioni il decimetro cubo non è più necessario. Un cilindro nel quale si sia versato un litro di acqua può, contrassegnando il livello raggiunto dalla superficie del liquido, servire poi come misura di un qualsiasi liquido. Si può anche usare una comune bottiglia che porti un segno nel punto in cui giunge il livello corrispondente ad un litro.

I liquidi si misurano con recipienti di forma diversa come barili, damigiane, ecc…

Il calcolo però si rapporta sempre, per la sua qualità di punto di riferimento e unità principale di misura, alla capacità di 1dm³, ossia ad un recipiente di forma cubica con lo spigolo di 1dm.

Per i liquidi, le misure di uso più corrente sono:
hl – ettolitro – 100 litri
dal – decalitro – 10 litri
l – litro – 1 litro = 1dm³
dl – decilitro – 1/10 di litro = 0,1 litri
cl – centilitro – 1/100 di litro = 0,01 litri.

Le misure stesse di capacità sono anche misure di volume, poichè esse rappresentano:
1 litro – 1dm³
1 decalitro – una fila di 10 cubi
1 ettolitro – un quadrato di 100 cubi
1 chilolitro – la sovrapposizione di 10 ettolitri, corrispondente alla capacità di 1m³.

Le misure che si usano in pratica sono di vetro e poichè si presentano segnate nel punto raggiunto dal liquido, funzionano da misura. Per misure maggiori, si usano recipienti di metallo o di legno a forma di otre o barile. Le misure per l’olio generalmente sono di metallo e di forma cilindrica, munite di manico e beccuccio, e portano un segno nel punto in cui deve giungere la misura precisa.

Il procedimento più interessante per la determinazione pratica dell’unità di misura è quello che riguarda il peso dei corpi. La misura da cui si parte è il piccolo cubo che troviamo alla sommità della torre rosa e che misura 1cm di spigolo.

Per calcolare un peso con scrupolosa esattezza occorre  una bilancia di precisione. Bisogna quindi determinare un volume e la qualità della materia, dal momento che uguali volumi di sostanze diverse hanno peso diverso. Anche qui abbiamo due criteri distinti, due elementi differenti ed entrambi importanti.

Il volume scelto come unità è quello corrispondente alle capacità di un cubo con lo spigolo di 1cm.

Immaginiamo una scatolina di metallo che contenga esattamente un piccolo cubo, come il primo della torre rosa, però costituito in metallo, con la massima precisione, in modo da rappresentare esattamente 1cm³. Togliendo poi il piccolo cubo, rimane la scatolina metallica della capacità esatta di 1cm³. Tale minuscola scatola deve essere riempita con una sostanza che sceglieremo, perchè essa influisce sul peso più di quanto non operi il volume. Infatti 1cm³ di olio e 1cm³ di mercurio peseranno senza dubbio in modo assai diverso.

Per rendere più comprensibile questo fatto, potremo ricordare le esperienze condotte nella Casa dei Bambini, quando in modo empirico cercavano di riconoscere il differente peso di tavolette uguali per forma e dimensioni, ma diverse nella materia: dall’ebano all’abete.

Potremo ricordare anche le altre esperienze fatte nella scuola elementare studiando in grammatica gli aggettivi di grado comparativo e superlativo.

Diamo qui un esercizio nel quale i bambini confrontano sostanze liquide diverse come acqua, olio, alcol, e insieme sostanze solide come sughero e piombo. Indipendentemente dalla quantità usata per ciascuna delle sostanze elencate, esse si dispongono l’una sotto l’altra, senza mescolarsi: acqua, olio ed alcol rimangono separate e sovrapposte tra le due sostanze solide collocate agli estremi: il piombo affonda e il sughero galleggia.

Il peso in relazione con la natura della sostanza piuttosto che con il volume è un fatto già noto ai bambini, da quando è stato loro spiegato il valore dell’aggettivo “specifico”. Sarà perciò chiaro che, oltre al volume, si rende necessario riferirsi a una sostanza, rapportandosi al suo peso specifico. La materia scelta è l’acqua.

L’unità fondamentale di misura dei pesi è rappresentata dal peso di 1 cm³ di acqua. Si sa che l’acqua può essere pura e impura. Si studiarono già molti aggettivi che si riferiscono all’acqua: deve essere inodore, incolore, insapore, ecc… Venne pure filtrata mediante corpi permeabili. Si concluse che, per ottenere acqua pure, bisogna distillarla, poichè quando si converte in vapore, essa non trasporta con sè nessuno dei sali che contiene disciolti, ma si converte in acqua chimicamente pure (H2O). Il vapore acqueo, condensandosi, si raccoglie a goccia a goccia trasformato nuovamente nello stato liquido.

Il grammo, unità principale di misura dei pesi, corrisponde al peso di 1 centimetro cubo di acqua distillata alla temperatura di 4° centigradi.

Come si sa, l’acqua  è la sostanza usata anche per definire la scala per la misura delle temperature. Infatti se un tubo capillare contenente mercurio ed ermeticamente chiudo si introduce nel ghiaccio, il mercurio si contrae; nel punto corrispondente al livello minimo si segna lo zero (zero gradi di temperatura). Se poi introduciamo il tubo nell’acqua che bolle (oppure lo esponiamo al vapore acqueo che si forma sulla superficie dell’acqua che bolle, a una normale pressione atmosferica, che è 1-, il mercurio si dilata e nel punto del tubo in cui esso raggiunge il livello massimo si segna 100 (cento gradi di temperatura). Lo spazio tra 0 e 100 si suddivide in 100 parti uguali chiamate gradi.

Abbiamo così stabilito che l’unità principale di misura dei pesi corrisponde al peso di 1 cm³ di acqua distillata alla temperatura di 4°C: tale peso, messo in rapporto con il sistema metrico, si chiama grammo (g). L’unità di peso è assai piccola, proprio perchè talvolta serve come punto di partenza per la misurazione di quantità minime, come avviene in medicina o quando si determina il peso di sostanze utilizzate per analisi chimiche.

Il grammo che si usa praticamente per pesare non è certo quell’acqua contenuta nel piccolo cubo, ma un piccolo cilindro di ottone munito di un bottoncino di presa, e si determina mediante una bilancia di precisione, comparandolo in modo che corrisponda perfettamente al peso dell’acqua del piccolo cubo che, perciò, ha ruolo di peso-campione.

Nella pratica si usano pesi anche minori del grammo; nella loro successione decimale sono:
1/10 di grammo – decigrammo – 0,1 grammi (dg)
1/100 di grammo – centigrammo – 0,01 grammi (cg)
1/1000 di grammo – milligrammo – 0,001 grammi (mg)

Invece, per i pesi adoperati comunemente nella vita di ogni giorno, si usano i multipli del grammo e uno di essi, il chilogrammo, serve da punto di riferimento:
1 grammo – grammo – g
10 grammi – decagrammo – dag
100 grammi – ettogrammo – hg
1000 grammi – chilogrammo – kg

Il chilogrammo corrisponde al peso dell’acqua distillata contenuta in un decimetro cubo, grande come il cubo maggiore della torre rosa, e corrisponde al peso di 1 litro di acqua distillata.

In pratica si usa anche l’ettogrammo quando si comprano generi alimentari. Quando invece si tratta di misurare pesi più grandi, si ricorre a due pesi estremi, rappresentati dal peso citato, il chilogrammo in relazione al decimetro cubo, e da quello corrispondente al peso dell’acqua distillata che riempirebbe esattamente la capacità di 1 metro cubo.

Un metro cubo contiene 1000 decimetri cubi e pertanto corrisponde al peso di 1000 chilogrammi di acqua distillata. Questa enorme unità di misura dei pesi si chiama tonnellata (t).

Un peso corrispondente a 100 chilogrammi si chiama quintale (q) e si usa per pesare legna, carbone e cose simili. Ecco l’elenco delle unità di misura dei pesi:
1.000.000 g – tonnellata – t – metro cubo di acqua – 1000 kg
100.000 g – quintale – q – 100 kg
10.000 g – miriagrammo – Mg – 10 kg
1.000 g – chilogrammo – kg – decimetro cubo di acqua – 1000 g
100 g – ettogrammo – hg
10 g – decagrammo – dag
1 g – grammo – g – unità principale di misura -centimetro cubo di acqua – 1g
1/10 g – decigrammo – dg
1/100 g – centigrammo – cg
1/1000 g – milligrammo – mg – millimetro cubo di acqua

Le misure dei pesi sono sempre indirette e occorre uno strumento meccanico per valutarle: la bilancia.

Le misure dei volumi comprendono tanto unità di misura di volume quanto di capacità e di peso. L’unità principale di misura dei volumi è il metro cubo (m³); esso corrisponde alla capacità di 1 chilolitro (kl) di acqua pura, cioè di 1000 litri; e 1 kl di acqua pura pesa 1 tonnellata (t), cioè 1000 chilogrammi.

L’unità principale di misura delle capacità è il litro (l); esso corrisponde alla capacità di 1 decimetro cubo di acqua pura; e 1 dm³ di acqua pura pesa 1 chilogrammo (kg).

L’unità principale di misura dei pesi è il grammo (g); esso corrisponde al peso di 1 centimetro cubo (cm³) di acqua pure che, d’altra parte, ha la capacità di 1 millilitro (ml), cioè di litri 0,001.

Se abbiamo due quantità di uguale volume ma aventi differente peso, vuol dire che hanno diverso peso specifico relativo, cioè diversa densità relativa. Per esempio: ferro, ebano, sughero; oppure mercurio, olio d’oliva, vino, alcool presi nella stessa quantità hanno pesi diversi.

Prepariamo cubetti tutti uguali e con lo spigolo di 1cm delle seguenti sostanze: ferro, alluminio, marmo, cristallo, ebano, sughero. Confrontiamo, poi, il peso di ciascuno di questi piccoli cubi uguali con quello di 1 grammo, che è il peso di un ugual volume di acqua distillata. In conseguenza diremo che:
il ferro pesa 7,85 grammi
l’alluminio pesa  2,56 grammi
il marmo pesa  2,75 grammi
il cristallo pesa  2,60 grammi
l’ebano pesa  1,17 grammi
il sughero pesa  0,24 grammi

Per le sostanze liquide poste in provette graduate della capacità di 1 cm³ riscontreremo che:
il mercurio pesa  13,59 grammi
l’olio pesa  0,92 grammi
il vino pesa  0,96 grammi
l’alcol pesa  0,79 grammi

Così i vari pesi specifici dei quali avevamo già rivelato la differenza mediante una valutazione empirica secondo che galleggiassero o precipitassero, si possono ora identificare con numeri, i quali ci permettono di eseguire calcoli comparativi.

E’ così possibile calcolare il peso (P) di un corpo del quale si conosce il volume (V) e il peso specifico (ps).

IL CRISTIANESIMO materiale didattico

IL CRISTIANESIMO materiale didattico vario per la scuola primaria.

Storia di Roma IMPERIALE – Il Cristianesimo

Durante l’Impero si compì la più grande rivoluzione della storia dell’umanità nel campo religioso e morale: il cristianesimo. La nuova dottrina fu insegnata da Gesù. Nato a Betlemme, in Palestina, quando da 27 anni Ottaviano era imperatore, Gesù trascorse un’umile giovinezza nel villaggio di Nazaret, ignorato da tutti.
A trenta iniziò la predicazione della sua dottrina. Questa è tramandata dai Vangeli che, insieme con altri libri, formano la seconda parte della Bibbia, detta Nuovo Testamento. Vangelo è parola greca che significa “buona novella”.
Gesù percorse la Palestina predicando e operando miracoli. Fra i suoi primi seguaci ne elesse dodici col nome di Apostoli, cioè propagatori della sua dottrina. Egli affermava di essere figlio di Dio e Salvatore degli uomini, che doveva riscattare dal peccato di Adamo.
Ma i Farisei lo accusarono di predicare dottrine contrarie alla religione ebraica e di cospirare contro l’autorità di Roma, in quanto si proclamava re dei Giudei.
Gesù fu arrestato e condannato a morte. Ponzio Pilato, governatore romano, pur essendo convinto dell’innocenza di Gesù, cedette al furore popolare e permise che venisse crocefisso sulla collina del Calvario, nei pressi di Gerusalemme. Gesù moriva a 33 anni, mentre a Roma regnava Tiberio.

La dottrina di Gesù

Le condizioni degli Ebrei erano molto tristi per l’oppressione di Erode e la miseria delle classi più umili. La parola di Gesù apriva alla speranza l’animo di questi diseredati. Egli voleva che il regno di Dio cominciasse qui, in terra; esso consisteva nella fratellanza degli uomini, nell’amore reciproco, nel perdono nelle offese, nella pace, nel disprezzo dei beni terreni, nella superiorità dello spirito sulla carne. Chiamò beati i poveri, gli afflitti, i reietti, i misericordiosi, quelli che soffrono persecuzioni per amore della giustizia: beati perchè più vicini a Dio e perchè solo ad essi era aperto il regno dei cieli.
Mosè aveva detto di amare il prossimo, ma Gesù aggiunse: “Amate i vostri nemici, fate del bene a quelli che odiano, pregate per i vostri persecutori”.
Gesù compiva una grande rivoluzione nel campo morale: molti dei suoi principii contrastavano con la concezione pagana della vita.
Se davanti a dio tutti sono uguali e fratelli, veniva meno il diritto del padrone sullo schiavo; la povertà, l’umiltà, la mansuetudine, il perdono predicati da Gesù erano in contrasto con le idee degli antichi, che consideravano la forza, la ricchezza, l’orgoglio, i più alti valori della vita.
Gesù, lavorando nella bottega di falegname del padre e scegliendo i suoi apostoli tra gli operai, aveva esaltato il lavoro manuale anche nelle sue forme più umili, mentre fino allora era stato considerato indegno di uomini liberi e solo conveniente agli schiavi.

Storia di Roma IMPERIALE – La diffusione del Cristianesimo

Gesù, prima di essere condannato alla crocefissione, aveva affidato ai suoi apostoli un compito: “Andate, dunque, e predicate a tutte le genti”. Gli apostoli avevano ascoltato le parole del maestro ed erano andati in ogni parte dell’Impero ad insegnare le nuove verità: Dio è uno solo ed è il padre amoroso e giusto di tutti gli uomini; tutti gli uomini sono uguali davanti a lui e sono fratelli fra loro.
A Roma, accanto all’antica religione, si erano diffusi culti, riti, superstizioni nati nelle più lontane regioni dell’Impero. I Romani avevano sempre rispettato queste nuove credenze, ma il cristianesimo era una forza nuova ed il governo di Roma ne provava timore; i cristiani rifiutavano di adorare come un dio l’imperatore. I patrizi erano serviti da migliaia di schiavi, considerati come esseri inferiori, al pari di bestie e di cose, e il cristianesimo parlava di fratellanza e di uguaglianza.
La nuova religione si diffuse rapidamente e trovò i primi fedeli tra gli schiavi, tra le serve e le nutrici delle case patrizie, tra i poveri e i sofferenti. Quasi tutti gli imperatori se ne preoccuparono e perseguitarono i cristiani. Molti morirono.
Si organizzavano veri spettacoli nei circhi e si assisteva soltanto a stragi di cristiani. Essi furono detti martiri, cioè testimoni della loro fede.
Le idee giuste non possono essere spente nel sangue: per ogni cristiano che moriva, centro altri si convertivano alla nuova fede. E poichè non potevano pregare e celebrare apertamente i loro riti, si nascondevano in profonde cave abbandonate nei dintorni di Roma: lì assistevano alla messa, ascoltavano le prediche, seppellivano i morti. Quelle cave si dissero catacombe, e negli anni più difficili accolsero e protessero migliaia di fedeli.

Storia di Roma IMPERIALE – La prima persecuzione in Roma

Il popolo prestava mano spontaneamente alla ricerca dei cristiani. La caccia non era tanto difficile, perchè interi gruppi di essi erano accampati con l’altra popolazione nei giardini, e perchè tutti confessavano apertamente la loro religione. Quando venivano circondati dai pretoriani, si inginocchiavano e cantavano inni lasciandosi condur via senza resistenza. La loro pazienza non faceva che irritare ed aumentare l’ira del popolaccio, il quale, senza capire il perchè, considerava la loro rassegnazione come pertinacia nel delitto. I persecutori erano impazziti.
Strappavano i cristiani alle guardie e li facevano in pezzi, le donne venivano trascinate al carcere per i capelli, si sbattevano le teste dei fanciulli contro le pietre. Giorno e notte migliaia di persone correvano per le vie urlando come bestie feroci. Si cercavano le vittime tra le rovine, nei camini, nelle cantine. Davanti  alle prigioni di celebrava l’avvenimento con baccanali e si danzava sfrenatamente intorno ai fuochi e alle botti di vino. Di sera i ruggiti di gioia salivano e scoppiettavano per tutta la città con lo strepito del fulmine. Le prigioni rigurgitavano di prigionieri.
Ogni giorno la plebaglia e i pretoriani stanavano altre vittime. La pietà era morta. Pareva che le moltitudini  non sapessero più parlare e non si ricordassero nei loro trasporti selvaggi che un grido: “Ai leoni i cristiani!”. Il calore insopportabile della giornata diventava insopportabile di notte; e l’aria stessa pareva impregnata di sangue, di delitto, di furore. A quegli atti di una crudeltà senza esempio, si rispondeva con un desiderio, pure senza esempio, di martirio. I seguaci di Cristo  andavano alla morte volenterosi, o la cercavano fino a quando non ne erano impediti dai superiori. (E. Sienkiewicz, da Quo vadis?)

Storia di Roma IMPERIALE – Le persecuzioni

I Romani si erano sempre mostrati tolleranti, anzi ospitali verso tutte le religioni. Non solo permisero ai popoli sottomessi di  continuare ad adorare i loro dei, ma divinità greche, asiatiche, egiziane furono introdotte in Roma.
Ma i cristiani non godettero di questa tolleranza: essi furono guardati subito con diffidenza e sospetto perchè la loro dottrina e i loro costumi contrastavano troppo con quelli dei pagani. Essi si rifiutavano di adorare come dio l’Imperatore e perciò furono accusati di essere nemici dello stato e perseguitati.
La tradizione conta dieci persecuzioni.
La prima fu quella di Nerone, l’imperatore che accusò i cristiani di aver voluto distruggere con un incendio Roma.
Un’altra grande persecuzione fu quella ordinata, due secoli dopo, dall’imperatore Diocleziano. Essa infuriò crudelmente soprattutto in Oriente e si protrasse per otto anni (303 – 311): fu quello il periodo chiamato l’era dei martiri.

Storia di Roma IMPERIALE – Le catacombe

I cristiani, dopo la morte, non erano seppelliti col rito pagano della cremazione. Perciò fin dal I secolo costruirono dei cimiteri detti catacombe (nel profondo). Queste erano gallerie sotterranee, scavate in vecchie cave abbandonate di rena o di pomice, o sotto giardini e ville di cristiani, nei dintorni di Roma, con nicchie orizzontali alle pareti, in cui si ponevano i morti.
Si estendevano per chilometri e chilometri, con una serie di gallerie che, nei punti di incrocio, furono ampliate fino a formare delle vaste stanze. Ai lati delle gallerie numerose lapidi recavano i vari simboli cristiani: l’olivo, l’agnello, la colomba, il pesce.
Le catacombe, oltre che cimiteri, furono anche rifugio durante le persecuzioni: i fedeli vi si riunivano per ascoltare la messa e pregare. Le catacombe si possono perciò considerare le prime chiese dei cristiani.

Storia di Roma IMPERIALE – Nelle catacombe

Scende la notte e i cristiani, uomini e vecchi, e giovani, donne e fanciulli, escono silenziosamente dalla città. A un tratto sembrano ingoiati dalla terra. Spariscono dentro le cave di pozzolana, entrando in strette gallerie.
All’ingresso hanno acceso una piccola lucerna, che rischiara a stento il corridoio sotterraneo. La piccola fiamma illumina via via tante tombe, scavate nella parete e sulle quali si possono leggere iscrizioni semplici e commoventi. Su qualche tomba è disegnato un pesce, che significa Gesù. Su qualche altra una colomba, che significa la pace. Oppure un’ancora, che significa la salvezza; oppure una spiga di grano o un grappolo d’uva, che significano la vita eterna; oppure un ramo di palma, che significa il martirio.
I cristiani camminano e pregano. Giungono così ad un luogo più spazioso, chiuso da una specie di cupola. Qui è un rozzo altare, accanto al quale si leva un vecchio. Egli è un apostolo, o un successore degli apostoli, cioè un vescovo. Egli parla della vita eterna e spiega: “Cimitero vuol dire dormitorio. I nostri morti non sono morti. Essi vivono con Gesù. Bisogna vivere in questo mondo senza mischiarsi con il peccato, per essere degni di vivere eternamente in paradiso”. I cristiani ascoltano attentamente, poi dicono in coro: “Amen”, che vuol dire così sia. (P. Bargellini)

Nelle catacombe
I cristiani, invece di bruciare i loro morti come i pagani, li seppellivano in gallerie sotterranee. Lì avrebbero riposato in pace in attesa di risvegliarsi alla vita eterna.
Dapprima i pagani derisero i cristiani per la fede che professavano e gli strani riti che celebravano. Poi presero a perseguitarli, e i Cristiani furono costretti a nascondersi nei loro cimiteri sotterranei, detti catacombe. Alla fioca luce delle lucerne leggevano i Vangeli, ascoltavano la messa, cantavano preghiere. I ricchi spartivano le loro ricchezze con i poveri perchè li consideravano fratelli.

Storia di Roma IMPERIALE – Le tombe dei primi cristiani

Le catacombe si estendono in vasta rete nel sottosuolo della Città Eterna, specialmente alla periferia; e non sono altro che cimiteri sotterranei. Solo in casi eccezionali servirono come temporaneo luogo di preghiera per i primi cristiani che si rifugiavano in esse, accanto alle tombe dei martiri, durante le persecuzioni più feroci.
Siccome le leggi romane proibivano di seppellire i morti in città, così anche i cristiani, per fare i loro cimiteri, scelsero, come i pagani, le località prossime alle strade suburbane; e, nel tufo che forma il sottosuolo di Roma, furono scavati chilometri e chilometri di gallerie, larghe mai meno di un metro, che portavano scavate nelle pareti delle nicchie, disposte le une sulle altre come cuccette di bastimento. Una lastra di marmo o di semplice terracotta chiudeva poi il loculo, ed era spesso ornata di iscrizioni e di figurazioni artistiche o simboliche.
Altre volte, invece, le tombe erano formate da una mensola sormontata da un arco (arcosolio), o erano raccolte attorno ad una stanza (cubicolo).
Al principio le catacombe servirono ad accogliere le spoglie dei cristiani più illustri, insieme con quelle dei loro familiari: ma poi, quando il numero dei Cristiani crebbe, si sentì il bisogno di sepolcri per la comunità. Furono proprio questi i tempi delle più feroci persecuzioni, e così i numerosi corpi dei martiri furono sepolti dai correligionari nei loro cimiteri. Tanto più, allora, i fedeli amarono farsi seppellire nelle catacombe, ove riposavano le spoglie di quei fulgidi esempi di cristiano eroismo, mentre cercavano, in vita, di ornare le tombe con pitture, iscrizioni e colonne, su cui ardevano lucerne.
Dal quinto secolo in poi però, i cristiani cessarono di farsi seppellire nelle catacombe, che divennero luoghi di pellegrinaggio e devozione; nelle chiese sotterranee si continuarono a celebrare gli anniversari dei defunti, e sulle tombe più venerate si innalzarono basiliche (San Pietro, Santa Agnese, San Paolo).
Ma vennero gli anni terribili delle invasioni barbariche; e i barbari non rispettarono questi sotterranei: li devastarono e ne trassero le ossa per venderle come reliquie. Allora i papi pensarono che meglio valesse trasportare i corpi dei martiri nell’interno della città. Così pian piano, alla metà del IX secolo, le catacombe restarono prive di quei sacri tesori, e perciò furono gradatamente abbandonate e si ricolmarono di rovine, ad eccezione del cimitero di San Sebastiano e di qualche altra piccola parte di sotterranei, posti sotto alcune delle più frequentate basiliche. (O. Gasperini)

Storia di Roma IMPERIALE – I martiri

Durante le persecuzioni, i cristiani venivano imprigionati e interrogati. Bastava che negassero di essere seguaci di Cristo e che bruciassero l’incenso sull’altare dell’imperatore per riavere la libertà. Alcuni lo facevano, altri invece, ed erano la maggioranza, affrontavano con animo lieto la tortura e la morte piuttosto che tradire la loro fede; essi furono chiamati martiri.
Questa parola vuol dire testimoni. Nonostante le persecuzioni, il numero di coloro che abbandonavano il culto degli dei e chiedevano di essere battezzati aumentava continuamente.

Storia di Roma IMPERIALE – I cristiani alle belve

Quanta diversità fra i Romani della repubblica e quelli dell’impero! Allora il lavoro era ritenuto un onore. Ora, invece, era quasi diventato una vergogna. La gente voleva godere e divertirsi. Si gridava: “Pane e divertimenti!”.
Il divertimento più desiderato era quello del Circo, dove si svolgevano combattimenti fra gladiatori e gladiatori, o fra gladiatori e belve.
I gladiatori erano schiavi armati di corta spada, chiamata gladio. Nell’entrare nel Circo, i gladiatori salutavano l’imperatore dicendo: “Salve Cesare, i morituri ti salutano”. Poi lottavano tra loro e si ammazzavano davvero. Quando un gladiatore cadeva a terra ferito, ma non morto, l’altro si volgeva all’imperatore. Se l’imperatore faceva un gesto, col pollice in basso, il gladiatore caduto veniva ucciso. Il gesto contrario significava che gli era salva la vita.
Molte volte i gladiatori lottavano contro belve ferocissime: leoni, tigri, leopardi.
Ma al tempo delle persecuzioni contro i cristiani, fu trovato uno spettacolo anche più crudele. Si faceva entrare nel Circo un gruppo di cristiani e poi si scatenavano le fiere, mentre il pubblico gridava pazzamente: “I cristiani alle belve!”. Donne, vecchi, bambini, uomini erano così dilaniati dai denti e dagli artigli delle fiere.  (P. Bargellini)

Storia di Roma IMPERIALE – Panem et circenses

Se la decadenza dei costumi si fosse limitata alle baldorie, susciterebbe solamente il nostro disgusto; ma essa giunse perfino agli spettacoli sanguinari, amati e approvati da tutti, che provocavano una tale frenesia nelle folle, che senatori, donne e perfino imperatori alcune volte discesero di persona nell’arena per battersi come vili gladiatori.
I cittadini poveri limitavano le loro rivendicazioni essenziali a due cose: un pezzo di pane e un posto per assistere alle stragi, “panem et circenses”, e i ricchi, che desideravano rendersi popolari, offrivano rappresentazioni sempre più grandiose.
Sotto l’Impero c’erano 165 giorni di rappresentazioni l’anno e, nel corso di certi giochi, migliaia di gladiatori e di condannati comuni furono uccisi.
Durante il mattino e nel pomeriggio il numero dei morti è limitato: sono professionisti, formati in apposite scuole, ludi, da allenatori, lanistae, che si sfidavano in duelli serrati, spesso molto lunghi prima della disfatta di uno degli avversari. Di solito si fa combattere un reziario con un mirmillone o gallo. Il primo è il pescatore, quasi nudo, agile, che cerca di avvolgere l’avversario con la sua rete e di colpirlo con il suo tridente; l’altro è un pesce pesante, coperto con placche di metallo, armato di una piccola spada; e il suo capo è rinchiuso in un casco di bronzo con la cima ornata proprio da un pesce. Quando uno degli avversari, colpito da una grave ferita, comincia a vacillare, il popolo urla: “Hoc habet!” (se l’è presa). Quando crolla a terra e alza la mano per implorare la grazia, raramente il popolo la concede, e di solito abbassa il pollice gridando: “Iugula!” (sgozzalo). Il vincintore finisce il ferito che muore con eleganza, come gli è stato insegnato a scuola.
A mezzogiorno le gradinate si vuotano. Molti vanno a pranzo e a fare la siesta, mentre il sole implacabile cade a piombo sulle teste nell’immenso anfiteatro di pietre; restano solo i fanatici: essi sanno che succederà qualche cosa anche durante quest’ora vuota. I servi dell’anfiteatro spingono nell’arena i gladiatores meridiani, cioè i condannati a morte. Viene data un’arma ad un uomo, perchè ne uccida un altro che è disarmato; quando egli ha colpito la sua vittima, gli tolgono la spada insanguinata di cui si è appena servito, per darla a un terzo che lo uccida a sua volta. Il terzo è ucciso da un quarto, e il massacro dura un’ora.

Nei circhi avvengono combattimenti fra uomini armati e animali feroci, mai primi cristiani, trattati come  criminali comuni, vengono esposti senza difesa e le bestie affamate li sbranano sotto gli occhi degli spettatori.
Tuttavia, questi vanno al circo soprattutto per vedere le corse dei carri a due cavalli, bighe, o a quattro cavalli, quadrighe. Per queste corse è stata preparata una lunga pista divisa in due in senso longitudinale da un muro chiamato spina, che lascia un passaggio solo alle due estremità. Fin dall’inizio della gara è una lotta serrata per portarsi sulla sinistra, onde prendere la curva più stretta che sia possibile contro la colonnetta, “meta”, che è all’estremità della spina. In questa lotta le ruote dei cocchi spesso si incontrano e volano in schegge. Prima di cadere, i conducenti tagliano le redini con un pugale, per non essere trascinati al suolo dai loro cavalli impazziti.
Costantino nel 325 cercò invano di proibire i giochi gladiatorii; essi continuarono ad essere effettuati nonostante le proteste dei padri della chiesa, ancora per più di un secolo. Mentre un giorno nel Colosseo si svolgeva uno di questi spettacoli, un monaco si gettò in mezzo ai combattenti cercando di strappare loro le armi. Fu ucciso: poi si seppe che si chiamava Telemaco, che era venuto dall’Oriente per compiere questa missione. Il suo sacrificio indusse l’imperatore a prendere un provvedimento decisivo. Il fatto accadde a Roma sotto Onorio ed è narrato da uno storico contemporaneo. (A. M. Colin)

Lotte di gladiatori

Squillarono le trombe e vi fu un profondo silenzio; migliaia di sguardi si diressero sulla porta verso la quale un uomo, vestito da Caronte, avanzava battendo su questa tre colpi di martello, quasi invitasse alla morte coloro che si trovavano al di là. Aperti lentamente i battenti, lasciando scorgere una cupa voragine, entrarono nel Circo i gladiatori. Avanzarono a schiere di venticinque: Traci, Mirmilloni, Sanniti, Galli; tutti armati pesantemente. Seguivano i retiarii, con la rete in una mano e nell’altra il tridente.
Furono accolti da applausi che divennero fragorosi. In tutto l’anfiteatro si vedevano facce accese, mani alzate, bocche aperte. E intanto i gladiatori, fatto il giro dell’arena con passo fermo, scintillanti nelle ricche armature, si fermarono davanti alla loggi cesarea, superbi e tranquilli. Uno squillo di tromba acuto interruppe i battimani, i gladiatori alzarono le braccia, e rivolgendosi a Cesare, intonarono lentamente:
“Salve Cesare imperatore! Coloro che sono per morire ti salutano!”
Dopo, presero posto nell’arena.
Dovevano cozzare schiera contro schiera, ma ai più famosi fu comandato di battersi singolarmente, perchè potessero meglio dar prova di sveltezze e di coraggio. Dal gruppo dei lottatori ne uscì uno ben conosciuto, di nome Macellaio (Lanio), famoso vincitore. Con l’enorme elmo e la corazza che fasciava la schiena poderosa, spiccava sulla gialla arena come un immane scarabeo. Il non meno celebre retiario Calendio gli si fece incontro.
Cominciarono le scommesse:
“Cinquecento sesterzi per Gallo!”
” Cinquecento per Calendio!”
“Per Ercole ne scommetto mille!”
“Duemila!”
Intanto il Gallo, giunto nel mezzo, cominciava a retrocedere; protendendo la spada, e piegando il capo da una parte, seguiva attentamente l’avversario, e il retiario, svelto, nudo, di forme scultoree, coperte di una sciarpa, rapidamente gli girava intorno, agitando con arte la rete, ora abbassando ora rialzando il tridente…
Ma il Gallo non fuggiva; piantandosi saldo, faceva in modo da aver sempre di fronte l’avversario. C’era qualcosa di pauroso nella sua grossa testa mostruosa e in tutta la sua persona. Gli spettatori sapevano che egli si preparava ad un balzo improvviso che avrebbe potuto decidere della lotta. E il retiario ora gli correva incontro, ora dava un balzo indietro con tale rapidità, che non era possibile seguirlo con lo sguardo.
Più volte il colpo del tridente risuonò sulla corazza: ma il Gallo rimase saldo, dando prova così della sua forza inverosimile. La sua attenzione si concentrava non sul tridente, ma sulla rete che gli girava attorno come un uccello di cattivo augurio.
Gli spettatori, trattenendo il fiato, seguivano attentamente il gioco dei lottatori. Lanio, al momento opportuno, balzò alla fine sull’avversario; ma questi, rapidissimo, gli sfuggì di mano, si raddrizzò e scagliò la rete. Il Gallo, con un giro, la respinse con lo scudo; quindi, indietreggiarono ambedue. L’anfiteatro echeggiò delle grida di “Macte!” (Ammazzalo). Nelle prime file s’impegnarono nuove scommesse.
E i gladiatori ricominciarono a lottare con arte, con precisione di movimenti, da far pensare che non si trattasse di una lotta di vita o di morte, ma di una gara di destrezza. Lanio cercava di evitare la rete, retrocedendo. Allora coloro che scommettevano, cominciarono a gridare: “Dagli addosso!”, eccitandolo a non riposarsi.
Il Gallo obbedì, e si slanciò sull’avversario, il braccio del retiario si coprì di sangue e la rete gli pendette dalla mano. Lanio si raccolse e spiccò un salto per vibrare l’ultimo colpo. Ma in quel punto Calendio, che aveva finto di non poter reggere la rete, scansò il colpo e, conficcando il tridente nelle ginocchia dell’avversario, lo fece stramazzare a terra.
Lanio, sempre più avviluppato nella rete fatale, cercava invano di rialzarsi, sempre più imbrogliandosi. Intanto altri colpi lo inchiodavano a terra; puntò la mano, raccolse le forze, ma invano: portò alla testa la mano che non reggeva più la spada, e cadde. Il Circo tremò dagli applausi, dalle grida. Il pubblico era diviso in due parti. Chi gridava morte, chi grazia. Ma il retiario non guardava che Cesare e le Vestali e aspettava la loro sentenza.
Per sventura, l’imperatore non amava Lanio, perchè aveva scommesso per lui una volta ed aveva perduto, perciò, sporgendo la mano, abbassò il pollice.
Il segno fu ripetuto dalle Vestali. (Enrico Slenkiewicz)

Il trionfo del cristianesimo

Col passare degli anni il cristianesimo si diffuse in regioni sempre più vaste. E la chiesa, cioè la congregazione dei fedeli, diventò veramente cattolica, cioè universale.
Le persecuzioni, invece di soffocar il cristianesimo, concorsero alla sua vittoria. Questa avvenne, nel IV secolo, dapprima con Costantino (Editto di Milano), poi con Teodosio (autore di un editto per il quale il cristianesimo era proclamato religione di stato).
Il cristianesimo aveva trovato un terreno più favorevole alla sua diffusione nelle città; nei villaggi, detti pagi, continuarono a vivere i seguaci delle vecchie religioni, detti perciò pagani.

La luce del Cristianesimo
Il Cristianesimo si diffuse  ben presto in tutto l’Impero Romano e vi fu portato non solo dagli apostoli, ma anche da gente qualunque, da persone della quali non conosciamo neppure il nome, ma che avevano il cuore pieno d’amore e di fiducia in Dio. Per esempio, ignoriamo ancora chi formò la prima comunità cristiana di Roma, già esistente prima dell’arrivo degli apostoli Pietro e Paolo.
Non era necessario essere sacerdoti, per parlare di Gesù e per invitare gli uomini a riflettere sulla vita futura:  potevano farlo un legionario reduce dalle Gallie, uno schiavo incatenato al remo di una nave ferma nel porto per le pulizie, o la moglie di un funzionario al ritorno dalla Giudea.
Così, da una persona all’altra, la fede arrivò in tutti gli strati della società romana. Non pensate che i primi cristiani fossero tutti schiavi tormentati dai padroni o poveri maltrattati dai ricchi… No davvero! Furono anche patrizi, uomini colti, militari, matrone di famiglia nobilissima. Perchè non basta la ricchezza per avere la pace del cuore: tutti, ricchi e poveri, avevano bisogno di Gesù.
Gli imperatori, però, non approvarono il Cristianesimo e considerarono i cristiani nemici dello Stato, perchè costoro si rifiutavano di rendere all’imperatore in carica gli onori che egli pretendeva considerandosi un dio.

Nelle catacombe
La poca luce che pioveva da certe finestre chiamate lucernari o la fumosa fiamma di una torcia illuminavano i volti di coloro che pregavano.
Lungo  le pareti delle gallerie si aprivano i loculi, cioè delle nicchie dove erano deposte le casse di legno con i cadaveri.
Una lastra di marmo o un muro, con il nome della persona sepolta, chiudeva il loculo.
Molte volte, oltre al nome, era inciso sulla lapide anche un augurio: “O caro, che tu sia felice, là dove si sta bene”.
Da questi antichi cimiteri che sorsero a Roma, in Sicilia e in Sardegna, ci giungono ancora le voci, le preghiere e la fede dei primi cristiani.

La prima arte cristiana
La prima arte cristiana si manifestò nelle catacombe.
Le pareti delle catacombe venivano, infatti,  dipinte con affreschi che rappresentavano pavoni, navicelle, grappoli di uva, pesci, anfore, lucerne, rami di palma, agnelli, un pastore.
Ognuna di queste figure aveva un significato: l’albero e il prato rappresentavano il paradiso; la spiga e il tralcio l’eucarestia; la colomba la purezza, la pace e il perdono; il pesce e l’agnello Gesù Cristo.
La raffigurazione di Gesù nel pesce si spiega ricordando che, nella lingua greca, pesce si dice ixtus,  e le lettere che compongono ixtus sono le iniziali di “Iesus Xristos Teu Uios Soter” cioè ” Gesù Cristo figlio di Dio salvatore”.
Altri simboli cristiani erano il delfino, l’anima che naviga e giunge alla salvezza; la palma, che rappresentava la vittoria del martire; la lucerna, la luce che non si spegne nel cuore di chi crede; il grappolo d’uva che simboleggiava Gesù che disseta le anime. Il pastore che porta l’agnello era Gesù che ama il suo gregge.

Le persecuzioni
I Romani si erano sempre mostrati tolleranti, anzi ospitali verso tutte le religioni, ma i Cristiani non godettero di questa tolleranza. Essi furono guardati subito con diffidenza e sospetto perchè la loro dottrina e i loro costumi contrastavano troppo con quelli dei pagani. Essi di rifiutavano di adorare come dio l’imperatore e perciò furono accusati di essere nemici dello Stato.
I Cristiani furono perseguitati per più di trecento anni e migliaia di loro morirono martiri perchè non avevano voluto rinnegare la fede in Cristo e perchè si erano rifiutati di bruciare incenso davanti alle statue degli Imperatori.
Nell’anno 64 Nerone li accusò di aver incendiato Roma e subirono la prima persecuzione. La tradizione conta dieci persecuzioni, fino a quella di Diocleziano che, fra tutte, fu la più lunga e sanguinosa (303 – 311). Non solo vescovi, sapienti ed uomini validi, ma anche giovani e giovinette affrontarono serenamente il martirio, per rivivere nel cielo accanto a Cristo.
Ecco il racconto di Santa Perpetua, martirizzata in una cittadina africana:
“Mentre eravamo tra i persecutori, mio padre insistette per dissuadermi. Allora gli dissi:
-Papà, vedi questo vasetto qui in terra? Potresti chiamarlo con un nome diverso dal suo?-.
-No-, rispose lui.
-Benissimo!- dissi io. -Nello stesso modo, non posso dire altro di me che sono cristiana!-“

Il cristianesimo
Gesù, prima di essere condannato alla crocefissione, aveva affidato ai suoi apostoli un compito bello ma difficile: “Andate, dunque, e predicate a tutte le genti, battezzandole nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo”.
Gli apostoli avevano ascoltato le parole del loro Maestro ed erano andati in ogni parte dell’Impero ad insegnare le nuove verità: Dio è uno solo ed è padre amoroso e giusto di  tutti gli uomini, tutti gli uomini sono uguali dinanzi a lui e sono fratelli fra loro.
A Roma, accanto all’antica religione, si erano diffusi culti, riti, superstizioni nati nelle più lontane regioni dell’Impero. I Romani avevano sempre rispettato queste nuove credenze, ma il Cristianesimo era una forza nuova e il governo di Roma ne provava timore; i Cristiani rifiutavano di adorare come un dio l’Imperatore. I patrizi erano serviti da migliaia di schiavi, considerati come esseri inferiori, al pari di bestie e di cose, e il cristianesimo parlava di fratellanza e di uguaglianza.
La nuova religione si diffuse rapidamente e trovò i primi fedeli tra gli schiavi, tra le serve e le nutrici delle case patrizie, tra i poveri e i sofferenti. Quasi tutti gli imperatori se ne preoccuparono e perseguitarono i cristiani. Molti morirono crocefissi, divorati dalle belve, decapitati.
Si organizzavano veri spettacoli nei circhi e si assisteva soltanto a stragi di cristiani. Essi furono detti martiri, cioè testimoni della loro fede.
Le idee non possono essere spente nel sangue: per ogni cristiano che moriva, cento altri si convertivano alla nuova fede. E poichè non potevano pregare e celebrare apertamente i loro riti, si nascondevano in profonde cave abbandonate nei dintorni di Roma: lì assistevano alla messa, ascoltavano le prediche, seppellivano i morti. Quelle cave si dissero catacombe e, negli anni più difficili, accolsero e protessero migliaia di fedeli.

