FRAZIONI esercizi per la quarta classe

FRAZIONI esercizi per la quarta classe della scuola primaria, stampabili e scaricabili gratuitamente in formato pdf.

Finora abbiamo considerato l’unità intera. Ma, a volte l’intero viene diviso in parti. Se esso viene diviso in parti uguali, abbiamo le unità frazionarie.
Che cos’è dunque l’unità frazionaria? Ognuna delle parti in cui viene diviso l’intero. Come viene scritta? Sotto forma di frazione. Che cos’è la frazione. Una parte di un’unità intera. Frazionare vuol dire dividere l’intero in parti uguali. Con la frazione possono essere indicate una o più unità frazionarie.
Se l’intero è stato diviso, ad esempio, in quattro parti uguali e se ne sono considerate due, tale parte dell’intero viene indicata così:

La frazione è composta di due numeri separati da una linea che significa: diviso. I due numeri si chiamano numeratore e denominatore.

Il denominatore ci dice in quante parti è stato diviso l’intero, (ogni parte è un’unità frazionaria); il numeratore dice quante unità frazionarie sono state considerate.
Se numeratore e denominatore sono uguali, la frazione è uguale a 1 (cioè all’intero) e viene detta apparente. Ad esempio:

Per trovare la frazione di un numero, si dovrà dividerlo per il denominatore e moltiplicare il risultato per il numeratore. Siano da trovare ed esempio i

si procederà così:

15: 5 = 3 (unità frazionaria)

3 x 3 = 6

Che cosa significa un mezzo? Che l’intero è stato diviso in due parti uguali. Come possiamo scriverlo? Sotto forma di frazione:

NUMERI CARDINALI E ORDINALI esercizi per la quarta classe

NUMERI CARDINALI E ORDINALI esercizi per la quarta classe della scuola primaria, scaricabili e stampabili gratuitamente in formato pdf.

All’inizio della quarta classe sarà bene accertarsi se i bambini hanno acquistato sicurezza e disinvoltura nella scrittura e la lettura dei numeri, insistendo soprattutto sui numeri fra i 10.000 e i 100.000
Dopo aver considerato i numeri cardinali (da cardine che significa fondamento, base), potremo soffermarci anche sui numeri ordinali, che indicano il posto occupato da una cosa in una successione o in una serie di cose appartenenti logicamente alla stessa specie. Essi sono: primo, secondo, terzo, quarto, ecc…

FRASE PAROLA SILLABA LETTERA esercizi per la classe quarta

FRASE PAROLA SILLABA LETTERA esercizi per la classe quarta della scuola primaria, scaricabili e stampabili gratuitamente in formato pdf

La frase
Il nostro discorso parlato o scritto è composto di frasi. La frase comincia con la lettera maiuscola e finisce col punto. Contiene sempre un verbo, espresso o sottointeso.

La parola
Una frase è composta di parole.

La sillaba
La pronuncia delle parole comporta una serie di emissioni di voce: me-la = due emissioni. Ogni emissione di voce corrisponde a una sillaba.
Bisogna tener conto della corretta suddivisione in sillabe quando si deve riportate a capo parte della parola, in fin di rigo. Le parole fatte di una sola sillaba si chiamano monosillabe: qui, no, il, ecc… Quelle di due sillabe si chiamano bisillabe: me-la, pie-de, ecc… Quelle di tre, trisillabe: a-mo-re, e così via. Le parole di più sillabe si chiamano polisillabe.
Vi sono sillabe formate da una sola vocale: a-mi-co, e-di-le, ecc…
La sillaba può essere anche costituita da un dittongo, cioè da due vocali successive che si pronunciano con una sola emissione di voce: uo-mo, tie-ne, ecc…
Se le due vocali successive si pronunciano con due emissioni di voce, si ha lo iato, che significa apertura, appunto perchè richiede una nuova apertura di bocca per la pronuncia della seconda vocale: be-a-to, mi-o, ma-e-stro, ecc…
Se nella parole ricorre una consonante rafforzata, cioè doppia, questa viene suddivisa fra due sillabe: tap-pe-to, rac-col-ta, ecc…
Se vi ricorre un gruppo di consonanti che comincia con l e n m la separazione delle sillabe ha luogo immediatamente dopo queste: al-tro, ar-to, ar-tri-te, pun-to, con-tro, cam-po, ecc…
Se vi ricorrono gruppi di consonanti che non cominciano con una di quelle dette, tutte le consonanti appartengono alla sillaba successiva: no-stro, te-sta, ri-pre-sa, ecc…