Un’adunata notturna di Cristiani nelle catacombe a Roma
Allora tutta quella moltitudine di cristiani, nel sotterraneo rischiarato dal chiarore delle fiaccole, intonò un inno, dapprima a bassa voce, poi a voce sempre più alta… Quell’inno sembrava una preghiera, triste ed umile ad un tempo, di liberazione dal pericolo e dalle tenebre. Pareva che gli occhi, rivolti ad una meta lontana, e le braccia tese vedessero e supplicassero qualcuno.
All’inno seguì un istante di silenzio… Tutti sollevarono istintivamente  gli sguardi. Un vecchio, ravvolto in un mantello, ma col capo scoperto, montò su una pietra che stava accanto al fuoco. Tutti si inchinarono. Delle voci mormorarono: “Pietro… Pietro…”. Alcuni si posero in ginocchio, altri stesero le mani verso l’apostolo, e il silenzio divenne così profondo che si sarebbe potuto udire lo stridere dei tizzi arsi che cadevano dalle fiaccole, il rumore dei carri sulla via lontana e lo stormire dei pioppi nel cimitero lievemente agitati dalla brezza della sera.
Pietro cominciò a parlare: narrava la morte e la resurrezione di Cristo. Gli ascoltatori trattenevano il fiato per non perdere sillaba, ed il silenzio si fece ancora più solenne.
Quell’uomo aveva visto! Egli raccontava come persona, nella cui memoria era impressa ogni minima circostanza, e gli bastava chiudere gli occhi per rievocare quella visione.

Il piccolo schiavo
La fila dei prigionieri procedeva silenziosa sotto la pioggia. Erano stati catturati nella lontana Dacia e, a marce forzate, dovevano raggiungere Roma: avrebbero seguito incatenati il cocchio dell’imperatore nella sfarzosa sfilata trionfale.
I prigionieri erano tutti guerrieri. Alcuni di loro portavano ancora brandelli della tenuta di battaglia: chi un bracciale, chi gli schinieri, chi addirittura il pettorale della corazza.
In mezzo a loro, vestito di una corta tunica, un ragazzo: Lucio.
Quando la sua terra era stata invasa, s’era trovato in mezzo ad un gruppo di fuggiaschi in preda al panico. Aveva proceduto con loro per un giorno e una notte, finchè s’era imbattuto in questa schiera di prigionieri, tra i quali aveva scorto gente del suo paese. I soldati di guardia avevano tentato di allontanarlo, ma poi avevano lasciato che seguisse il gruppo.
E Lucio faceva del suo meglio per arrancare col suo passo, ma era stanco, molto stanco.
Al tramonto si fermarono in una stalla abbandonata. I soldati distribuirono un magro pasto e ordinarono loro di cercarsi un giaciglio sulla paglia per passare la notte.
Ma era tanta la stanchezza, il dolore alle gambe e il bruciore ai piedi, che Lucio non riusciva a prendere sonno.
Si guardò intorno: tutto buio. Solo là, in fondo, un rettangolo appena visibile, la porta: su di essa si disegnava l’ombra del soldato di sentinella.
Lucio osservò a lungo il profilo; lo riconobbe: era Marco, uno dei pochi buoni soldati che li accompagnavano, il quale gli sorrideva spesso; qualche volta, di nascosto, gli aveva regalato del cibo.
Lucio si alzò. Al lieve fruscio della paglia, Marco volse il capo verso l’interno della stalla. Nel buio vide biancheggiare la corta tunica di Lucio.
“Lucio, che fai?”
Il ragazzo non conosceva la lingua di Marco, e non rispose: andò a sederglisi accanto. Da vicino si potevano scorgere il volto: si sorrisero. Rimasero così seduti fianco a fianco, senza parlare.
Lucio guardò il cielo: aveva smesso di piovigginare, e qua e là si scorgeva tremolare qualche stella. Si segnò una piccola croce sulla fronte e si mise a pregare in silenzio.
Il soldato aveva scorto il segno. Gli toccò una spalla e, sottovoce, gli chiese: “Sei cristiano?”
Lucio alzò gli occhi. Non conosceva il linguaggio di Marco, ma la parola “cristiano” l’aveva compresa: fece cenno di sì col capo, poi con un dito disegnò una croce sulla sabbia.
A Marco si schiarì il volto e, col grosso indice, disegnò vicino alla croce un pesce.
Anch’egli era cristiano. Sorrisero contenti; poi Marco si guardò intorno: tutti dormivano. Allora si alzò e si pose in ginocchio. Lucio lo imitò. Sentinella e prigioniero, gomito a gomito, pregarono a lungo, ciascuno nella sua lingua, ma insieme.

L’incendio di Roma
Nell’anno 64 dopo la nascita di Gesù, mentre era imperatore Nerone, scoppiò a Roma un terribile incendio che durò nove giorni. Non si seppe mai la vera causa del disastro, ma corse voce che lo stesso Nerone, di cui si conoscevano le pazzie e i delitti, l’avesse voluto per ricostruire la città secondo i suoi gusti. Nerone incolpò i cristiani.
Vennero imprigionati tutti quelli che si sapevano seguaci di Cristo e mandati al supplizio come incendiari. Tra gli altri, subirono il martirio anche gli apostoli Pietro e Paolo. Questa fu la prima persecuzione.

Un processo ai cristiani sotto l’imperatore Antonino Pio
Introdotti che furono i cristiani e presentati al tribunale, il prefetto Rustico disse a Giustino: “Prima di tutto obbedisci agli dei e rendi omaggio all’imperatore”.
Giustino: Cosa santa è l’obbedire ai comandamenti del nostro salvatore Gesù.
Prefetto: Di quali dottrine vai tu discorrendo?
Giustino: Io studiai tutte le dottrine e ho prestato fede solo ai veri insegnamenti dei cristiani, anche se non piacciono ai falsi filosofi.
Prefetto: E a te, miserabile, piacciono questi discorsi?
Giustino: Sì, perchè li seguo con animo disposto ad accogliere verace dottrina….
Prefetto: Veniamo ora alla questione che bisogna sbrigare. Fatevi avanti tutti insieme, e tutti insieme fate sacrificio agli dei.
Giustino: Nessun uomo saggio passerebbe dalla religione all’empietà.
Prefetto: Se non obbedirete, sarete puniti senza remissione.
Giustino: Le nostre preghiere ci ottengono di giungere a salvezza per mezzo dei tuoi castighi; perchè questi saranno a noi scampo e conforto dinanzi al tribunale del nostro Signore e Salvatore, tribunale più terribile di questo e al quale compariranno tutti gli uomini del mondo.
Tutti gli altri cristiani dissero: Fa’ ciò che vuoi. Noi siamo cristiani, non sacrifichiamo agli dei.
Il prefetto Rustico pronunciò la sentenza: “Costoro che non vogliono sacrificare agli dei nè sottomettersi al decreto dell’imperatore, siano flagellati e condotti al supplizio, e scontino la pena di morte per decapitazione a norma del procedimento legale”. (dagli Atti dei Martiri, trad. S. Colombo)

Il martirio di San Pancrazio
Ritto e immobile nel mezzo dell’arena, il giovinetto pregava con le braccia piegate sul petto a forma di croce. Ed ecco i leopardi correre verso di lui, ruggendo. Ma che cosa accadeva? Le belve gli si avvicinarono, gli fecero ressa intorno, mandarono paurosi ruggiti, ma non gli recarono la minima offesa.  Il martire sembrava posto in mezzo ad un cerchio magico, a cui le belve non potevano avvicinarsi.
Gli fu mandato contro un toro infuriato: esso corse verso di lui a testa bassa, con impeto, ma improvvisamente si arrestò, muggendo e percuotendo con lo zoccolo il terreno.
“La pantera!” gridò allora una voce.
“La pantera! La pantera!” ripeterono mille altre voci in coro.
Apparve una gabbia: si spalancò e la fiera balzò nel mezzo dell’arena.
Benchè lungamente irritata dall’oscurità della prigionia e dal digiuno, cominciò a saltare e a correre intorno, come volesse giocare. Alla fine scorse la preda e le si avvicinò piano piano, con tutta la grazia dei suoi movimenti felini.
Pancrazio stava sempre fermo al suo posto, di fronte all’imperatore.
La pantera misurò, per un attimo, la distanza, mentre tutti trattenevano il respiro; poi, dato un ruggito, spiccò un salto e fu con le fauci strette alla gola del martire.
Pancrazio rimase per un istante in piedi, portò la mano destra alle labbra, poi cadde, e i suoi occhi si chiusero nel sonno del martirio. (E. Sienkiewicz)

La Chiesa
Le violenze non riuscirono a cancellare il cristianesimo dall’Impero. La Chiesa Cristiana, anzi, si organizzò saldamente. La parola Chiesa deriva da una parola greca che significa assemblea; i cristiani di una città, infatti, si riunivano sotto la guida del Vescovo, che era aiutato dai Preti e dai Diaconi.
I primi cristiani si riunivano la domenica per pregare e, in ricordo dell’ultima cena di Gesù, si comunicavano col pane e col vino  consacrati. Le varie comunità cristiane si scambiavano notizie e consigli, e i Vescovi si riunivano a concilio per discutere i problemi della Chiesa.
Fin dai primi tempi del Cristianesimo, il Vescovo di Roma fu riconosciuto capo di tutta la Chiesa, perchè successore di Pietro, il capo che Gesù aveva scelto.

Il Cristianesimo
Il Cristianesimo, nei primi tre secoli dell’era, che ben a ragione è detta cristiana, si diffuse in tutto l’impero. I cristiani obbedivano alle leggi civili quando esse non contrastavano con le leggi di Dio, per questo furono sospettati, calunniati, perseguitati; ma seppero sempre resistere; morirono fra i tormenti, ma non rinnegarono mai la loro fede. Stupirono, impressionarono e conquistarono le folle, perchè serenamente e docilmente, anche cantando, affrontavano il martirio.

Per il lavoro di ricerca
Da chi fu diffuso il Cristianesimo nelle terre dell’Impero?
Perchè il Cristianesimo era combattuto dallo Stato romano?
Chi furono i primi cristiani?
Come si organizzò la Chiesa cristiana?
Che cosa significa la parola “chiesa”?
Dove si manifestò la prima arte cristiana?
Che cos’erano le catacombe?
Come venivano dipinte le pareti delle catacombe?
Che cosa erano i loculi?
Quali furono i simboli religiosi dei primi cristiani?
Per quanti anni furono perseguitati i cristiani?
Quale fu la prima persecuzione dei cristiani?
Chi ebbe il nome di martire?
Riuscirono le persecuzioni a sopprimere  il Cristianesimo?

Il trionfo del cristianesimo
Tre secoli dopo la morte di Gesù, al tempo dell’imperatore Costantino, i cristiani erano alcuni milioni, sparsi in tutto il territorio dell’impero. Tra essi vi erano non solo schiavi e poveri, ma anche patrizi, senatori, ufficiali , dignitari di corte.
In quel tempo lo Stato Romano aveva due imperatori: Costantino che era stato scelto dai soldati che si trovavano in Gallia; e Massenzio che era stato eletto dal Senato e dal popolo di Roma.
I due rivali decisero di combattere l’uno contro l’altro per stabilire a chi dovesse toccare l’Impero.
Costantino con il suo esercito giunse alle porte di Roma. Dice la leggenda che mentre si preparava ad iniziare la battaglia decisiva ebbe una miracolosa visione. Una grande croce luminosa apparve nel cielo. Costantino vi lesse queste parole: “In hoc signo vinces” (con questo segno vincerai).
Egli, sebbene non fosse ancora cristiano, fece subito mettere la croce sul labaro imperiale. Poi promise che, se avesse vinto, avrebbe concesso la libertà ai cristiani.
La battaglia fu combattuta presso il Ponte Milvio, sul Tevere, e Costantino riuscì vincitore. L’anno dopo emanò un editto in cui si diceva che i cristiani erano liberi di praticare la loro religione.
In onore di Costantino sorse a Roma un grande arco di trionfo e la città di Bisanzio, in oriente, chiamata oggi Istanbul, prese il nome di Costantinopoli, che significa città di Costantino.
Il Cristianesimo trionfò nel 380 dC con l’editto di Teodosio, quando fu proclamato religione ufficiale di Stato.

Costantinopoli
Nel 330 Costantino volle dare al nuovo Impero Romano Cristiano una capitale del tutto nuova e scelse Bisanzio, sul Bosforo, che egli cercò di rendere pari a una Nuova Roma (come in un primo tempo pensò di chiamarla), arricchendola di edifici e monumenti gareggianti in bellezza con quelli di Roma.
Entro le mura sorsero con straordinaria rapidità fori, portici, archi trionfali, terme, circhi e, fra le altre imponenti costruzioni, un palazzo imperiale che comprendeva un numero grandissimo di saloni con biblioteche, teatri, caserme, ecc…
L’11 maggio del 33o, con feste che durarono quaranta giorni, fu inaugurata la nuova capitale, che prese il nome di Costantinopoli. Nella piazza centrale, tra le Vittorie alate, sorgeva un’altissima colonna di porfido, di un color caldo, che ai raggi del sole vibrava. Sulla sommità di essa si ergeva la statua di Apollo, col capo radiante, simboleggiante l’imperatore, come diceva l’iscrizione: A Costantino, splendente come il Sole.
Quel sole tramontò nel 337 mentre si accingeva a una spedizione contro il re di Persia. Prima di morire Costantino ricevette dai vescovi della sua corte il battesimo, che egli, pur essendo cristiano, non aveva ancora ricevuto.

Come mai Costantino aveva costruito una nuova capitale e aveva abbandonato Roma?
L’impero romano era troppo grande per essere difeso tutto. La parte orientale, dove era stata costruita Costantinopoli era facile da difendersi, perchè protetta dal mare e dalle montagne, e più ricca. La parte occidentale, invece, cioè le terre che oggi sono occupate dall’Italia, dalla Francia, dalla Germania, dalla Spagna e dall’Inghilterra, comportava maggiori difficoltà per la difesa.

Il primo Concilio Ecumenico
Costantino fu il primo imperatore cristiano e come tale dalla chiesa ha avuto il titolo di Grande. Oltre agli innumerevoli atti di governo coi quali egli favorì in tutti  i modi la nuova religione, è da ricordare soprattutto la convocazione del Concilio di Nicea.
Era sorta una controversia di fondamentale importanza tra il vescovo di Alessandria d’Egitto, Atanasio, il quale sosteneva che Gesù fosse insieme uomo e dio, e il prete della stessa città, Ario, il quale invece sosteneva che Gesù fosse soltanto uomo.
In tutto l’Oriente cristiano le discussioni fra Atanasiani e Ariani avevano acceso e diviso gli animi, sicchè apparve necessaria la convocazione di quello che fu il primo Concilio Ecumenico (cioè riunione universale di tutti i vescovi), per fissare il dogma o verità di fede.
Il Concilio ebbe luogo nel 325 a Nicea, città della Bitinia, con la partecipazione dello stesso Costantino e di un gran numero di vescovi: fu la prima solenne assemblea della chiesa vittoriosa ed ebbe una grandiosa imponenza; la dottrina di Ario fu condannata come eretica; il dogma della divinità di Cristo e della Trinità fu fissato nel cosiddetto Simbolo Niceno o Credo.

La leggenda della croce
Narra un’antica leggenda che un giorno Adamo, sentendosi prossimo alla fine, mandò suo figlio Set a bussare alla porta del Paradiso Terrestre con l’incarico di chiedere l’olio della misericordia. Ma invece dell’olio, l’angelo gli diede un ramoscello staccato dall’albero del bene e del male. Tornato a casa, Set trovò che intanto Adamo era morto e, non sapendo che dare del ramoscello, lo piantò sulla sua tomba.
Il ramoscello crebbe e divenne un albero.
Al tempo di re Salomone, l’albero venne abbattuto e poi, siccome nessuno riusciva a farne qualcosa di buono, lo sotterrarono.
Per anni e secoli, il tronco rimase nella terra; ma ne uscì, senza che nessuno lo toccasse, proprio mentre si svolgeva il processo contro Gesù. Con quel legno, i nemici di Gesù costruirono le tre croci del Calvario e, dopo la passione, le fecero sparire.
Passarono tre secoli. Alla vigilia di una grande battaglia decisiva, all’imperatore Costantino apparve un angelo che lo invitò ad affrontare il nemico prendendo la croce come insegna. Costantino vinse.
In segno di devozione, sua madre Elena andò in Palestina e riuscì a scoprire la vera Croce di Cristo.
Un grande pittore del 1400, Piero della Francesca, raffigurò gli episodi della leggenda nella Cappella di San Francesco ad Arezzo.

Teodosio
Il cristianesimo, che sotto Costanzo e Giuliano, successori di Costantino, era stato nuovamente perseguitato, riprese tutto il suo vigore con l’imperatore Teodosio, cattolico fervente e devoto al grande vescovo di Milano Sant’Ambrogio.
Nel 380 venne emanato l’Editto con cui il cristianesimo fu elevato a religione di Stato.
“Noi vogliamo che tutti i popoli retti dalla nostra clemenza partecipino a quella religione che dal divino apostolo Pietro fu trasmessa ai Romani, che si è perpetuata sino a noi, e che è professata dal Pontefice Damaso…
Vogliamo cioè che si creda, secondo la disciplina degli Apostoli e la dottrina degli Evangeli, in un solo dio sotto la specie di pia trinità, con pari maestà del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo.
Comandiamo che chi segue questa legge prende il nome di cristiano cattolico.
Giudicando gli altri dementi e pazzi, vogliamo che sostengano l’infamia che segue a chi professa dogma eretico e che i loro conciliaboli non prendano nome di chiese.
Prima essi si attendano la vendetta di Dio, poi anche le severe punizioni, che l’autorità nostra, illuminata dalla Sapienza divina, riterrà di dover infliggere loro”.

L’impero romano d’Occidente
A poco a poco, queste due parti dell’impero si staccarono completamente l’una dall’altra. Ognuna aveva un suo imperatore. L’imperatore d’Oriente regnava a Costantinopoli. L’imperatore d’Occidente non abitava più a Roma, perchè Roma era una città troppo grande e difficile da difendersi, ma a Ravenna.
Ravenna era stata fino allora una piccola città affacciata sul mare, con un porto militare. Era circondata da paludi che la proteggevano dalle invasioni meglio di mura robuste. Per questo fu scelta come capitale. Gli imperatori, che vi abitarono, la resero splendida di palazzi e di chiese, che ancora oggi possiamo visitare.
Roma era stata abbandonata dagli imperatori e dalla maggior parte dei ricchi signori che vi abitavano.
Interi quartieri della città erano vuoti e abbandonati, ma Roma era ancora la più bella città del mondo. I suoi palazzi, le sue basiliche, le sue chiese di marmo splendevano al sole. Nelle chiese e nei palazzi erano accumulate immense ricchezze; i suoi abitanti si sentivano ancora gli uomini più potenti della terra, perchè il nome solo di Roma faceva tremare il nemico.

Sant’Ambrogio e Teodosio
Teodosio era talvolta dominato da collere violente, che sopraffacevano la sua abituale dolcezza di costumi.
Nel 390 Tessalonica (Salonicco), in occasione dei giochi di Circo, per ottenere che fosse rimesso in libertà un abile cocchiere arrestato, si sollevò.
Teodosio, che dimorava ancora in Milano, ordinò senz’altro che in Tessalonica per castigo settemila teste fossero recise.
Gli abitanti furono invitati al circo sotto pretesto di altri giochi; ma, mentre aspettavano il segnale delle corse, ecco slanciarsi fra loro la soldatesca e ferire senza misericordia e senza distinzione.
Come Sant’Ambrogio seppe a Milano di questo massacro, ne dimostò vivissimo dolore e scrisse a Teodosio, acerbamente rimproverandogli l’orribile misfatto.
E un giorno che Teodosio voleva entrare nella basilica milanese, Sant’Ambrogio, a capo del suo clero, gli andò incontro e gli vietò l’ingresso.
“Eppure” esclamò Teodosio “il re David fu assai più di me colpevole…”
“Se voi avete imitato David nel peccato” rispose l’arcivescovo “imitatelo anche nella penitenza”.
E Teodosio si sottomise al castigo della chiesa, depose gli ornamenti imperiali, confessò piangendo i suoi peccati nella basilica in presenza di tutto il popolo, e solo dopo otto mesi di penitenza fu riconciliato con la chiesa.
Alla sua morte Teodosio lasciò l’impero ai figli Arcadio e Onorio che se lo divisero: il primo governò l’Oriente e il secondo l’Occidente.

Per il lavoro di ricerca
Con quale imperatore cessarono le persecuzioni?
Perchè Costantino trasferì la capitale a Bisanzio?
Come si chiamò la nuova capitale e come si chiama oggi quella città?
Conosci la “leggenda della croce”?
Durante l’impero di Costantino a Nicea avvenne un fatto molto importante. Quale?
Perchè fu convocato il concilio di Nicea? Che cosa stabilì?
Chi era Ario? Che cosa sosteneva?
Quando e da chi il cristianesimo fu proclamato religione ufficiale dello stato?
Da chi fu incoraggiato Teodosio?
Alla morte di Teodosio, come e fra chi fu diviso l’impero?
Quale fu la capitale dell’Impero romano d’Occidente?

Cristianesimo e religioni orientali in Roma
Con le vastissime conquiste territoriali i Romani erano venuti a contatto di diverse religioni, che a poco a poco si erano diffuse anche tra la popolazione della capitale e delle province: a Roma vi erano nuclei di devoti che veneravano le divinità orientali (Iside ed Osiride, ad esempio, il cui culto era sempre vivo in Egitto) e nuclei di seguaci di nuove dottrine.
Tra queste ebbe particolare diffusione ed importanza il culto del Sole: Elagabalo era un sacerdote di questa religione siriaca, che fu accettata anche da altri imperatori (da Aureliano, ad esempio). La stessa antica religione non si era mantenuta pura: non era più intesa e praticata come al tempo della repubblica, ma aveva subito trasformazioni. Diocleziano, inaugurando la monarchia assoluta, volle unire al culto di Giove quello del Sole.
Questa trasformazione testimonia un fatto importante: l’antica religione non è più valida per tutti e molti si rivolgono al altre credenze e cercano altre fedi.
Anche per questo la diffusione del Cristianesimo fu così rapida. In principio la rivoluzione che esso implicava non fu neppure compresa. Gli imperatori del primo e del secondo secolo, tranne Nerone che perseguitò i Cristiani per motivi particolari, li tollerarono e si limitarono a intervenire contro di essi quasi solo per questioni di ordine pubblico. Nello Stato, che comprendeva popoli di diversissime tradizioni e costumi, essi erano disposti ad ammettere qualsiasi religione purchè fosse salvo il principio della necessità di prestare il culto all’imperatore, che rappresentava l’Impero. Su questo punto, invece, i Cristiani non potevano cedere e non cedettero, perchè il primo articolo della loro fede era l’impegno di adorare un unico dio. Nel terzo secolo apparve chiaramente che la nuova religione, a cui i cittadini dell’Impero aderivano in numero crescente, era pericolosa per la saldezza dello stato e ne contrastava addirittura i fondamenti.
Gli imperatori presero decisioni radicali, iniziarono violente persecuzioni e punirono con la morte coloro che si confessavano Cristiani e rifiutavano di prestare il culto all’imperatore. Avvenne con Caracalla, con Decio, con Valeriano e soprattutto con Diocleziano, che ordinò l’ultima e più terribile strage. (M. Bini)

La persecuzione contro i cristiani
Uomo fervidamente devoto alla causa della romanità, Diocleziano non poteva non difendere la religione di Stato, minacciata dal numero sempre più folto di cristiani. Nelle sue intenzioni egli voleva impedire solo con leggi severe, ma non crudeli, l’infiltrazione dei cristiani nelle carriere statali e nell’esercito. Così come aveva imposto dalla Britannia al lontano Oriente l’applicazione del diritto romano e delle leggi romane (senza tenere conto delle situazioni ambientali), della lingua e delle tradizioni latine, egli cercò di impedire il propagarsi di altre fedi, preoccupato che esse distogliessero dall’abitudine alla disciplina e all’ordine le popolazioni dell’Impero.
Istigato da Galerio, avversario fanatico dei cristiani, Diocleziano emanò a Nicodemia, il 23 febbraio del 303 dC, il suo primo editto in materia religiosa. Esso imponeva lo scioglimento delle comunità cristiane, l’incameramento dei loro beni, la distruzione dei templi e dei libri sacri; impediva le riunioni di fedeli e li escludeva dalle cariche pubbliche. La presa di posizione dell’imperatore rompeva lunghi anni di tranquillità: i Cristiani non la accettarono con la consueta sottomissione e fecero resistenza. Per protesta appiccarono il fuoco al palazzo imperiale dove in quel momento vivevano Diocleziano e Galerio, ordendo anche una congiura contro i due principi. In Siria, dove i cristiani erano numerosissimi, scoppiò una vera e propria rivoluzione fra l’esercito e i funzionari civili. Questa reazione violenta dei perseguitati spaventò l’imperatore che si arrese alle insistenze di Galerio e usò la forza. Ancora una volta però Diocleziano volle circoscrivere l’episodio: fece punire solo i responsabili dell’incendio appiccato al palazzo e coloro che avevano fomentato rivolte. Arrestò anche i vescovi e i diaconi che si rifiutavano di consegnare i libri sacri con la speranza che, privi delle loro guide spirituali, i cristiani si sarebbero rassegnati ad accettare la religione di Stato.
Questi provvedimenti vennero ordinati in un altro editto che seguì di poco il primo. Per facilitarne l’applicazione, l’imperatore, in occasione della solennità pubblica dei Vecennalia, che segnava il primo ventennio di governo dei due Augusti, emanò un’ordinanza dove annunciava che i cristiani arrestati sarebbero stati liberati se avessero rinnegato la loro religione. Per coloro che invece volevano persistere nella loro azione dilettuosa contro lo Stato il trattamento sarebbe diventato più duro.
Verso la fine del 303 dC Diocleziano si ammalò gravemente e la reggenza dell’Oriente venne assunta da Galerio, il quale ebbe finalmente via libera: per frenare le diserzioni dell’esercito, le risse ideologiche che si verificavano in tutto l’impero, il pericolo di rivolte e sedizioni, Galerio stilò un ordine di persecuzione, sottoponendolo a Diocleziano che lo sottoscrisse. Esso stabiliva che chi non avesse accettato di far sacrifici agli dei dovesse essere condannato a morte.
L’applicazione dell’editto fu molto rigorosa in Oriente, più blanda in Italia e in Occidente: l’altro imperatore, Massimiano, lasciò ai funzionari locali libertà di iniziativa; Costanzo, il Cesare di Massimiano, che non si era mai mostrato molto severo in materia religiosa, fece soltanto abbattere qualche tempio e imprigionare qualche diacono, senza però condannare a morte nessuno. La medesima politica usata contro i cristiani fu applicata da Galerio alle altre religioni. Con uguale durezza, mietendo un numero spaventoso di vittime, egli represse la setta sincretista del persiano Mani. Questa dottrina mescolava insegnamenti buddhisti e cristiani; venne avversata non solo perchè inconciliabile con l’autorità imperiale, ma soprattutto perchè proveniva dalla Persia, il paese degli implacabili nemici dei Romani.

La grande persecuzione
Diocleziano decise di dare inizio alla grande persecuzione contro i cristiani il 23 febbraio, giorno consacrato al dio Termine, quasi volesse por fine alla religione cristiana. Fu una strage enorme di cui conosciamo i raccapriccianti particolari dalla descrizione dell’apologista cristiano Lattanzio.
All’alba di quel giorno fatale il prefetto si recò nella chiesa di Nicomedia, città dell’Asia Minore che in quei tempi era una delle capitali dell’impero, accompagnato da soldati e da funzionari per cercarvi, invano, la statua del nume adorato dai cristiani. I libri sacri furono bruciato e su tutto si fece man bassa, tra la più gran confusione. I due operatori, Diocleziano e Massimiano, osservavano dall’alto del palazzo la chiesa che sorgeva verso l’acropoli di Nicomedia, e discutevano sull’opportunità di dare l’edificio alle fiamme; prevalse il parere di Diocleziano che temeva che l’incendio potesse appiccarsi anche ad altre costruzioni, danneggiando così una parte della città. Allora i pretoriani, brandendo accette e quant’altro servisse ad un’opera di distruzione, invasero l’edificio sacro e in poche ore lo abbatterono al suolo.
Il giorno seguente fu emanato un editto con cui si decretava che i seguaci della religione cristiana fossero privati di ogni carica, venissero posti alla tortura e dichiarati fuorilegge a qualsiasi categoria sociale appartenessero, in modo che non potessero neppure denunciare i delitti commessi contro il proprio patrimonio, le proprie persone e il proprio onore, e che non avessero facoltà di difendersi in giudizio.
Un cristiano, con estremo coraggio, osò stracciare l’editto, definendolo ironicamente più pretenzioso di un proclama di vittoria contro i barbari. Fu immediatamente tradotto in giudizio e condannato al rogo.

Le catacombe romane
E’ stato spesso osservato che, visitando i monumenti storici della Città Eterna qual è oggi, sembra di vedere tra Roma antica e Roma cristiana un vuoto, una lacuna che le separa. Le chiese veramente primitive andarono completamente distrutte oppure furono rifatte; sicchè i più antichi monumenti cristiani che ci rimangono sono lontani di parecchi secoli dagli ultimi monumenti pagani.
Questo lungo periodo, che non ha quasi nulla che lo rappresenti nella città come oggi la vediamo, è riempito dalle catacombe, i luoghi di sepoltura dei primi cristiani. Cinque di tali cimiteri risalgono al tempo degli apostoli; gli altri appartengono quasi tutti al secondo secolo dell’era cristiana. La zona delle catacombe, tutte sulla riva sinistra del Tevere e a circa cinque chilometri da Roma, consiste in una roccia vulcanica, il tufo; e in questo, che è facile a lavorare, sono avvenute le escavazioni. Le caracombe hanno sempre all’incirca lo stesso aspetto: un immenso labirinto di gallerie sotterranee a parecchi piani, che si tagliano ad angolo retto, qualche volta rettilinee, qualche volta tortuose. Il sostegno è formato dalle loro stesse pareti tufacee; il soffitto è quasi sempre piano; e solo in alcuni casi si ha una leggera curvatura a volta. Lo sviluppo totale delle gallerie non è inferiore ai mille chilometri, con almeno sei milioni di tombe. La catacomba era, innanzi tutto, il cimitero cristiano, ma era anche di più; perchè di fatto essa fu la vera culla del cristianesimo. Quando la plebaglia della grande capitale si dava bel tempo nelle terme, o si stancava degli orrori del circo, le prime piccole comunità cristiane, obbligate a riunirsi sotto terra, attendevano alle pratiche della loro fede accanto alle tombe dei fratelli morti.
Là, nelle tenebre, rischiarate solo qua e là da luminaria o pozzi di luce, si celebravano i riti religiosi fin dai tempi degli apostoli; e mai si parlava del fratelli e delle sorelle defunti come di morti, ma piuttosto come di persone chiamate in cielo. Questo è il segreto delle catacombe e il loro fascino. In tutto il grande mondo romano soltanto il cristiano trovava nel proprio cuore la speranza in un mondo migliore. Qui, nelle catacombe, fu per la prima volta negato il potere della morte. E il cristianesimo volle avere la prima dimora nelle catacombe, nei cimiteri dei suoi morti. (E. Huteon)

IL CRISTIANESIMO MATERIALE DIDATTICO – dettati ortografici e letture. Tutte le opere  contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.

I COMUNI materiale didattico vario

I COMUNI materiale didattico vario per la scuola primaria.

I Comuni: una nuova civiltà
Le prime città italiane che divennero libere e ricche furono le città marinare. In seguito però anche nei borghi lontani dal mare si fece strada una nuova civiltà.
Nella campagne i contadini, con nuovi metodi di coltivazione, riuscivano a produrre raccolti più abbondanti, la cui vendita permetteva loro di comprare presso gli artigiani delle città le merci necessarie a rendere meno difficili le loro condizioni di vita. Così il benessere delle campagne influì direttamente sullo sviluppo delle città dove artigiani e mercanti, con la crescente richiesta delle loro merci, trovarono nuovo interesse al lavoro e alla produzione.
Molti servi della gleba lasciarono i villaggi per trasferirsi nelle città, che diventarono a poco a poco più grandi, più belle, più ricche.
Dai loro castelli i feudatari guardavano preoccupati questo improvviso risveglio di vita creato dal lavoro e vedevano diventare potenti non uomini d’armi, ma i pacifici mercanti, i banchieri, gli artigiani.

La nascita dei liberi Comuni
A poco a poco le città si sottrassero al dominio dei feudatari ed acquistarono l’indipendenza. Dapprima affidarono la protezione dei loro diritti ai vescovi, poi si liberarono anche della loro influenza e si governarono da sole.
Nacquero così i liberi Comuni italiani, piccoli Stati indipendenti.
Il Comune era retto da due o tre consoli che venivano eletti per la durata di un anno. Più tardi furono sostituiti da un podestà, chiamato da fuori perchè governasse con maggior giustizia. I consoli e i podestà erano aiutati da pochi cittadini che formavano il Consiglio minore e maggiore.
Quando si doveva prendere una decisione importante, tutti i cittadini si raccoglievano in parlamento davanti al Palazzo del Comune.

La vita nella città comunale
La città comunale era circondata da torri, chiusa da porte, ma non risuonava solo dei passi dei soldati come il vecchio castello. Essa infatti era piena delle voci degli artigiani e dei mercanti intenti al lavoro. Questi ultimi, arrivati con i loro carri nella piazza del mercato, esponevano ogni sorta di merci.
Dalla piazza del mercato, che era anche la piazza dove si teneva il parlamento, si irradiavano tutte le strade della città: la via degli orafi, dove avevano le loro botteghe i maestri nell’arte di cesellare i metalli preziosi; la via degli armaioli, dove erano i fabbricanti di lance, corazze e scudi; la via dei lanaioli, dove erano i mercanti che vendevano la stoffa; e ancora la via dei cuoiai, degli speziali, dei falegnami, dei pentolai, dei cambiatori, dove si cambiavano le monete.
Tutti coloro che esercitavano la stessa professione erano riuniti in associazioni chiamate corporazioni, che fissavano i prezzi delle merci, il metodo di lavorazione, il numero degli operai che potevano lavorare in una bottega, la durata del lavoro giornaliero.
In questo modo il lavoro era ben disciplinato e tutti potevano vivere meglio.
A poco a poco la città diventò così ricca che poteva prestare denaro a principi e a re. I mercanti e gli artigiani offrivano il proprio denaro ai consoli perchè chiamassero architetti e pittori famosi ad abbellire i pubblici palazzi.
Una voce era rimasta fuori della città: la voce del corno che dava l’allarme nel castello o che risuonava nel bosco durante le cacce, la voce della dominazione feudale.
Al suo posto si udiva la campana che chiamava con con gioia se era tempo di festa, con ansia se la città era minacciata. Allora tutti accorrevano davanti al Palazzo del Comune, per armarsi e difendere la piccola e amata città.

Per il lavoro di ricerca
Come e quando nacquero i liberi Comuni?
Chi li guidò dapprima? E in seguito?
Quali furono i maggiori Comuni italiani?
Quale Comune si distinse per la sua potenza e magnificenza?
Che cosa era il parlamento?
Quali cittadini facevano parte del “popolo grasso” e del “popolo minuto”?
Vissero sempre in concordia fra di loro i Comuni?
Chi erano i Guelfi e i Ghibellini?
Come era la vita pubblica ed economica?
Come era l’aspetto di una città nell’età comunale? Come erano le case dell’epoca comunale?
Quando nacque la nostra lingua?
Quali grandi uomini vissero nel periodo comunale?
Quali “arti” e “mestieri” si svilupparono particolarmente durante l’età comunale?

Sorge il Comune
Nelle campagne deserte, fra le immense foreste, lungo i fiumi, nelle vaste piane malsane per gli acquitrini che qualche solerte ordine monastico tentava appena di risanare, la vita era triste e pericolosa.
Nelle città si era più sicuri.
Vi erano buone e salde mura e le porte, sprangate la notte e sorvegliate da scolte (sentinelle), permettevano un tranquillo riposo dopo la giornata laboriosa.
Perchè nelle città si lavora.
Le milizie hanno bisogno di armi  e armature. Si sviluppano i commerci e le industrie.
Palazzi, fortezze, monasteri e chiese richiedono maestranze provette, artigiani del legno, del ferro, della pietra, dei laterizi.
Le corti hanno bisogno di ricche stoffe per gli abbigliamenti degli uomini e delle dame, le chiese si adornano di paramenti preziosi.
A Colonia, Norimberga, Milano, Brescia risuonano le incudini delle mille fucine degli armaioli; i piccoli signori di campagna preferiscono alla sede deserta e mal difendibile del castelletto, il palazzo in città su cui s’erge la torre.
Gli interessi si moltiplicano al di fuori della vita dei signori e degli ecclesiastici: amanuensi e notai, maestri di arti guadagnano denaro col loro lavoro; e guadagnano, arricchendosi, i mercanti audaci che per le lunghe vie di terra e di mare tessono la rete profittevole dei loro scambi.
A Genova, a Venezia, a Pisa gli armatori, padroni di navi da traffico, sono una casta nuova ricca di denaro liquido, difficile a controllare e a taglieggiare; con essi i signori, i vescovi, l’imperatore stesso dovranno venire a patti se vogliono avere tributi od aiuti, e in cambio di questi offrono franchigie e libertà.
Sorgono così le città che si governano da sè, con magistrati locali, scelti per la libera elezione dagli uomini che lavorano; sorge il Comune.
Un ricordo remoto di romanità, mai spento per trascorrere di secoli, dà ai reggitori del Comune il nome famoso di consoli.
Sulla fine dell’XI secolo, nell’Italia settentrionale, fra il disordine e l’assenza dei governi imperiale e regale, appare consolidata la vita dei Comuni.
Uno scritto del 1093 accerta l’esistenza di un governo comunale a Biandrate,  presso Novara; certamente nella stessa epoca Milano, Lodi, Crema, Cremona, avevano ormai la loro costituzione comunale. (E. Momigliano)

I maggiori Comuni italiani
Alcuni Comuni si svilupparono maggiormente, sia per la loro posizione che per l’operosità dei loro abitanti.
Milano fu famosa per l’abilità dei suoi artigiani nel fabbricare armi e corazze, richieste da principi e sovrani di tutta Europa; Venezia fu celebre per la lavorazione del vetro, arte appresa da operai di Bisanzio; Firenze fu nota per i suoi tessuti di lana e di seta; Pisa per la fusione delle campane; Pesaro, Urbino e Gubbio per le loro stupende ceramiche; Lucca per i ferri battuti.

Il governo del Comune
E’ naturale che dapprima prevalessero nel Comune i nobili, proprietari di terre, e i valvassori: i mercanti e gli artigiani erano ancora poco numerosi e poco autorevoli. Infatti, i magistrati posti a capo della città e detti romanamente consoli, furono fin verso la fine del secolo  XII sempre nobili. Duravano in carica generalmente un anno, avevano il potere esecutivo, militare e giudiziario, erano assistiti da un Consiglio minore o degli Anziani (Senato). Ma quando si doveva decidere su questioni molto importanti, si convocava tutto il popolo. Questa adunanza generale nella piazza principale o arengo si chiamava Parlametno o Concione.
La borghesia, cresciuta di numero e di potenza, ambì, un certo momento, di impadronirsi del potere.
Dopo un periodo di contrasti e di torbidi, i consoli furono sostituiti da un magistrato nuovo, il podestà. Il podestà era quasi sempre uno straniero, che veniva invitato a governare per uno o due anni il Comune. Non avendo ne amici ne parenti ne interessi particolari da difendere nel Comune, il podestà straniero dava garanzie di poter governare con rettitudine e senza fare favoritismi. Il sistema dei podestà rimase in uso per tutto il secolo XIII, ma neppure questo riuscì ad eliminare le discordie fra i cittadini.
Per stroncare con la forza le ribellioni, allora si decise di affidare il Governo a un uomo solo, energico, capace di far rispettare su tutti la sua volontà. Per questo compito si scelse il Capitano del Popolo, cioè un condottiero esperto nelle faccende militari e dotato di grande popolarità fra i soldati. Nelle mani dei Capitani del Popolo, i Comuni ritrovarono la pace e l’ordine, ma perdettero la loro libertà. Infatti il condottiero finì con il governare da solo, sopprimendo ogni diritto dei cittadini. Finiva così l’età dei Comuni e cominciava quella delle Signorie.

Il Parlamento
I capi delle Corporazioni, riuniti insieme eleggevano il capo del Comune. Tutti insieme fissavano le tasse da pagare e le opere pubbliche da realizzare.
Per le decisioni importanti veniva convocato a parlamento tutto il popolo. Ogni cittadino era anche soldato. Sorsero le mura e i fossati intorno alle città.
Ai feudatari non restava che una scelta: lotta senza quartiere contro il Comune, oppure inserirsi attivamente nella vita di esso.

Popolo grasso e popolo minuto
Come sempre succede, anche nel Comune i cittadini non avevano tutti la medesima ricchezza. C’erano i nobili, i grandi commercianti, i notai, i banchieri e in genere coloro che possedevano grandi ricchezze: questi formavano il cosiddetto popolo grasso, che in pratica riusciva ad accaparrarsi le cariche più importanti del Comune.
Il popolo minuto era  invece formato dagli artigiani, da coloro che lavoravano alle dipendenze altrui, dai poveri in generale. Ma anche se non disponeva di ricchezza materiale e non poteva accedere facilmente alle cariche pubbliche più alte, il popolo minuto non era composto di servi. Anche il più povero dei cittadini era un uomo libero, che poteva partecipare al Governo in modo attivo prendendo parte alle riunioni dell’Assemblea o Parlamento o Arengo (a seconda delle città).

Le guerre del Comune
Praticamente ogni primavera l’esercito comunale, composto dai cittadini e guidato da un Console, usciva dalle mura e compiva incursioni guerresche nei territori vicini. L’obiettivo principale di quelle azioni belliche era molto spesso rappresentato dai vari castelli feudali, che minacciavano costantemente la libertà e l’autonomia del Comune. I cittadini aggredivano il castello, sopraffacevano la guarnigione e costringevano il feudatario a trasferirsi in città oppure a concedere un solenne riconoscimento dell’indipendenza del Comune. Così a poco a poco il Comune ingrandiva i propri possedimenti territoriali, ed eliminava i suoi nemici più pericolosi.
Molto spesso, poi, i Comuni facevano guerra fra loro. La posta in palio era rappresentata da una strada, un fiume, un territorio particolarmente ricco: la floridezza del Comune derivava in grandissima parte dalla sua attività commerciale, e tutto ciò che poteva favorire i traffici doveva entrare in possesso dei cittadini. Allo stesso modo, infine, era necessario eliminare i concorrenti, cioè i Comuni diventati troppo potenti.
Ma intanto si profilava una nuova, gravissima minaccia per i liberi Comuni: l’imperatore. Questi cominciava a rivendicare il possesso di quelle città che gli erano appartenute e che ora erano diventate tanto floride. Poichè i cittadini non intendevano assolutamente cedere le armi di fronte  alle pretese dell’imperatore, una durissima, decisiva lotta si annunciava imminente.

Vita comunale
Le città feudali sorgevano di solito in luoghi elevati, presso incroci di strade importanti, lungo fiumi navigabili o non lontano dalle frontiere. Attorno alle mura del castello feudale o del monastero fortificato si erano lentamente sviluppati i commerci e le modeste industrie dei cittadini o borghigiani.
Quando cessarono le scorrerie barbare, l’attività fuori dalle mura castellane crebbe,  le botteghe si moltiplicarono e i mercanti e gli artigiani, che prima non abitavano stabilmente in città, vi si stabilirono definitivamente. La popolazione che viveva fuori del castello costruì a propria protezione una seconda cinta di mura.
Il Comune batteva moneta, stabiliva e sorvegliava i lavori pubblici, costruiva strade, ponti e canali, pavimentava le principali vie della città, disponeva il rifornimento dei generi alimentari, proibiva l’accaparramento, la compera all’ingrosso o l’incetta, favoriva il diretto contatto tra venditori e compratori ai mercati e alle fiere, esaminava pesi e misure, ispezionava le merci, puniva l’adulterazione delle derrate, controllava esportazioni e importazioni, immagazzinava grano per gli anni magri, in caso d’emergenza forniva grano a buon mercato, fissava i prezzi dei generi alimentari di prima necessità. Quando il prezzo di una derrata desiderabile era fissato troppo basso e ci si accorgeva che la produzione ne soffriva, allora il Comune lasciava che i prezzi di quella determinata merce trovassero il loro equilibrio mediante la concorrenza; ma con corti o assise del pane e della birra manteneva la vendita al minuto in costante relazione con il costo del grano e dell’orzo. Pubblicava periodicamente una lista di prezzi e riteneva che ogni merce dovesse avere un giusto prezzo che tenesse conto del costo del materiale e delle ore di lavoro. (W. Durant)

Gli artigiani
Gli artigiani erano uomini semplici e laboriosi. Andavano sbarbati, ma tenevano i capelli lunghi, a zazzera. In capo portavno un berrettino a cono o a papalina. Indosso un farsetto stretto alla vita da una cintola di cuoio. Portavano calze lunghe di panno, con la suola di cuoio, chiamate calze solate. Le scarpe erano usate soltanto per i lunghi viaggi. I vestiti non avevano tasche e tutto veniva portato in cintola, mediante fermagli: borse, pugnali, oggetti vari. Lavoravano dall’alba al tramonto e dopo il lavoro si raccontavano novelle e storielle.

Le donne filavano, tessevano, cucivano, facevano il pane, mettevano l’olio nelle lucerne. Anch’esse, dalla mattina alla sera, non facevano che lavorare. Vestivano molto semplicemente, con un vestito ripreso alla vita dalla cintura di cuoio, e sotto di questo una gonna più chiara, chiamata sottana. In testa un panno di lino e ai piedi le pianelle.

Le case nel centro della città, strette fra loro, erano altissime e si chiamavano case-torri. In ogni casa c’era l’occorrente per la vita: il pozzo per l’acqua, la cantina per il vino, il forno per il pane, l’orciaia per l’olio, la stalla per il cavallo, il telaio per il panno. Pochissime case avevano le finestre coi vetri. Di solito le finestre erano chiuse con panni bianchi, imbevuti d’olio perchè fossero più trasparenti. Anche oggi le parti delle finestre si chiamano telai e impannate.
Il mobilio era scarso. Qualche panca, poche panchette, alcuni cassoni pieni di biancheria e vestiti. Per difendere la lana dalle tignole si metteva nei cassoni molto pepe. Le armi stavano in un mobile chiamato armario, da cui è venuto il nome armadio.
Si viaggiava o a piedi o a cavallo. Soltanto allora si portava un cappello di feltro a larghe tese, con un cordone annodato sotto il mento. Quando non pioveva o il sole non bruciava, il cappello veniva gettato dietro le spalle. (P. Bargellini)

La vita economica
Dopo la vittoriosa affermazione di Legnano, la vita dei liberi Comuni italiani cominciò ad espandersi in tutta la sua esuberanza.
I mercanti e gli artigiani si associarono sempre più numerosi in corporazioni delle Arti: vi erano le Arti Maggiori e le Arti Minori (con a capo di ciascuna un priore), a seconda dell’attività esercitata. Ciò facevano, e gli uni e gli altri, per la tutela dei propri interessi, ma erano mossi anche dall’amore verso la patria, dal desiderio di renderla più forte, più ricca, più splendida.
Le industrie fiorirono e diedero impulso ai commerci: a Firenze fiorì l’industria della lana; a Bologna quella della seta; a Genova e a Zoagli quella dei velluti; a Murano quella dei vetri; a Faenza quella delle stoviglie; a Milano quella delle armature; da per tutto quelle del cuoio e delle pellicce, oltre agli arsenali di Venezia e di Genova, pieni di navi in costruzione.
I mercanti italiani percorsero l’Europa vendendo materie lavorate e comprendo materie grezze; aprirono le prime banche pubbliche, come il Banco di San Giorgio a Genova, e divennero i primi banchieri del mondo, come i Medici, i Peruzzi, i Bardi, grandi mercanti fiorentini che avevano banche in tutte le principali città d’Italia e d’Europa.
I banchieri lombardi dominavano il mercato del denaro fino in Inghilterra, e lombardo divenne sinonimo di italiano. Perfino i più potenti re d’Europa si rivolgevano ai banchieri italiani per avere grossi prestiti di denaro. Furono inventati allora i principali strumenti bancari, come la cambiale, la scrittura doppia e la società dei assicurazioni.
Riapparve in circolazione la moneta d’oro, scomparsa da parecchi secoli ormai dall’Europa impoverita con le invasioni barbariche: si coniarono il fiorino di Firenze, lo zecchino di Venezia, il genoino di Genova, ecc…; e poichè ogni città aveva il suo sistema monetario, ebbe inizio l’attività dei cambiavalute e dei banchieri. Famosi tra essi i  banchieri fiorentini, lombardi e genovesi.

Arti e mestieri
Le città sono piene di artigiani che lavorano con grande bravura il ferro, il cuoio, il legno, che tessono e colorano belle stoffe di  lana e di seta. I fabbri lucchesi  sono maestri a tutti: anche i più comuni oggetti, una chiave, una cancellata, un portastendardi, paiono opere d’arte.
Famosi fonditori di campane sono i Pisani e da per tutto li chiamano perchè ormai non c’è chiesa o palazzo del Comune senza campane.
Brescia e Milano, invece, hanno rinomanza in tutta Europa per le fabbriche d’armi.
I setaioli lucchesi, fiorentini, milanesi, non hanno nessuno che possa star pari a loro. E’ un’arte venuta dalla Sicilia in Toscana e dalla Toscana passata ad altri luoghi.
Anche nell’arte della lana sono maestri i Fiorentini. Importano dall’estero panni rozzi e li restituiscono che sono una meraviglia.
E le maioliche di Gubbio, di Urbino, di Pesaro, di Faenza? Nessun Paese al mondo ne dava di così belle ed apprezzate: colo rosso, color oro, color azzurro, color perla.
Altre arti fiorivano a Venezia. E innanzi a tutte l’arte del vetro, arte famosa, arte veneziana di Murano, portata  là da operai di Bisanzio e di Ravenna. Nell’isoletta di Burano invece, le donne lavoravano merletti e trine leggere e vaporose.
Dove non andavano allora gli italiani? I mercanti e i banchieri , anche di piccole città come Prato, si potevano incontrare in Francia, in Inghilterra, in Polonia, nella Spagna.
Molti di essi si arricchivano; e la ricchezza acquistata veniva spesa per adornare le città con belle chiese e begli edifici.

La bottega
Nel Medioevo non esistevano grandi fabbriche: il lavoro e la produzione erano concentrati nelle botteghe artigiane. Vi lavoravano il maestro, i suoi soci e i suoi discepoli, che potevano anche essere i figli o i parenti del maestro, e mentre apprendevano il lavoro non ricevevano alcun salario. Anche i pittori e gli scultori avevano la loro bottega e i loro discepoli. Arti e mestieri si tramandavano di padre in figlio. La bottega era una famiglia più grande. Padroni e dipendenti mangiavano alla stessa tavola, dormivano tutti nello stesso stanzone. Le botteghe di un certo tipo erano concentrate nello stesso quartiere, spesso nella stessa via, che prendeva nome dall’arte che vi si praticava.
Nelle nostre città molti di quegli antichi nomi sono rimasti sulle targhe delle vie moderne: a Milano, per esempio, c’è ancora via degli Orefici, c’è via dei Mercanti; a Firenze via dei Calzaioli, ecc…; a Roma via dei Sediari, via dei Chiavari, via dei Giubbonari ecc… Qualche volta il nome della via preesisteva. Così per esempio a Firenze, in via di  Calimala si concentravano i tintori di stoffe francesi o inglesi e la loro associazione, dal nome della via, venne detta arte di Calimala.

Nel Medioevo gli artigiani non dovevano avere segreti
Molte città italiane hanno vie che traggono il nome di una qualche attività artigiana: via degli Orefici, via dei Carradori, via degli Spadari, e così via. Questo perchè nel Medioevo gli artigiani di una stessa corporazione abitavano il più delle volte nella stessa via. Qui le botteghe si stipavano. Erano viuzze in cui la luce penetrava difficilmente e il sole mai. E questa era una ragione per cui gli operai lavoravano vicino alla finestra. Ma un’altra ragione è che non si permetteva agli artigiani che avessero segreti: l’orafo o il fabbro dovevano avere fucina in bottega, lo scudaiolo doveva limare e tornire il rame solo sul banco presso la finestra. Nulla doveva essere nascosto agli occhi di chi passava o di chi voleva controllare.

Il popolo e i nobili
Tutto questo meraviglioso rigoglio di vita fu opera soprattutto del popolo lavoratore.
Accanto al popolo intraprendente e geniale viveva la classe dei cosiddetti nobili, trasferitisi dai loro castelli nelle città, con la stessa superbia e lo stesso spirito di violenza e di sopraffazione dei tempi feudali. Giravano costoro sempre armati e abitavano foschi palazzi merlati muniti di alte torri, da cui eran sempre pronti a gettar ferro e fuoco sugli assalitori.
Il popolo celebrava i suoi giorni di festa con cerimonie religiose e processioni solenni in onore del Santo Patrono, a cui si aggiungevano talvolta rappresentazioni di misteri riproducenti scene della passione di Cristo o episodi della vita dei Santi, da cui trasse le prime origini il nuovo teatro.
I nobili invece si trastullavano ancora in tornei, giostre, caroselli, quintane e in simili spettacoli di antico carattere feudale, a cui pure accorreva la folla curiosa.
Spesso però le rivalità e gli odi tremendi tra le famiglie dei grandi, i contrasti violenti tra le fazioni politiche (famose quelle dei Bianchi e Neri a Firenze) o le insurrezioni della plebe esasperata funestavano la fervida vita comunale, esplodendo talvolta in vere e proprie battaglie cittadine. Queste continue risse sanguinose, che spargevano il lutto e perpetuavano gli odi tra le famiglie, corruppero con l’andar del tempo le istituzioni comunali preparando le condizioni per l’avvento di un signore assoluto, unico moderatore della cosa pubblica.

L’arte e la vita culturale
Non solo la vita economica, ma anche la vita artistica e culturale ebbe nei Comuni italiani straordinario rigoglio.
L’architettura, nel duplice stile romanico con l’arco tondo, e gotico con l’arco acuto, popola di palazzi comunali, di duomi e cattedrali, di torri e di campanili, di case aristocratiche e borghesi le piazze delle cento e cento città d’Italia.
Nobili e borghesi, a gara, fecero sorgere con i loro contributi splendide costruzioni: ogni città ebbe il suo Palazzo del Comune, la Torre, l’Arengo, legge e chiese di bella architettura.
Tutta la penisola italiana ne è disseminata: la Basilica di Sant’Ambrogio a Milano, quella di San Marco a Venezia, le possenti cattedrali di Parma, Modena, Cremona, il Duomo di Milano, le chiese di Firenze, il Duomo di Pisa, quelli di Orvieto e di Siena, stupendi di marmi, di ori, di mosaici, di pitture.
Tutta l’arte si rinnovò per opera di grandi maestri: Arnolfo di Cambio, architetto; Cimabue, Giotto, Duccio di Buoninsegna, pittori; Giovanni e Andrea Pisano, scultori.
E rifiorì anche la cultura, fino allora chiusa nei conventi, e ora aperta a tutti nelle Università, dette Studi. Famose, in Italia, quelle di Bologna e di Pavia per lo studio del diritto romano, e l’Università di Salerno per la medicina. Furono tutte di carattere internazionale, e per i loro professori chiamati per fama da un estremo all’altro d’Europa, e per i loro studenti che si trasferivano (clerici vaganti) da un’università all’altra, ad ascoltare i professori dalla cui fama erano attirati.
A Palermo, in Sicilia, sorse la prima scuola poetica italiana, continuata poi a Bologna e condotta a maggior gloria in Firenze soprattutto da Dante.

La cattedrale
Molte città italiane possiedono cattedrali erette nel Medioevo: romaniche (con l’arco a tutto sesto, impiantato su robuste colonne) o gotiche, secondo lo stile venuto dal nord (l’arco a sesto acuto, lo slancio delle colone e delle guglie verso l’alto). A elencarle non basterebbe una scheda: da Sant’Ambrogio di Milano a San Michele Maggiore di Pavia, dal Duomo di Piacenza a quello di Modena, dal San Zeno di Verona al Duomo e al Battistero di Pisa. Questi bellissimi monumenti dell’arte e della fede sono fioriti nell’epoca dei Comuni: essi sono, anzi, monumenti alla civiltà comunale. Erano eretti a spese del popolo intero.
Generazioni di muratori, di artigiani, di architetti, di scultori lavoravano per innalzarli ed abbellirli. La popolazione intera si appassionava all’opera, ne era orgogliosa perchè era cosa sua, il segno visibile della sua unità, della sua forza, anche della sua ricchezza. Prima di allora i grandi monumenti erano sorti per iniziativa di un imperatore, per servire alla sua gloria: il popolo del Comune glorificava se stesso, con un’impresa collettiva senza precedenti e della quale anche in seguito si trovano pochi esempi nella storia. Pittori e scultori arricchirono poi le cattedrali delle loro opere d’arte.

Le Università
“Parigi è la fonte della scienza, da cui si irradiano gli acquedotti del sapere che si allungano fino all’estremità del mondo”. Così ha scritto uno studente universitario  nel 1200. L’Università di Parigi fu uno dei più importanti centri di studio del Medioevo.
In Italia, già dal decimo secolo, i Benedettini avevano a Salerno una scuola per l’insegnamento della medicina, e nell’undicesimo secolo nacque a Bologna lo Studio Giuridico (cioè una Università per lo studio delle leggi).
In seguito, l’Italia ebbe moltissime Università assai frequentate.
In tutte queste scuole superiori gli studiosi di tutte le nazionalità parlano la stessa lingua, il latino, e professano gli ideali di una medesima fede; le Università perciò sono i centri di fusione del pensiero europeo e celebrano quell’unità e fraternità dei popoli che Roma aveva preparato con la legge  e il cristianesimo con il Vangelo.

Le campane comunali
Ogni Comune aveva la sua campana che con la voce austera raffigurava il simbolo onnipresente del Comune.Tutti i cittadini accorrevano quando la campana chiamava a raccolta. Era la voce stessa del Comune. Ed ogni campana oltre a decorazioni più o meno ricche, alla data e alle raffigurazioni allegoriche, recava incise frasi di incitamento e di devozione alla patria.

L’aspetto di una città nell’età comunale
La città medioevale è quasi sempre piccola. Tra noi solo Venezia, Milano, Firenze, hanno talvolta superato i centomila abitanti; ma le altre città restano assai al di sotto.
Da principio l’aspetto delle città comunali non dovette essere molto attraente. Case basse di legno o di mattoni crudi, coperte di tegole o di paglia o di canne, addossate le une alle altre; tetti molto sporgenti e piccole finestre per lo più chiuse con impannate di tela o di carta; vie strette, irregolari, luride, dove tra i rifiuti delle case vivevano in libertà maiali e galline: ma vie già animate da mercanti e da artieri e sonanti di opere varie; botteghe aperte sulle strade, veri bazar nei quali erano esposte le cose più necessarie alla vita quotidiana. Qua frutta ed erbaggi, là carni e selvaggina, uova, vino, pesce e formaggi, più in là utensili domestici e attrezzi agricoli e armi. Qua e là, tuttavia, massicce e solide costruzioni di pietra e di mattoni, merlate e turrite, annerite dal tempo e talora dal fuoco, ricordo perenne d fiere lotte civili. E poi la chiesa col suo sagrato, dove si seppellivano i morti, specialmente i nobili e gli ecclesiastici. E infine il palazzo del Comune, pur esso merlato e turrito, e rumoroso di soldati e giudici, di notai e contabili, di consiglieri e cittadini.
Ma nel secolo XII, col nascere della ricchezza privata e pubblica, l’aspetto esteriore delle città si fa migliore; alle case di legno succedono case nuove e comode, di pietra e mattoni; cominciano a selciarsi le vie più importanti e le piazze di maggior commercio; si spazzano le vie, si restaurano le facciate delle case, si regolano le fiere e i mercati; e sorgono più fieri i palazzi del Comune, più maestose le Cattedrali, più irti i palazzotti dei signori feudali o delle famiglie nobili. Le grandi ricchezze accumulate con le industrie e i commerci permettevano, specialmente nel secolo XII, di innalzare magnifiche sedi per le arti, e logge, e chiese, e ospedali, e monumenti funebri: tanto più che gli uomini del popolo, pur essendo dediti alla mercatura e alle industrie, avevano  raffinato il gusto dell’arte. (Pochettino – Olmo)

Case dell’epoca comunale
Normalmente la casa era a tre piani e aveva una sola stanza per piano. La stanza del pianterreno serviva da sala bassa: lì la famiglia pranzava. Il primo piano era elevatissimo, come mezzo di sicurezza; è questo il particolare più notevole della costruzione. In questo piano una camera, nella quale il padrone di casa abitava con la moglie. La casa era quasi sempre fiancheggiata da una torre d’angolo, il più delle volte quadrata. Al secondo piano una stanza che probabilmente serviva ai bambini e al resto della famiglia. Al di sopra, assai spesso, una piccola piattaforma, destinata evidentemente a servire da osservatorio. (A. Saitta)

La casa – torre
Molte città italiane conservano qualche torre del Medioevo. A San Gimignano ne sono  rimaste decine. Nell’età dei Comuni, Firenze giunse ad averne fino a centocinquanta. Bologna non ne ebbe forse meno.
Queste torri non facevano parte del sistema difensivo  del Comune, che aveva le sue mura e le sue porte, ben guardate. Erano abitazioni, case-torri, in cui le famiglie più ricche e  potenti si rinserravano come in una fortezza privata.
Per passare da un piano all’altro ci si serviva di scale che, all’occorrenza, potevano essere tolte.
Nelle città le lotte di fazioni erano frequenti e sanguinose, e chi poteva si premuniva contro gli attacchi dei suoi nemici. Aver la torre più alta, poi, diventava una ragione di prestigio e, finchè i  Comuni imposero di non superare una certa altezza, le famiglie gareggiavano a colpi di piani. A San Gimignano vi mostrano ancora qualche torre più bassa e vi narrano che appartenne a una famiglia sconfitta, che dovette abbattere un piano o due per imposizione del vincitore. Sarà una leggenda, ma rende l’atmosfera di certe antiche contese familiari ed aiuta a capire che cosa furono, all’interno dei Comuni, le lotte fra Guelfi e Ghibellini, ecc… Lenta e difficile fu la nascita di una nazione italiana.

Feste comunali
Le feste religiose erano le maggiori occasioni di svago e di divertimento nelle città medioevali.
A Firenze la più grande festa dell’anno era la festa di San Giovanni, patrono della città. Essa era caratterizzata da una solenne processione, aperta dai capi del Comune, il Podestà e il Capitano del Popolo, e dai Priori delle arti. Ogni arte sfilava col suo gonfalone: era la grande parata del Comune. Le arti erano le associazioni di mestiere, le Corporazioni, di cui facevano parte tutti gli artigiani e i loro dipendenti. Non si poteva esercitare la fabbricazione e il commercio della lana se non si apparteneva all’arte dei Lanaioli.
Il medico e lo speziale appartenevano alla stessa arte. Vi erano a Firenze, sette arti maggiori e quattordici minori. Le arti dettavano legge in materia di orari di lavoro, di prezzi, di salari, di qualità della merce. Erano leggi minuziose e severissime. Alcune arti si intromettevano anche nella vita privata dei loro associati. Per esempio, proibivano al socio di prender moglie senza chiedere il permesso ai suoi compagni.
Era tutt’altro che facile passare da un’arte all’altra.
Tanto rigore non poteva impedire le disuguaglianze. I mercanti e i banchieri più ricchi divennero così forti da diventare “signori” della città.

I giochi
Accanto alle feste religiose, e talvolta in coincidenza con esse, si svolgevano nelle città medioevali giochi popolari e spettacoli che in parte sono giunti fino ai nostri giorni.
Questo non si può dire del “gioco del pallone” che si giocava a Firenze, e che è assai diverso dal nostro calcio, di cui sono stati gli Inglesi del secolo scorso a fornire le regole. Spesso però, a Firenze, l’antico gioco è rievocato con partite in costume che richiamano gran folla di turisti.
A Siena, invece, si correva il Palio delle contrade: e si corre ancora oggi con lo stesso accanimento, con le stesse sfide tra fantini e rioni, con lo stesso accompagnamento di sfilate e di bandiere.
Ad Arezzo si correva, e si corre tuttora una volta all’anno, la giostra del Saracino: cavalieri armati di lancia, a turno, si gettavano al galoppo contro un fantoccio addobbato con abiti orientali, per colpirlo in modo da farlo girare su se stesso. Altri giochi di questo genere si svolgevano in molte città italiane. Ricordiamo ancora la “partita a scacchi” che si giocava a Marostica, nel Veneto: uomini e donne in costume aveva il ruolo del re, della regina, degli alfieri e dei pedoni. Forse avreste visto una partita del genere rievocata alla televisione: ha l’aria di un elegantissimo balletto.

La prosperità di Firenze
La popolazione di Firenze, saliva a novantamila.
Erano più di millecinquecento i forestieri; si contavano ottantamila abitanti nelle terre sottoposte alla giurisdizione del Comune.
Le chiese sommavano a centodieci; ventiquattro erano i monasteri di monache con cinquecento donne; cinque le badie con ottanta monaci; tre gli ospedali con più di mille letti per poveri e infermi.
Le botteghe dell’arte della lana erano duecento e più, e facevano da settanta a ottantamila panni, dando vita a più di trentamila persone.
I fondachi dell’arte di Calimala (lavorazione dei tessuti grezzi) dei panni francesi e oltremontani erano circa venti, che facevano venire ogni anno più di diecimila panni per il valore di trecento migliaia di fiorini d’oro (il fiorino era la moneta di Firenze); che venivano venduti tutti in Firenze, senza contare quelli che si mandavano fuori.
I banchi dei cambiatori di moneta erano circa ottanta.
La moneta d’oro che si batteva era per circa trecentocinquantamila fiorini, e talora quattrocentomila.
Il collegio dei giudici era di circa ottanta; i notai seicento; i medici, i fisici, i chirurghi, sessanta; le botteghe degli speziali circa cento.
Mercanti e merciai erano tanti, da non potere sistemare le botteghe dei calzolai, pianellai e zoccolai; erano trecento e più quelli che andavano fuori di Firenze a negoziare, e molti altri maestri di più mestieri e maestri di pietra e legname.
Aveva allora Firenze centoquarantasei forni. (G.  Villani)

Il più antico dei liberi Comuni d’Italia
Un solo Comune italiano mi si trasformò in Signoria, anzi ancora sussiste nella sua interezza,  tanto da essere degno del titolo di più antico Comune d’Italia. Rimasto sempre libero, non vi fu mai potente confinante che riuscisse ad assorbirlo, nè perdette la sua autonomia quando tutti gli stati accettarono l’annessione al Piemonte durante i Risorgimento: italiano per lingua e tradizione, volle comunque restare indipendente e sovrano. Retto da un’antica costituzione repubblicana, il piccolo Comune, si trova tra Marche e Romagna, vive ancora nella fiera autonomia: è la Repubblica di San Marino.

La lingua volgare
Nei monasteri si pregava e si scriveva in lingua latina. Nei castelli si cantavano le gesta dei Paladini in lingua francese.
Nei Comuni, invece, gli artigiani parlavano una lingua nuova, che proveniva dal latino, ma sembrava rozza e corrotta. Era la lingua del volgo, cioè del popolo che non aveva studiato. Si chiamava perciò lingua volgare.
Da prima, questo rozzo dialetto era una lingua soltanto parlata. Poi venne scritta in qualche documento privato. Infine fu usata dai letterati e dai poeti.
Specialmente a Firenze, questa lingua divenne dolce e aggraziata. La usarono perciò tre grandi scrittori: Dante Alighieri, Francesco Petrarca e Giovanni Boccaccio.
Per merito loro la lingua volgare si nobilitò, divenne la lingua italiana che ancora oggi usiamo.

Guelfi e Ghibellini
Un nobil giovane di Firenze, Buondelmonte de’ Buondelmonti aveva promesso di sposare una fanciulla della famiglia Amedei. Ora avvenne che Buondelmonte, cavalcando un giorno per la città, passò davanti alla casa dei Donati, ove lo chiamò una gentildonna dal balcone, che mostrandogli la sua figliola bellissima, gli disse: “Chi vuoi prendere per moglie? Questa ti avevo serbata io”.
La vide il cavaliere e ne fu subito sì preso, che la tolse per donna, scordando l’altro parentado. Di ciò sdegnati, gli Amedei e  i parenti loro deliberarono di vendicarsi; e nel giorno di Pasqua venendo Bondelmonte d’oltre Arno su un bianco palafreno, lo assalirono ai piedi del Ponte Vecchio e lo uccisero (1215).
Per questo omicidio tutta la città corse alle armi, e le famiglie si divisero in due, le une seguendo i Buondelmonti, e le altre gli Uberti ed Amedei, e sconvolsero per molti anni la patria, tenendo quelli il partito ed il nome di Guelfi, e questi di Ghibellini. (D. Compagni)

Curiosità
Al tempo in cui i Comuni italiani vivevano isolati uno dall’altro come altrettanti stati indipendenti, si ebbero fra essi varie lotte e anche per i motivi più futili.
Ad esempio una secchia che i Modenesi rubarono a quelli di Bologna fu causa di guerra tra le due città; un ambasciatore di Firenze promise a un cardinale il suo cagnolino, ma lo promise anche a un Pisano, da cui venne guerra accanita tra le due città. Perugia e Chiusi si azzuffarono per un anello, che si diceva essere quello donato da san Giuseppe alla Madonna il giorno del loro matrimonio. Per un chiavistello si accapigliarono Anghiari e Borgo san Lorenzo.

Grandi uomini del periodo comunale
San Francesco nacque in Assisi nel 1182. Suo padre era un ricco mercante di stoffe. Trascorse la sua giovinezza in allegre brigate, partecipando alle guerre che si accendevano fra l’uno e l’altro Comune. Durante una delle sue avventure militaari, cadde gravemente malato e sentì, all’improvviso, la chiamata di Dio. Tornato in Assisi, lasciò ogni ricchezza, vestì un ruvido saio e andò predicando la povertà, la purezza di cuore, l’amore tra gli uomini e per tutte le creature.
Attorno a lui vennero molti discepoli ed egli li accolse nell’ordine dei Frati Minori.

Marco Polo. I più grandi viaggiatori del Medioevo furono i veneziani Matteo, Niccolò e Marco Polo,  figlio di Niccolò. Essi lasciarono Venezia nell’anno 1271 e giunsero, dopo anni di cammino, nella misteriosa città di Cambaluc (Pechino), dove viveva il Gran Kan, cioè l’imperatore dei Tartari. I tre veneziani furono ben accolti dall’Imperatore, che amò moltissimo Marco e lo nominò perfino governatore di una regione assai vasta. Marco potè così viaggiare e conoscere i costumi e le tradizioni di tanti popoli.
Dopo anni e anni di lontananza dalla loro città, i tre viaggiatori desideravano rivedere la loro patria. Il Gran Kan li lasciò partire, dopo averli pregati di accompagnare nel viaggio la propria figlia che andava sposa al re di Persia.
Fatta l’ambasciata, i Polo proseguirono e poi, con alcune navi, sbarcarono a Venezia. Erano così cambiati nell’aspetto e vestivano in maniera così strana che gli amici non li riconobbero.
Nell’anno 1298, durante la guerra tra Venezia e Genova, Marco rimase prigioniero. Mentre era in carcere, egli dettò a Rustichello da Pisa la storia del meraviglioso viaggio nel Catai. Nacque così il Milione, un libro bello come una fiaba.

Dante Alighieri nacque a Firenze nel maggio del 1265. Frequenti erano a quel tempo le lotte fra i partiti di una stessa città e proprio per queste lotte, Dante fu esiliato e dovette andare, quasi mendico, di corte in corte, ospite di vari Signori.
Durante l’esilio compose la sua più grande opera, la Commedia, che fu poi detta Divina, nella quale il poeta immagina di compiere un viaggio attraverso l’Inferno, il Purgatorio e il Paradiso, cioè attraverso i regni della morte, della speranza e della gloria dell’anima.
Dante morì a Ravenna nel 1321 e fu sepolto con grandi onori nella Chiesa di San Francesco.
Così lo descrisse un giorno un suo concittadino: “Fu grande letterato e dottore in ogni scienza, sommo poeta e filosofo.” Scrisse la Commedia, il poema in versi dove immaginò di essere stato nell’Inferno, nel Purgatorio e nel Paradiso, e di aver parlato con le anime che vi si trovano. In questo modo potè mettere in versi le sue cognizioni scientifiche, astronomiche e politiche.
Dante fu esiliato da Firenze perchè prevalse la fazione contraria a quella nella quale militava; ma con le sue nobili opere diede grandissima fama alla sua città. (G. Villani)

Dante e il fabbro
Dante Alighieri una volta udì un fabbro, il quale, battendo il ferro, accompagnava il proprio lavoro cantando i versi della Divina Commedia.
Per adattare quei versi al suo lavoro li allungava, li scorciava, lo storpiava. Era un vero strazio! Dante Alighieri, che si faceva prendere facilmente dall’ira, entrò nella bottega del fabbro, gettando in mezzo alla strada martelli e tenaglie.
“Perchè rovini la mia arte?” gli gridò il fabbro indignato.
“E tu, perchè sciupi la mia?”.
Il fabbro rimase interdetto.
“Io non danneggio nessuno”
“Danneggi la mia arte. Io sono l’autore dei versi che cantando alteri e storpi!”.
Se ci fosse stata l’Arte dei Poeti, Dante avrebbe potuto ricorrere ai suoi Priori. Ma quell’Arte non c’era e se il poeta volle entrare nel governo della città, dovette iscriversi all’Arte dei Medici e Spaziali.
Come speziale, fu eletto Priore nel 1300 ed entrò nel governo del libero Comune di Firenze. (P. Bargellini)

Giotto di Bondone
Giotto nacque a Vespignano nel 1266. Suo padre, di nome Bondone, era contadino e Giotto lo aiutò custodendo il gregge.
Un giorno, mentre su una pietra disegnava una pecora, passò di là Cimabue, il più grande pittore di quel tempo. Egli si meravigliò dell’abilità del pastorello e lo portò con sè a Firenze.
Ben presto Giotto superò il maestro e fu chiamato a dipingere in ogni parte d’Italia. Ad Assisi affrescò molti episodi della vita di San Francesco, a Firenze progettò il bel campanile di Santa Maria in Fiore. Morì a Firenze nel 1336.

Una buffa di Buffalmacco
Nel Trecento vissero in Firenze uomini di grandissimo ingegno: poeti e scrittori come Dante, Petrarca, Boccaccio; pittori famosi come Cimabue, Giotto e tanti altri. Con le loro opere essi dettero gloria e bellezza all’Italia e al mondo. Molti di questi artisti erano tipi bizzarri e buontemponi che amavano inventare burle sulle quali si facevano matte risate.
Anche Buffalmacco era un bravo pittore del Trecento, ma non aveva la voglia di lavorare che dimostrava invece Giotto. Gli piaceva mangiare e bere, forse perchè essendo povero mangiava e beveva sempre poco. Veniva chiamato a dipingere nei conventi, e si sa, nei conventi il cibo non è mai ne abbondante ne appetitoso.
Una volta capitò in un convento dove, quasi tutti i giorni, si mangiava cipolla. Al pittore la cipolla piaceva poco, e quando si vedeva portare quel piatto storceva la bocca.
Ma come dire al Padre Guardiano che quel cibo non gli andava a genio? Pensò allora di fare una burla e si mise a disegnare tutte le figure di schiena, con le facce che non si vedevano.
Il Padre Guardiano, che tutti i giorni si recava a vedere come procedesse il lavoro di Buffalmacco, notò la cosa e chiese all’artista: “Come mai non fate le figure da quest’altra parte, con la faccia rivolta in fuori, in modo che si possano vedere i volti dei personaggi?”
“Caro Padre” rispose serio il pittore “le disegno rivolte in qua, ma poi, mentre dipingo, essi si rigirano e nascondono la faccia. E sapete la ragione? Perchè il mio fiato puzza talmente di cipolle, che le figure non lo sopportano, e rivoltano la faccia dall’altra parte”.
Il Padre Guardiano capì la burla e da quel giorno, invece di cipolle, fece servire al pittore altri cibi più saporiti e appetitosi.
Le figure di Buffalmacco, allora, tornarono a mostrare i loro volti dalla parte giusta! (P. Bargellini)

Vita comunale
I mezzi di trasporto sono scarsi, perciò il movimento cittadino è poca cosa. La gente va a piedi, il passaggio di un nobile a cavallo attira le comari alla finestra; scarsi i carri che si destreggiamo penosamente fra le strettoie e le tortuosità delle strade; più frequente il passare di giumente cariche di sacchi e di mercanzie. Solo il centro è animato. Nei giorni di mercato la piazza del Comune è tutta un formicolio di folla intorno ai banchi dei venditori, un vociare confuso di sensali e di compratori, mentre il cantastorie grida alto, strimpellando la sua chitarra per tirar gente, e il banditore, a suon di tromba, annuncia gli ordini del Podestà. Quando la sera cade, la campana del duomo suona il coprifuoco; si chiudono le botteghe e le case; un silenzio profondo invade le vie, immerse in un buio pauroso,  rotto solamente qua e là dal barlume di una lampada accesa davanti a una Madonnella, o dal balenio improvviso delle lanterne degli ultimi passanti. (A. Manaresi)

L’arte della lana a Firenze
Situata sull’Arno, lontana dal mare, Firenze non poteva sperare di avere una parte importante nel commercio. Perciò i suoi cittadini si dedicarono all’artigianato. Impararono l’arte della tessitura dagli orientali e la perfezionarono.
La corporazione di Calimala, cui era affidata la rifinitura e il raffinamento dei tessuti, creò nel campo della tintura un procedimento nuovo che venne tenuto gelosamente segreto.
I fiorentini riuscirono a migliorare l’apprettatura e la preparazione e in particolar modo a conferire alle stoffe una così splendida lucentezza che la loro produzione divenne presto celebre e richiesta su tutti i mercati europei.
Poichè la lana della Toscana non bastava, la si faceva venire dalla Francia, dalle Fiandre e perfino dall’Inghilterra. Giganteschi carri coperti partivano da Gand, passavano per Bruxelles, Parigi, Avignone, Marsiglia, e dopo aver superato gli Appennini arrivavano  a Firenze.
Talvolta i mercanti fiorentini facevano tessere la loro lana nelle Fiandre e in Francia; essa però veniva sempre tinta a Fireze con coloranti, soprattutto l’indaco, importati di solito dall’Oriente.
Nel 1338 esistevano a Firenze più di 200 opifici che producevano annualmente da 70 a 80.000 pezze.
Ovunque i clienti chiedevano stoffe fiorentine, perchè in tutta Europa non c’erano tessuti così perfetti. (E. Samhaber)

Così giurava il podestà di un Comune
Pur diverse nelle apparenze, sostanzialmente uguali erano le formule dei giuramenti dei podestà comunali; giuramenti che li impegnavano al rispetto delle leggi liberamente volute dai cittadini del comune.
Così, per esempio, giurava sul finire del XIII secolo il podestà di Verona:
“Nel nome di Dio onnipotente, e del figliol suo unigenito nostro signore Gesù Cristo, e dello Spirito Santo, e della santa gloriosa e sempre Vergine Maria, e per i quattro Vangeli che tengo nelle mie mani, e dei santi arcangeli Michele e Gabriele, giuro di prestare alla città e comunità e università di Verona una coscienza pura e un fraterno servigio, in ossequio all’amministrazione che mi è stata affidata. Giuro altresì che cercherò di pacificare tutte le discordie che sono o che saranno in futuro in questa città o nel distretto che la riguarda; di ricondurvi la pace al più presto possibile, specie se ne sarò sollecitato; giuro infine che non sarò spia o guida ai danni di Verona e a vantaggio dei suoi  nemici. Non perpetrerò furto o frode delle cose del comune con nessun mezzo nè acconsentirò che altri lo facciano. E costringerò con tutti i mezzi a mia disposizione coloro che lo avessero commesso, a restituire.
Dichiaro di essere soddisfatto delle 3000 lire di denaro e dell’alloggio e stallo del comune di Verona e della mobilia che ivi si trova, così come dichiaro di essere soddisfatto delle 1000 lire che mi vengono date come rifusione per le mie perdite e danni; e anche di quelli che mi vengono dati come subalterni, e della scorta armata che mi viene attribuita, e dei dodici soldati armati che terrò a mie spese e al servizio del comune per tutto il tempo della mia carica.
Cessato dal mio incarico, mi fermerò per quindici giorni ancora con i giudici del comune e con i soldati che sono stati con me, e mi fermerò in città a spese del comune, per le ultime consegne: farò giustizia di tutti coloro che avranno da far lamentele contro il mio operato, dei giudici e dei soldati.
Se qualcuno avrà scalfito un po’ d’oro dai denari veronesi, io se potrò, non appena conosciuta la verità su tale delitto e senza fare inganno per non conoscerla, farò troncare la mano al reo. Così proibirò che, durante tutto il mio governo, si tengano scrofe in città o negli immediati sobborghi. Proibirò il gioco d’azzardo o dei dadi o del bianco e nero, facendo eccezioni per i giochi della dama o degli scacchi; e chi contravviene sarà multato con venti lire”.