Le lettere
Le lettere dell’alfabeto italiano sono ventuno: cinque vocali e sedici consonanti. Per non creare confusione eviteremo di fare sottili distinzioni e ci limiteremo alle norme generali.
Le vocali sono cinque, ma rappresentano sette suoni: a é è i ò o u.
Le consonanti sono sedici e rappresentano ventun suoni, i più importanti dei quali sono:
– la c ha suono dolce (o palatale) davanti alle vocali i ed e     (cielo, cena); suono duro (o gutturale) davanti alle altre vocali  e alle consonanti (cuoco, cane, crema, clamide). La c ha suono duro (o gutturale) anche davanti ad i e ad e, se seguita da h (chiesa, cherubino);
– lo stesso vale per la g (girasol, gelo, ghirlanda, gheriglio, gola, gremito);
– il digramma (dal greco “due lettere”) sc ha un particolare suono palatale davanti alla e e alla i (scena, scimmia), negli altri casi ha suono gutturale (scala, esclamare);
– il digramma gn ha sempre suono palatale (legno, ogni);
– salvo rarissime eccezioni, il digramma gl ha suono palatale liquido davanti a i seguita da vocale (giglio, maglia, raglio), ha suono gutturale davanti a i seguita da consonante (glicerina, geroglifico);
– la lettera q è usata solo davanti a u seguita da vocale (aquila, qualità); ma vi sono casi in cui si usa la c per distinguere i quali bisognerebbe rifarsi all’origine latina del termine (cuore, vacuo); in un solo caso abbiamo la doppia qq: in soqquadro; in tutti gli altri casi la q viene rafforzata con la premessa di una c: acqua, acquistare
– davanti alle lettere b e p si trova sempre la m, mai la n: gambo, campo.

IL NUMERO DEI NOMI esercizi per la classe quarta

IL NUMERO DEI NOMI esercizi per la classe quarta della scuola primaria scaricabili e stampabili in formato pdf.

Un nome è di numero singolare quando indica un solo essere (persona, animale o cosa). E’ di numero plurale quando indica più persone, cose o animali.
I nomi che al singolare terminano in o e i, al plurale prendono la terminazione i (bambino – bambini).
I nomi femminile in a prendono la e, i maschili in a prendono la i (finestre – finestre; automa – automi).
I nomi terminanti al singolare in ca e ga, mutano la terminazione in chi e ghi, se maschili (patriarca – patriarchi); in che e ghe se femminili ( amica – amiche; strega – streghe).
I nomi in cia e gia conservano al plurale la i quando su questa cade l’accento tonico (farmacia – farmacie) e quando la sillaba finale è preceduta da vocale (ciliegia – ciliegie), la perdono quando la sillaba finale è preceduta da consonante (lancia – lance; provincia – province).
I nomi in co e go, hanno alcuni i plurali in ci e gi, altri in chi e ghi (medico – medici; gioco – giochi; dialogo – dialoghi; teologo – teologi). Talvolta hanno un doppio plurale (manico – manici o manichi; stomaco – stomaci o stomachi).
I nomi in io conservano al plurale la i della sillaba finale, se su questa cade l’accento tonico (zìo – zii; logorìo – logorii); la perdono nel caso contrario (bacio – baci, talcio – talci).
Alcuni nomi maschili in o hanno due plurali: uno in i maschile, l’altro in a femminile. Ma generalmente le due forme di plurale hanno significato diverso (labbro  diventa labbri se di una ferita oppure labbra se della bocca; gesto diventa gesti nel senso di movimento o gesta nel senso di imprese).
Alcuni nomi hanno soltanto il singolare o soltanto il plurale, come prole, umiltà, calzoni, forbici.
Il plurale dei nomi composti, cioè formati da due parole, si forma in modi diversi:
– se composti da due nomi, si forma il plurale solo del secondo: capolavoro – capolavori; capogiro – capogiri; arcobaleno – arcobaleni. Però per capofamiglia il plurale è capifamiglia;

– se composti da un nome e da un aggettivo, si forma il plurale dell’uno e dell’altro: terracotta – terrecotte, cassaforte – casseforti. Però terrapieno diventa terrapieni e palcoscenico diventa palcoscenici;

– se composti da un aggettivo e un nome, si forma il plurale del secondo: biancospino – biancospini, falsariga – falsarighe. Però altoforni diventa altiforni e malalingua diventa malelingue;

– se composti da un verbo e da un nome, restano invariati nel caso in cui il nome è già al plurale: il portalettere – i portalettere. Nel caso in cui il nome è singolare o restano invariati, come portabandiera, o assumono la desinenza del plurale come in portafoglio che diventa portafogli.

IL GENERE DEL NOME ESERCIZI PER LA QUARTA CLASSE

IL GENERE DEL NOME ESERCIZI PER LA QUARTA CLASSE Una raccolta di esercizi per la quarta classe della scuola primaria, scaricabili e stampabili gratuitamente in formato pdf.