Ambiziose origini dei Comuni
L’ammirazione degli Italiani per Roma era tale, ai tempi dei comuni, che ogni città pretendeva di avere origini che si innestassero in un modo o nell’altro nella più antica storia dell’Urbe.
Firenze, ad esempio, diceva che perfino lo stemma cittadino, il giglio, era di origine romana, e il cronista fiorentino Giovanni Villani, che alla sua città dedicò la maggior opera sua, racconta che al tempo di Numa Pompilio, per divino miracolo, cadde in Roma dal cielo uno scudo vermiglio “per la qual cosa e augurio i Romani presero quello stemma e poi vi aggiunsero S.P.Q.R. in lettere d’oro, cioè senato e popolo romano.
Così a Perugia, a Firenze e a Pisa; ma i Fiorentini, per il nome della città, vi aggiunsero per intrassegno il giglio bianco; e i Perugini talvolta il grifone bianco e Viterbo il campo rosso e Orvieto l’aquila bianca.
La città di Firenze era in quel tempo come figliola e fattura di Roma in tutte le cose, da Romani abitata… E un tale Uberto Cesare, soprannominato Giulio Cesare, che fu figliolo di Catilina, rimasto in Fiesole giovinetto ancora dopo che quello morì, proprio per opera di Giulio Cesare fu fatto grande cittadino di Firenze; e avendo molti figlioli, egli e la sua discendenza furono per lungo tempo signori di quella terra; i loro discendenti furono grandi signori e capostipiti delle famiglie fiorentine.” (M. Bini)

Dalla società feudale alla società comunale
Tra la fine del primo e l’inizio del secondo millennio dell’era cristiana, la crisi del feudalesimo si fece più profonda. Il sistema era già stato scosso dalle lotte fra i grandi feudatari e l’imperatore; lo fu ancora di più quando si acuirono i contrasti tra vassalli e valvassori (questi ultimi otterranno, nel 1037, l’ereditarietà dei loro possessi) e tra la feudalità laica e quella ecclesiastica.
Nelle campagne si manifestarono fermenti di vita nuova, dopo che l’oscuro timore di grandi catastrofi naturali al sopraggiungere dell’anno mille (si parlava addirittura della fine del mondo) si rivelò del tutto infondato.
L’agricoltura aveva rappresentato negli ultimi secoli l’unica attività economica praticata su larga scala, ma le condizioni di vita dei contadini, soprattutto dei servi della gleba e dei coloni vessati dai loro signori, erano assai modeste; per di più la popolazione rurale andava aumentando molto rapidamente.
Da questa situazione ebbero origine le richieste di svincolo dalla servitù della gleba e di patti, di contratti scritti, di carte più favorevoli e non modificabili ad arbitrio del proprietario, richieste che portarono, se accolte, ad un’ulteriore allargamento delle aree messe a coltura, e se respinte, alla fuga dei contadini dalle campagne verso la città.  (L. Mumford, da “La città nella storia”)

La città
La decadenza, in epoca feudale, delle città non aveva riguardato proprio tutti i centri urbani; in alcuni si era mantenuta viva la tradizione artigianale o commerciale, anche se la circolazione dei prodotti era diminuita e l’uso della moneta si era fatto più raro.
L’aumento generale della popolazione si ripercosse anche sulla vita delle città, amministrate di solito da un feudatario ecclesiastico, il vescovo-conte, il quale poteva godere di una certa autonomia, dato che il feudo era vitalizio e non trasmissibile.
L’accresciuto numeri dei cittadini (molti dei quali provenivano dalla circostante campagna  o dai borghi feudali, quando non erano addirittura nobili e feudatari minori) creò una serie di problemi nuovi, collegati anche al rifiorire della produzione di beni di consumo e del loro scambio con altre merci in mercati e fiere sempre più frequentati, mentre anche la moneta faceva la sua riapparizione in grande quantità.
Alla soluzione dei problemi che le toccavano da vicino si impegnarono direttamente tanto la piccola nobiltà inurbatasi quanto la nascente classe sociale della borghesia (grossi artigiani e mercanti), dando vita ad associazioni, regolate da proprie norme, in grado di tutelare gli interessi comuni dei membri e di ottenere e di esercitare, sempre in comune, nuovi diritti e privilegi.
In seguito tali associazioni ottengono o conquistano di partecipare ancora più attivamente alla cura degli interessi di tutta quanta la città sino a sostituirsi, grazie alle immunità ed ai privilegi via via acquisiti, ai signori feudali ed ai vescovi-conti nel pieno governo della città stessa.
E’ nato così il Comune, piccolo Stato che inizialmente ha per confine la cerchia delle mura cittadine e che sceglie i propri governanti tra coloro che abitano appunto entro detta cerchia.
Il Comune si comporta come uno Stato sovrano: esercita i poteri politici, civili, militari; ha un proprio esercito, si dà le leggi, amministra la giustizia; impone tributi e batte moneta; dichiara la guerra. Sarà proprio in questo suo comportamento da Stato autonomo la causa dei lunghi, ripetuti, sanguinosi conflitti che coinvolgeranno da una parte i sovrani dell’Impero, intenzionati a restaurare la loro autorità nelle città che ritenevano ribelli perchè si erano rese arbitrariamente indipendenti (erano prerogativa del re coniare monete, dare le leggi, concedere il gradimento alla nomina dei magistrati, riscuotere i tributi, ecc…), e dall’altra i Comuni dell’Italia settentrionale, desiderosi di conservare l’indipendenza acquisita e di estendere la sovranità anche sui possessi feudali del contado.
La lotta sarà particolarmente aspra durante il regno di Federico I di Svevia (la Casa succeduta a quella di Franconia sul trono di Germania, d’Italia e dell’Impero), sceso ripetutamente con i suoi eserciti nella pianura padana, più volte vittorioso e distruttore di città (Milano, 1162), battuto infine a Legnano (1176) dalle truppe fornite alla Lega Lombarda dai Comuni della Regione (e la Lega godeva pure dell’alto appoggio dell’autorità del Pontefice Alessandro III) e costretto a sottoscrivere la pace di Costanza (1183), che riconoscerà ai Comuni il godimento dei diritti acquisiti e ridurrà la sovranità imperiale ad una formalità.  (L. Mumford, da “La città nella storia”)

Classi sociali e ordinamenti
Le situazioni in cui si dormano e si sviluppano i Comuni sono molto diverse tra loro. Le vicende di Milano, il più importante centro di vita comunale nella pianura padana, solo in parte sono simili a quelle di Firenze o di altri Comuni dell’Italia centrale.
Una maggiore uniformità si può invece riscontrare nelle classi sociali e negli ordinamenti che li caratterizzano.
Anche nel Comune, che pure contrapponeva il principio dell’uguaglianza politica e civile dei suoi abitanti al principio della stretta gerarchia e delle dipendenze del sistema feudale, esistono di fatto più classi sociali, dalla nobiltà alla plebe. Sarà proprio l’ascesa economica e politica delle classi inizialmente meno potenti a costituire uno dei motivi fondamentali dell’età comunale.
Il governo del Comune è repubblicano; la sovranità risiede nelle mani del popolo, il quale, riunendosi nell’Assemblea Generale, detta anche Parlamento o Arengo o Concione, delibera sulle questioni più gravi d’interesse comune (guerra, pace, trattati) ed elegge i magistrati annuali cui spetta il potere esecutivo, i Consoli, che sono due o più a seconda dell’importanza del Comune.
Alle volte il Consiglio maggiore sostituisce l’Assemblea generale dei liberi cittadini.
Il Consiglio minore o Senato o Consiglio di Credenza aiuta e regola l’attività dei Consoli; è composto dai cittadini più influenti o da loro familiari ed esprime, in pratica, la volontà della classe dominante.
Tale ordinamento rispecchia la vita politica nei secoli XI e XII, quando il Comune è ancora impegnato a lottare contro i feudatari per raggiungere la piena libertà; il potere è nelle mani dei nobili o magnati o grandi (feudatari minori trasferitisi in città, mercanti, grossi artigiani, proprietari di case e di terreni entro la cerchia delle mura).
Il secolo XIII è caratterizzato da continue discordie interne che oppongono tra loro partiti e classi. I Consoli sono troppo legati a particolari interessi cittadini per garantire assoluta e costante imparzialità: al loro posto viene eletto un magistrato unico, il Podestà, chiamato in città dalla sua residenza abituale; un forestiero, dunque.
Intanto il cosiddetto popolo grasso, composto da mercanti, da banchieri, e da grossi artigiani organizzati in Corporazioni o Arti maggiori, cerca di limitare il potere dei nobili e di sostituirli al governo della città.
Accanto al podestà viene eletto un Capitano del Popolo, che rimarrà solo in carica dopo l’affermazione della borghesia.
Altre istituzioni si affiancano a quelle preesistenti, se ancora valide. Sono il Consiglio delle Arti o dei Priori, che raggruppa i rappresentanti delle singole Arti (un priore è a capo di ogni Arte, maggiore media o minore che sia) e che aiuta il Capitano del Popolo nelle sue mansioni, ed il Consiglio del Popolo con compiti quasi analoghi.
La borghesia raggiunge il potere nella seconda metà del XIII secolo, ma non per questo cessano le lotte interne nelle città. Anche il popolo minuto, infatti, quello delle Arti medie e minori, esige la sua parte di governo e tumultuano perfino i rappresentanti della plebe, composta di lavoratori per lo più salariati, ad esempio gli operai degli opifici e dei laboratori ove si tessono e tingono le stoffe.
Non dovunque e non sempre il popolo minuto può accedere al potere, però il suo contributo allo sviluppo economico del Comune resta rilevante.  (L. Mumford, da “La città nella storia”)

Le corporazioni
L’istituzione più tipica della vita associata, a parte la Chiesa, era la corporazione, e queste due basi di un’esistenza fondata sulla solidarietà, sul lavoro collettivo e su una fede comune erano associate nella città medioevale.
La corporazione non perdette mai il suo fondamento religioso. Rimase una confraternita conviviale, che si attribuiva particolari compiti economici e responsabilità commerciali, ma non si esauriva in essi.
I confratelli mangiavano e bevevano insieme in occasioni regolarmente ripetute, fissavano ordinanze attinenti alla loro arte, progettavano e finanziavano sacre rappresentazioni a edificazione dei concittadini.
Nei periodi prosperi costruivano cappelle, donavano messe di suffragio, fondavano scuole elementari (le prime scuole laiche dalla fine dell’evo antico) e al colmo del loro potere si costruivano una sede a volte sontuosa come il mercato dei panni di Ypres. Intorno alla loro arte edificavano un’intera vita rivaleggiando amichevolmente con le altre corporazioni e, da buoni fratelli, si alternavano nel presidiare le mura adiacenti al loro quartiere.
Se le corporazioni dei mercanti precedettero in genere di mezzo secolo quelle degli artigiani, bisogna però ricordare che, tranne che per i traffici internazionali, la linea divisoria tra mercanti e artigiani non era molto precisa, in quanto l’artigiano lavorava per vendere l’eccedenza della sua produzione.
Nel periodo iniziale gli artigiani entravano così a far parte delle corporazioni dei mercanti  e ne costituivano probabilmente la maggioranza: e così più tardi anche gli esponenti dell’ordine feudale o gli intellettuali che desideravano partecipare al governo cittadino dovevano diventare membri di una corporazione, per esempio di quella degli speziali o dei pittori.
La corporazione dei mercanti organizzava e controllava la vita economica dell’intera città, fissando le condizioni di vendita, proteggendo il consumatore dalle estorsioni e l’onesto bottegaio dalla concorrenza sleale, impedendo infine che il mercato locale venisse turbato da influenze estranee.
La corporazione degli artigiani era invece un’associazione di maestri nei diversi mestieri allo scopo di regolare la produzione e di fissare i criteri di esecuzione.
Entrambe queste istituzioni finirono per trovare espressione nella città: la prima nella loggia dei mercanti, la seconda nel palazzo delle corporazioni, risultato di uno sforzo collettivo o, come a Venezia, in una serie di sedi apposite, una per ogni arte.
Probabilmente le prime sedi di questi organismi erano modeste casette o stanze prese in affitto, oggi da tempo scomparse, come quelle degli antichi colleghi di cui abbiamo qualche testimonianza.
Ma gli edifici che ci sono rimasti rivaleggiano spesso in magnificenza con i Palazzi di Città e con le cattedrali.
L’importante funzione svolta dalle corporazioni nella città medioevale sino al Quattrocento denota che il lavoro, e in particolare il lavoro manuale, era ormai tenuto in ala considerazione, e anche questo fu in buona parte merito della Chiesa, un po’ perchè aveva dato adeguata importanza alle attività dei poveri e degli umili, e soprattutto perchè, con la regola benedettina, aveva accettato la fatica manuale come componente essenziale del viver bene: “lavorare e pregare”.
La vergogna del lavoro, questo penoso retaggio delle culture servili, a poco a poco scomparve, e le frequenti prodezze degli artigiani e dei mercanti in battaglia diedero un duro colpo alle pretese dei signori feudali i quali disprezzavano ogni forma di fatica fisica eccetto la caccia e la guerra.
Una città dove la maggioranza degli abitanti erano liberi cittadini che lavoravano uno accanto all’altro in condizioni di parità, e senza schiavi ai loro ordini, era un fatto nuovo nella storia urbana. (L. Mumford, da “La città nella storia”)

Il Comune rustico

L’epoca dei Comuni fu gloriosa per l’Italia. Carducci, profondo conoscitore della storia d’Italia e poeta, ricostruisce la vita di uno dei tanti Comuni italiani, piccolo sì, sperduto tra i monti, presso Udine, ma tanto valoroso e saldo nei suoi ordinamenti. La fantasia, nella ricostruzione poetica, non prevale sulla verità storica. Orgoglio, valore, fede sono i sentimenti che pervadono la composizione; da ammirare il quadretto conclusivo.

O che tra faggi e abeti erma su i campi
smeraldini la fredda ombra si stampi
al sole del mattin puro e leggero,
o che foscheggi immobile nel giorno
morente su le sparse ville intorno
a la chiesa che prega o al cimitero
che tace, o noci de la Carnia, addio!
Erra tra i vostri rami il pensier mio
sognando l’ombre di un tempo che fu.
Non paure di morti ed in congreghe
diavoli goffi con bizzarre streghe,
ma del comun la rustica virtù
accampata a l’opaca ampia frescura
veggo ne la stagion de la pastura
dopo la messa il giorno de la festa.
il consol dice, e poste ha pria le mani
sopra i santi segnacoli cristiani:
– Ecco, io parto tra voi quella foresta
d’abeti e pini ove al confin nereggia.
E voi trarrete la mugghiante greggia
e la belante a quelle cime là.
E voi, se l’unno o se lo slavo invade,
eccovi, o figli, l’aste, ecco le spade,
morrete per la nostra libertà-.
Un fremito d’orgoglio empiva i pettti,
ergea le bionde teste; e de gli eletti
in su le fronti il sol grande feriva.
Ma le donne piangenti sotto i veli
invocavan la madre alma de’ cieli.
Con la man tesa il console seguiva:
– Questo, al nome di Cristo e di Maria,
ordino e voglio che nel popol sia-.
A man levata il popol dicea, Sì.
E le rosse giovenche di su ‘l prato
vedean passare il piccolo senato,
brillando su gli abeti il mezzodì. (G. Carducci)

O che tra faggi e abeti erma su i campi
smeraldini la fredda ombra si stampi
al sole del mattin puro e leggero,
o che foscheggi immobile nel giorno
morente su le sparse ville intorno
a la chiesa che prega o al cimitero…
Addio, o alberi di noci della Carnia, sia che (o che) al sole puro e leggero del mattino la vostra ombra si stampi solitaria (erma) sui prati di color verde vivo (campi smeraldini) tra i faggi e gli abeti, sia che si stenda cupa (foscheggi) e immobile sul far della sera (nel giorno morente) sulle case (ville) intorno alla chiesa, da dove si alzano le preghiere, o al silenzioso cimitero.

…che tace, o noci de la Carnia, addio!…
Le Prealpi Carniche, poste a nord della pianura friulana, sono ricche di alberi di noci; ed è questo elemento caratteristico del paesaggio che il poeta, partendo, saluta con nostalgia e tenerezza.

…Erra tra i vostri rami il pensier mio
sognando l’ombre di un tempo che fu…
Il pensiero del poeta erra tra i rami dei noci e corre al tempo passato.

…Non paure di morti ed in congreghe
diavoli goffi con bizzarre streghe,…
Il Carducci ci precisa quale passato vada egli rievocando: non le manifestazioni dello spirito nordico con paurose leggende di morti e conciliaboli di streghe e diavoli, ma l’affermazione della civiltà latina su quella barbarica nell’organizzazione e nella vita di un libero Comune rustico, quale doveva essere in quelle zone montuose della Carnia, poste presso il confine e soggette ad invasioni.

…ma del comun la rustica virtù
accampata a l’opaca ampia frescura
veggo ne la stagion de la pastura
dopo la messa il giorno de la festa…
Ma vedo nel giorno della festa (probabilmente  quella del santo protettore del Comune) dopo la messa, nella stagione del pascolo (pastura), gli abitanti del Comune, dalle schiette e salde virtù della vita pastorale (del comun la rustica virtù), riuniti al fresco di un ampio spazio ombroso (a l’opaca ampia frescura).

il consol dice, e poste ha pria le mani
sopra i santi segnacoli cristiani:
– Ecco, io parto tra voi quella foresta
d’abeti e pini ove al confin nereggia.
E voi trarrete la mugghiante greggia
e la belante a quelle cime là.
Consol: i Comuni rinnovarono il glorioso titolo dei capi di Stato romano per insignire la loro massima autorità;
santi segnacoli cristiani: la croce e i vangeli;
parto: divido;
al confin: presso il confine. Si tratta dunque di un rustico Comune di confine;
la mugghiante greggia e la belante: gli armenti di bovini e le greggi di pecore.

E voi, se l’unno o se lo slavo invade,
eccovi, o figli, l’aste, ecco le spade,
morrete per la nostra libertà-.
unno e slavo  sta ad indicare lo straniero in genere, nel ricordo delle invasioni barbariche dei secoli precedenti;
aste: le lance, le picche.

Un fremito d’orgoglio empiva i petti,
ergea le bionde teste; e de gli eletti
in su le fronti il sol grande feriva.
eletti: prescelti alla sacra difesa della patria;
il sol grande feriva: il sole batteva sulle loro fronti illuminandole e quasi benedicendole.

Ma le donne piangenti sotto i veli
invocavan la madre alma de’ cieli.
Gli uomini fremono d’orgoglio, ma le donne, madri o spose o sorelle, sentono l’orrore della parola morrete e pregano piangendo.
La madre alma de’ cieli: la Vergine Maria.

Con la man tesa il console seguiva:
– Questo, al nome di Cristo e di Maria,
ordino e voglio che nel popol sia-.
A man levata il popol dicea, Sì.
E le rosse giovenche di su ‘l prato
vedean passare il piccolo senato,
brillando su gli abeti il mezzodì.
Al nome: nel nome
a man levata: nota qui il singolare usato invece del plurale, poichè il popolo non ha una mano sola; ma il poeta dice man levata come a rendere più intensa l’unione di tutte le mani in una sola;
piccolo senato: la piccola accolta degli uomini che formavano il consiglio del Comune.

La ribellione dei Comuni
Mentre i Comuni, ormai indipendenti, stavano acquistando grande potenza, diveniva imperatore di Germania Federico I della casa di Svevia, chiamato Federico Barbarossa per il colore della sua barba.
Federico era un uomo energico e coraggioso che voleva ricostruire l’unità dell’Impero, come ai tempi di Carlo Magno. I Comuni non vollero però assoggettarsi all’Imperatore, non accolsero i suoi magistrati e i suoi podestà, e rifiutarono di pagargli i tributi, come invece continuavano a fare i feudatari del contado.

Federico Barbarossa in Italia
Federico I decise di richiamare i Comuni all’obbedienza. Venne perciò in Italia nell’anno 1154 e iniziò una lunga lotta contro le città comunali e soprattutto contro Milano, che era la più importante. L’imperatore distrusse Tortona, in Piemonte, poi si diresse verso Roma per esservi incoronato dal Papa.
Ritornato in Germania, quando seppe che i  Comuni d’Italia si erano fatti ancora più potenti, Federico ripassò le Alpi con il suo esercito e circondò Milano. Dopo un assedio lungo e terribile, per salvare la città, dove era scoppiata anche la peste, i consoli andarono dall’Imperatore, gli posero ai piedi gli stendardi e gli consegnarono le chiavi delle porte. Piangendo implorarono pietà. L’imperatore non si lasciò commuovere e distrusse Milano facendo abbattere le sue 300 torri.

La Lega Lombarda
Federico Barbarossa aveva dato ai Comuni italiani una terribile lezione, ma il desiderio di libertà e di indipendenza fu più forte della paura. Nel 1167, nel convento di Pontida, presso Bergamo, si riunirono i rappresentanti delle città del Veneto, dell’Emilia, della Lombardia e del Piemonte; essi giurarono sul Vangelo di aiutarsi concludendo un patto chiamato Lega Lombarda. Milano fu ricostruita e in Piemonte, in onore del papa Alessandro III che era un fedele alleato dei Comuni, fu fondata la città di Alessandria.

La battaglia di Legnano
Il Barbarossa, per sbaragliare i Comuni in modo definitivo, ridiscese in Italia con un forte esercito. La battaglia decisiva avvenne il 29 maggio 1176 poco lontano da Legnano. I Fanti e i cavalieri dei Comuni alleati sconfissero l’Imperatore, che si salvò a stento con la fuga. Il Barbarossa chiede la pace e riconobbe ai Comuni la libertà di governo.

Per il lavoro di ricerca
I cittadini del Comune erano sempre in lotta: come si svolgeva questa lotta all’interno del Comune?
Che cos’erano le regalie?
Chi accusò i Comuni italiani di aver usurpato i poteri spettanti all’imperatore?
Quante volte Federico Barbarossa scese in Italia?
Come avvenne la resa e la distruzione di Milano?
Ricerca notizie sulla Lega Lombarda e il giuramento di Pontida. Trova notizie sulla battaglia di Legnano e sulla conclusione della lotta tra i Comuni e l’Impero.
Come avveniva l’incoronazione di un imperatore nei secoli X, XI e XII?
Cerca notizie sull’origine e sul significato del Carroccio e della Compagnia della Morte.
Grande è la figura di Alberto da Giussano; trova notizie esaurienti su di lui.
Chi era Bonifacio VII?
Quando la sede papale fu trasferita ad Avignone?
Quando e per merito di chi fu riportata a Roma la sede pontificia?

La battaglia di Legnano
Dalla quiete dei campi attorno a Legnano, improvvisa come la tempesta, s’era alzata la voce della battaglia.
I fanti e i cavalieri tedeschi, protetti dalle pesanti armature, avevano resistito al primo urto dei soldati lombardi i quali disperavano ormai di poter vincere la superiorità nemica. Le grida dei combattenti si confondevano con le dolorose invocazioni dei feriti. La terra fu ben presto coperta di morti. Nel cielo scintillava la croce del Carroccio, ondeggiava libero il gonfalone ricordando ai combattenti una promessa.
Ad un tratto il sacerdote che celebrava la Messa fu colpito da una freccia e cadde. Allora un giovinetto balzò sul Carroccio, afferrò la corda della martinella e diede a tirare a gran forza. La campana diffuse i suoi rintocchi, chiamò i soldati della Compagnia della Morte perchè difendessero il Carroccio.
Accorsero qui generosi, guidati da Alberto da Giussano, e volsero in fuga i Tedeschi. La martinella continuava a squillare agitata dal coraggioso fanciullo che, perdute le mani per un colpo di spada, aveva afferrata la corda con i denti.
Nel cielo salivano i canti di vittoria dei soldati della Lega.

Non tutti i cittadini avevano gli stessi interessi
I vari gruppi di cittadini nei quali era divisa la popolazione di un Comune avevano interessi diversi. Ogni gruppo desiderava leggi che soddisfacessero ai suoi interessi.
I proprietari di case e di terreni volevano leggi che garantissero loro di guadagnare molto con gli affitti delle case e con la vendita dei prodotti della terra.
I grandi mercanti e i banchieri volevano che gli affitti delle case e i prodotti della terra costassero poco, perchè in questo modo gli operai che da loro dipendevano avrebbero potuto vivere con un basso salario.
Gli operai volevano un salario che permettesse loro di vivere senza soffrire la fame.
I piccoli artigiani e i piccoli negozianti erano d’accordo con loro, perchè potevano lavorare solo se gli operai, che formavano la maggior parte della popolazione, potevano comprare le loro merci.
Per ottenere quello che voleva, ogni gruppo cercava di eleggere a capo del Comune uomini di sua fiducia. Ma siccome i capi di vari gruppi non riuscivano quasi mai a mettersi d’accordo, allora si ricorreva alla violenza e ai combattimenti.
Come si svolgevano queste lotte all’interno del Comune?
Quando uno di questi gruppi vinceva, cacciava dalla città i suoi nemici, finchè, vinto a sua volta, doveva abbandonare lui il Comune.
Così la vita del Comune era un continuo succedersi di lotte sanguinose. Spesso i grandi proprietari, i grandi mercanti e i banchieri, meno numerosi, ma più potenti, perchè avevano maggiori ricchezze, erano d’accordo in una sola cosa: non permettere ai più poveri di governare.

I Comuni si affermano sul feudalesimo declinante
Fino alla metà del XII secolo i Comuni cittadini poterono moltiplicarsi nell’Italia settentrionale e centrale senza incontrare nel decadente mondo feudale ostacoli seri. I piccoli feudatari, infatti, avevano preferito far causa comune con gli abitanti delle città nella lotta contro i grandi feudatari delle campagne. In tal modo questi ultimi avevano perduto ogni giorno terreno e avevano finito per cedere ai Comuni gran parte delle prerogative e dei privilegi  che i loro antenati avevano strappato ai sovrani dall’epoca carolingia in poi. Così i Comuni si trovarono a disporre di molti poteri che normalmente spettavano all’imperatore o al re (ed erano detti perciò regalie), senza averne ricevuta la concessione da alcun sovrano.
Intanto, dopo un lungo periodo di lotte tra i feudatari tedeschi, seguito dalla morte di Enrico V (1125) ultimo sovrano della Casa di Franconia, nel 1152 saliva al trono imperiale Federico I di Svevia che, gelosissimo dei suoi diritti, subito accusò i Comuni italiani di aver usurpato i poteri spettanti all’imperatore.

L’imperatore
Ecco come avveniva l’incoronazione di un imperatore nel secolo X.
I magistrati, l’arcivescovo di Magonza, il clero e il popolo aspettavano il corteo del nuovo re nella basilica di Aquisgrana. Quando esso avanzò, l’arcivescovo gli mosse incontro e toccò con la sinistra la mano destra del re; poi si portò al centro della chiesa, e rivolto al popolo che stava sulle logge disse: “Ecco, io vi conduco Ottone, eletto da Dio, e poco fa proclamanto re di tutti i Principi”.
Poi l’arcivescovo, insieme al re che era vestito di una tunica attillata, si recò all’altare, sul quale erano collocate le insegne regali: la spada con la banboliera, il mantello coi fermagli, il bastone con lo scettro e il diadema. L’arcivescovo prese la spada e, rivolto al re, disse: “Accetta questa spada per proteggere l’Impero dai barbari e dagli avversari di Cristo.”
Preso il mantello, ne rivestì Ottone e disse: “Questi lembi che scendono al suolo ti ammoniscano a proteggere la pace fino alla fine dei tuoi giorni”.
Poi preso lo scettro e il bastone disse: “Ammonito da questo insegne, punisci paternamente i sudditi colpevoli e porgi la mano misericordiosa alle vedove e agli orfani”.
Dopo di che Ottone fu incoronato con un diadema d’oro.

Discesa in Italia di Federico Barbarossa
Nel 1152 fu eletto imperatore Federico I di Svevia detto il Barbarossa, il quale, sedate le ribellioni in Germania, scese in Italia per ristabilirvi i diritti dell’impero non più riconosciuti dai Comuni maggiori.
Nella prima discesa che fece al di qua delle Alpi (1154-1155) l’imperatore tedesco si limitò a trattare con ostilità i rappresentanti dei maggiori Comune e, spintosi fino a Roma, abbattè il regime comunale costituito per iniziativa di un monaco ribelle al papato, Arnaldo da Brescia; restituì quindi il dominio della città al papa Adriano IV, dal quale ottenne l’incorporazione imperiale. Arnaldo da Brescia, condannato come eretico, fu arso sul rogo.
Nella seconda discesa, avvenuta nel 1158, Federico si propose di agire più a fondo. Posto l’assedio a Milano, costrinse alla resa la città e obbligò i consoli a prestargli omaggio; poi fece riunire a Roncaglia, presso Piacenza, una dieta di tutti i vassalli italiani, alla quale parteciparono anche alcuni giuristi dell’Università di Bologna. Proprio da costoro l’imperatore fece proclamare, sulla base del diritto romano, la legittimità delle sue disposizioni: divieto assoluto delle lotte private, sia tra città sia tra feudatari; obbligo per tutti di rivolgersi ai tribunali imperiali per risolvere le contese; scioglimento delle leghe tra città e delle Consorterie nobiliari; riconoscimento da parte dei vassalli e dei Comuni, del diritto imperiale di nominare magistrati, coniare moneta, imporre tasse e pedaggi, ecc…
Le deliberazioni di Roncaglia miravano insomma, nei disegni di Federico, a rinsaldare il potere centrale, trasformando i regni d’Italia e di Germania in  una monarchia assoluta.

I Comuni e il Papato si oppongono all’Imperatore

Questa ambiziosa politica trovò un ostacolo insormontabile nel desiderio di libertà che animava i giovani Comuni italiani. Quando infatti Federico volle imporre alle città alcuni podestà di sua nomina, molte di queste, con a capo Milano, si rifiutarono di riceverli.
Intanto anche il nuovo papa Alessandro III, misurando il pericolo che l’aumentato potere imperiale rappresentava per l’indipendenza del papato, aveva assunto un atteggiamento contrario a Federico, rispondendo con la scomunica al tentativo da questi fatto di contrapporgli un antipapa. Contrariato da tali segni di ostilità, l’imperatore volle subito ristabilire il suo prestigio sulle città italiane e cinse d’assedio Milano.

La resa e la restituzione di Milano
Due anni durò l’assedio, poi la peste ricominciò a infierire fra gli eroici difensori; un incendio distrusse la maggior parte dei magazzini di granaglie e la fame livida tornò a mietere vittime. Sembrava che un fato tremendo pesasse sulla roccaforte della libertà lombarda.
Alla fine del febbraio 1162, sulle torri lesionate della città, la rossa croce del comune venne sostituita dalla bianca bandiera della resa! E dopo la sconfitta, l’umiliazione…
… al primo di marzo i consoli cavalcarono alla volta di Lodi dove il Cesare li attendeva. Appiedati, le spade in pugno, gli giurarono servitù ed obbedienza.
E tre giorni dopo, tutti i nobili e i grandi di Milano, in numero di trecento, vennero a spezzare le loro spade ai piedi del Cesare. Poi il podestà, mastro Guitelmo, in ginocchio gli offrì le chiavi di ferro della città. I trentasei stendardi delle contrade si inchinarono nella polvere. Superbo il sire, circondato dai suoi cavalieri, teneva lo sguardo fisso avanti a sè.
E due giorni dopo, volle anche il popolo. Uscirono da tre porte i Milanesi,  le corde al collo, i piedi nella polvere, le croci in mano. Li seguiva il Carroccio parato a guerra. Squillarono per l’ultima volta le trombe milanesi, la campana rintoccò per l’ultima volta ed il vessillo, il bel vessillo crociato di Milano, cadde nella polvere. L’imperatore ne calpestò i lembi.
Ed il popolo in ginocchio, piangente, chiedeva pietà.
Poi l’ordine imperiale: “Che i Milanesi atterrino le mura e le torri, affinchè l’esercito possa passare schierato a battaglia”. E così fu fatto.
E dopo nove giorni di preghiere, un ordine nuovo: “Vadan disperse le genti di Milano: otto giorni concede l’imperatore per trarre a salvamento robe e masserizie; poi la città verrà distrutta, il sale seminato sulle rovine”. E così fu. Preghiere, pianti di donne e bambini, supplicare di vecchi e malati, nulla piegò il Barbarossa, nulla valse umiliarsi ancora alla bionda imperatrice. Convenne lasciare la città ai fanti di Como e Lodi che la diroccarono al suolo.
Intanto i vincitori, nobili e fanti, saccheggiarono la città di quanto era prezioso, gli altari furono spogliati, le case private di ogni ricchezza.
Ed il 31 marzo l’imperatore, cavalcando il bianco destriero di guerra, seminò lo sterile sale.
Ed era il giorno di Pasqua!
Tanta è l’importanza che Federico ammette a questa sua vittoria su Milano, che egli data ormai i suoi atti e le sue lettere “dalla distruzione di Milano”. (G. Gozzano)

La Lega Lombarda e la battaglia di Legnano
Ma il Barbarossa non aveva potuto piegare l’animo di quei vinti. Il suo trionfo fu breve: le varie città dell’Italia settentrionale, anche quelle che avevano fino ad allora collaborato con l’imperatore, cominciarono a temere della loro futura sorte e in breve si stancarono dell’arroganza dei podestà imperiali. Dall’imperatore erano offese anche nei loro interessi economici: Venezia, ad esempio, che commerciava lungo le vie fluviali con l’Italia settentrionale, ed attraverso i valichi alpini con il centro dell’Europa, vedeva ora sbarrate queste vie dai nuovi prepotenti feudatari tedeschi creati dal Barbarossa.
Perciò nel Veneto cominciò la resistenza: nel 1164 Venezia favorì la formazione di una Lega, detta Veronese, tra Verona, Padova e Vicenza.
L’esempio fu di incitamento: tre anni dopo (1167) alcuni Comuni lombardi, insieme con esuli milanesi, nel monastero di Pontida, presso Bergamo, strinsero una lega anti-imperiale, detta Lega Lombarda, che si  fuse con quella veronese. Gli odi e le gelosie municipali scomparvero di fronte al  comune pericolo. Fu cominciata subito la ricostruzione di Milano. Il papa Alessandro III diede alla lega l’appoggio della sua alta autorità. Perciò la fortezza che i Comuni alleati fondarono in Piemonte, fra il Tanaro e la Bormida, per ragioni strategiche, fu chiamata Alessandria in onore del papa.
Mentre fervevano questi preparativi, l’imperatore era sceso altre due volte in Italia, senza concludere nulla.
Solo nel 1174 si decise a scendere con un grande esercito per schiantare le forze della Lega.
Questa comprendeva allora 36 Comuni e molte Signorie feudali, e si estendeva per tutta la Pianura Padana. Posto invano l’assedio ad Alessandra, dopo sei mesi l’imperatore dovette ritirarsi per non essere a sua volta accerchiato dai nemici. Lo scontro decisivo avvenne a Legnano il 29 maggio 1176 e fu una splendida, decisiva vittoria per l’esercito della Lega.

Giuramento della Lega Lombarda
Nel nome del Signore, amen.
1. Io giuro sui santi Vangeli di Dio che non farò pace ne tregua, ne guerra finta, ne altro accordo con l’imperatore Federico, ne con i figli e la moglie di lui, ne con altra persona in suo nome: e questo non farò io, ne per mezzo di altra persona, e se altri lo facessero non lo approverò.
2. Mi sforzerà in buona fede, secondo il mio potere, con tutte le mie forze, perchè nessun esercito piccolo o grande venga in Italia dalla Germania o da altra terra imperiale che sia oltremonti. E se detto esercito entrasse, io farò guerra attiva all’imperatore e a tutte le persone che sono o saranno del partito dell’imperatore, finchè il predetto esercito esca dall’Italia.
3. Ed io in buona fede e per mezzo di tutte le persone a me soggette salverò e custodirò le persone e le cose di tutti gli uomini della Lega della Lombardia, Marca e Romagna, e specie il marchese Obizzo Malaspina e tutte le persone che ora sono in detta Lega.
6. Tutti questi patti manterrò in buona fede, senza inganno per cinquanta anni continui, e tutto ciò che fosse aggiunto o tolto dal Consiglio dei Rettori della Lega: e lo farò giurare ai miei figli quando abbiano quattordici anni, entro due mesi dal compimento di questa età, e a quanti e quali dei miei piacerà ai Rettori. (C. Manaresi, dal testo latino in “Gli atti del Comune di Milano)

Il Carroccio, simbolo del Comune
A Milano, che divenne Comune nel 1081 dopo un’aspra lotta contro i feudatari, venne creato quello che in seguito divenne il simbolo stesso della libertà comunale: il Carroccio.
Questo era un carro tirato da bianchi buoi, sul quale era eretto un altare, un pennone con lo stendardo (il gonfalone) del Comune e una campana detta martinella.
Il Carroccio seguiva i soldati fin sul campo di battaglia: nell’imminenza dello scontro un sacerdote celebrava la Messa, mentre quando la lotta era già iniziata un addetto suonava a distesa la martinella per incitare i combattenti.
Il Carroccio aveva anche una funzione pratica. Attorno ad esso si raccoglievano le truppe di fanteria non appena la cavalleria nemica stava per sferrare una carica. Così raccolti attorno al carro, i fanti formavano una specie di invalicabile blocco di lance puntate, che era in grado di reggere l’urto dei cavalieri avversari, e di respingerlo. Il Carroccio, con il suo alto pennone sul quale sventolava il gonfalone, serviva anche come punto di riferimento ai soldati: anche nelle mischie più furibonde bastava levare gli occhi in alto per capire subito dove si trovavano i propri compagni.
Perdere in battaglia il Carroccio era il più grave disonore per i cittadini del Comune: per questo ognuno era disposto a morire su di esso, piuttosto che lasciarlo conquistare dal nemico.

Lo stendardo de Carroccio
Così Arnolfo, cronista milanese, descrive l’insegna del Carroccio: “Un’alta antenna, a guisa di albero di nave, era piantata sul Carroccio e si ergeva in alto portando in sulla cima un pomo aureo con due limbi di lino candido pendenti. In mezzo stava infissa la veneranda croce con dipinta l’immagine del Redentore, a braccia aperte rivolte verso le schiere, perchè qualunque fosse l’esito della battaglia, ognuno dei soldati, guardando quell’insegna, ne avessero conforto.”.

L’esercito imperiale e l’esercito dei Comuni
Tra i due eserciti, quello dell’imperatore, composto di cavalieri, era il più numeroso e quello più pesantemente armato. Quello della Lega Lombarda, meno numeroso, era composto quasi esclusivamente di fanterie.
Ma le fanterie dei Comuni non erano più le fanterie dell’epoca di Carlo Magno, composte di contadini armati di forconi. Erano fanterie di tipo nuovo. Quei fanti erano mercanti e artigiani ben forniti di denaro, che avevano avuto la possibilità di comprarsi un’armatura buone come quella dei cavalieri, e forse anche migliore, perchè nelle valli del bergamasco, proprio vicino a Milano, vi erano artigiani che costruivano le migliori armi d’Europa.
I cavalieri del Barbarossa, coperti, loro e i loro cavalli, da molti chili di ferro, si muovevano non troppo facilmente ed erano abituati ad un tipo di combattimento tutto particolare: due schiere di cavalieri si scontravano frontalmente e raggiungeva la vittoria chi era più pesantemente armato e riusciva a disarcionare i suoi avversari.
La fanteria lombarda aveva armature resistenti ma leggere, che permettevano una notevole facilità di movimenti. Era accompagnata da una certa quantità di cavalieri, che la sostenevano nei momenti più difficili della battaglia.

La battaglia di Legnano
Da Como il Barbarossa con non più di duemila uomini si porta a Cairate; a Legnano le forze della Lega ascendono ad almeno cinquemila uomini.
Tutti i quartieri di Milano risorta hanno i loro uomini e i loro stendardi.
Al vento di maggio garriscono le bandiere: la rossa di Porta Romana, la bianca di Porta Ticinese, la balzana (bicolore) di Porta Vercellina, l’inquadrata di bianco e di rosso di Porta Comacina; Porta Nuova ha lo stendardo col leone bianco e minacciosa sventola fosca la bandiera nera di Porta Orientale.
Il Carroccio coi bovi bianchi aggiogati porta in alto, sopra il castelletto, il legno ove era appesa la campana, il gonfalone del Comune con la grande croce rossa sul campo candidissimo del drappo.
Intorno su trecento carri stanno le milizie popolane. Un esercito di uomini, di bandiere, di animi,  che attende la sua ora.
L’imperatore ordina l’assalto. La mischia si fa terribile e sanguinosa. Le ondate di cavalieri tedeschi si rinnovano. I Milanesi cedono e poi si riprendono, si sbandano e si radunano in alterna vicenda.
Sul Carroccio la martinella suona a distesa, i trombettieri sotto il grandinar delle frecce lanciano il loro squillo.
L’imperatore ha l’intuizione del pericolo mortale: è un soldato e non dimentica di esserlo: un nuovo assalto è comandato da lui, egli è in prima fila, alto, vicino al vessillifero  che porta l’aquila dell’impero.
La galoppata mortale si avventa ancora una volta contro i Milanesi che resistono; si vede nella mischia scomparire la bandiera dell’impero e poi anche l’imperatore non si vede più.
I suoi si sgomentano. E’ la sconfitta; il panico prende le forze imperiali; fuggono i Pavesi e i Comaschi, fuggono i Tedeschi, lasciando dietro di loro  il tesoro, i bagagli, i morti , i feriti.
I Milanesi avanzano, raccolgono il bottino, inseguono per un poco i fuggitivi e poi li lasciano.
Hanno vinto, hanno fretta di ritornare, di correre alla città che li attende a dir la grande, l’incredibile novella: l’imperatore è sconfitto, non lo si trova più, forse è morto in battaglia, il suo esercito è disperso, il ricco tesoro di guerra, lo scudo e la spada stessa del Barbarossa sono nelle mani dei Milanesi. (E. Momigliano)

Consuntivo della battaglia di Legnano
Così riferirono i Milanesi a Bologna la battaglia di Legnano: “Non si poterono contare gli uccisi, gli annegati, i prigionieri. Lo scudo dell’imperatore, il suo vessillo, la croce e la lancia caddero nelle nostre mani. Fra i suoi bagagli abbiamo trovato molto oro e argento; nè crediamo che sia possibile fare una precisa stima del cospicuo bottino che abbiamo fatto. Durane la battaglia sono stati fatti prigionieri il duca Bertoldo,  il fratello dell’arcivescovo di Colonia e lo stesso nipote dell’imperatore”.

Il Capitano della Compagnia della Morte
Il comandante dei cavalieri della Compagnia della Morte fu Alberto, detto da Giussano perchè nativo di Giussano, paese che si trova vicino a Milano.
Nelle cronache del tempo egli è anche indicato col nome di Alberigo,e soprannominato “il Gigante” per la sua alta statura.
Capitanò una schiera di eroi che, prima di partire in battaglia contro il Barbarossa, giurarono sulla croce di morire piuttosto di cedere davanti al nemico. Infatti si dovette alla resistenza della Compagnia della Morte, al suo slancio audace e temerario, gran parte del merito di avere vinto a Legnano, il 29 maggio 1176, l’imperatore germanico, sgominando le sue truppe.

Papa Bonifacio VIII
Bonifacio VIII (1294-1303) fu l’ultimo grande papa medioevale, ed in un mondo mutato tentò di riaffermare i diritti della chiesa, come ai tempi di Gregorio VII e di Innocenzo III.
Ma, se per qualche tempo potè avere successo, non riuscì invece ad avere ragione della resistenza del Re di Francia, Filippo IV il Bello, che volle imporre nuove tasse sul clero francese. Il papa lo minacciò di scomunica ma il re di Francia inviò a Roma i suoi emissari, con a capo Guglielmo di Nogaret, che con l’appoggio della famiglia nobile dei Colonna, poterono impadronirsi dello stesso pontefice, ad Anagni, presso Roma, dove egli si trovava. Sembrava anzi che egli venisse allora oltraggiato dai suoi nemici, tanto che questo triste episodio passò alla storia col nome di “schiaffo di Anagni”.
Ma il popolo insorse, liberò il papa, e lo ricondusse a Roma, dove morì un mese dopo.

Trasporto della sede papale ad Agignone
Qualche tempo dopo il nuovo papa, francese, lasciò addirittura Roma e l’assenza del Papato dall’Italia durò circa settant’anni, dal 1305 al 1377.
Essa si stabilì in Avignone, nel sud della Francia, in una zona che divenne possesso pontificio; ivi i papi furono protetti, o piuttosto, soggetti al re di Francia, anche se a più riprese tentarono di riconquistare la loro indipendenza. Ma il danno maggiore di quest’assenza del papa da Roma fu per l’Italia che si vedeva privata dell’onore di essere sede papale, e abbandonata allo scatenarsi di tutte le discordie intestine fra principi e città, fino allora tenute a freno, in assenza dell’imperatore, dal papa. Soprattutto in Roma e nello Stato della Chiesa si scatenò la più grande anarchia, e questi territori furono rattristati da una guerra continua.
Finalmente, nel 1377, il papa Gregorio XI, cedendo alle preghiere e agli inviti che gli venivano da ogni parte d’Italia, e specialmente alle appassionate ed insistenti invocazioni di Santa Caterina da Siena, riportò a Roma la sede pontificia.

Leggenda
Si narra che, per aver ragione della resistenza di Crema, il Barbarossa fece accostare alle mura della città una torre mobile sulla quale aveva legato alcuni giovinetti cremaschi, avuti in ostaggio. Ma i valorosi difensori non desistettero dal lanciare coi mangani le pietre contro la torre, gridando ai giovinetti: “Beati voi che morite per la patria!”.

Tutte le opere  contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.

ABRUZZO materiale didattico vario

ABRUZZO materiale didattico vario – una raccolta di dettati ortografici e letture sull’Abruzzo, di autori vari, per la scuola primaria.

L’Abruzzo

Quando, in inverno, nevica sugli alti monti dell’Abruzzo, il viaggiatore, l’alpinista che li osservi, ha la netta impressione di trovarsi fra le Alpi: le catene sono imponenti, le cime aspre, rocciose, aguzze come quelle alpine. Ma se si guada attorno si vede vicino gli alberi di olivo. Così è fatto l’Abruzzo: una delle regioni più elevate  e montuose del nostro paese, con le cime che si avvicinano ai tremila metri, aspre, tormentate; ma ai piedi delle pareti rocciose cresce l’ulivo e si estendono pascoli verdissimi.

Abruzzo: sguardo d’insieme
E’ la regione nella quale l’Appennino si impone con le cime più elevate e solenni; esso occupa la maggior parte del territorio fino alla riva adriatica, ma ha caratteristiche nettamente diverse nell’interno e nel settore costiero.
E’ proprio nella parte più interna, sino ai confini con il Lazio, che l’Appennino ha il suo sviluppo più notevole: non presenta catene ordinate, ma piuttosto rilievi raggruppati attorno alle vette più alte, separati da larghi avvallamenti nei quali si raccoglie fitta la popolazione.
Questi gruppi montuosi appaiono solitamente brulli, battuti nell’inverno da violente bufere di neve, poveri di acque, che filtrano in profondità negli  strati calcarei e zampillano in ricche sorgenti al piede delle montagne; gole profonde e anguste, talora intransitabili, rompono l’uniformità dei dossi.
I gruppi montuosi si dispongono, grosso modo, su tre linee successive: ai confini settentrionali con il Lazio si individuano i monti della Laga; ad ovest i monti Simbruini e i  monti della Meta stanno a cavallo tra Lazio e Abruzzo.
In tutta evidenza, nel cuore della regione, sono i massicci del Gran Sasso (con l’alta vetta del Monte Corno) e della Maiella, che raggiunge il culmine nel Monte Amaro, i monti del Morrone e le alte cime del Velino e del Sirente. Il Gran Sasso, guardato nel suo profilo solenne, appare come una cresta i cui denti hanno nome di Corno Grande, Corno Piccolo, Monte Camicia, Monte Prena, e superano tutti i 2500 metri. Ha pareti scoscese, di tono bianco – grigio, ai piedi delle quali si estendono cumuli di detriti franati dall’alto. La valle in cui si insinua il fiume Pescara separa il Gran Sasso dalla Maiella; questo massiccio cede di poco, con le sue vette più alte, al contrapposto Gran Sasso. E’ un rilievo tormentato: nei punti più alti, oltre i 2500 metri, si trovano improvvisi pianori dolcemente ondulati e, d’un tratto, profonde spaccature, valli di aspetto selvaggio.
Tra il gruppo dei Simbruini e le vette dei ricordati Velino e Sirente si estende la Conca del Fucino, un antico lago più vasto di quello di Como, del tutto prosciugato, razionalmente irrigato e destinato a ricche coltivazioni. Ancora tra il Velino, il Sirente e i massicci del Gran Sasso e della Maiella è la lunga conca dell’Aquila che, per la strozzatura della valle di San Venazio, comunica con la conca di Sulmona; ambedue sono bene irrigate e molto produttive.
L’Abruzzo esterno, quello affacciato al mare, è ancora montuoso, ma l’Appennino dà segni di stanchezza e ripete il disegno proprio dell’Appennino Emiliano e Marchigiano: basse catene, pressochè perpendicolari alla costa, orlate all’estremità di colline; negli avvallamenti corrono i fiumi (i principali sono il Tronto, il Pescara e il Sangro); la maggior parte di essi ha un corso longitudinale attraverso gli alti rilievi dell’interno, in valli anguste e scoscese, e prende poi la direzione trasversale tra le catene costiere; sono fiumi abbastanza ricchi, alimentati dalle sorgenti dell’Appennino; alcuni di essi hanno notevoli magre estive che riducono il loro corso ad esili fili d’acqua.
La costa, incalzata da presso dai rilievi montuosi e collinari, presenta una breve striscia uniforme e sabbiosa, priva di insenature e di porti; così esile da permettere appena, in alcuni tratti, il passaggio della strada e della ferrovia.

I monti
La regione è occupata in gran parte dalla montagna; appare evidente la distinzione in un Abruzzo interno, il più montuoso, e in un Abruzzo esterno in cui l’Appennino si abbassa, declina in colline, si dispone in brevi catene perpendicolari alla costa. Nell’Abruzzo interno, intervallati da ampie conche, si individuano grossi gruppi montuosi: i monti della Laga, i Simbruini, i monti della Meta; più ad est sono i massicci del Gran Sasso l’Italia (Monte Corno, m 2914) e della Maiella (monte Amaro, m 2795), i monti del Morrone, le cime del Velino (m 2487) e del Sirente (m 2349).
Vasta conca verde fra gli alti monti è quella del Fucino.
Estese sono le valli dell’Aquila e di Sulmona.

I fiumi
I fiumi dell’Abruzzo attingono a generose sorgenti appenniniche, tuttavia hanno notevoli variazioni di portata nei diversi mesi dell’anno.
Il Tronto nasce sui monti della Laga, attraversa un tratto del Lazio, un tratto delle Marche e segna il confine tra questa regione e l’Abruzzo: è lungo 93 chilometri.
Dai monti della Laga nasce anche l’Aterno, il quale è arricchito nel suo alto corso da numerosi affluenti. Nel tratto inferiore assume il nome di Pescara, riceve altri affluenti e sbocca nell’Adriatico dopo 145 chilometri; la sua foce è stata trasformata in portocanale.
Il Sangro nasce nei monti che si affacciano alla conca del Fucino, attraversa la regione e sfocia nell’Adriatico dopo 117 chilometri.

Lungo il litorale
Il breve tratto della provincia di Pescara affacciato all’Adriatico non è più l’arenile selvatico dove si arenavano le paranze e dove l’Adriatico restituiva gli avanzi dei naufragi: oggi è almeno per metà trasformato in spiaggia per famiglie, lungo la quale gli stabilimenti si succedono agli stabilimenti, i ristoranti ai ristoranti: sa essi esce l’odore del fritto, misto al fracasso della televisione, all’urlio della radio…
Ma appena fuori dalla zona balneare, al di là delle incastellature del porto, che non è più soltanto un porto peschereccio, ma un porto industriale, le greggi pascolano ancora presso la battigia dove alla sabbia si mischiano certe magre erbette di sapore salmastro; ed è un pezzo d’Abruzzo antico che si innesta su un Abruzzo rinnovato ed operoso che, senza nemmeno saperlo, ritrova nelle sue antiche virtù la forza e il vigore per la rinascita. (A. Zorzi)

Il gruppo del Gran Sasso
Da Teramo, raccolta in una conca verde, il Gran Sasso si vede più vicino che da ogni altra città abruzzese. Nelle giornate limpide è lì, quasi a ridosso; brullo, ferrigno, corso da rughe di canaloni. Ma l’inverno è un’enorme, altissima, bianca muraglia; con le teste coronate di nuvole. Da ragazzo io lo vedevo andando all’Aquila. S’arrivava all’Aquila verso mezzogiorno, le campane delle molte chiese suonavano a gloria. E pareva che quel suono di gloria, navigante nel libero spazio, spingesse le nuvole che scendevano aeree mongolfiere bianche e oro, dal Gran Sasso verso i monti della Sabina. E il Gran Sasso, come si saliva verso la città, si mostrava lassù lontanissimo, con la sua ardita punta stagliata verso il cielo; il Corno Grande, ferrigno d’estate, candido d’inverno. E io guardavo se il Gran Sasso avesse le brache o il cappello, se cioè la neve fosse alle falde o sulla cima e indicasse perciò un lungo o corto inverno. Ma si era di primo autunno, e il Monte Corno aveva un colore bronzeo che la distanza velava d’una lieve tinta violetta. Dall’altra parte si scorgeva il Sirente proteso come un’enorme selce aguzza sul nero delle boscaglie, coi canaloni biancheggianti come quelli del Gran Sasso. E laggiù alle nostre spalle tra le lievitanti brume violacee, il massiccio lontano della Maiella, la montagna madre della gente d’Abruzzo . (G. Titta Rosa)

Il Parco Nazionale d’Abruzzo
Amato poco dai pastori, che vedono ridursi i pascoli, contenente ancora fino a poco tempo fa alcuni carbonai sperduti in condizioni quasi primitive, il Parco Nazionale è una delle grandi speranze turistiche del centro Italia. Nato, come anche quello del Gran Paradiso, sul luogo di una riserva reale di caccia per iniziativa privata, questo meraviglioso parco si allunga ai confini del Lazio, e infatti travalica sia nel Lazio sia nel Molise, coprendo un territorio di 300 chilometri quadrati appartenente a diciassette comuni.
Quasi interamente posto sopra i mille metri di altezza, è rinchiuso tra catene impervie che sorgono dai faggeti. Il viaggiatore pigro può farsene una mezza idea percorrendone il fondo valle, lungo il corso del Sangro. Ma i parchi nazionali, per il loro stesso proposito di conservare aspetti di natura selvaggia, sottraggono allo sguardo dei pigri i loro segreti. La mancanza di strade fino ad epoche recenti e la scarsa popolazione hanno salvato i boschi e gli animali altrove distrutti. Risalire le valli secondarie vuol dire dunque ritrovarsi in un’Italia più che antica, remota. Nel nostro Mezzogiorno la natura alpina prede un rigoglio che non può avere a nord; gli stessi alberi delle Alpi diventano qui più  fitti ed intricati così da sbarrare il passo; tali questi immensi faggeti, dove il verde si alterna al rosso, e che conservano sotto le foglie vive una coltre perenne di foglie morte di colore purpureo. I faggeti si arrestano contro le pareti di roccia, e non appena ci si libera dalla foresta ci si trova a ridosso delle cime, tra cui spiccano le catene del Marsicano e del Meta… Nel Parco è Pescasseroli, oggi centro alberghiero come altri borghi della zona, e destinato a diventare un centro alberghiero più grande…
Un piacere di Pescasseroli, che è sede della Direzione del Parco, è discorrere con le guardie… Questi uomini che fanno a piedi una ventina di chilometri al giorno sono i depositari dei segreti del Parco, il quale, oltre agli animali dei quali diremo tra poco, contiene martore, faine, volpi, gatti selvatici, tassi, aquile reali, gufi e forse galli di montagna. Qui si sono raccolti gli ultimi discendenti dell’orso marsicano, diverso da tutti gli orsi del mondo… Si è ritirato in questa cittadella, e la difesa della legge gli consente di conservare la propria rarità di esemplare unico… Secondo i calcoli prudenti vi erano negli anni ’70 del novecento una settantina di orsi rintanati nelle alte forre; animali pacifici, carnivori per eccezione, e così moderati che non spingano mai le loro orge sanguinarie più in là di una sola pecora. Pressapoco dello stesso numero erano anche i camosci, anch’essi diversi da tutti gli altri camosci della terra, esemplari appenninici dissimili da quelli alpini, dai quali si distinguono anche per le corna più lunghe. Pochi invece i caprioli…
Nocivi, e perciò da uccidere, sono considerati da sempre i lupi, animali nomadi, insieme con le volpi, e tutti nemici dei giovani orsi e camosci, delle pecore e delle capre. E’ difficile che i viaggiatori, come me, di passaggio, che non si internano tra foreste e spelonche, vedano in libertà orsi, lupi e camosci; essi devono accontentarsi di accostarne qualcuno cresciuto in cattività presso la Direzione, o gli esemplari imbalsamati nel museo.
La vita delle guardie non è drammatica come quella del Gran Paradiso, dove si svolge una battaglia perpetua tra la legge e i contrabbandieri; si passerebbero però giornate intere ad udirne i racconti. Quello ad esempio della lotta tra l’orso e il lupo, testimoniata dalle tracce rimaste sulla neve, ciuffi di peli di orso misti alla bava. Ma non peli di lupo: segno che, benchè più forte, l’orso non poteva azzannare il suo più agile avversario. Si impara qui che la faina, esile come un verme, ed appuntita come un trapano, uccide la volpe afferrandola al capo coi dentini aguzzi; e che la martora, presa nella tagliola sulla neve, se ne libera spesso recidendo la zampa con i suoi stessi denti, forse senza soffrire, perchè la zampa è anestetizzata dalla stretta e dal freddo. Perciò nel museo si vedono esemplari di martore con la zampina monca… (G. Piovene)

La conca del Fucino
Proprio nel cuore della regione montuosa dell’Italia Centrale si stende una ampia, fertile pianura. All’intorno essa è chiusa da alti monti calcarei di color grigio chiaro, culminanti a quasi 2500 metri nel Velino. In contrasto con queste alture inospitali, che fino a primavera inoltrata portano un bianco mantello di neve, sta la ridente pianura, alla quale danno un’impronta di fertilità campi, prati, gruppi d’alberi e lunghe file di alti pioppi.
Ma fino ad un secolo fa il bacino offriva tutt’altro aspetto, poichè esso era occupato da uno specchio d’acqua, il lago Fucino, che per grandezza appariva il terzo lago d’Italia.
Esso non era alimentato da corsi d’acqua importanti, nè da sorgenti, ma invece soprattutto dalle acque di pioggia, per cui, essendo queste irregolarmente distribuite nel corso dell’anno, il livello risultava variabile. E’ facile comprendere come questi dislivelli fossero dannosi per gli abitanti e per le colture, tanto più che nelle zone abbandonate temporaneamente dalle acque si spigionavano delle pericolose febbri.
In antico già l’imperatore Claudio si era interessato del prosciugamento del lago. Egli ordinò lo scavo di una galleria sotterranea, che avrebbe portato le acque nel Liri, non lontano dal luogo dove si trova ora il villaggio di Capistrello. E nell’anno 52 dC la galleria, che è uno dei maggiori lavori dell’antichità, risultando lunga quasi sei chilometri, venne ultimata. Sopravvenute le invasioni barbariche, il lago prese di nuovo possesso del suo antico fondo e i tentativi di rimettere in efficienza il canale sotterraneo rimasero senza esito.
Nel 1800, poichè lo Stato, a quel tempo il Regno di Napoli, non era in grado di disporre delle somme necessarie a lavori di prosciugamento, un audace milionario romano, il banchiere Alessandro Torlonia, si fece iniziatore del progetto a spese proprie, a condizione che il fondo del lago, una volta liberato dalle acque, diventasse di sua proprietà. Sa allora il suo motto divenne: “O io asciugo il Fucino, o il Fucino asciuga me”.
I lavori ebbero inizio nel 1854 sotto la direzione di un ingegnere svizzero. Le difficoltà da superare erano molteplici, anche perchè allora le condizioni della viabilità erano tutt’altro che buone. Nel 1862 la costruzione del nuovo canale veniva ultimata, ma solo nel 1875 si ebbe, dopo ottenuti due nuovi abbassamenti del livello, il prosciugamento totale, che causò la morte di migliaia di pesci. Oltre ad un canale centrale rettilineo, per evitare la sommersione della parte più depressa, vennero scavati circa 300 chilometri di canali secondari, uno dei quali cinge il bacino alla sua periferia, raccogliendo le acque dei torrenti che scendono dai monti vicini. L’audace banchiere riuscì così a trionfare d’ogni difficoltà e come riconoscimento venne nominato Principe del Fucino.
Oggi, quello che era un tempo il fondo pianeggiante del lago costituisce col suo fertile terreno la più vasta zona coltivata dell’Abruzzo. Dove un tempo gettavano le reti duecento pescatori, arano alcune migliaia di agricoltori. In mezzo ai frutteti si estendono campi di cereali, di patate, di ortaggi. Vaste zone sono piantate a vite e un quinto della superficie è coltivata a barbabietole. (K. Hassert)

Flora e fauna
I tiepidi venti dell’Ovest non riescono a passare l’Appennino e a portare il loro benefico influsso nell’altro versante; per questo, nelle montagne abruzzesi, fa freddo e le precipitazioni sono abbondanti; nella zona costiera, invece, il clima è migliore: il mare mitiga i calori estivi e il freddo invernale.
La flora delle alte montagne ricorda quella delle Alpi. Sopra i duemila metri vi sono prati, spesso con erbe medicinali ed aromatiche. Subito sotto incominciano i boschi: pini, faggi e, più basso, le querce. Nella zona adriatica vengono coltivati l’olivo e la vite; fino ai mille metri vive il castagno. Peschi e mandorli abbondano nelle conche interne.
La fauna era molto ricca e varia fino a qualche secolo fa. (M. Menicucci)

La produzione agricola
La produzione agricola dell’Abruzzo deve fare i conti con le difficoltà di un suolo in parte montuoso, in parte accidentato per frane e calanchi, colpito da alluvioni. La montagna è generalmente brulla; soltanto nel Parco Nazionale, esteso nell’alta valle del Sangro presso i monti della Meta, sono ricche foreste. Il diboscamento è stato causato anche dalla pastorizia, che tendeva, in passato, ad eliminare i boschi per estendere le terre adatte al pascolo: la pastorizia abruzzese è attiva ancora oggi ed è caratteristica per le sue transumanze (spostamento invernale di migliaia di capi dall’Abruzzo alle piane laziali e pugliesi); tale transumanza, che un tempo avveniva lungo i tratturi (piste segnate dal passaggio delle greggi), si svolge oggi più rapidamente su autocarri e  treni.
L’agricoltura è attiva, pur senza offrire mai un reddito elevato, nelle zone costiere, collinari e nelle vaste conche tra i monti; fatta eccezione per la valle del Fucino, il resto della campagna è spezzettato in piccole e minime proprietà.
Prodotti importanti sono la frutta, gli ortaggi (pomodori e primizie); caratteristica nella piana dell’Aquila è la coltivazione dello zafferano.

L’attività industriale
L’industria abruzzese ha uno sviluppo modesto, anche se si è recentemente indirizzata verso attività nuove: quelle della produzione idroelettrica (centrali del Sangro e del Pescara), dell’estrazione di petrolio (pozzi di Alanno) e di metano (zona di Vasto); si estrae anche bauxite dai monti della Marsica e dal monte Velino, e si usa il minerale in stabilimenti per la produzione di alluminio.
Sono presenti stabilimenti chimici per la produzione di esplosivi e concimi. La vecchia industria è rappresentata da zuccherifici.

Lo zafferano
Nell’Aquilano è molto estesa la coltivazione di questa pianta, specialmente a Prata d’Ansidonia. E’ un’erba perenne dai grandi fiori violacei e dagli stimmi di odore forte e di sapore aromatico. Il fiore viene raccolto in ottobre, prima del levar del sole. Gli stimmi, separati dalle rimanenti parti del fiore, vengono riposti in panierini aperti per facilitarne l’essiccazione; quindi, macinati, danno lo zafferano, polvere usata in cucina come aroma, in medicina nella preparazione del laudano, nell’industria come colorante di sostanze alimentari. (M. Menicucci)

La fiera di San Quintino
I mercanti di zafferano giungevano la mattina alla fiera. Ad essi era riservato lo spazio davanti alle vetrine della farmacia e alla porta del circolo, che era il posto dei signori.
Le bilance luccicavano come quelle del farmacista.
Seduti, o in piedi davanti alla bilancia, i mercanti di zafferano non battevano ciglio, non rivolgevano la parola a nessuno.
I contadini passavano e ripassavano davanti a quei tavolini allineati, s’informavano sui prezzi e si decidevano a tirar di sotto il cappotto il loro sacchetto di zafferano solo quando si erano persuasi che sarebbe stato impossibile vendere a un prezzo maggiore.
Allora, cautamente, mostravano il frutto prezioso delle loro cure e fatiche.
Perchè lo zafferano è una pianta che richiede cure infinite, va allevata come un bambino; vuole terreno leggero come la seta, lavorato più di un orto, non si finisce mai di stargli intorno.
I vecchi, rievocando le fiere di San Quintino dei loro tempi, ripetono ancora il proverbio: “A San Quintino anche il povero becca un quattrino”.
Finchè sulla piazza non si sente più uggiolare qualche cane sparso, che abbaia al vento e alla luna. (G. Titta Rosa)

Pastori abruzzesi
Nel novembre con i primi freddi e le prime grigie caligini crepuscolari, passano lungo il tratturo, una speciale strada erbosa che va, lungo il mare, alle Puglie, dai ricchi pascoli e dalla mite temperatura invernale, grandi greggi, agili capre davanti, pecore obbedienti dietro, formidabili cani ai lati, i pastori dall’alta mazza, memore del lituo etrusco, intagliata di pazienti disegni, di figure e di nomi, vegliano alla compattezza del branco. Alle soste, un gran cerchio di rete chiude il gregge, e lo spettacolo di quella pace di animali mansueti, che brucano l’erba rada e di uomini semplici, che attendono con gesti lenti, silenziosamente, alle monotone cure della pastorizia è d’una grandezza e d’una dolcezza infinita; intorno, io ne ho vedute di queste soste, sulle rive del Pescara, è la magnifica scena della vallata, il cui silenzio nel cadere dell’ombra, è accresciuto dal mormorio del fiume lungo i greti; da presso, le cime dei pioppi palpitano nella chiarita tenue del cielo  e lontano, ad occidente, i monti neri hanno un profilo formidabile di titano gigante. Verso la fine di giugno le greggi passano, dirette ai pascoli montani, e a distanza di mezzo anno, quel fluttuare uniforme di dorsi lanosi, quel rado abbaiare di cani e incitare di voci dai monosillabi gutturali, e il tono digradante dei campani in lontananza, e le forme nere degli uomini, eretti sulla linea dell’orizzonte nella lucentezza palpitante delle pure sere estive piene di stelle, sembrano la grande giornata che segue alla grande giornata, senza interruzione, nella vita dei pastori, che vivono con i bruti, con la terra e con Dio, pensosi di chi sa quali oscuri abissali misteri dell’essere. (E. Janni)

I tratturi
In settembre, i pastori d’Abruzzo lasciano i pascoli alpestri e si recano verso le pianure della Puglia o verso quelle dell’Agro Romano attraverso i tratturi, strade d’erba la cui origine si perde nella lontananza dei tempi. E’ certo che esistettero già prima che sorgesse Roma e che rimasero immutabili nel tempo. Oggi i tratturi  sono diminuiti di numero anche perchè i pastori preferiscono trasportare il gregge con appositi, razionali e rapidi mezzi. E’ ancora lunghissima la processione che si snoda attraverso “l’erbal fiume silente” dove sono già passate migliaia e migliaia di pecore come quelle di oggi, migliaia di pastori, come quelli di oggi. Anche il paesaggio è ancora quello di una volta e il pastore moderno rinnova sempre la propria meraviglia quando, alla sera, sull’ora del tramonto, gli appare in lontananza il mare Adriatico che verde è come i pascoli dei monti.
Forse, chi preferisce abbandonare l’usanza antica e trasportare il gregge con autocarri, non ha tempo di ammirare i colori del mare, la bellezza dei colli che si rincorrono come onde digradanti verso la marina, le belle vallate ornate di colori variopinti, i dolci fiumi che, silenziosi, si avvicinano all’Adriatico.
Il pastore che segue gli antichi tratturi impiega ancora due o tre settimane per raggiungere i pascoli di pianura; egli, come il suo gregge, non ha fretta di arrivare; per lui , il tempo non ha importanza. Ciò che importa è sapere che la strada che percorre è la stessa seguita dai suoi padri, fin dalla più remota antichità. Attraverso i tratturi, il cammino delle greggi è facile e sicuro; non c’è il pericolo di sbagliare strada e le pecore trovano facilmente di che nutrirsi lungo il viaggio. Poi scende la sera: il pastore si sdraia all’aperto sotto le stelle e può così contemplare il cielo e ripensare, già con nostalgia, alla montagna che, lassù, aspetta il suo ritorno a primavera.

Artigianato
In Pescara e provincia è localizzata l’industria abruzzese: fonderie, impastatrici, macine, torchi, frantoi, motori a scoppio, alluminio, concimi, asfalti e bitumi, acido solforico, solfato di rame…
Nelle altre parti della regione prevale l’artigianato che ha sempre sopperito alla richiesta locale e, in più di un caso, ha aperto la via all’esportazione.
A l’Aquila, Gessopalena, Isernia si fanno trine, merletti, ricami; a Giulianova ferve la lavorazione dei coralli; a Guardiagrele quella dei ferri battuti; a Sulmona l’industria dolciaria (confetti); a Chieti e Salle si fabbricano le corde armoniche; nel lancianese e ortonese ci sono lanifici e tintorie; sono rinomati i pastifici del chietino e del Molise; famosi i caciocavalli, i provoloni e le scarmorze della Marsica e del molisano; parecchie le distillerie e i liquori fatti con le erbe aromatiche della Maiella. Dalle argille e calcari locali traggono vita numerose fornaci di laterizi e di calce, terrecotte e ceramiche. Stimate le coltellerie di Campobasso e di Frosolone, la fonderia di campane di Agnone. Fiorente la lavorazione del rame a sbalzo.

I ceramisti di Castelli
Alle falde del monte Camicia, sedici chilometri a sud di Teramo, Castelli sorge da un tumulto di torrenti e di rocce che si rincorrono, si sorpassano, si confondono.
Il paese è sostenuto contro la rupe e difeso dalle frane, da grandissime arcate a tre ordini. Il terreno umido e argilloso, infatti, lo minava alla base e lo minacciava dall’alto; ma proprio in questo, Castelli trovò la sua fortuna, perchè l’acqua, l’argilla ed il bosco crearono le maioliche ormai famose nel mondo.
La ceramica di Castelli ebbe origine al tempo degli Etruschi.
Si conserva lo stesso sistema di lavoro da millenni; e quel lavoro paziente si svolge nello stesso ritmo di una vita semplice, con la medesima ruota, tra pani di creta e cataste di legna, in antri antichi ed umidi.
Quelle stesse fornaci produssero i tondini smaltati di vivaci colori che dal decimo secolo ornano i campanili e le chiese dell’Abruzzo.
La casa dei Pompei segna una data certa nella storia della ceramica castellana; infatti sulla facciata della sua abitazione Orazio Pompei murò una pietra con una scritta in latino che significava: “Questa è la casa del vasaio Orazio”, e sopra la porta mise una mattonella in cui aveva dipinto una Madonna, con la firma e la data: 1551.

Le province
L’Aquila sorge a 720 metri d’altezza, sopra una collina che domina la ben irrigata conca dell’Aterno, allungata tra la catena del Gran Sasso e l’altopiano del Monte Velino.
A Sulmona, notevole centro ferroviario alle falde della Maiella, nacque Ovidio, poeta latino; ed è famosa per le fabbriche di confetti. Sopra Sulmona, da una parte, Scanno sul lago omonimo, villaggio famoso per i costumi, i ricami e i merletti; e dall’altra, il grande Piano delle Cinquemiglia, oggi meta di turismo invernale.
Avezzano sorge presso l’antica conca lacustre del Fucino, ora trasformata in fertilissima campagna tutta coltivata a bietole, grano e pioppi: bietole per un importante zuccherificio, pioppi per una cartiera di prim’ordine. Un canale in galleria scavato sotto le montagne conduce l’eccesso di acqua della conca nel fiume Liri e quindi nel Tirreno.
Dalle montagne attorno, cioè dalla regione chiamata Marsica, si ricava buona bauxite (una terra rossa e bruna da cui si estrae alluminio). Qui si ha il villaggio più elevato dell’Appennino, cioè Rocca di Cambio, su un bell’altopiano della rispettabile altezza di 1434 metri. E nel Parco Nazionale d’Abruzzo, il villaggio di Roccaraso offre un bell’esempio di attrezzatura alberghiera per villeggiatura e turismo montano; come anche Pescasseroli, la patria del grande filosofo, storico e letterato Benedetto Croce.
Chieti si stende su un colle a 15 chilometri dal mare, dominante la valle del Pescara. Numerose industrie sono sorte sulla sottostante piana: zuccherificio, cartiera, manifattura tabacchi, fonderie, officine di macchine agricole ecc…
Cittadina di una certa importanza è Lanciano, nell’interno collinoso. Sulla costa: Francavilla, centro balneare; Ortona, centro di pesca; Vasto.
Pescara è invece presso l’Adriatico alla foce del fiume omonimo; distrutta durante la guerra, è ora in forte sviluppo sia per il turismo sia soprattutto per le industrie (cantieri navali ecc…). Il fiume Pescara venne canalizzato fino al mare tanto che oggi è diventato un ottimo porto – canale. Pescara è la patria del poeta Gabriele D’Annunzio.
Nell’interno della valle della Pescara, Bussi è notevole per una grossa industria chimica e per giacimenti di alluminio. Non lontano vi sono anche notevoli pozzi di petrolio. Dal piano di una grande conca sopra Bussi sgorgano grandiose sorgenti: è una parte delle acque assorbite dalle spaccature delle rocce calcari del Gran Sasso che, dopo un percorso sotterraneo tra le viscere dei monti, riemergono limpide alla superficie per alimentare le campagne e per essere utilizzate dalla Centrale idroelettrica di Bussi.
Teramo è situata su un poggio sporgente a dominare la confluenza del Tordino col Vezzola, da cui il nome latino di  Interamna (tra i fiumi) da cui poi Teramo. La zona collinosa circostante è alquanto franosa e solcata a calanchi.
Giulianova e Roseto degli Abruzzi sono buone stazioni balneari e pescherecce. (G. Nangerone)

L’Aquila
Le sue origini sono confuse: si parla di 99 castelli che contribuirono alla sua fondazione, per cui sono rimasti i 99 tocchi della campana della Torre del Palazzo di Giustizia e le 99 cannelle della Fontana della Riviera. Si ricorda come una volta la città avesse 99 chiese: ora non sono più tante, ma quelle che rimangono sono belle e ammirate. La città è dominata dall’imponente castello, isolato e protetto da un fosso profondo. La città, su una collina con scoscendimenti ai lati, è adagiata intorno a due grandi arterie tagliate a croce: il corso Federico II, dagli Alberelli alla piazza Margherita, e la via Roma, dalla porta omonima a San Bernardino. Ha per stemma l’aquila imperiale di Federico II Svevo. Nel Medioevo fu fiera delle sue libertà e le difese con le armi, sempre. I sentimenti di fierezza e di amore per la libertà si mantennero attraverso le secolari vicende e nel periodo del Risorgimento L’Aquila fu rappresentata, nelle lotte contro la tirannide, dai suoi migliori cittadini. (U. Postiglione)

A Pescara: il porto – canale
Fino a qualche anno fa, all’ora del tramonto, quando il mare assume il colore dell’ametista e si stacca per una sola linea dal rosseggiare del cielo, scorgevi la distesa popolata di vele, l’una gialla, l’una rossa, l’altra arancione, tutte con un simbolo, quale di Sant’Andrea, quale il calice dell’ostia, quale la mezzaluna, quale il mondo sovrastato dalla croce luminosa; e tutte queste vele si incrociavano, perdendosi nella distanza la misura di quella che fosse più innanzi a quella che fosse più indietro, gareggiando nell’ingresso al porto canale.
Ora non è più così. I nuovi pescherecci sono tutti motobarche. Cosicchè la sera, quando i pescatori rientrano, il porto canale è tutto un rumorio di motori, un tun tun tun continuo, incessante che si ripete da barca a barca, via via che entrano nel porto, e al sorgere del nuovo rumore le donne sollevano il capo, per vedere se con esso rientra il loro uomo. Infatti è inutile che esse si spingano sul molo, come una volta, a indovinare, tra le tante barche, per un segno inconfondibile, quella che sta loro a cuore, e se ne stanno sedute, lungo i moli, dove sanno che la loro barca attraccherà, cianciando tra loro, con tra i piedi il cesto del pesce che sta per giungere, ad attendere che un nuovo rullio gli faccia sollevare il capo. Ma frattanto tutto è animato, tutto è  concitato, e mentre sempre nuovi uomini si avvicendano attorno alle barche già attraccate, un calafato continua imperterrito il suo lavoro. (G. Vittorini)

Un grosso centro
Pescara nuova è uno dei prodigi del dopoguerra. Dopo la guerra, infatti, questo grosso centro si è raddoppiato. La città nuova sulla costa a settentrione della vecchia, oltre il ponte sul Pescara, sorse da una colonia di ferrovieri quando nacque la ferrovia.
I vecchi pescaresi sono sommersi dalla folla degli immigrati: gente di tutto l’Abruzzo scende a Pescara. La città attrae perchè è nella zona di gran lunga più ricca di prodotti agricoli. Nella vallata del Pescara sono poi sorte le vere industrie dell’Abruzzo. Così com’è Pescara ha una sua bellezza, diversa dalla consueta delle città italiane.
Una gran festa a cui ho assistito faceva veramente ricordare i Far West: bande e cori sembravano galleggiare sopra un mare di folla che riempiva le piazze e il lungomare, tutta macchiata di colori vivaci, tra cui predominava il rosso. Cori e bande nei chioschi si esibivano a gara. Le bande, con i loro maestri, per lo più musicisti o cantanti in ritiro che educavano i suonatori, appassionavano l’Abruzzo.
Erano le bande migliori d’Italia che giravano trionfalmente di centro in centro.
Ora le bande hanno perso un po’ di importanza, non perchè la passione sia estinta, ma perchè troppo alto è il prezzo degli strumenti, degli spartiti e dei variopinti costumi. (G. Piovene)

Chieti: una provincia pittoresca
Si estende a oriente del fiume Pescara fino a toccare col Trigno il contiguo Molise, e va dalla montagna al mare, avendo per sfondo il massiccio della Maiella e per termine a nord l’Adriatico, attraverso un’ondulata distesa di colli folti di olivi e di vigneti e popolati di borghi e di ville.
E se in alto, specie laddove balza il Sangro col suo corso aspro e tortuoso, il paesaggio è severo, presto, scendendo dai precipiti fianchi della Maiella, esso diventa blando e festoso. La natura vi manifesta una sua bellezza riposante, dalla quale è esclusa ogni nota violenta di linee e di colori, e tutto è condotto col disegno leggero e i toni attenuati propri di un pastello.
L’agricoltura è redditizia per cereali, vigneti, uliveti e frutteti. L’economia agricola è integrata solo dall’artigianato e da qualche piccola industria locale (pasta alimentare a Fara di San Martino e a Villa Santa Maria; tessili a Lanciano; piccolo armamento per la pesca e per il traffico con l’altra sponda ad Ortona). (Panfilo Gentile)

Folclore
Gli abitanti della montagna abruzzese hanno conservato riti, tradizioni ed usanze antichissime. Vivissimo è il culto dei morti: in ogni paese resistono al riguardo tracce di costumi curiosi, come quelli delle nenie, cantate da donne pagate allo scopo. Anche la nascita, il matrimonio e tutti i momenti più importanti della vita umana sono accompagnati da cerimonie che testimoniano un profondo senso religioso ed un sacro rispetto per la famiglia. Silenziosa e seria, la gente abruzzese sa diventare, in occasione di feste e ricorrenze, chiassosa e vivace. Ne fanno fede le sontuose feste patronali, le processioni e le sagre di paese, allietate da esibizioni bandistiche e canore, da affollatissime fiere, da fuochi di artificio e da scoppi di mortaretti.
Tipiche di certi luoghi sono usanze legate al remoto mondo pagano, come la sagra dei serpari di Cocullo e il bove portato in processione a Loreto Aprutino il lunedì dopo la Pentecoste. Notissimi i ricchi costumi femminili e le zampogne che, con la fisarmonica, accompagnano gli stupendi canti locali. Non meno ricco di folclore è il Molise, che vanta Sacre Rappresentazioni a Termoli e processioni (i Misteri di Campobasso) la cui origine si può far risalire al Medioevo.

La festa dei serpenti in Abruzzo
E’ una festa singolare che si svolge a Cucullo, in Abruzzo.
Il primo maggio si porta in processione la statua del patrono San Domenico. Avanzano gli uomini e i ragazzi con serpi arrotolate al collo, alle braccia e al petto. Seguono le donne, in costume locale con grossi ceri in mano, i musicanti, i sacerdoti. Il parroco, in un cofanetto d’argento, porta un dente del Santo.
Durante il lento cammino i serpari e altri popolani lanciano contro la statua del Santo lucertole e serpi, che l’avvolgono sulla testa, al collo, alle braccia, alla vita. Si vedono penzolare con le bocche aperte; se alcune cadono a terra, sono raccolte e rigettate sulla statua, dove si urtano, guizzano, strisciano, si avvolgono in atteggiamenti minacciosi, percuotono con le code il Santo, che avanza tra chiassose invocazioni, canti e suoni di bande, in un frastuono indescrivibile.

La festa del solco
La festa del solco si tiene ogni anno, in ottobre, a Rocca si Mezzo quando le piogge dell’autunno hanno ammorbidito la terra e già son tutti terminati i lavori dei campi.
Il clima e le intemperie non contano per i bravi rocchigiani la notte della gara dei solchi. Vento, pioggia o neve, le squadre dei concorrenti escono al tramonto dall’abitato e risalgono, ciascuna dietro il proprio aratro, la montagna che li vedrà impegnati nella gara fino alle luci dell’alba.
Lentamente, tra gli auguri delle donne che li accompagnano per un tratto, i gruppi vocianti (ciascun gruppo conta una quindicina di uomini con due mucche e un aratro), traversano le stoppie, superano siepi e ruscelli, rimontano costoni e burrati finchè non li inghiotte il buio della notte.
Alla vigilia è un affannoso andirivieni per le case in cerca di lumi, di torce, di lanterne, di paletti e di altri arnesi adatti; uomini e ragazzi vivono in un’atmosfera febbrile; si scommette, si fanno previsioni su chi alla mattina avrà tirato il solco più dritto. All’Ave Maria, sul piazzale della chiesa, in cima al paese, viene acceso il faro che guiderà gli aratori nelle tenebre. A quel faro si indirizzeranno tutte le file dei lumi, tante quante sono le squadre concorrenti, che faranno la strada all’aratro nel profondo della notte.
E’ uno spettacolo che non si dimentica. Nel silenzio e nel buio si odono richiami lontani e incitamenti e comandi: e a quelle voci si muovono i lumicini come gigantesche lucciole che vadano al allinearsi per una parata di fiaba.
Vediamo le tracce luminose formate dalle torce e dalle lanterne spostarsi lentamente dalla sommità della montagna verso la pendice ed immaginiamo lo sforzo degli uomini e delle bestie attorno all’aratro, la difficoltà di superare botri e torrenti e scoscendimenti e di riprendere il solco in perfetto allineamento con il tronco già tracciato; ammiriamo la bravura del capo squadra nel guidare i portatori di lumi in modo che sappiano disporli in corrispondenza col faro della chiesa e con le lanterne – guida piantate lungo il cammino. E ancor più restiamo stupiti al mattino quando, come per incanto, vediamo i fianchi del monte Rotondo squarciati da sette, dieci lunghi solchi, tutti sufficientemente diritti da richiedere un severo vaglio da parte della giuria.
Poi vincitori e vinti, con gli aratri adorni di festoni e con le bandiere conquistate nella gara si incolonnano dietro la processione della Madonna in onore della quale per dieci lunghe ore hanno gareggiato nell’oscurità e nel freddo. (M. Arpea)

Il pastore abruzzese
Prima “che in ciel la stella ultima cada” il pastore è in piedi, conduce il suo gregge impaziente al pascolo, e quando il sole  dardeggia riposa, nella capanna, o in qualche ombrata radura si dedica a facili e utili lavori: rammenda le calze, intesse le fiscelle dove sarà colato e posto ad essiccare il formaggio, concia le pelli, in cui egli pure durante l’inverno troverà riparo dal freddo. La munta del latte e la fabbricazione del formaggio sono le faccende che più richiedono, giornalmente, tempo e cura.
La prima stella che si accende nei cieli, trova i pastori già avvolti nelle coperte di lana, che si  riposano dopo la fatica.
In ottobre, quando alle prime scrollate della tramontana succedono le piogge, ed il Gran Sasso rimette il suo berrettone bianco, i pastori raccolgono le mandrie e le guidano sulla via del ritorno… (R. Biordi)

La più bella ora dell’Aquila
Non ho mai visto l’Aquila dall’alto: ma se dovessi darne un’immagine dall’alto, l’assomiglierei a una grande croce bianca adagiata su un colle: le braccia rivolte a ponente e a levente, fra Porta Romana e San Bernardino, i piedi e la testa distesi fra sud e nord, da Porta Napoli al Castello. La lunga strada che sale dal declivio nel cui fondo scorre l’Aterno e con lieve ascesa giunge alla mole fosca e potente del Castello, per ridiscendere rapidamente dalla parte opposta del colle, taglia la città in due parti. Oppure l’assomiglierei, con immagine storica e simbolica a un tempo, a un’aquila dalle grandi ali distese, gli artigli e il becco tesi da sud a nord,  le ali aperte e adagiate da levante a ponente.
La più bella ora dell’Aquila è quando suona mezzogiorno.
Ad un tratto dalle sue chiese il rombo delle campane esplode nell’aria luminosa, corre sui tetti come un fiume sonoro, dilaga per le vie, per le piazze, verso la campagna. La chiesa di San Bernardino, alta sulle altre, intensifica quel rombo che giunge dalle campane della Piazza Grande, dalle chiese di San Marciano, di San Domenico, di Santa Giusta, lo ridiffonde fino a confonderlo al suono disteso e trionfale delle campane di Collemaggio; gli echi dei monti circostanti lo riecheggiano moltiplicandolo e tutta l’aria è come un mare di suono. (G. Titta Rosa)

Il numero dell’Aquila
Un’antica e popolare tradizione dice che l’Aquila è la città del numero 99. Novantanove chiese, novantanove piazze, novantanove fontane. Il numero si riferisce a 99 villaggi che si dice partecipassero all’edificazione della città, fondata com’è noto da Federico II. Chiese, piazze, fontane, se una volta furono davvero novantanove, con l’andar del tempo sono diminuite di molto; ma è restata la fontana di novantanove cannelle, in uno dei borghi bassi della città, e sono novantanove i colpi che batte alle dieci di sera la campana della torre Palazzo.
La fontana versa l’acqua dalla bocca di novantanove mascheroni, l’uno diverso dall’altro, entro una lunga vasca, dove tuffano, sbattono e torcono i panni le lavandaie cittadine. (G. Titta Rosa)

Nel Parco Nazionale
A Pescasseroli sembrerebbe già di essere al centro del Parco. Ma essa in realtà ne è ancora ai limiti: per ora il Parco è solo questo verde che mi si versa negli occhi e mi riempie di stupore. E’ cominciato dopo Gioia Vecchia, perchè prima la montagna era tutta aspra, a tinte grigie a strappi marroni, con qualche macchia di bosco più fitto. Poi a un tratto, il verde ha prevalso, il verde tenero dei prati e l’altro cupo tendente al nero delle montagne. I monti mi si stringono addosso e non hanno cime, ma solo fogliame: un fogliame così denso da far pensare al muschio, a toppe e strati di muschio umido e fitto, di quello che invoglia a ficcarci dentro la mano. E’ il loro colore a farmeli apparire favolosi, a darmi a tratti l’impressione di muovermi ai bordi di un presepe. La strada taglia dritto fra i boschi e i boschi si impennano in su, fanno parete da ambedue i lati. Non c’è sole: si ferma più in alto, a formare una striscia d’un verde nitido e asciutto. Qui, al contrario, il verde è bruno, l’ombra compatta, pare quella di un acquario.
Sono giunto ormai nel cuore del Parco. La strada, tutta svolte, s’addentra per la gola e va a morire alla fine proprio ai piedi di questa mitica montagna, la Camosciara, la più nota del Parco. Solo allora mi viene addosso, svela un’ampiezza che mi lascia smarrito. (M. Pompilio)

Pescara, città americana
Quello che mi stava davanti non quadrava con i ricordi: mi pareva non tanto di confrontare una città con i ricordi personali di una prima visita, ma con una serie di stampe vecchie almeno un secolo. La Pescara di prima così per me divenne quasi una fantasia. Era una cittadina d’aspetto più vecchio che antico, col suo piccolo centro provinciale, traversata anche allora dalla ferrovia costiera. La casa di D’Annunzio, che non è grande, poteva ancora prendere qualche spicco; e quei dintorni pastorali, coi loro alberi fioriti, tendevano nel ricordo a sopraffare l’abitato. La Pescara che ritrovavo era una città moderna, senza più vero centro, ne quello provinciale di una volta ne un altro. Si espandeva e allungava indefinitamente lungo la riva, simile, per certi aspetti, a qualche città americana; moderna, ribollente, formicolante d’una folla composta soprattutto dagli immigrati. I residui della città che conoscevo vi si erano smarriti dentro o erano come inserti che bisognava cercare nella confusione. (G. Piovene)

Dal Gran Sasso
Sono intorno tutte le cime del gruppo: il Corno Piccolo, il Pizzo Cefalone,  il Pizzo d’Intermesele, il monte dell Portella e altre e altre… E giù per le valli, ad oriente, l’Abruzzo verde e ridente, l’Adriatico, con lontano  l’arancifero promontorio del Gargano e le isole Tremiti.
Se la mattina è pura, sgombra di caligine, si profila all’orizzonte l’altra riva dell’Adriatico, la Dalmazia, morbido segno come d’una nuvola uguale a fiore di mare. E già dall’altra parte l’altipiano aquilano, e l’Aquila e la valle dell’Aterno, e più a mezzogiorno la florida conca di Sulmona e, lontano, sull’orizzonte, la riga azzurra del Tirreno. (E. Janni)

Abruzzo

Fior d’ananasso,
nel popolo d’Abruzzo c’è il riflesso
della potenza austera del Gran Sasso.
Qui trovi ricche greggi e vino e grano
e trovi liquirizia e zafferano.
Ma ciò che a questa terra dà risalto
è la sua ricca produzion d’asfalto,
che viene atteso in tutte le contrade,
dove c’è amor d’aver belle strade.

Tutte le opere contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.

GIOCO GRAMMATICALE SUL NOME per la classe quarta

GIOCO GRAMMATICALE SUL NOME per la classe quarta della scuola  primaria su nomi comuni, propri, primitivi, derivati, alterati, maschili, femminili, singolari, plurali e collettivi.

Il gioco può essere preparato agevolmente a mano, ma se preferite ho preparato una versione pronta, scaricabile e stampabile in formato pdf.

Preparare dieci buste, su ciascuna delle quali i bambini scriveranno, oltre al proprio nome, le indicazioni seguenti:

  1. NOMI COMUNI
  2. NOMI PROPRI
  3. NOMI PRIMITIVI
  4. NOMI DERIVATI
  5. NOMI ALTERATI
  6. NOMI MASCHILI
  7. NOMI FEMMINILI
  8. NOMI SINGOLARI
  9. NOMI PLURALI
  10.  NOMI COLLETTIVI

(se volete potete stampare le buste già pronte da ritagliare e incollare)

Predisporre poi le striscioline di carta, sulle quali sono scritte i gruppi di parole per ciascun gioco (anche queste, se volete, già pronte per la stampa).

Gioco 1 – buste 1 e 2 (nomi comuni e propri) – Gruppi di parole
CICLISTA BALDINI
MONTE CERVINO
ETTORE CALZOLAIO
LAGO TRASIMENO
VIALE CARDUCCI
PASCOLI POETA
MANZONI SCRITTORE
NAZIONE FRANCIA
PAPA GIOVANNI
RE GUSTAVO ADOLFO
CARLO ALBERTO PRINCIPE
FIUMI ADDA TEVERE ARNO
EMILIA SARDEGNA UMBRIA REGIONI

Gioco 2 – buste 3, 4 e 5 (nomi primitivi, derivati e alterati) – Gruppi di parole:
RAGAZZINO RAGAZZETTO RAGAZZATA
OMETTO OMACCIO OMINO
BASTONE BASTONCINO BASTONATA BASTONATURA
COLTELLO FORCHETTA CUCCHIAIO CUCCHIAINO
CANNELLA CANNONE CANNUCCIA
CAVALCATURA CAVALIERE CAVALLETTO CAVALLONE
PEDATA PEDONE PIEDINO
MANIGLIA MANINA MANONE MANUBRIO

Gioco 3 – buste 6 e 7 (nomi maschili e femminili) – Gruppi di parole:
LIMONE ARANCIO ARANCIA DATTERO CILIEGIA
QUERCIA ABETE LARICE ONTANO VITE
LOMBARDIA ABRUZZO UMBRIA CAMPANIA ROMAGNA LAZIO FRIULI
ITALIA FRANCIA BELGIO OLANDA CILE PORTOGALLO GERMANIA SVIZZERA
ATENE FERRARA BRINDISI ASTI ACQUI PIREO TARANTO CAGLIARI AGRIGENTO CAIRO
PROBLEMA OPERAZIONE TEMA RISOLUZIONE SVOLGIMENTO RISPOSTA
GUIDA SENTINELLA SOLDATO RECLUTA AVIATORE GUARDIA

Gioco 4 – buste 8, 9 e 10 (nomi singolari, plurali e collettivi) – Gruppi di parole:
CESPUGLIO PIANTA ALBERI PINETA BOSCO FRUTTETO
SUONATORE BANDA MUSICISTI FANFARA
SOLDATO SENTINELLA GUARDIA PLOTONE SQUADRA BATTAGLIONE TENENTE UFFICIALE
API VESPA SCIAME MIELE ARNIA.

Al via dell’insegnante, i bambini dividono, tagliandole con le forbici, parola per parola, le striscioline di carta, e inseriranno ogni bigliettino con una parola sola nella busta voluta.

L’insegnante potrà poi ritirare le buste di tutti i bambini e controllato il contenuto potrà proclamare il campione di grammatica della classe.

Naturalmente il gioco può essere condotto anche in modo non competitivo, conducendo la correzione con tutta la classe insieme.

MARI ITALIANI materiale didattico

MARI ITALIANI materiale didattico di autori vari per la scuola primaria.

Facciamo un viaggio per mare, imbarcandoci con la fantasia, su uno di quei pescherecci che vanno al lago a pescare sogliole e muggini, oppure su una nave da diporto che ci porterà in crociera toccando i porti più notevoli dei nostri mari, costeggiando le rive, godendo dei pittoreschi paesaggi delle nostre coste.
Il mare dove l’Italia si stende è uno solo, il mar Mediterraneo, che i Romani chiamavano orgogliosamente Mare nostro. Ora non è più tutto nostro; nostri, cioè italiani, sono  i mari che il Mediterraneo forma quando arriva a bagnare le coste della  penisola. Si chiamano Mar Ligure, Mar Tirreno, Mar Ionio, Mare Adriatico.
Il mar Ionio è il più profondo, il mar Adriatico il meno profondo ma in compenso il più pescoso. I pesci amano i fondali relativamente bassi dove trovano in abbondanza di che soddisfare il loro appetito. Se è vero che il pesce grosso mangia il piccolo, come dice il proverbio, è anche vero che tutti i pesci si nutrono del plancton che è composto da minutissime alghe e microscopici animaletti che vi dimorano. Quindi se vogliamo fare una partita di pesca sceglieremo l’Adriatico

Il Mar Ligure e il Mar Terreno
Il Mar Ligure non è molto esteso. Prende questo nome dalla bellissima regione che esso bagna, una delle più pittoresche d’Italia. Palme, aranci, olivi, un cielo quasi sempre azzurro, un clima mite, un mare stupendo; ecco ciò che si presenta gli occhi di coloro che visitano questa meravigliosa regione. Nel cuore di tutta questa bellezza c’è Genova, la superba, coi suoi cantieri sonanti, i suoi traffici intensi, aerei oltre che marittimi, il suo popolo fiero, laborioso, generoso.
Genova sorge in fondo a un grande golfo che ne prende il nome.
Appena usciti dal golfo di Genova, ecco, in una profonda insenatura, una città che sembra fatta di ferro, un porto popolato anch’esso di navi di ferro, su cui il profilo dei cannoni mette un’ombra minacciosa. E’ La Spezia, uno dei maggiori porti militari d’Italia, una città forte, severa, risonante di lavoro e di fabbriche di armi.
Dopo La Spezia, la costa si fa bassa, sabbiosa. E’ l’incantevole spiaggia toscana dove sorgono graziosissime cittadine balneari. Non vi si trovano grandi porti, eccettuato quello di Livorno, anch’esso risonante di lavoro perchè nel suo cantiere si costruiscono belle navi da carico e da trasporto. I costruttori livornesi sono conosciuti anche all’estero.
Ed ecco in lontananza elevate ciminiere da cui escono nuvole di fumo denso e nero. Sono gli altiforni di Piombino, dove si lavora il ferro ricavato dalla vicina Isola d’Elba, il cui profilo si scorge all’orizzonte.
Proseguendo nel nostro viaggio, dopo la costa toscana, superato appena il pittoresco promontorio dell’Argentario, ecco la costa laziale, un tempo brulla, malsana e infestata dalla malaria. E’ l’Agro romano, che oggi, per opera dell’uomo, è diventato una terra fertile, verdeggiante, salubre… Qui sfocia lento, torbido, solenne, il Tevere, il fiume di Roma, spettatore di tanta storia.
Il fantasioso viaggio continua e ben presto lo sguardo si rallegra soffermandosi su una costa verde, coperta di una lussureggiante vegetazione fatta di olivi, viti, aranci. E’ la costa campana. Incontriamo prima Gaeta col suo piccolo ma delizioso golfo, e infine l’ampia insenatura in fondo alla quale sorge Napoli, dove cielo e mare sono inverosimilmente azzurri, dove la gente lavora lieta nel dolcissimo clima che dà ricchi prodotti e una terra fertile, ai piedi del Vesuvio.

Le isole del Mar Tirreno
Le isole maggiori sono la Sicilia, isola ricca di agrumi, sulla quale si leva il vulcano più alto d’Europa, l’Etna; la Sardegna, bellissima nel suo paesaggio rude e roccioso dove esistono ancora i nuraghi, le antiche, misteriose costruzioni di un popolo la cui storia si perde nella notte dei tempi; la Corsica, che appartiene politicamente alla Francia.
Non dimenticheremo le isole minori: l’Arcipelago Toscano con l’Isola d’Elba; l’Arcipelago Campano di cui fanno parte le gemme del Tirreno Ischia, Capri, Procida; l’Arcipelago Ponziano di cui l’isola di Ponza è la principale; il gruppo delle isole Eolie o Lipari, in una delle quali sorge lo Stromboli, il terzo vulcano attivo d’Italia. Più a ovest, ecco Ustica e infine il gruppo delle Egadi a ponente della Sicilia. Tra Sicilia ed Africa si trovano le vulcaniche isole Pelagie e l’isola di Pantelleria.
Siamo così giunti allo stretto di Messina, un tempo terrore dei naviganti: chi passava lo stretto, correva il rischio, secondo la favola antica, di morire. Due terribili mostri, Scilla e Cariddi, vi facevano la guardia e chi sfuggiva alle insidie di Scilla, cadeva nell’inganno di Cariddi, e chi si salvava da Cariddi, non poteva evitare il tranello di Scilla. Favole. Che però avevano un fondo di verità. Le correnti dello stretto sono così impetuose che le antiche imbarcazioni, poco sicure, naufragavano facilmente; ciò giustificava la mitologica presenza dei due terribili mostri. Oggi lo stretto si attraversa agevolmente con le navi – traghetto, che trasportano treni ed automobili, e con i veloci aliscafi. Ottimi porti si aprono sulla costa tirrenica della Sicilia: Palermo e Trapani.

Il mar Ionio
Siamo così giunti al mar Ionio, il più profondo d’Italia. Ampi porti si aprono in questo mare: Messina, Siracusa, Augusta, in Sicilia. Lasciandoci alle spalle l’isola maggiore d’Italia, bordeggeremo lungo il tacco dello stivale, dopo essere entrati nell’ampio golfo di Taranto, dove sorge il più grande porto militare in cui stanno alla fonda le navi da guerra. Al largo incontriamo le imbarcazioni che vanno alla pesca del pesce spada. Queste barche inalberano un lungo palo in cima al quale si aggrappa un uomo salito fin lassù per avvistare, nell’immensità del mare, il guizzare pesante dello squalo che poi sarà trafitto con la fiocina.

Il mar Adriatico
Dopo aver superato il tacco dello stivale, e cioè la Penisola Salentina, eccoci nel Mar Adriatico, azzurro, pescoso e amarissimo. E’ infatti il più salato. Sono coste quasi rettilinee, uniformi, dove si trovano i porti di Brindisi, scalo per le navi che vanno in Oriente, Bari, Barletta, tutti ai limiti della fertilissima terra pugliese e il Tavoliere delle Puglie, dove si produce in quantità grano e vino.
Lungo la costa ora non si trovano più insenature importanti e quindi non vi sono porti di rilievo, eccettuato quello di Ancona, situato in un gomito della costa stessa (il so nome in greco significa appunto gomito). Incontriamo però buoni porti pescherecci, situati negli estuari dei fiumi. Il principale di questi è San Benedetto del Tronto.
Proseguendo oltre Ancona troviamo piccoli porti – canali sui ridenti lidi romagnoli dove si stendono ampie spiagge dalla sabbia dorata, popolate di bagnanti e di turisti; infine Ravenna e la Laguna di Comacchio che si chiama anche valle, ma soltanto in gergo peschereccio, perchè in queste valli non si raccoglie il grano bensì il pesce, di cui si fanno importanti allevamenti. E’ nelle valli di Comacchio che si pescano le saporitissime anguille.
Eccoci poi nell’ampio golfo di Venezia. E’ questo un nome che fa sognare italiani e stranieri. E’ una città unica al mondo, costruita su numerose isolette dove, per recarsi da un luogo all’altro, ci si serve di strette vie (le famose calli) o dei numerosi canali solcati da gondole e vaporetti. Una città dove i palazzi di marmo sembrano sorgere dall’acqua, una città che nel passato estendeva i suoi domini fino ai paesi del Mediterraneo orientale.
Non immaginavano certo questo splendido destino quei profughi che, per sfuggire all’invasione dei Barbari, andarono a rifugiarsi sulle deserte isole della laguna. Forse, queste popolazioni, in tempi diventati più sicuri, avrebbero abbandonato le loro provvisorie abitazioni, se non avessero trovato, in queste isolette, un tesoro: il sale. Il sale fu la prima moneta di Venezia, e se è vero come si dice che dove si semina sale non nasce più nulla, Venezia smentì clamorosamente questo detto perchè seminò sale e raccolse oro. Il sale, a quei tempi, era molto richiesto, e Venezia lo estrasse dal mare e lo esportò nei paesi dove le sue navi approdavano. Era una ricchezza che costava poco o nulla, e Venezia ne approfittò per aumentare la sua potenza.
Siamo quasi alla fine del nostro viaggio. Non mancheremo di fare una visita a Trieste, la città italianissima, sul confine, col suo cantiere fervente di lavoro e col suo porto dove si svolgono traffici intensi.

Mari d’Italia
La penisola italiana si spinge nel Mar Mediterraneo dividendolo in due grandi parti: l’orientale e l’occidentale, ed è bagnata da ben sei dei mari minori in cui il Mediterraneo si divide, e cioè: il Mare Ligure, il Mare Tirreno, il Mare di Sardegna, il Mare di Sicilia, il Mare Ionio ed il Mare Adriatico.
Il Mediterraneo gode di una temperatura media superficiale di 23° – 24° nel periodo estivo, e di circa 12° nel periodo invernale. Una temperatura davvero mite.
Le maree, ovvero il periodico innalzarsi e successivo abbassarsi delle acque, dovuto all’influsso della luna, provocano nel Mediterraneo differenze fra massimo e minimo soltanto di pochi decimetri: ad esempio 36 cm a Napoli e 27 cm a Genova; più accentuata la differenza a Venezia, circa un metro
Il Mar Ligure si estende tra le zone settentrionali della Corsica e le coste liguri; è poco pescoso e piuttosto profondo (massima profondità 2800 m).
Il Mar Tirreno è compreso fra le tre isole Sicilia, Sardegna e Corsica e la costa occidentale dell’Itala; è abbastanza pescoso e profondo (massima profondità 3700 m); numerose le isole.
Il Mar di Sicilia è situato tra le coste africane e quelle meridionali siciliane; è  ricco di pesci ma poco profondo (profondità massima 1600 m, in qualche punto).
Il Mar di Sardegna è compreso fra la Corsica (Francia), le Baleari (Spagna) e le coste occidentali della Sardegna; è pescoso e profondo (profondità massima 3100 m).
Il Mar Ionio si stende tra l’Italia, l’Africa e le coste occidentali della Grecia; è molto profondo ed anche caldo (profondità massima 4400 m).
Il Mar Adriatico si allunga fra la Dalmazia e le nostre coste; non è molto profondo e appunto per questo è molto pescoso (massima profondità 1250 m, ma nel Golfo di Venezia non supera i 25 m). E’ il mare più salato.

L’Italia nel Mediterraneo
Il Mediterraneo, chiuso fra le terre d’Africa, d’Asia e d’Europa, è ben riparato dai venti freddi del settentrione ed è favorito da un clima, assai dolce in inverno, che fa fiorire sulle sue sponde una ricca vegetazione, varia e sempreverde, d’agrumi e d’olivi, di palme e di cipressi, di lecci e di pini, e di altre piante che nel loro complesso costituiscono insieme la macchia mediterranea.
Attratte dal clima e dalla ricchezza della vegetazione, fin dalle epoche più remote, molte genti si stabilirono sulle rive di questo mare il quale, col passare dei secoli, divenne il crocevia e il centro di fusione di molte antiche civiltà.
In mezzo al Mar Mediterraneo, sì da dividerlo in due parti quasi uguali, si protende, snella e slanciata, la Penisola Italiana.

Le coste italiane
Le coste italiane hanno uno sviluppo complessivo, comprese le isole (ma senza la Corsica) di circa 8000 km.
Le coste del Mar Ligure disegnano un grande arco tra Capo Ferrat e Capo Corvo; alte e rocciose, con frequenti scoscesi promontori e minuscole insenature, offrono scorci panoramici vari e pittoreschi.
Sulla Riviera di Ponente stanno Savona, Ventimiglia, Varazze, Bordighera, Sanremo, Imperia, Albenga; sulla Riviera di Levante stanno Genova, il nostro maggior porto mercantile; La Spezia, porto militare, il cui golfo è chiuso dalla penisoletta di Porto Venere; Rapallo, Chiavari e Sestri.
Le coste del Mar Tirreno si sviluppano da Capo Corvo alla punta del Pezzo, sullo stretto di Messina. Lungo la Toscana, il Lazio e parte della Campania, le coste sono basse, scarse di porti e un tempo orlate di terreni palustri come nelle Maremme e nelle Paludi Pontine, ora quasi completamente bonificate. La maggiore insenatura è il golfo di Gaeta; i promontori più accentuati sono quelli di Piombino, dell’Argentario e del Circeo; Livorno e Civitavecchia i porti più attivi. Nella sua sezione meridionale, lungo la Campania e la Calabria, la costa tirrenica presenta sporgenze e coste alte e rocciose e insenature a fondo piatto. Le sporgenze più pronunciate sono la penisola Sorrentina, il Cilento, la penisoletta del Poro; le maggiori insenature sono i golfi di Napoli, di Salerno, di Policastro, di Santa Eufemia, di Gioia; il porto più attivo è Napoli, seguito a grande distanza dai porti di Torre Annunziata, Castellammare, Salerno. Le coste calabresi non hanno porti.
Il Tirreno è il mare italiano più ricco di isole: arcipelago Toscano, isole Pontine, Partenopee, oltre a quelle contermini alla Sicilia e alla Sardegna.
Le coste del Mar Ionio, generalmente basse e lisce, si sviluppano dalla punta del Pezzo al Capo di Santa Maria di Leuca; alle foci dei fiumi si hanno tratti di pianure alluvionali. Alcuni erti promontori, tuttavia, si spingono a punta nel mare: Capo delle  Armi, Capo Spartivento, la penisoletta di Crotone. Tra le penisole calabrese e salentina si stende il golfo di Taranto; assai più piccolo, a sud, il golfo di Squillace. Rari i porti: Reggio Calabria, Taranto (militare), Crotone e Gallipoli.
Le coste italiane del Mar Adriatico si sviluppano dal Capo di Leuca a Trieste. Mentre la costa dalmata è alta e rocciosa, spaccata da profonde insenature, frastagliata da lunghe isole parallele, la costa italiana è unita, bassa (tranne alla Testa del Gargano e al promontorio del Conero). A sud e a nord del Gargano ricorrono tratti paludosi e lagune (laghi di Lesina, di Varano, di Salpi); ma le lagune più importanti sono, come abbiamo detto, quelle della costa veneta.
A nord l’Adriatico forma i golfi di Venezia e di Trieste.
I porti più importanti, lungo la costa italiana, sono quelli di Brindisi e di Bari in Puglia, di Ancona nelle Marche, di Venezia e di Trieste in Veneto e Friuli.

Dettati ortografici

La vita dell’Italia è sul mare
L’Italia deve ricorrere essenzialmente alle vie marittime per assicurare la vita materiale ed economica del suo popolo. L’Italia ha il suo territorio racchiuso nel Mediterraneo. Tutte le sue comunicazioni terrestri debbono attraversare la barriera delle Alpi, come tutte le sue comunicazioni marittime devono passare attraverso gli stretti situati a mille miglia dai nostri porti. Perciò possiamo dire che il mare è la linfa vitale, il sangue dell’Italia.

La pesca dell’Adriatico
L’Adriatico, specialmente nella parte superiore, è più pescoso del resto del Mediterraneo. Lo percorrono in buona parte i bragozzi chioggiotti che si tengono, per la pesca, discosti dalle rive. Le barche di altre località, invece, si allontanano poco dalla costa, limitandosi alla pesca con reti fisse, collocate in luoghi adatti e con reti  a strascico. D’estate e di primavera, però, si spingono al largo alla pesca delle sardine le quali attraversano date zone in sciami o branchi. (Mottini)

Mari d’Italia
Il mar Ionio è il più profondo, il mar Adriatico il più pescoso. I pesci amano i fondali bassi dove trovano in abbondanza di che soddisfare il loro appetito perchè, se è vero che il pesce grosso mangia il piccolo, come dice il proverbio, è anche vero che tutti i pesci si nutrono del plancton, che è composto di minutissime alghe e di microscopici animaletti che fra esse dimorano. E il plancton si trova generalmente nei bassi fondali.

Le coste del Mar Ligure
Sulla costa ligure vanno  a veleggiare italiani e stranieri, famosa com’è in tutto il mondo, per la bellezza dei paesaggi e la dolcezza del clima. Palme, aranci, olivi, un cielo quasi sempre azzurro, un mare stupendo, delle coste pittoresche, ecco ciò che si presenta all’occhio di chi ha la fortuna di visitare questo bellissimo paese. Nel cuore di tutta questa bellezza sorge Genova, la Superba, coi suoi cantieri sonanti, i suoi traffici intensi, il suo popolo fiero e generoso.

La costa campana
Costeggiando l’Italia verso sud, il nostro sguardo si potrà rallegrare soffermandosi su rive verdi, coperte di una lussureggiante vegetazione di olivi, di viti, di aranci. Incontriamo prima Gaeta, nel suo piccolo ma delizioso golfo e infine Napoli, il secondo porto d’Italia, dove il cielo e il mare sono inverosimilmente azzurri, il clima è dolcissimo e la terra fertilissima.

Lo stretto di Messina
Una volta la traversata di questo stretto spaventava i navigatori, ma oggi non spaventa più nessuno. Basti dire che si può attraversare senza neppure scendere dal treno. Infatti questo viene istradato su una nave traghetto che compie la traversata, dopo di che il treno riprende la sua strada sull’altra riva. Messina fu distrutta da un tremendo terremoto, ma oggi è risorta più bella e attiva di prima.

I mostri dello stretto
Un tempo chi attraversava lo stretto di Messina correva il rischio di sprofondare nel mare, almeno a quanto raccontava la leggenda. Due terribili mostri, Scilla e Cariddi, vi facevano la guardia e chi sfuggiva a Cariddi non poteva evitare Scilla. Leggende, naturalmente, ma che avevano un fondo di verità. Infatti, le correnti dello stretto sono così impetuose e le navi dell’epoca così fragili e malsicure, che i naufragi erano frequentissimi e tali da giustificare la fiabesca esistenza dei due terribili mostri.

Venezia
E’ un nome che fa sognare italiani e stranieri. E’ una città unica al mondo, costruita su isolette dove, fatta eccezione per strettissime calli, non ci sono strade per recarsi da un luogo all’altro, bensì canali che bisogna percorrere in gondola o in vaporetto. Una città dove si costruivano stupendi palazzi di marmo quando ancora molte altre avevano capanne di fango; una città che divenne ricca e potente, riuscendo ad estendere il suo dominio fino al lontano oriente.

La cattura del pesce spada
Sul mar Ionio si pratica la pesca del pesce spada. Sull’imbarcazione attrezzata per tale impresa, si leva un albero altissimo e un uomo sta lassù, aggrappato in cima all’asta dondolante, per tentare di scorgere, nell’immensità del mare, il guizzare del grosso pesce. Quando viene avvistato, l’imbarcazione tenta di avvicinarsi senza provocarne la fuga. Ed ecco un altro uomo all’opera. Armato di una lunga fiocina, cerca di colpire lo squalo, lanciando l’arma con mano abile e potente. La fiocina è assicurata da una corda e quando il pesce è colpito, non c’è che da tirarlo a bordo, sia pure con grande fatica e talvolta, date le dimensioni, anche con pericolo.

Parla il mare d’Italia
Bella Italia, mia regina! Tirreno, Ionio, Adriatico, io non sono che un mare, il tuo mare! Vi fu un tempo che ti custodivo tutta in me: tu sei emersa, ma ancor oggi, nelle pieghe delle tue montagne, custodisci le sabbie e le argille che io vi ho deposto, serbi nelle tue pietre le conchiglie e le alghe di cui ti adornavo. Sei sinuosa di rive, facile agli approdi, dolce di lagune, traboccante di garofani e di rose, bianca di marmi, dorata di biade, fiammeggiante di vulcani, profumata di agrumi! Tutta io t’investo a temperare i freddi venti del settentrione e i brucianti fiati del sud.

Venezia
Per sfuggire alle invasioni dei barbari, molti profughi andarono a stabilirsi su alcune isolette che sorgevano sulla laguna. Forse, in seguito, questi profughi avrebbero abbandonato le provvidenziali isolette se non si fossero accorte di avere, a portata di mano, un grande tesoro: il sale. Il sale fu la prima moneta di Venezia e se è vero quanto si dice, che dove si semina sale non nasce più nulla, per Venezia fu tutto il contrario: seminò sale e raccolse oro.

Il mare d’Italia
Marinaro è il tuo popolo, Italia, e marinare sono le tue sorti! Sul mare vennero al lido tirreno le navi di Enea, nel mare crollò il potere di Cartagine e sorse l’impero mediterraneo di Roma; sul mare spiegarono le vele e gli stendardi, al traffico e alla guerra, i galeoni di Amalfi, di Gaeta, di Pisa, di Genova e di Venezia che fermarono le flotte turche e barbaresche, e Genova andò superba della propria ricchezza, e Venezia levò palazzi di trine marmoree e chiese dalle cupole d’oro. Sul mare, su tutti i mari, tentando nuovi passaggi, scoprendo isole e continenti, donando terre e imperi a sovrani, navigarono gli arditi marinai del Medioevo, navigarono Cristoforo Colombo, genovese, Giovanni Caboto, veneziano, Amerigo Vespucci, fiorentino, e Antonio Pigafetta che, al servizio del portoghese Magellano, fu il primo italiano a compiere il giro del mondo.

Le coste d’Italia
Cinta per gran parte dal mare, l’Italia si allunga in una distesa di svariatissime coste, qua lentamente digradanti con dolce pendio, là scoscese e percosse dalle onde: ora selvose, ora nude, ora coronate di ridenti colline che si protendono in lunghi promontori e capi e file di scogli, o scavate in vasti golfi o porti amplissimi e sicuri contro ogni insidia del mare. Isole e isolette qua e là, in faccia alle spiagge, accrescono varietà e bellezza delle coste italiane.

Il mare
Il mare è un immenso serbatoio di vita. Le sue acque contengono il sale, i pesci più svariati, le alghe da cui si ricavano sostanze medicinali e soprattutto assorbono lentamente il calore del sole e lo restituiscono lentamente alla terra. Quindi, mentre la terra rapidamente si riscalda e altrettanto rapidamente si raffredda, il mare ha una temperatura più costante e rende più mite, cioè più dolce, il clima, non solo delle spiagge, ma anche di un largo tratto dell’interno. (P. De Martino)

Mari, coste, pini e sole
Tu credi che i mari si assomiglino tutti? Sono tutti fatti d’acqua, con tanta acqua salata… Ma è la luce che li fa diversi. Ci sono i mari del sole e quelli della nebbia, quelli azzurri e quelli grigi. Se tu hai visto qualche volta i mari dell’Europa settentrionale vedrai che il nostro è tanto più azzurro di quelli. Quasi verde l’Adriatico, cerulo lo Ionio, azzurro di cobalto il Mediterraneo, celeste chiarissimo il Tirreno. Attorno a Napoli, a Sorrento, a Procida, a Capri, l’azzurro è luminoso come uno smalto.
E, come il colore del mare, varia all’infinito la bellezza delle coste. Siamo sulle rive di una stessa terra, ma la costa della Liguria come fai a confrontarla con quella veneta? E quella toscana con quella di Puglia?
Due cose le ritrovi ovunque: i pini e il sole. (O. Vergani)

Mari colorati
Talvolta, in prossimità delle coste, la superficie assume un colore giallo sporco per i materiali portati dai grandi fiumi; nelle calde notti estive, i mari tropicali hanno curiosi fenomeni di fosforescenza per l’azione di miliardi di microrganismi che emettono una luce simile a quella delle lucciole.
Alcuni mari debbono il loro nome proprio al colore predominante delle acque: come il Mar Rosso, i cui riflessi rossastri sembra siano da attribuire a una grande quantità di alghe di quel colore; o come il Mar Giallo, così chiamato per il limo portato dal fiume Hoang-ho; il Mar Bianco, ovviamente, trae il suo nome dalla presenza dei ghiacci galleggianti sulle sue acque.

La sinfonia marina
Arrivava l’onda con una veemenza d’amore o di collera sui massi incrollabili; vi si precipitava rimbombando, vi si dilatava gorgogliando, ne occupava, con la sua liquidità, tutti i meati più segreti. E quasi pareva che un’anima naturale oltresovrana empisse della sua agitazione frenetica uno strumento vasto e molteplice come un organo, passando per tutte le discordanze, toccando tutte le note della gioia e del dolore.
Rideva, gemeva,  pregava, cantava, accarezzava, singhiozzava, minacciava: ilare, flebile, umile, ironica, lusinghevole, disperata, crudele. Balzava a colmare sulla cima del più alto scoglio una piccola cavità rotonda come una coppa votiva; s’insinuava nella fenditura obliqua dove i molluschi prolificavano; piombava sui folti e molli tappeti di coralline lacerandoli o vi strisciava leggera come una serpe sul musco. (G. D’Annunzio)

A pesca nell’Adriatico
Le principali barche da pesca dell’Adriatico sono le paranze e le lancette. Le prime sono di maggior grandezza, pescano sempre accoppiate e non rimangono in mare più di quindici giorni, provvedendo al trasporto del pesce a terra con battelli a vela o a remi. Le lancette sono barche di più piccola dimensione che navigano non discostandosi molto da terra. Lasciano la spiaggia la mattina prima dell’alba e, dopo una giornata di pesca, ritornano a terra, sì che la sera, verso il tramonto, empiono il mare di uno sbandieramento vivace, pittoresco, con la gaiezza delle loro vele scarlatte. (V. Guizzardi)

Tutte le opere contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.

MONACHESIMO dettati ortografici e materiale didattico

MONACHESIMO dettati ortografici e materiale didattico vario di autori vari per bambini della scuola primaria.

I conventi
Durante e dopo le incursioni dei Barbari, l’Italia offrì un ben triste spettacolo: rovine e stragi, i templi distrutti, i monumenti abbattuti, le opere l’arte e della letteratura abbandonate e neglette. Pareva che la vita non avesse più valore tanto erano ormai diventate realtà di tutti i giorni le morti, le stragi, le violenze.
Questo stato di cose favorì lo sviluppo del cristianesimo. Più perdeva valore la vita terrena, più ne acquistava la vita eterna. Fu così che alcuni uomini si ritirarono in luoghi deserti, preferibilmente sulla sommità di alte montagne, per dedicarsi esclusivamente alla preghiera in solitudine. Questi uomini furono chiamati eremiti ed erano tenuti in grande considerazione.
In seguito, questi religiosi si riunirono a far vita comune, dedicata esclusivamente a Dio e alle opere di bene. Sorsero così i conventi. Il convento più famoso, fondato in quell’epoca, fu quello di Cassino, sorto per opera di San Benedetto.

MONACHESIMO dettati ortografici e materiale didattico vario – San Benedetto
San Benedetto era nato a Norcia, paese dell’Umbria, da nobile famiglia. Fin da giovanetto aveva sentito l’attrazione per la vita eremitica e abbandonata la sua casa si era ritirato a vivere in una grotta, tra i monti di Subiaco e vi stette tre anni. La fama della sua santità si sparse dovunque e alcuni eremiti gli chiesero di far vita comune con lui.
Sorse così un convento. Benedetto dettò la regola che fu però diversa dalle regole che governavano altri conventi. Infatti, mentre in questi si osservava soltanto l’obbligo della preghiera, a Montecassino i monaci dovevano anche lavorare. Anche il lavoro è preghiera, se dedicato a Dio. “Ora et labora” fu la regola dei monaci benedettini, i quali si dedicavano alle opere sia intellettuali che manuali. Chi si dedicava allo studio, alla salvaguardia dei vecchi codici e alla miniatura dei codici nuovi, chi zappava la terra, allevava le api, costruiva abitazioni. A causa dell’avvilimento a cui li avevano costretti le invasioni e le distruzioni dei barbari, gli uomini non pensavano più ai valori spirituali della vita, alle arti, alle belle scuole, alle opere letterarie scritte nelle età antiche, ai poemi, alle sculture. Fu per merito dei conventi e dei monaci in essi ospitati, se molte di queste opere furono salvate. I religiosi raccolsero gli antichi manoscritti, quando erano rovinati li ricopiarono pazientemente, li studiarono, li commentarono. Fu merito dei conventi se le opere di molti scrittori e poeti dell’antichità poterono giungere fino a noi.
Ma l’opera dei monaci non si fermò qui. La miseria della popolazione era tanta e i conventi raccolsero i poveri, i derelitti, i perseguitati. Chiunque veniva accolto in un convento, centro di lavoro agricolo e artigiano oltre che di preghiera, era al sicuro dalla fame e dalle vendette dei nemici.
Sorsero così nell’interno dei conventi ospedali, scuole, laboratori, opere di pietà e di assistenza. Tutti quelli che chiedevano asilo venivano accolti e confortati.

Notizie da ricordare
Nel Medioevo si costituirono per la prima volta i conventi, luoghi dove si raccoglievano uomini votati esclusivamente a Dio.
Il convento più famoso fu quello di Montecassino, fondato da San Benedetto. L’ordine benedettino aveva per regola il motto “ora et labora”, cioè prega e lavora.
In questi conventi furono raccolti e restaurati preziosi libri manoscritti dell’antichità che furono così salvati dalla distruzione e dalla dispersione.
Intorno ai conventi sorsero scuole, ospedali, laboratori, opere di pietà e di assistenza. Chiunque si rifugiava nel convento aveva diritto di asilo ed era al sicuro dalla vendetta dei nemici.

MONACHESIMO dettati ortografici e materiale didattico vario – Questionario
Come e perchè sorsero i conventi?
Quali opere fecero i monaci?
Perchè si dice che i conventi salvarono la cultura?
Chi era San Benedetto?
Quale regola dette ai monaci?

La vita nei conventi
Ogni monastero, chiuso da un muro di cinta, era come una grande fattoria e provvedeva a tutti i suoi bisogni. Accanto alla chiesa e al convento vero e proprio, con le celle dei monaci e la cucina e il refettorio, c’era la biblioteca, in cui si conservavano i testi sacri e i manoscritti antiche che i monaci più colti, nelle ore dedicate allo studio, leggevano, commentavano oppure copiavano in bella scrittura sui grandi fogli lisci di pergamena. I fanciulli accanto a loro imparavano scrivendo con uno stilo aguzzo su tavolette cerate; la cartapecora era troppo rara e costosa, perchè mani inesperte la potessero scarabocchiare. Chi sapeva dipingere, ornava le pagine con miniature di bei colori vividi, che ritraevano il volto della Madonna, di Gesù, degli Angeli e degli Apostoli. Altri ragazzini imparavano a calcolare con i sassolini o si esercitavano a cantare le preghiere e gli inni in lode al Signore.
Annesso al convento c’era il granaio, la cantina e il frantoio per estrarre l’olio dalle olive e i laboratori perchè i monaci provvedevano da sé  a tutti i loro bisogni, dai sandali agli aratri, dalle vesti alle panche. L’acqua di un torrente, opportunamente incanalata, faceva girare la ruota del mulino; l’orto provvedeva gli ortaggi e i campi le messi. Chi entrava, raramente aveva bisogno di uscire se non per andare a far opera di bene, sia portando soccorsi, sia predicando.
Gli ospiti che bussavano alla porta, erano ricevuti come Gesù in persona ed onorati in particolar modo se erano religiosi o pellegrini venuti da lontano. Quando ne era annunciato uno, il priore stesso gli andava incontro per il benvenuto e dopo una breve preghiera gli dava il bacio della pace e gli usava ogni cortesia. A mensa gli offriva l’acqua per le mani, come allora si usava sempre prima di mettersi a mangiare, dato che di posate si adoperava solo il cucchiaio e i cibi si prendevano con le dita.
Dei poveri, in particolare, si doveva aver cura e anche ad essi si lavavano i piedi, come Gesù aveva fatto con i suoi apostoli. Vi erano nel convento celle pronte a dare asilo a chi domandava ospitalità, con letti sempre preparati.
In quel tempo, ben pochi viaggiavano, perchè non si andava che a piedi e a cavallo, e le strade era scomode e malsicure, interrotte da frane o da alluvioni, e infestate da briganti. Non si trovavano alberghi per sostare la notte, poche erano anche le osterie in cui prender cibo e troppo spesso gli osti stessi erano ladroni che derubavano chi si fermava da loro. I conventi benedettini erano perciò asili sicuri a cui i pellegrini cercavano di giungere prima che cadessero le tenebre. La carità dei monaci li consolava dei disagi del viaggio ed essi si fermavano, talora, più di un giorno, prima di riprendere il cammino. Qualche volta non ripartivano più e chiedevano all’abate di accoglierli tra i suoi discepoli; nella luce del chiostro dimenticavano le bufere del mondo, dove sovrani si combattevano, popoli si strappavano l’un l’altro, con accanimento, i pochi beni della vita. (C. Lorenzoni)

MONACHESIMO dettati ortografici e materiale didattico vario – Totila
Tutti parlavano di San Benedetto, del grande monastero di Montecassino, della chiesa che vi era stata eretta e soprattutto parlavano del santo abate, che possedeva il dono della profezia e sapeva leggere nel cuore degli uomini solo guardandoli negli occhi.

Era in quel tempo re dei Goti, Totila, un barbaro valoroso ma rozzo, che combatteva strenuamente contro gli eserciti romani e seminava morte e distruzione ovunque passasse con le sue milizie; di religione era ariano e odiava i cattolici.
Anche a re Totila però, era arrivata la voce che a Montecassino abitava un uomo prodigioso, a cui Dio rivelava il passato, il presente e il futuro e che compiva miracoli. E gli venne il desiderio di conoscere quest’uomo straordinario; perciò mandò al convento un suo messaggero a chiedere di essere ricevuto, e Benedetto rispose che sarebbe stato il benvenuto.
Ma Totila, che credeva di essere astuto, volle allora tendere un tranello malizioso per vedere se fosse vero che il santo indovinava tutto. Fece chiamare un suo scudiero, di nome Rigo, gli fece indossare le sue vesti di re, gli diede la sua spada, il suo scettro, il suo cavallo e lo fece accompagnare dai tre baroni che lo seguivano sempre. Rigo doveva presentarsi al convento come fosse stato il re, e andare davanti a Benedetto che, non avendolo mai visto, non lo conosceva di persona.
Così fu fatto. Il piccolo corteo fastoso salì alla cima del monte, bussò alla porta del monastero, entrò e fu introdotto nella sala del Capitolo dove l’abate aspettava. Ma Rigo non aveva ancora posato il piede sulla soglia che la voce di Benedetto lo arrestò: “Figliolo, metti giù codesti ornamenti che non sono i tuoi”.
A queste parole, lo scudiero fu turbato tanto che cadde a terra, tremando in cuor suo per aver osato farsi beffe di quest’uomo di Dio; e si prostrarono a terra costernati anche i tre baroni e i paggi e i soldati del seguito. Quando poi Benedetto disse loro di alzarsi, non osarono avanzare fino a lui, ma ritornarono all’accampamento, pallidi e sgomenti, come mai era loro accaduto nella loro vita di guerrieri, avvezzi a sfidare la  morte sul campo di battaglia.
Rigo raccontò a Totila quanto era avvenuto e il re ebbe paura. Chi ha molti peccati sulla coscienza trema di tutto e il re goto sapeva di essersi macchiato di molte colpe in quegli anni di guerra spietata e crudele; se Benedetto sapeva tutto, doveva sapere anche questo, e al re pareva di non poter avere più requie se non andava da lui, non lo vedeva e non udiva la sua parola. E così un giorno si recò al monastero, non come un potente sovrano, ma come un penitente qualsiasi, e quando vide da lontano San Benedetto non osò più avanzare, ma si gettò a terra in atto di umile omaggio. E il Santo, che sapeva chi egli fosse, anche se non gli vedeva addosso le vesti regali, gli disse: “Alzati”.
Egli, tutto tremante, non osava neppure levare il capo davanti a Benedetto, e allora il Santo si levò dalla sua sedia e lo fece alzare e lo fece sedere vicino a sè. Poi cominciò a parlargli con voce grave e volto accorato.
“Perchè sei re e comandi un grande esercito, ti credi forse tutto permesso? Vi è qualcuno, su in cielo, che è ben più potente di te e che un giorno ti dovrà giudicare.  Molti mali hai fatto e molti ne stai facendo ancora; se continui così perderai l’anima tua in eterno. Frena la tua iniquità, perchè non hai ancora una vita molto lunga davanti a te. Tu riuscirai a prendere Roma e dopo passerai il mare; ma Dio ti ha concesso solo nove anni di regno; il decimo morrai”.
Così profetizzò Benedetto a re Totila, e re Totila, di cui tutti avevano paura, lo ascoltava sgomento e, dopo avergli chiesto di pregare con lui, se ne tornò molto turbato al suo accampamento.
Si dice che da quel giorno egli fosse meno crudele. Certo, le profezie di Benedetto si avverarono tutte: Totila di lì a qualche tempo assediò Roma e la prese, poi passò in Sicilia; ma al decimo anno di regno combattendo in battaglia contro un nuovo generale che l’imperatore d’Oriente aveva mandato in Italia, perdeva la vita. (C. Lorenzoni)

MONACHESIMO dettati ortografici e materiale didattico vario – San Benedetto
San Benedetto fondò un ordine fra i più importanti della Chiesa. Il suo motto era: prega e lavora. Egli amò Dio non solo con la preghiera, ma anche con il lavoro. Infatti lavorare serenamente per amare Dio e per fare del bene al prossimo è come pregare.
Il convento di San Benedetto si scorgeva lontano, col muro rosso e il melograno verde sulla soglia. Vi andavano le rondini a volo ed i poveri col passo stanco: per le une c’era una gronda, per gli altri, sempre, un tozzo di pane.
Un anno, che ghignava la carestia e neppure la malerba attecchiva nei campi, i bisognosi aumentarono a dismisura; una fila lunga di cenci, di sospiri, su per il colle, all’uscio del convento.
“Una crosta di pane, per carità!”
“Una tazza di olio, in nome di Dio!”
Regala oggi, largheggia domani gli orcioli dell’olio mostrarono presto il fondo: tutti, meno uno, piccolino, lasciato in disparte per condire le fave dei frati. E, quel giorno, il padre guardiano rimandò a mani vuote un vecchietto che era venuto con la sua ciotola.
Quando il santo lo seppe, disse parole di rimprovero, scese in dispensa e ruppe l’orciolo prezioso: l’olio si sparse, lento, tra le anfore vuote. E quelle, appena toccate, si riempirono fino all’orlo del buon alimento.
I frati gridarono al miracolo ed uscirono di cella a lodare il Signore: fuori, le rondini volavano ai nidi e il volto dei poveri aveva, nel sole, una ruga di meno.

Il monachesimo
Le invasioni, la fame, le pestilenze, le continue guerre, avevano distrutto la vita civile in tutta l’Europa: nei villaggi spopolati non c’era più chi tramandasse ai superstiti l’arte di coltivare i campi o di costruire una casa; gli uomini vivevano a stento senza speranze per il futuro.
Per trovare forza e conforto nella loro fede, alcuni uomini si ritiravano in solitudine nelle terre d’Oriente e vivevano in preghiera e meditazione: erano gli eremiti.
In Occidente, e proprio in Italia, le cose andarono diversamente. Nell’anno 480 nacque a Norcia, in Umbria, un bambino di nobile famiglia. Si chiamava Benedetto e, ancora ragazzo, sentì dentro di sé una forte vocazione religiosa. Benedetto si ritirò in una grotta poco lontana da Subiaco, dove i boschi  sono fitti e dove corrono le acque del fiume Aniene. In questa grotta trascorse alcuni anni; un po’ alla volta, la fama della sua santità corse per l’Italia. Vennero allora a Subiaco altri uomini stanchi e disperati, che volevano affidarsi a dio come Benedetto.
Il santo, però, aveva capito che gli uomini del suo tempo non dovevano essere aiutati solo con le preghiere: era necessario guidarli con l’esempio e insegnare loro nuovamente a lavorare perchè i campi rifiorissero e le tecniche rendessero più facile la vita. San Benedetto uscì così dalla caverna di Subiaco e fondò dodici monasteri nella valle del fiume Aniene; poi fondò il monastero più famoso, quello di Montecassino. Qui preparò la Regola, cioè le leggi alle quali avrebbero dovuto obbedire i suoi monaci. La Regola si può riassumere in due parole: prega e lavora. Con la preghiera, infatti, il monaco invocava dio e ne riceveva la forza per non scoraggiarsi di fronte alle difficoltà; con il lavoro, aiutava il prossimo a costruire una nuova società, rifacendosi alle esperienze e alle conquiste tecniche degli antichi.
A voi forse sembra impossibile, ma la gente che viveva all’epoca di San Benedetto aveva proprio dimenticato quasi tutti i mestieri. Non sapevano più cosa fosse un aratro, né come si costruisse una strada o si alzasse un solido muro! Furono i monaci a raccogliere, a perfezionare e ad insegnare tutte le tecniche. San Benedetto aveva raccomandato ai suoi seguaci di portare una roncola appesa alla cintura, tutti così capivano che i benedettini erano sempre pronti a lottare contro la natura selvaggia per aprire un sentiero nelle boscaglie o per liberare un campo coltivabile. Il monaco Teodulfo insegnò tanto bene ai contadini del suo paese a lavorare la terra che, alla sua morte, il popolo pretese di appendere in chiesa il suo aratro. E fu proprio San Mauro a diffondere di nuovo l’uso dell’erpice e dell’aratro con il vomere di ferro. Per secoli, i monaci furono veri coloni agricoli; seguendo il loro esempio, i proprietari terrieri ricominciarono a liberare la buona terra dalle macchie e dai rovi, e cercarono di prosciugare le paludi.
I monaci fondarono anche ospedali, aprirono ospizi e scuole, mentre nei loro magazzini si ammassavano le provviste per i tempi difficili. Inoltre, fecero rifiorire lo studio e, copiando e ricopiando gli antichi manoscritti, conservarono le opere degli antichi sapienti, latini e greci.
Nei primi tempi i monasteri erano piccoli, con una chiesetta, pochi monaci e un pugno di terra da lavorare. Poi la comunità aumentò e intorno al monastero sorsero i villaggi, mentre le zone montane ridiventavano verdi per il rimboschimento. Fu merito dei monaci se molte popolazioni poterono superare carestie ed epidemie, perchè i magazzini delle abbazie venivano sempre aperte per distribuire sementi ed attrezzi agricoli. Fu merito dei monaci se tante famiglie sfuggirono alla morte durante le guerre e le invasioni, perchè gli indifesi potevano rifugiarsi nell’interno dell’abbazia al primo allarme. I monaci furono anche esploratori e viaggiarono molto nel nord Europa.

Visita a un monastero di san Benedetto
Bussiamo, e il monaco portinaio ci apre dicendo: “Sia lodato Gesù Cristo”. Entriamo nel chiostro. In mezzo è il pozzo. Sotto le arcate si aprono le porte dei vari magazzini, perchè il monastero è una specie di fattoria. I monaci lavorano la terra, scavano canali d’acqua, fanno le bonifiche, e i loro raccolti sono abbondanti. Hanno stalle di buoi; il mulino, il frantoio delle olive, la cantina. Hanno officine. E infine una  bella e luminosa biblioteca. Quanti libri! Sono stati salvati dai barbari che li volevano bruciare. E che cosa fanno tutti questi monaci curvi sui tavolini, con una penna d’oca in mano? Ricopiano pazientemente antichi volumi latini e greci, su pezzi di pelle di pecora, detta appunto cartapecora. Così, mentre i barbari devastavano le campagne, i monaci benedettini coltivano; mentre i barbari distruggono i libri, i monaci benedettini li salvano e li ricopiano.
Se la civiltà non andrà perduta, si deve a questi uomini vestiti di bianco, chiusi in questi monasteri, che sono come nidi di pace in messo a un mondo pieno di strepiti d’armi (P. Bargellini)

San Benedetto
Nacque a Norcia, nell’Umbria, nell’anno 480. Dopo qualche tempo, la sua infanzia fu rallegrata dalla nascita di una sorellina: Scolastica. Fratello e sorella crebbero buoni, amandosi teneramente fra loro. San Benedetto studiò a Roma, ma ben presto, stanco della città rumorosa e delle frivole compagnie, ottenne dal padre di ritirarsi a vivere in campagna. Nella quiete serena dei campi continuò a studiare; alternando lo studio ad una costante e fervida preghiera. Secondo la leggenda, un giorno avvenne che alla sua fedele nutrice si rompesse una pregevole anfora avuta in prestito. La disperazione della donna indusse il giovane padrone a prendere i pezzi del vaso e a rimetterli insieme; dopo una breve preghiera, ecco l’anfora ritornata come nuova. Fu il suo primo miracolo.
La fama di santità che gli fu attribuita, dopo questo fatto, lo sgomentò: fuggì  e trovò rifugio in una grotta presso Subiaco.
Qui rimase tre anni, finché si decise ad accogliere, presso d sé, alcuni giovani che erano accorsi a lui, per condividerne la vita di sacrificio e di preghiera. Istituì così la prima regola di quello che sarà poi il grande ordine dei Benedettini. A Subiaco venne anche la sorella Scolastica, che vicina ai conventi del fratello fondò un eremo femminile.
Dopo qualche anno entrambi lasciarono questo luogo e, giunti in Campania, al piè di un monte erto e boscoso di fermarono. Lì cominciò la costruzione della famosa abbazia di Montecassino; poco distante, nella vallata, santa Scolastica fondò un convento ove accolse le nuove sorelle. Una volta l’anno fratello e sorella si incontravano e trascorrevano la giornata conversando.

Torna il benessere attorno ai monasteri
San Benedetto morì nel 543. Ma pochi anni dopo la sua morte i monasteri benedettini erano già diffusi in tutta l’Europa, fino in Gallia, in Germania, nella lontana Britannia.
Esteriormente il monastero si presentava come una fortezza: alto su un colle, protetto di spesse muraglie e da robustissimi portoni. Tutt’intorno si era sviluppato un villaggio, costruito dai contadini e dagli artigiani, che avevano abbandonato le loro terre devastate dai barbari, per cercare rifugio all’ombra del monastero. In caso di attacco, infatti, gli abitanti del villaggio si ritiravano nel monastero finché la minaccia non si fosse allontanata. Oltre che a diffondere sempre più la religione cristiana, e ad insegnare a tutti ad apprezzare la cultura e il sapere, i monasteri divennero anche grandi propulsori di un rinnovamento civile ed economico.
I monaci, infatti, bonificarono paludi, costruirono strade, restaurarono ed edificarono palazzi, fondarono scuole e ospedali. Le paludi bonificate si trasformarono in rigogliose campagne. Sulle nuove strade tornarono mercanti e viaggiatori, che trovavano rifugio per la notte nella foresteria, istituita presso ogni monastero. I monaci diedero poi vita a vere e proprie scuole artigianali, per far apprendere ai giovani le varie tecniche di lavoro, che erano state trascurate e quasi dimenticate nei terribili anni delle invasioni barbariche.
Molto spesso, infine, il monastero e il villaggio che si era formato attorno ad esso acquistarono un notevole peso politico. All’Abate (padre, cioè il rettore della comunità) vennero riconosciuti privilegi, immunità e diritti, come quelli di amministrare la giustizia o di imporre e di riscuotere le tasse. Grandemente accresciuti durante il Feudalesimo, questi privilegi durarono fino alle soglie dell’età contemporanea.

La regola d’oro: prega e lavora
Per disciplinare la vita della comunità, San Benedetto aveva dettato una regola. Essa si riassume tutta in due parole: prega e lavora (ora et labora). Il medesimo concetto era ripetuto anche nello stemma del monastero, che rappresentava la croce e un aratro.
Benedetto credeva che la preghiera e il lavoro fossero i due doveri fondamentali del vero cristiano. I monaci dovevano quindi pregare e adorare Dio con tutte le loro forze. Ma nello stesso tempo avevano l’obbligo di lavorare per aiutare materialmente la comunità e tutti coloro che avevano bisogno: era questo un modo concreto di amare il prossimo.
Il lavoro dei monaci era tanto intellettuale quanto manuale. Due ore al giorno venivano dedicate allo studio: ogni monaco doveva essere capace di leggere e scrivere. Altre sette ore erano poi dedicate al lavoro manuale. Ognuno aveva la propria attività: chi lavorava i campi, chi costruiva nuovi edifici o riparava quelli già esistenti, chi faceva da mangiare, chi fabbricava le scarpe, i vestiti, gli strumenti di lavoro per i confratelli e per i contadini che intanto cominciavano a raccogliersi attorno al monastero.
C’erano poi i monaci scultori, i pittori, gli insegnanti, che facevano apprendere a chiunque lo desiderasse tutta la loro scienza.
Infine c’erano i monaci amanuensi, che ricopiavano su grandi fogli di carta-pecora le grandi opere dell’antichità adornandone le pagine con deliziose miniature. Il lavoro di questi pazienti amanuensi ottenne un duplice effetto: salvò dalla scomparsa i capolavori antiche e lasciò a noi dei nuovi capolavori nell’arte della miniatura.

Il lavoro giornaliero
L’ozio è nemico dell’anima. Per questo i confratelli devono occupare certe ore della giornata col lavoro manuale e in altre ore devono dedicarsi alla lettura sacra. Al mattino, lavorino dall’ora prima all’ora quarta (6-10) in ciò che è necessario. Dalla ora quarta alla sesta (10-12) si dedichino alla lettura. Dopo l’ora sesta, alzandosi da tavola, riposino nei loro letti. Se qualcuno invece vuol leggere, legga pure, purché non disturbi gli altri. Si faccia questo fino all’ora ottava (14) che è l’ora della preghiera. Poi si lavori di nuovo fino a sera. Il lavoro sia però proporzionato alle forze di ciascuno. I fratelli is servano l’un l’altro e nessuno sia dispensato dal servizio di cucina, se non per malattia o per occupazione da cui si ricavi maggior merito o carità. (Dall’articolo 48 della Regola)

La vita in un monastero benedettino
Come si svolge la vita quotidiana in monastero benedettino?
Alle tre di notte la campanella del monastero già suona la sveglia. I monaci lasciano il duro letto di tavole, su cui hanno dormito per poche ore, e in fila si recano in chiesa. Qui recitano per tre ore il “mattutino”, cioè le preghiere del mattino. Indossano un saio interamente bianco, chiamato l’abito di coro.
Prima di iniziare il faticoso lavoro della giornata, ogni monaco si ritira nella sua celletta e si dedica soprattutto alla lettura dei libri sacri. Nella celletta vi sono umili arredi: un lettuccio, un attaccapanni, una acquasantiera e un armadietto, sufficiente per sistemare le pochissime cose di cui un monaco può disporre.
Alle undici i monaci si riuniscono nel refettorio, dove consumano un frugalissimo pasto. Le pietanze sono sempre le stesse: un piatto di legumi, un pezzetto di formaggio, patate e frutta. Durante il periodo della Quaresima, che per i monaci dura alcuni mesi, essi si cibano soltanto di pane, acqua e frutta.
Per sette ore al giorno i monaci sono impegnati in lavori manuali. Ciascuno di essi, secondo le proprie capacità, ha una mansione da compiere. Pur di fare bene al prossimo essi si sottopongono volentieri ai lavori più faticosi. Si presenta la necessità di costruire un ospedale o una scuola? Ecco che i monaci si trasformano in muratori e in falegnami. Le invasioni straniere riducono in miseria intere popolazioni? Ecco i monaci pronti a lavorare la terra e a distribuirne i prodotti ai più bisognosi.
Oltre a ciò, i monaci raccolgono, istruiscono ed educano i bambini rimasti privi di assistenza.
Al calare del sole infine, i monaci hanno già concluso la loro giornata di preghiera e di lavoro. Li attendono allora la squallida celletta ed il duro letto, sul quale si coricano vestiti dell’abito di coro. Ogni giorno si ripete la stessa vita di sacrificio, che i buoni monaci accettano per onorare dio ed aiutare il prossimo.

Come si entrava nell’Ordine di San Benedetto
Prima di San Benedetto coloro che entravano in un monastero non facevano voto alcuno. Benedetto pensò che l’aspirante doveva invece seguire un noviziato e apprendere così, per esperienza diretta, le difficoltà della vita monacale.
Solo dopo tale prova il novizio, se ancora lo desiderava, poteva prendere i voti. Con questi si impegnava allora, per iscritto, “a stare per sempre nel monastero, a obbedire e a riformare il suo carattere”, e il voto, firmato alla presenza di testimoni, doveva essere deposto sull’altare dallo stesso novizio, in rito solenne. Da questo momento il monaco non poteva abbandonare il monastero senza il consenso dell’abate.
L’abate era scelto dalla comunità ed era tenuto a consultarla nelle cose di importanza; ma la decisione finale spettava a lui solo e gli altri dovevano obbedire in silenzio e in umiltà. I monaci dovevano parlare solo se necessario, non dovevano scherzare o ridere ad alta voce, dovevano camminare con gli occhi fissi a terra. Non si poteva tenere in proprietà privata “né un libro, né le tavolette (per scrivere), né una penna, niente del tutto”. Ogni cosa era di proprietà comune. Era ignorata e dimenticata la condizione precedente al suo ingresso al monastero; fosse stato libero o schiavo, ricco o povero, poco importava; ora era uguale a ogni altro.
(W. Durant)

Recita: In un monastero benedettino
Personaggi: l’abate, un ospite del monastero col proprio figlioletto Basilio, Paolo (fanciullo del monastero).
Ospite: Vengo da lontano. I soldati longobardi hanno fatto un’irruzione nelle mie terre. Hanno calpestato le seminagioni, distrutto le piantagioni, annullato in poche ore i lavori che erano costati sudore e fatica immensi. Presi dalla paura, i coloni sono fuggiti, abbandonando le campagne. Con quello che m’era rimasto e con mio figlio, mi sono messo in viaggio per raggiungere la terra di alcuni miei parenti. Ma anche lungo il cammino ho incontrato soldati barbari che mi hanno tolto quel poco che avevo, gente che mi ha negato ospitalità… Solo qui mi è parso di trovare un piccolo paradiso. Voi monaci mi siete venuti incontro e mi avete abbracciato. Fra voi ho finalmente risentito una voce amica.
Abate: Fratello, io sono l’abate del monastero. Per noi, l’ospite, il pellegrino, l’infermo, il perseguitato, devono essere ricevuti come fossero Gesù Cristo. Anche questo è nella Regola lasciataci dal fondatore del nostro Ordine, San Benedetto.
(Passa vicino un fanciullo)
Ospite: (meravigliato) Avete anche fanciulli?
Abate: Sì, abbiamo anche fanciulli. Quello è Paolo, figlio di un patrizio che lo ha affidato a noi per la sua educazione. Paolo, vieni qui.
Paolo: Eccomi, padre.
Abate: (rivolto all’ospite) Fratello, vieni. Ti mostrerò le stanze destinate agli ospiti. Lasciamo che i fanciulli parlino fra loro.
Paolo: Come ti chiami?
Basilio: Mi chiamo Basilio.
Paolo: Anche il tuo è il nome di un santo.
Basilio: Come sei istruito! Qui forse i fanciulli imparano a leggere e a scrivere?
Paolo: Sicuro, piccolo fratello. I monaci hanno un vero amore per la cultura. Se tu rimanessi qui, ti farei vedere quanti libri esistono nel monastero! I monaci non vogliono che essi vadano distrutti, perchè se no sparirebbe il meglio dell’umanità. Per questo vanno alla ricerca di libri dappertutto.
Basilio: Anche in terre lontane?
Paolo: Anche lontanissime. Anche a costo di enormi sacrifici. Ma tu vedessi che gioia, quando possono tornare al monastero, come le api all’alveare, portando con sé qualche prezioso codice!
Basilio: E allora?
Paolo: Allora, mio piccolo fratello, ci sono i frati amanuensi che ricopiano questi codici e ne fanno parecchie copie, in modo che i frati possano tutti leggere e studiare.
Basilio: E’ meraviglioso. E voi, fanciulli, come fate a studiare? Leggete anche voi su quei libri?
Paolo: Oh, no. Dapprincipio no. Ci sono libri apposta per noi.
Basilio: E dove li trovano i frati?
Paolo: Li scrivono loro stessi.
Basilio: Quanto lavoro!
Paolo: E’ vero. Ma tu saprai già che la Regola benedettina poggia proprio sul motto “prega e lavora”. La preghiera è il fondamento, ma subito dopo c’è il lavoro. La maggior parte dei monaci, si intende, si dedica al lavoro manuale. Lo stesso monastero è stato costruito e via via ampliato dai monaci. Essi, dando l’esempio, vangano, zappano, arano, piantano, tagliano legna, macinano grano, e così via.
(R. Botticelli)

La Chiesa nell’epoca barbarica
I barbari portano lo sfacelo: tutta la civiltà romana crolla sotto il loro dominio crudele e incapace di respirare l’aria densa di storia del grande impero abbattuto. Templi, opere d’arte, intere città sono dati alle fiamme; biblioteche intere vengono distrutte; sembra che debba calare il buio della preistoria sul mondo in rovina. Ma sulle macerie del mondo romano sorge il cristianesimo, che svolge così la funzione di baluardo della civiltà.
Osserva lo storico francese Taine che per ben 500 anni la chiesa salvò quanto ancora c’era da salvare della cultura umana. Essa affrontai barbari e li doma.  Davanti al  vescovo in cappa dorata, davanti al monaco vestito di pelli, il Germanico convertito ha paura: quanto aveva intuito sulla giustizia divina, dettata dalla nuova fede e che si mescolava nel suo istinto religioso, risvegliava in lui terrori superstiziosi che nessuna altra forza avrebbe potuto suscitare.
Così, prima di violare un santuario si domanda se non cadrà sulla soglia folgorato dall’ira divina. Si ferma, risparmia il villaggio, la città che vive sotto la tutela di un sacerdote.  D’altronde, a lato dei capi barbari siedono vescovi e monaci nelle assemblee: sono i soli che sanno scrivere e parlare. Segretari, consiglieri, teologi partecipano agli editti, mettono le mani nelle cose di governo, si danno da fare per metter ordine nel grande disordine, per rendere più razionale e umana la legge, per ristabilire e conservare l’istruzione, la giustizia, il patrimonio privato.
Nelle chiese e nei conventi si conservano le antiche conquiste dell’umanità: la lingua latina, la letteratura, la dottrina cristiana, le scienze, l’architettura, la scultura, la pittura, le arti e le industrie più utili, che danno all’uomo di che vivere, di che coprirsi e dove abitare; e soprattutto la migliore di tutte le conquiste umane e la più contraria al temperamento del barbaro nomade: l’abitudine e il gusto del lavoro.

MONACHESIMO dettati ortografici e materiale didattico vario. Tutte le opere  contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.

I BARBARI materiale didattico vario e dettati ortografici

I BARBARI materiale didattico vario e dettati ortografici di autori vari per la scuola primaria.

Decadenza dell’Impero romano
L’impero romano sembrava ancora grande; in realtà non lo era più. Gli Imperatori che si succedevano, elevati al potere da truppe indisciplinate, non erano più gli strenui difensori e restauratori della potenza di Roma; erano deboli, crudeli, con un potere effimero. La nobiltà era corrotta, le frequenti guerre avevano impoverito le popolazioni; i piccoli agricoltori, esauriti e impoveriti per la lunga permanenza sotto le armi, lasciavano i loro campi, insufficienti a sfamarli, e si rifugiavano in città, oziosi e turbolenti, oppure diventavano servi dei ricchi. Gli schiavi, che col propagarsi della religione cattolica era diventati quasi tutti cristiani, pensavano al premio riservato in cielo agli umili e, pur restando ottimi servitori, non si curavano molto delle cose del mondo. Tutto l’insieme sociale e politico dell’impero si andava sfasciando sia dall’interno, che nelle lontane province e ai confini.

Gli stranieri
Alle frontiere non c’erano più difese valide perchè i soldati delle legioni romane erano pagati per la loro opera e perciò facevano la guerra come un mestiere. Spesso, poi, si trattava addirittura di truppe straniere che non pensavano che alla paga e al bottino. Non solo, ma spesso queste truppe straniere erano consanguinee di quelle che premevano alla frontiera e quindi il loro spirito combattivo era assai scarso. Tutti i popoli forestieri, dai Romani erano chiamati Barbari perchè i Romani si ritenevano il popolo più civile di quel tempo. Effettivamente i popoli che furoreggiavano alle frontiere dell’Italia, erano veramente incivili e selvaggi. Vestivano di pelli, preferivano razziare ignorando il lavoro dei campi, non conoscevano le arti, la cultura, avevano barba e capelli incolti, erano rozzi,  brutali, e dove passavano portavano rovina e morte.
Alcune di queste tribù ebbero dai Romani il permesso di stabilirsi entro i confini dell’Impero, e poichè erano gravate di tasse, presero l’abitudine di andare a protestare a Roma. Ebbero, così, modo di vedere le fertili pianure, le ricche città dell’Impero e di constatare che non esisteva più l’antica forza che aveva permesso ai Romani di conquistare quasi tutto il mondo conosciuto.
Per questi motivi, Roma era diventata una residenza poco comoda per gli Imperatori e fu per questo che Costantino, che regnò dal 307 al 337, decise di trasferirsi in un’altra capitale e scelse Bisanzio, passaggio obbligato per il commercio tra l’Asia e l’Europa.
Prima di morire Costantino aveva diviso l’impero fra i suoi figli allo scopo di renderne più facile l’amministrazione. Al figlio Costantino assegnò la Gallia, a Costanzo l’Asia e l’Egitto, a Costante l’Italia, l’Africa e l’Illirico e le altre regioni ad altri suoi discendenti.
Fu in questo periodo che si intensificarono le incursioni dei Barbari che, approfittando delle condizioni di debolezza dell’Impero, passarono le frontiere e invasero i territori.

Come vivevano i barbari
Non avevano leggi fisse, e obbedivano ciecamente a un capo. Non avevano arte, non letteratura, non agricoltura. Vivevano di rapina e di guerra. Portavano lunghi capelli, barba e baffi. In capo trofei di fiere uccise, indosso vestiti di pelli e uno strano indumento sconosciuto ai Romani: i calzoni. Poichè venivano da paesi freddi, essi usavano ripararsi le gambe con tubi di stoffa spesso tenuti stretti con legacci. Dove passavano, distruggevano. Tagliavano alberi da frutta, viti e olivi per fare fuoco; abbattevano monumenti e cuocevano le statue di marmo per farne calcina; bruciavano le biblioteche con libri di carta arrotolata e detti appunto volumi. Mangiare, bere, rubare. Non conoscevano altro. E ammazzare, bevendo magari il sangue dell’avversario fatto di crani umani. Questi erano gli uomini che l’Impero romano si trovò contro e che la Chiesa dovette domare. (P. Bargellini)

I barbari

L’Impero Romano d’Oriente ebbe una vita lunga e senza gloria. L’Impero Romano d’Occidente, invece, crollò quasi all’improvviso. Le cause che favorirono la sua fine furono molte; innanzitutto l’estensione. Una linea di confine interminabile doveva essere difesa in tutta la sua lunghezza da legiooni di soldati, da torri di vedetta, fortezze, trincee.
I Romani erano sempre stati considerati i migliori soldati del mondo; ora, il lusso e le ricchezze facevano loro disdegnare il servizio delle armi; preferivano occuparsi degli affari o divertirsi agli spettacoli del circo. Sorse così la necessità di arruolare soldati tra i popoli vinti, tra gli stranieri abitanti oltre i confini dell’Impero; ma occorreva pagare queste truppe a caro prezzo e non sempre esse erano fedeli e disposte a morire nel nome di Roma.
I Romani erano stati anche ottimi contadini, affezionati alla loro terra ed al loro aratro. Poco alla volta avevano perso l’amore all’agricoltura e avevano abbandonato il lavoro dei campi affidandolo a schiavi e a liberti, gente senza scrupoli che portava le campagne in rovina.
Lo Stato romano, sempre più avido di denaro, gravava di nuove tasse i cittadini e sovente erano i meno ricchi a sopportarne il peso maggiore. Furono queste le cause principali dell’indebolimento dell’Impero che, quando i popoli barbari si affacciarono minacciosi ai suoi confini, non seppe più opporre una valida resistenza.
Chi erano i barbari?
Erano popoli che abitavano nel Nord Europa, lungo i grandi fiumi come il Reno, il Danubio, la Vistola. Erano venuti da molto lontano ed erano giunti in Europa con marce faticose, portando sui carri le donne, i vecchi e i bambini, e trascinando con sè gli armenti.
Benchè vinti più volte dai generali romani, erano diventati così forti che nessuno poteva fermarne l’impeto. Il loro nome incuteva terrore.
I barbari vivevano di caccia e di pastorizia, usavano armi di ferro e di bronzo, si coprivano con pelli animali, non avevano leggi scritte e per fare la guerra eleggevano un capo che guidava gli eserciti in battaglia.
Non portavano alcun rispetto per il nemico vinto e consideravano sacra la vendetta. Quando capirono che l’Impero romano si stava sfaldando, varcarono i confini ed occuparono le terre più fertili.

I Visigoti

I Visigoti, un popolo germanico, vennero in Italia guidati dal re Alarico. Dal lontano Oriente giunsero fino alle porte di Roma, dove i cittadini si fecero loro incontro offrendo oro perchè non distruggessero la città.
Il feroce re accettò l’oro e si accampò nei dintorni, ma alla fine saccheggiò ugualmente Roma (410). Poi si diresse verso sud con l’intenzione di passare in Africa. Giunto in Calabria, Alarico morì improvvisamente; i suoi soldati ne seppellirono il corpo nel letto del fiume Busento, presso Cosenza, e lasciarono l’Italia.

Gli Unni

Gli Unni, provenienti dall’Asia, giunsero in Italia guidati da un terribile re, Attila, che fu chiamato “il flagello di dio”. Questi barbari vivevano in maniera del tutto primitiva: si cibavano di carni ammorbidite sotto la sella dei loro cavalli; avevano capelli lunghi che nascondevano il viso giallo dagli occhi piccoli e dagli zigomi sporgenti.
Essi passarono le Alpi e, saccheggiando, si sparsero per la Pianura Padana. Incontro ad Attila mosse allora il papa Leone I che persuase il re barbaro a lasciare l’Italia.

Ritratti di Attila
Figura deforme, carnagione olivastra, testa grossa, naso sottile, piccoli occhi affossati, pochi peli al mento, capelli brizzolati, corporatura tozza e nerboruta, fiero il portamento e lo sguardo, come un uomo che si senta superiore a quelli che lo circondano. Sua vita era la guerra. “La stella cade” diceva, “la terra trema, io sono il martello del mondo e più non cresce l’erba dove il mio cavallo ha posto il piede”.
Avendolo un eremita chiamato “flagello di Dio”, adottò questo titolo come un augurio, e convinse i popoli che lo meritava. (C. Cantù)

I Visigoti, i Vandali, gli Unni
Settantatre anni dopo la morte di Costantino i Visigoti comandati dal loro re Alarico, attraversarono l’Italia  e arrivarono a saccheggiare Roma. Anche i Vandali, altro popolo barbaro che aveva invaso le regioni confinanti con l’Italia, passarono le frontiere distruggendo tutto ciò che incontravano sul loro cammino. Abbattevano templi, opere d’arte, tagliavano alberi, incendiavano case, biblioteche, fondevano l’oro e l’argento delle statue, e la loro opera di distruzione causò tanto spavento e tanta rovina che ancor oggi si dà il nome di vandalo a colui che distrugge per il piacere di distruggere.
Dopo i Vandali, scesero in Italia gli Unni, comandati dal loro feroce re Attila. Ovunque Attila passava, portava la distruzione e la rovina. Fu chiamato per questo “flagello di dio”. Egli stesso diceva: “Dove posa lo zoccolo il mio cavallo non cresce più l’erba”.
Attila si diresse verso Roma col proposito di distruggerla, ma mentre avanzava con le sue schiere, incontrò il papa Leone I (che doveva essere poi chiamato Leone Magno), andatogli incontro per tentare di fermarlo.
Attila, che non aveva paura di nessuno, davanti a quel vecchio solenne che gli veniva incontro armato soltanto della croce, si intimorì e cadde in ginocchio davanti a lui. Dette poi ordine ai suoi soldati di abbandonare quel luogo e poco dopo lasciava l’Italia.

Fine dell’Impero romano d’Occidente
Dopo gli Unni, calarono in Italia gli Eruli, comandati dal loro re Odoacre. Sul trono di Roma sedeva in quel tempo un fanciullo chiamato in senso dispregiativo Romolo Augustolo. Odoacre potè facilmente deporlo, mettendosi a governare in sua vece. Ciò accadeva nell’anno 476 dC e, dopo questa data, nessun altro imperatore romano venne eletto.
Quest’epoca si ricorda quindi come la fine dell’Impero romano d’Occidente e Romolo Augustolo fu l’ultimo imperatore romano.

Comincia così la nuova epoca, detta Medioevo, che dal 476 dC arriva fino al 1492, anno della scoperta dell’America.
Per dieci anni Odoacre governò indisturbato ma, nel frattempo, un altro popolo barbaro scendeva in Italia. Si trattava degli Ostrogoti con a capo Teodorico, che sconfisse Odoacre e governò l’Italia.
Teodorico si era fermato a Verona che aveva eletto a sua capitale e nei primi anni del suo regno fu uomo giusto ed equilibrato, ma invecchiando divenne crudele e sospettoso tanto da mettere a morte anche i suoi più cari amici, tra cui il filosofo Boezio. Narra la leggenda che un giorno, mentre Teodorico prendeva un bagno nel fiume, apparve un cavallo nero e scalpitante. Teodorico gli salì in groppa e il cavallo lo portò a furibondo galoppo attraverso tutta l’Italia fino in Sicilia. Giunto sull’Etna (o secondo altra versione sul vulcano Lipari) il cavallo si impennò scaraventando il vecchio imperatore nel cratere fiammeggiante.

I Longobardi
Sul trono di Oriente sedeva intanto Giustiniano, il quale riuscì a cacciare i Goti dall’Italia. Morto Giustiniano, i suoi successori  non seppero mantenere il dominio sulla penisola che ricadde in preda ad altri barbari, i Longobardi, così chiamati per la loro lunga barba bionda e perchè armati di lunghe alabarde. Li conduceva il loro re Alboino, crudele e feroce che, come Teodorico, si stabilì a Verona. Alboino sposò Rosmunda, la figlia di un re nemico che egli stesso aveva ucciso. Durante un banchetto, questo re crudele e pazzo costrinse la sposa a bere nel cranio del padre ucciso. Per questo e per altri atti di crudeltà da lui compiuti, Alboino fu ucciso.
I Longobardi furono i barbari che provocarono le maggiori rovine in Italia. Distrussero chiese, devastarono città, uccisero migliaia e migliaia di persone.
I loro costumi feroci furono alquanto mitigati dalla regina Teodolinda, convertitasi al cattolicesimo, che aiutata dal papa di allora, Gregorio Magno, riuscì a convertire il suo popolo alla religione cattolica.
La regina Teodolinda fondò belle chiese a Monza e a Pavia; nel duomo di Monza si conserva, ancor oggi, la Corona ferrea con la quale allora si incoronavano i re longobardi. Nella corona è racchiuso un chiodo che, secondo la tradizione, fu tolto dalla croce di Cristo.
Dai Longobardi prese il nome la regione che oggi si chiama Lombardia.

Notizie da ricordare
Le condizioni dell’impero romano, non più forte e agguerrito, permisero la calata in Italia di popoli che i Romani chiamarono Barbari.
Scesero dapprima i Visigoti, comandati dal loro re Alarico.
Seguirono i Vandali che seminarono il loro cammino di distruzioni e di stragi.
Un altro popolo barbaro, gli Unni, con a capo il feroce re Attila, irruppe in Italia aumentando le rovine e  le morti.
Dopo gli Unni calarono gli Eruli, comandati da Odoacre che depose l’Imperatore romano che allora sedeva sul trono, un fanciullo chiamato per dispregio Romolo Augustolo, e si mise in sua vece a governare l’Italia.
Finiva così l’Impero romano d’Occidente nel 476 dC. Da questa data ha inizio in Medioevo.
Dopo dieci anni di regno, Odoacre fu scacciato da Teodorico, re degli Ostrogoti, barbari che nel frattempo erano calati in Italia.
Se l’Impero romano d’Occidente non esisteva più, esisteva ancora, forte e potente, l’Impero romano d’Oriente e quando salì sul trono il grande imperatore Giustiniano fu ripresa la lotta contro i Barbari, che furono respinti.
Morto Giustiniano, l’Italia tornò preda dei Barbari e precisamente dei Longobardi che si trattennero a lungo e soltanto dopo un periodo di distruzioni e di stragi, si convertirono al cattolicesimo per opera della loro regina Teodolinda.

Questionario
Chi erano i Barbari?
Come vestivano?
Perchè fu loro possibile scendere in Italia?
Chi furono i primi Barbari che conquistarono le terre dell’Impero?
Chi era Attila?
Da chi fu fermato?
Chi era Odoacre?
Chi stava sul trono di Roma in quell’epoca?
Perchè si dice che nel 476 dC finì l’Impero romano d’Occidente?
Chi era Teodorico?
Quale leggenda si racconta sulla sua morte?
Chi era Alboino?
Che cosa comandò a Rosmunda?
Per opera di chi, in seguito, i Longobardi mitigarono i loro costumi?
Quali popoli erano chiamati barbari dai Romani?
Quali furono le principali cause della rovina dell’Impero?
Seppero i Romani opporre una valida resistenza quando i popoli barbari si affacciarono minacciosi ai confini dell’Impero?
A quale stirpe appartenevano quasi tutti i barbari?
Quali erano gli usi e i costumi dei Germani?
Quale popolo barbaro assalì per primo l’Italia?
Da chi era guidato?
Dove fu sepolto Alarico?
Chi erano gli Unni?
Quando vennero in Italia? Comandati da chi?
Da chi fu fermato Attila?
Quando e da chi venne fondata Venezia?

La leggenda di Teodorico
Sul castello di Verona
batte il sole a mezzogiorno
dalla Chiusa al pian ritorna
solitario un suon di corno,
mormorando per l’aprico
verde il grande Adige va;
ed il re Teodorico
vecchio e triste al bagno sta.
Il gridar d’un damigello
risuonò fuor della chiostra:
“Sire, un cervo mai sì bello
non si vide all’età nostra.
Egli ha i piè d’acciaio e smalto,
ha le corna tutte d’or.”
Fuor dall’acque diede un salto
il vegliardo cacciator.
“I miei cani, il mio morello,
il mio spiedo” egli chiedeva;
e il lenzuol, quasi un mantello,
alle membra si avvolgeva.
I donzelli ivano. Intanto
il bel cervo disparì,
e d’un tratto al re d’accanto
un corsier nero nitrì.
Nero come un corbo vecchio,
e negli occhi avea carboni.
Era pronto l’apparecchio,
ed il re balzò in arcioni.
Ma i suoi veltri ebber timore
e si misero a guair,
e guardarono il signore
e no’l vollero seguir.
In quel mezzo il caval nero
spiccò via come uno strale,
e lontan d’ogni sentiero
ora scende e ora sale:
via e via e via e via,
valli e monti esso varcò.
Il re scendere vorria
ma staccar non se ne può.
Il più vecchio ed il più fido
lo seguia de’ suoi scudieri,
e mettea d’angoscia un grido
per gl’incogniti sentieri:
“O gentil re degli Amali,
ti seguii nei tuoi be’ dì,
ti seguii tra lance e strali
ma non corsi mai così.
“Teodorico di Verona,
dove vai tanto di fretta?
Tornerem, sacra corona,
alla casa che ci aspetta?”
“Mala bestia è questa mia,
mal cavallo mi toccò:
sol la vergine Maria
sa quand’io ritornerò”.
Altre cure su nel cielo
ha la vergine Maria:
sotto il grande azzurro velo
ella i martiri covria.
Ella i martiri accoglieva
della patria e della fè;
e terribile scendeva
Dio sul capo al goto re.
Via e via su balzi e grotte
va il cavallo al fren ribelle;
ei s’immerge nella notte,
ei s’aderge in ver’ le stelle.
Ecco il dorso d’Appennino
tra le tenebre scompar;
e nel pallido mattino
mugghia a basso il tosco mar.
Ecco Lipari, la reggia
di Vulcano ardua che fuma
e tra bombiti lampeggia
dell’ardor che la consuma:
quivi giunto il caval nero
contro il ciel forte springò
annitrendo; e il cavaliero
nel cratere inabissò.
Ma dal calabro confine
che mai sorge in vetta al monte?
Non è il sole, è un bianco crine;
non è il sole, è un’ampia fronte
sanguinosa, in un sorriso
di martirio e di splendor:
di Boezio è il santo viso
del romano senator. (G. Carducci)

Il paese, la casa, la vita dei Germani
I Barbari erano quasi tutti di stirpe germanica. L’antica Germania era un paese in massima parte coperto da boschi e paludi, freddo e rattristato da nebbie, ma nondimeno abbastanza fertile, ricco di messi e di greggi e di magnifici pascoli, e popolato di selvaggina.

Invece di città esistevano soltanto alcuni villaggi, formati da gruppi di dodici o venti capanne al più, disposte senza alcun ordine, e circondate ciascuna dalla corte e da un tratto di terreno.
Le capanne erano di legno, coperte di paglia e di giunco, addossate talvolta ad un albero gigantesco. Nell’atrio, in fondo, stava il focolare, sul quale raramente si estingueva il fuoco.

I Germani, dalla grande statura, dalla chioma bionda, dagli occhi fieri e azzurri, amavano in special modo la caccia e la guerra. Quando la guerra non c’era, passavano il più del tempo in ozio, dediti al sonno e al mangiare; i più forti, i più bellicosi, standosene inerti, lasciavano alle donne , ai vecchi, ai più deboli della famiglia il governo della casa e dei campi. Non trattavano nulla se non armati, e armati intervenivano ai banchetti.
Usavano cibi frugali, ma non erano nel bere altrettanto temperanti; e avevano una tale passione per il gioco dei dai che, dopo aver perduto ogni bene, mettevano come posta la moglie, i figli e la propria libertà. Il vinto andava in schiavitù volontaria; e quand’anche più giovane e robusto del vincitore, si lasciava legare e vendere.
Scarsi erano gli ornamenti del corpo e della casa. L’abito più importante, e comune a tutti, consisteva in una specie di mantello corto, fermato con una fibbia, o in mancanza di questa con una spina; nel resto erano ignudi. Indossavano anche pelli di animali, e i più ricchi si distinguevano per una sottoveste strettamente aderente alle membra. Le donne si vestivano come gli uomini; soltanto che spesso si coprivano di tessuti di lino di color rosso; e il loro vestito semplice e senza maniche, lasciava scoperte le braccia e la parte superiore del petto. Tutti i liberi, uomini e donne, portavano come segno onorifico del loro stato libero i capelli lunghi ondeggianti, i quali venivano tagliati a chi passava in servitù.
Pochi attrezzi bastavano per gli usi domestici: il semplice mulino a mano per il grano, alcuni vasi d’argento, di bronzo martellato, d’argilla, qualche bicchiere di vetro; strumenti di lavoro erano l’ascia, la mazza, il cuneo, lo scalpello, la falce di bronzo.
L’ospite non invitato, anche se sconosciuto, aveva ugualmente un’accoglienza gentile; i conviti erano rallegrati dall’unico genere di spettacoli che i German conoscessero, quello di giovani nudi che si slanciavano, con un salto, tra spade e lance minacciose.

La donna era molto rispettata perchè si credeva che in essa vi fosse qualcosa di santo; i servi erano trattati umanamente.
Ogni casa aveva il suo cane fedele, che seguiva dovunque il padrone e, caduti gli uomini e perfino le donne, era l’ultimo a difendere la barricata dei carri che in guerra opponevano al nemico. (Trabalza e Zucchetti)

I Germani e i loro costumi

Lungo i confini premevano minacciosi, incalzati dagli Slavi e da altri popoli ferocissimi si razza asiatica (Mongoli), i Germani.
Li imperatori, impotenti a contenere la marea barbarica, erano venuti più volte a patti con essa, concedendo ad alcuni popoli di stanziarsi nelle province di confine, purché prestassero servizio militare. L’esercito era costituito in massima parte da barbari:  barbari erano perfino i generali.
I Germani, distinti in Teutoni, Alani, Vandali, ecc… abitavano l’Europa centrale ed orientale fino al Mar Nero.
Praticavano in modo primitivo l’agricoltura, abitavano miseri villaggi e la terra intorno a questi era proprietà comune. Solo in caso di guerra e di migrazioni di uomini liberi, i membri dell’esercito e dell’assemblea eleggevano un re (Konig). Questi conduceva l’esercito in battaglia, distribuiva le terre conquistate, divideva la preda. Passato il pericolo, cessava generalmente il suo potere.

Non avevano leggi: chi riceveva un’offesa, si faceva giustizia da sé, o i familiari della vittima si prendevano vendetta dell’offensore. Faida era detta la vendetta privata, ed era un debito d’onore: così gli odi e i delitti si perpetuavano di generazione in generazione tra famiglie rivali.
Quando mancavano le prove della colpevolezza di un accusato, si ricorreva al giudizio di dio (ordalia), cioè a determinate prove, che potevano essere il duello, il fuoco o altro, ritenendo essi che dio aiutasse l’innocente a superarle.
La loro religione ricorda un poco l’antica religione greca: adoravano cioè i fenomeni naturali personificati. Il dio supremo era Wotan o Odino, re dell’aria e delle tempeste, al quale sacrificavano anche vittime umane.
Non avevano templi, ma consacravano agli dei selve e foreste.
Da questi cenni vediamo che profonda diversità c’era tra i Romani e i barbari, quando questi irruppero nelle province dell’Occidente. Essi si trovavano ancora ad uno stadio primitivo di civiltà, da cui i Romani erano usciti da secoli.
Si narra che i barbari erano comparsi in Italia fin da un secolo prima di Cristo, scivolando sui loro scudi per le chine ghiacciate delle Alpi, e che da allora molte altre volte avevano varcato i confini italici; e sempre erano stati dalle legioni romane ricacciati nelle loro foreste. Ma poi, spinti alle spalle da altri popoli barbari, irruppero da ogni parte e non fu più possibile fermarli.

Ancora sugli usi e costumi dei Germani

I barbari erano quasi tutti di stirpe germanica.
Presso i popoli germanici era una vergogna, per il capo, essere superato in valore, durante la battaglia, e un disonore, per i guerrieri, non essere pari, in coraggio, al comandante.
Ma la vergogna ancora maggiore, che durava tutta la vita, era tornare dalla battaglia lasciandovi morto il proprio capo.
La maggior parte dei giovani germanici di nobile stirpe preferiva una vita travagliata dalla guerra ad una vita di ozio nella pace; perciò essi si trasferivano spontaneamente presso i popoli che, in quel momento, erano in guerra.
I Germani amavano combattere piuttosto che arare i campi ed aspettare il succedersi delle stagioni per ottenere il raccolto. Per loro era segno di pigrizia e di viltà acquistare col sudore ciò che si poteva guadagnare col sangue, predando e saccheggiando.
Ogni volta che i Germani non erano in guerra impiegavano il loro tempo nell’andare a caccia, ma più che altro nel non far nulla, limitandosi a mangiare e a dormire. Le donne, i vecchi e i più deboli della famiglia, intanto, avevano cura della casa e dei campi.
Appena i giovani germanici si destavano dal sonno, che assai spesso si prolungava fino ad una tarda ora del mattino, si lavavano quasi sempre con acqua calda, come era in uso presso i popoli dove la stagione invernale era molto lunga. Dopo essersi lavati si mettevano a mangiare: ciascuno aveva il suo seggio e ciascuno la sua tavola.
Poi si armavano e ne andavano a trattare i loro affari o, come avveniva assai spesso, a banchettare. Passare il giorno e la notte a bere non era una vergogna per nessuno…
(riduzione ed adattamento da Tacito)

Quando una popolazione germanica abbandonava le proprie sedi per cercarne delle nuove, caricava sui carri le donne, i fanciulli, tutti i suoi averi e perfino alcune parti delle sue capanne.
Esse, infatti, erano costruite su tronchi d’albero smontabili e con canne ricoperte di fango.
I Germani non avevano moneta: scambiavano le varie merci con il bestiame tra cui, probabilmente, il vitello di un anno costituiva l’unità principale di valore.
Le terre erano proprietà di tutti e venivano distribuite ai singoli componenti di una tribù, ogni anno.
L’avversione al lavoro da parte dell’uomo cacciatore e guerriero faceva ricadere il peso della famiglia sulle spalle della donna, la quale però, godeva di grande autorità. Ella seguiva il marito ovunque, anche in battaglia.
(riduzione e adattamento da Angeloni Zolla)

Gli Unni
Sono più barbari della stessa barbarie. Non conoscono nessun condimento al cibo, nè usano fuoco a cuocerlo. Mangiano cruda la carne, dopo averla tenuta qualche tempo fra le loro gambe o il dorso dei cavalli che cavalcano.
Piccoli di statura, agili di membra e robusti, sempre a cavallo, la loro faccia, più che a viso umano, somiglia a un pezzo informe di carne, con due punti neri e scintillanti invece di occhi. Hanno pochissima barba perchè usano tagliere col ferro il viso dei loro bimbi, affinché imparino prima a sopportare le ferite che a gustare il latte materno. Adorano per loro dio una spada conficcata al suolo e sotto forme umane vivono come animali. (Giordano)

La luce di Roma
Il sole tramontava dietro la collina. Alla luce di quel tramonto infuocato, rosseggiavano i marmi come insanguinati e gli archi rotti, avvolti dall’edera, si levavano nel cielo sereno.
Tutto era rovina e silenzio. I barbari erano passati sulle pietre di Roma coi loro piedi di sterminatori. Le case erano diroccate, i monumenti abbattuti e, sui ruderi, il rovo lanciava impetuoso i suoi rami spinosi in mezzo ai quali strisciavano le vipere.
Ma non ancora sazi di preda, i barbari si aggiravano fra quelle rovine alla ricerca di tesori nascosti, di vasi, di statue da fondere in rivoli d’oro e d’argento. Grandi, nerboruti, villosi, sembravano più bestie che uomini. Frugavano fra i massi con le loro grosse mani, ma non trovavano nulla perchè a Roma più nulla di prezioso era rimasto.
A un certo punto una grossa pietra sbarrò il cammino a quei barbari. Era collocata davanti a un antro di cui chiudeva il passaggio. Un barbaro la prese e la scosse violentemente. La pietra crollò lasciando un’oscura apertura.
Nel fondo si vide brillare una tenue luce. I barbari trasalirono. Un segno di vita? Si volsero al sole che tramontava per vedere se fosse uno dei suoi raggi a riflettersi là in fondo. Ma i raggi avevano tutt’altra direzione.
Allora quegli uomini, cautamente, entrarono nell’antro. E videro. Sopra una pietra nuda giaceva un giovane guerriero romano morto. Tutto cinto di armi, aveva il petto scoperto e sopra, una gran ferita dove il sangue si era ormai raggrumato.
Una lapide portava scritto il suo nome, Pallante, e sulla sua tomba brillava una torcia accesa.
Rise, un barbaro, del suo timore, e afferrata la torcia la portò fuori della grotta. La luce brillò alta, nell’oscurità della notte ormai sopraggiunta. Il vento violento che si era levato piegò la fiaccola, ma non la spense. Allora il barbaro, ostinato, vi soffiò sopra il suo alito greve. La fiamma ondeggiò, ma poi si levò più vivida e bella.
“Muori dunque nel fango!” gridò il barbaro inferocito, e immerse la fiaccola in una pozza melmosa. La fiamma stridette come un ferro infuocato che si affonda nell’acqua, ma quando il barbaro sollevò la torcia, questa arse ancora vivida e bella.
I barbari, al prodigio, impallidirono sotto le barbe irsute e la fiaccola tremò nelle mani di chi invano aveva tentato di spegnerla.
Lento, questi tornò nell’antro e pose di nuovo la fiaccola sul capo del giovinetto eroe. Poi indietreggiò, sgomento, e con la pietra chiuse di nuovo il sepolcro.
La luce di Roma brillò ancora nell’oscurità e si levò alta e splendente. Una luce che nonostante le tenebre della barbarie, non sarebbe mai tramontata. (M. Menicucci)

Abitudini barbare

I barbari amavano sopra ogni cosa il loro cavallo. Si può dire che essi vivessero sempre a cavallo. Non solo viaggiavano a cavallo. Non solo combattevano a cavallo. A cavallo dormivano; a cavallo mangiavano.
La loro cucina si trovava addirittura sotto la sella del cavallo!
Ecco in che cosa consisteva quella cucina. Quando un barbaro uccideva qualche animale, tagliava un pezzo della sua carne e la metteva sotto la sella. Galoppa, galoppa, galoppa, la carne, a forza di colpi, anche se era dura, diventava morbida. Con l’attrito della sella si riscaldava e, come si dice, si frollava.
Arrivata la sera, il barbaro scendeva da cavallo, alzava la sella e trovava il pezzo di carne ridotto in una specie di polpetta.
Non c’era bisogno neppure di metterlo sul fuoco e l’addentava di buon appetito.
Per ornamento il barbaro sceglieva di preferenza corna di animali uccisi nella caccia e code o criniere di cavallo.

Forme di giustizia dei barbari

L’accusato di un delitto era calato nell’acqua legato a una fune. Se rimaneva a galla, era colpevole, se andava a fondo e, tirato su con la corda, ancora respirava, era innocente. Oppure si ricorreva alla prova dell’acqua calda: chi vi immergeva la mano senza scottarsi era innocente. Assai più pericolose erano altre prove: prendere in mano, ad esempio, un ferro rovente senza bruciarsi le dita o camminare sui ferri arroventati.
Le cose andavano meglio se l’accusato era invece invitato a denudarsi, ad avvicinarsi alla barella sulla quale era stato esposto il cadavere dell’ucciso, dopo di che giurava che era innocente e toccava il morto.
Se le ferite della vittima non riprendevano a sanguinare, era salvo: l’accusa era da ritenersi infondata.
La distinzione delle pene viene fatta in conformità al delitto. I traditori e i disertori vengono impiccati. Gli ignavi e i codardi… vengono immersi nella melma di una palude, gettando sopra ai medesimi dei graticci… Ma anche per i delitti più lievi la pena è proporzionata alla colpa: difatti i rei convitti vengono multati di un certo numero di cavalli o di capi di bestiame. Una parte della multa tocca al re o alla città; una parte all’offeso o, se questo fosse morto, ai suoi parenti.
D’altra parte non è concesso infliggere la pena di morte, né incarcerare, e neppure battere se non ai sacerdoti, ma non come pena o per comando di un capo, ma come per comando di un dio…
Il silenzio nelle assemblee viene imposto dai sacerdoti, i quali hanno anche il potere di ricorrere a punizioni coercitive.

Giulio Cesare così descrisse i barbari

Cesare nel De bello Gallico prima, e Tacito in Germania un secolo e mezzo dopo, ne descrissero i costumi e il carattere.
I Germani abitano fra il Reno e il Danubio, hanno gli occhi truci e cerulei, capelli rosseggianti, corpi grandi e validi solamente per l’assalto, sono abituati al freddo e alla fame, abituati a non portare che piccole pelli, e a non avere alcun vestito. Tutta la loro vita consiste nella caccia e negli esercizi bellici; fin da piccoli si induriscono nel lavoro e nelle fatiche… Non curano molto l’agricoltura e la maggior part del loro vitto consiste nel latte, nel cacio, nella carne, nei frutti selvatici…

L’erba folta

Alarico si avanza alla testa dei suoi Visigoti, e sembra spinto non dalla sua volontà, ma da una forza invisibile. Un monaco si getta sul suo cammino e tenta di fermarlo. Ma Alarico gli dice che il fermarsi non è in suo potere perchè una forza misteriosa lo spinge a distruggere Roma. Tre volte accerchia al Città Eterna e tre volte indietreggia.
Vengono ambasciatori, per indurlo a levare l’assalto, gli dicono che dovrà combattere contro una moltitudine tre volte più numerosa dei suoi eserciti.
“Sia pure!” risponde quel mietitore di uomini, “Quanto più folta è, tanto meglio l’erba si taglia!”.

La terribile notte del 24 agosto del 410

La notte del 24 agosto, forzata la Porta Salaria, le orde visigote irruppero in città dando fuoco alle prime case. L’incendio divampò dilagando e tutto distruggendo: ville, palazzi, monumenti di insigne bellezza. E non un Romano che ardisse difendere la sua città! Roma, la città che un giorno ebbe il popolo più valoroso del mondo, crolla così sommersa dalla viltà. E se spettacolo orrendo fu il vedere le fiamme divorare la meravigliosa città, se spettacolo terribile fu vedere i barbari girare urlando per le vie o irrompere nei palazzi, certo spettacolo ben più miserando fu vedere i Romani sperduti nel terrore della loro vergognosa ignavia.

I Visigoti incendiano Roma

Alarico e le sue orde entrarono nella città al suono delle trombe e al canto delle loro arie nazionali. Appena entrati dettero fuoco alle prime case. Svegliati di soprassalto dal tumulto, gli abitanti compresero subito di essere in mano al nemico, e il crescente chiarore fece intendere che gli incendi divampavano. Però si narra che al momento di passare la Porta Salaria Alarico fosse preso da un segreto terrore: quella che egli si accingeva a saccheggiare era anche una città considerata santa, così ordinò che fossero rispettate le basiliche di San Pietro e San Palo. Le fiamme, aiutate dal vento, divoravano tutto, e quel che sfuggiva al fuoco cadeva sotto lo scempio dei Visigoti che, avidi di denaro, tramutavano tutti i palazzi dei ricchi in teatri di tragedie. Una vedova di nobili natali che abitava nel suo palazzo, ma che nulla possedeva perchè tutto aveva dato ai poveri, non potendo accondiscendere alle richieste di denaro, fu talmente percossa che ne morì.
Questo martirio di Roma durò tre giorni e tre notti; poi Alarico diede il segnale di partenza. Ma nulla o quasi rimase dietro di lui.
Alarico passò oltre, diretto in Sicilia: ma morì lungo il cammino e venne sepolto, armato a cavallo, nel letto del fiume Busento. La mancata resistenza da parte degli italiani fu dovuta al fatto che essi, da qualche secolo, erano stati esentati dal servizio militare. L’Italia, quindi, mancava di una solida gioventù guerriera che difendesse le sue città proprio mentre i barbari irrompevano dalle frontiere.

Gli occhi per piangere

Dopo tre giorni di incursioni, Alarico promette ai Romani superstiti di abbandonare la loro città purché gli vengano portate tutte le ricchezze e tutti gli schiavi barbari della città. Gli chiedono allora i Romani: “Che di resterà dunque?”.
E Alarico risponde: “Gli occhi per piangere”.
Così dovettero portargli cinquemila libbre d’oro e trentamila d’argento oltre a panni di seta, pellicce e spezie. I Romani dovettero persino fondere la statua d’oro del Coraggio che essi chiamavano Virtù Guerriera.

Onorio aveva una gallina..

Quando per il mondo si sparse la terribile notizia che Roma era caduta nelle mani dei Visigoti i quali l’avevano messa a ferro e fuoco, lo sgomento dilagò ovunque. Solo l’imbelle imperatore Onorio non si turbò, anzi pareva non essersene neppure accorto, tutto intento com’era al suo allevamento di pollame nei pressi  di Ravenna. E si dice che a un suo cortigiano che gli diceva che Roma era perita rispondesse: “Non è possibile! L’ho vista poco fa!”.
E alludeva a una sua gallina a cui aveva dato il nome di Roma.

Più barbari dei barbari

E’ durante la seconda metà del IV secolo che gli Unni si affacciano alle grandi pianure orientali dell’Europa, e subito spargono il terrore attorno a sé, più barbari degli stessi barbari di cui invadono le terre.
Robustissimi, dalla testa piccola, bruna e piantata sul collo corto e tozzo, di lineamenti orientali, già nell’aspetto incutevano spavento. Indossavano rozze brache di pelle di capra, su cui portavano una sorta di tunica; sul capo, quando non avevano gli elmi di battaglia di aspetto terrificante, tenevano una berretta aderente.
Scrive Ammiano Marcellino che erano tutti di smisurata ferocia. E per dare un esempio dei loro truci costumi, riferisce che erano soliti ricoprire di profonde ferite le guance dei loro figli per impedire che, nell’età adulta, vi crescesse la barba.
Mangiavano carne cruda e radici, perchè ignoravano ogni cottura e ogni condimento; tutt’al più, per frollarla, tenevano le carne tra le cosce e il pelo del cavallo mentre cavalcavano, sì che il sudore dell’uomo e dell’animale quasi la cuocesse. Ignoravano la casa, anzi quando la conobbero la odiarono con folle e superstizioso terrore: la loro dimora era costituita dai carri, anche quando si stanziavano per lunghissimi periodi o per generazioni intere in territori invasi.
In guerra erano quasi sempre vincitori, malgrado avessero scarsa attrezzatura bellica; si può dire infatti che la loro unica arma fosse una specie di dardo dall’acuminata punta di osso, ma se ne sapevano servire con un’abilità insuperabile e sapevano spargere il terrore fra i nemici e sgominarne le file anche se meglio attrezzate perchè erano impetuosi e spericolati, e perchè emettevano grida gutturali dal suono spaventoso. Inoltre maneggiavano con abilità quasi da prestigiatori certe funi lunghissime e terminanti a cappio con le quali afferravano e scavalcavano i nemici con infallibile precisione.
Questo era il popolo che per secoli e secoli si spostò fra le terre di Tartaria, da cui aveva origine, finché non trovò in Attila un grande capo, che aveva anche l’aperta visione del capitano. Meno selvaggio dei suoi sudditi, di intelligenza acutissima, aveva anche la qualità fino allora ignota fra i suoi delle fedeltà alla parola data. Era il condottiero che poteva dominarli, frenarli e portarli verso le pingui pianure d’Europa, dopo secoli di stenti fra i deserti mongolici.
(C. Bini)

Attila

La carriera di questo re asiatico, che per vent’anni fu il terrore di tutta l’Europa, non cominciò bene: egli uccise il fratello con il quale avrebbe dovuto regnare sul popolo degli Unni e si dispose a governare da solo a suo piacimento.
Era l’anno 444 dC e Attila, definitosi “flagello di dio”, stabilì il suo piano di conquista, forte di un grande esercito di feroci cavalieri avidi di sangue e di prede.
I due imperatori di quel tempo, l’imperatore d’Oriente Teodosio e l’imperatore d’Occidente Valentiniano III, si disposero ad arginare l’invasione barbarica. Ma le orde dei cavalieri di Attila, dalle gialle facce barbute solcate di cicatrici, armati di lance e di mazze ferrate, si precipitarono sui campi fecondi e sulle città, spargendo il terrore e la morte.
Dopo aver invaso la Gallia, Attila si gettò con particolare furore contro una terra ricca e allettante: l’Italia.
Per prima investì Aquileia. Gli abitanti fuggirono terrorizzati su zattere e barche e si rifugiarono nei meandri della laguna veneta, e sugli isolotti e sulle isole costruirono capanne di frasche e di legno. Con il volger del tempo quelle capanne divennero palazzi e, a poco a poco, formarono la città di Venezia.
Ma la meta di Attila era Roma; egli marciò fino al Mincio e… qui avvenne secondo la leggenda il miracolo: Attila incontrò il papa Leone I, il quale si era mosso da Roma, sereno e fiducioso, per esortare il “flagello di dio” a risparmiare la città di Pietro e a lasciare l’Italia.
E così cadde la furia distruttrice di Attila. Il guerriero che non conosceva perdono fece levare il campo, e dopo pochi giorni, ripassò le Alpi con il suo esercito.
Questa leggenda misteriosa nella sua semplicità, ha ispirato molti artisti che la hanno immortalata su tela e nel marmo: tra queste opere è celebre l’affresco di Raffaello in Vaticano.

La leggenda di Attila e Leone I

Un’immensa folla di cavalieri, accompagnata da carri, seguiva il re degli Unni.
All’inizio dell’invasione di Attila, il papa Leone I aveva ordinato pubbliche preghiere in tutte le chiese, per implorare la protezione del Cielo contro l “flagello di dio”.
Poi mosse incontro al re barbaro, seguito da molti fedeli.
Al grido delle sue sentinelle che avevano avvistato la folla in cammino, Attila ebbe un fremito di gioia, pensando che l’esercito romano si avvicinasse al Mincio, presso cui egli era accampato, e diede ordine di prepararsi al combattimento.
Ma poco dopo tornò da lui un ufficiale esploratore, sconvolto, descrivendo quello strano corteo di prelati, religiosi e di uomini disarmati che cantavano. Il loro capo, disse, era un vecchio dalla lunga barba bianca, tutto vestito di bianco, e montato sopra un cavallo bianco.
Attila fece fermare l’esercito, galoppò verso il Mincio, spinse il cavallo in acqua e gridò, con violenza, rivolto al pontefice: “Qual è il tuo nome?”
“Leone” rispose una voce e tutta la folla cessò di cantare.
Attila attraversò il fiume e pose piede sull’altra riva: dal gruppo dei prelati si staccò il papa e venne davanti all’Unno. Nessuno saprà mai che cosa si dissero, ma improvvisamente si vide Attila scostarsi dal vecchio, attraversare il fiume e dare ordini agli ufficiali.
L’esercito volse le spalle, risalì verso nord e scomparve.
(M. Brion)

I Vandali

Quando gli Unni lasciarono l’Italia, apparvero i Vandali. Attraverso la Gallia, erano passati in Spagna e in Africa, dove avevano costruito un grande regno. Il loro re, Genserico, li condusse dall’Africa in Italia con una grande flotta.
Essi occuparono Roma e, dopo un feroce saccheggio, la incendiarono (455). Poi tornarono in Africa con un immenso bottino.
Le loro azioni furono tanto malvagie che ancora oggi si chiama “vandalo” colui che rovina e distrugge senza ragione.

La fuga da Aquileia
“Su, Marco! Presto, Valeria! Dobbiamo andare, fuggire!”
Valeria si mosse, stringendo al cuore la sua bambola, che non avrebbe abbandonato per nessuna ragione. Marco invece volle caricarsi, come tutti, di bagagli e la mamma gli affidò un sacchetto di provviste e un involto di indumenti. Al ragazzo quella fuga sembrava una bella avventura e non capiva perchè tutti avessero quell’aria preoccupata e ansiosa.
Ben sapevano invece gli adulti perchè si dovesse fuggire: arrivavano i barbari! I vecchi ricordavano un’altra invasione, quella dei Gori, ma questi dovevano essere ben peggiori.
Si sapeva che rubavano, distruggevano, uccidevano; erano Unni e il loro capo era un vero demonio. Si chiamava Attila, ma si faceva chiamare “Flagello di Dio” e la gente di Aquileia se lo immaginava come un demonio con gli occhi fiammeggianti. La città di Aquileia era troppo bella e importante perchè Attila la dimenticasse, perciò, tutti fuggivano con carri, cavalli, servi, cercando di porre in salvo i loro tesori.
“Che il Signore ci aiuti!”disse la mamma di Marco e di Valeria, prima di uscire di casa.
S’avviarono poi di buon passo per raggiungere il padre, che li aspettava più avanti. Le strade rigurgitavano di gente; molte donne piangevano. La mamma di Marco camminava col cuore stretto, guardando ancora una volta la città dov’era nata e vissuta: le case, le piazze, i colonnati, ma soprattutto la bella basilica cristiana. Anche Marco e Valeria vi entravano sempre volentieri; il pavimento a mosaico era la loro gioia e, tra una preghiera e l’altra, guardavano incantati le belle figure: c’era il buon Pastore con le sue pecorelle, v’erano uccelli, pesci, colombe, uva e spighe. Che peccato dover abbandonare tutto! Chissà quando sarebbero tornati ad Aquileia, la città ricca, piena di vita e movimento.
“Ma dove andiamo?” chiese più volte Marco quando da un pezzo ormai stavano viaggiando.
“Soltanto l’acqua ci può difendere,” spiegò il babbo: “Bisogna mettersi al sicuro sulle isole della laguna, perchè là gli Unni non potranno arrivare”.
Marco e Valeria avevano sonno, erano stanchi, ma non ci si poteva fermare.
Finalmente giunsero in vista delle isole della laguna, e riuscirono a raggiungerne una. Che povera isola! Non c’era che qualche capanna di pescatori e acqua, acqua dovunque volgessero lo sguardo. Eppure i fuggiaschi ringraziarono Dio e si inginocchiarono a baciare quella terra, che rappresentava la loro salvezza. Il padre di Marco levò le mani al cielo e pregò così:
“O Signore, salva la città di Aquileia! Proteggila e difendila! Ma se non potessimo più farvi ritorno, concedici di trovare qui un asilo sicuro!”
“Amen!” dissero gli altri in coro, compresi Marco e Valeria.
Nessuno in quel momento sapeva che da quelle parole nasceva la città di Venezia.
(G. Ajmone)

I materiale didattico vario e dettati ortografici Tutte le opere  contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. 

NUMERI DECIMALI esercizi per la quarta classe

NUMERI DECIMALI esercizi per la quarta classe della scuola primaria, stampabili e scaricabili gratuitamente in formato pdf.

Come abbiamo già detto parlando delle frazioni, non ci troviamo sempre di fronte a quantità intere. Molto spesso ci troviamo di fronte a parti di intero. Se l’intero viene diviso in dieci parti uguali  (o cento, o mille, ecc…), avremo un’unità frazionaria che rientra nel nostro sistema di numerazione decimale. Ognuna di queste dieci parti costituirà un nuovo ordine di unità, il decimo, che a sua volta potrà essere suddiviso in dieci parti uguali, e avremo il centesimo, da cui il millesimo, e così via.
Come scrivere questi numeri  che seguono lo stesso ordine dei numeri interi? Semplicemente dividendo con una virgola la parte intera dalla parte decimale.
Ad esempio 0,2 (due decimi); lo stesso numero potrebbe essere scritto anche sotto forma di frazione: 2/10.

Perciò potremo indifferentemente scrivere 1/10 oppure 0,1; 1/100 oppure 0,01.

Che cos’è allora un numero decimale? Il numero decimale è un numero composto di unità intere e unità decimali. Le due parti sono separate dalla virgola.

Come nei numeri interi, ogni cifra vale dieci volte la cifra posta alla sua destra.

0,2 vuol dire 0 interi e 2 decimi; ossia l’intero è stato diviso in 10 parti uguali e se ne considerano solo 2.
Aggiungere degli zeri alla destra di un numero intero vuol dire moltiplicarlo per 10, 100, 1000, ecc…

Esempio: 4 – 40 – 400 – 4.000

Se invece gli zeri si aggiungono alla sinistra del numero, essi non hanno alcun valore.  Se aggiungo uno o più zeri alla destra di un numero decimale, il suo valore non cambia:

Esempio: 2,4 – 2,40 – 2,400

Infatti si tratta sempre di 2 interi e 4 decimi.

Uno o più zeri, messi dopo la virgola, non modificano il numero se non sono seguiti da un’altra cifra:

Esempio: 2,0000000 = 2

Se si aggiungono degli zeri alla sinistra della parte decimale di un numero, questa parte decimale cambia di valore (diventa 10, 100, 1000 volte più piccola):

Esempio: 2,4 – 2,04 – 2,004

Exit mobile version

E' pronto il nuovo sito per abbonati: la versione Lapappadolce che offre tutti i materiali stampabili scaricabili immediatamente e gratuitamente e contenuti esclusivi. Non sei ancora abbonato e vuoi saperne di più? Vai qui!

Abbonati!