Il genere dei nomi
I nomi possono essere di genere maschile o femminile. Sono maschili o femminili i nomi di persona o di animale che si riferiscono a maschi o a femmine. Tuttavia non sempre il genere si identifica col sesso.
Infatti alcuni nomi, pur riferendosi a maschi, sono di genere femminile: una sentinella, una guardia, una spia, una guida.
La maggior parte dei nomi degli animali indica tanto il maschio quanto la femmina: civetta, gorilla, formica, giraffa, aquila, serpente. In questi casi, quando si vuole specificare il sesso, bisogna aggiungere al nome l’indicazione maschio o femmina. Questo genere di nomi si dice promiscuo.
I nomi di cosa sono maschili o femminili, non essendo suscettibili di declinazione. Gli antichi credevano che anche le cose avessero un’anima. Perciò il diverso genere del nome.
Il genere del nome si riconosce o dall’articolo o dalla desinenza o dal significato.
Salvo casi particolari, i nomi di persona o animale sono mobili, cioè hanno due forme: una per il femminile e una per il maschile: cane – cagna, uomo – donna, bue – vacca.

FENOMENI METEOROLOGICI materiale didattico

FENOMENI METEOROLOGICI materiale didattico di autori vari, per bambini della scuola primaria.

L’aria

L’aria è un miscuglio di gas costituenti l’atmosfera e in cui vivono, nella parte inferiore, gli animali e le piante. I gas si presetnano più rarefatti e mutano di proporzione man mano che si sale in altezza.
L’aria è trasparente, inodore e incolore se in masse limitate; azzurra se in grandi masse. I suoi costituenti principali sono l’azoto e l’ossigeno. Contenuti in piccole quantità, l’argo, l’elio, il cripto, lo xeno, l’idrogeno, con quantità variabili di vapore acqueo, anidride carbonica, ammoniaca, ozono, ecc… Particelle solide, spore, microorganismi formano il pulviscolo atmosferico.
A causa della funzione clorofilliana per cui le piante, di giorno, assorbono anidride carbonica ed emettono ossigeno, l’aria dei boschi è più salubre.
La troposfera è lo strato più basso dell’atmosfera la quale raggiunge l’altezza di circa 1000 chilometri e circonda il nostro globo seguendolo nei  suoi movimenti.

La pressione atmosferica

L’atmosfera preme enormemente sulla superficie del globo e noi non ne rimaniamo miseramente schiacciati soltanto perchè la pressione si esercita sul nostro corpo non solo esternamente da tutte le parti, ma anche internamente, ciò che produce equilibrio. Quando questo equilibrio dovesse mancare, si avrebbero gravi disturbi e la morte.
Possiamo considerare che noi portiamo sulle nostre spalle il peso di tre elefanti ci circa cinque tonnellate ciascuno e ciò senza sentire il minimo inconveniente.
Un litro d’aria pesa poco più di un grammo, ma se si pensa all’enorme spessore dell’atmosfera, il paragone degli elefanti non può sorprendere.
La pressione non è uguale dappertutto. Sulle montagne, per esempio, è molto minore che al livello del mare. Inoltre dato che l’aria fredda è più pesante di quella calda, nello stesso luogo la pressione sarà anche in base alla temperatura.
Lo strumento per misurare la pressione atmosferica è il barometro che fu inventato da Evangelista Torricelli. Questi riempì di mercurio un tubo di vetro e ne immerse l’estremità aperta in una vaschetta, anch’essa piena di mercurio. Poté constatare che la colonnina di mercurio non andava al disotto dei 76 centimetri. Era chiaro, quindi, che la pressione di una colonna di mercurio alta 76 cm e dalla sezione di un centimetro quadrato veniva equilibrata da una pressione analoga che non poteva essere che quella dell’atmosfera.
Vi sono anche altri piccoli esperimenti che  possiamo fare per constatare l’esistenza della pressione atmosferica. Eccone di seguito alcuni.

Succhiamo una bibita con una cannuccia, poi quando il liquido è giunto alla nostra bocca, appoggiamo rapidamente un dito all’estremità superiore della cannuccia e teniamolo fermo. Il liquido non uscirà, e ciò perchè il suo peso esercita una pressione minore di quella atmosferica. Non appena si toglierà il dito, il liquido uscirà dalla cannuccia.

Prendiamo un comune bicchiere e riempiamolo d’acqua fino all’orlo. Poi appoggiamo sul bicchiere un pezzo di cartone o di carta, in modo che ricopra completamente l’orlo. Capovolgiamo rapidamente il bicchiere e togliamo la mano dal cartone. Questo non cadrà e l’acqua rimarrà nel bicchiere. Perchè? Perchè nel bicchiere non c’è aria, ma soltanto acqua, e questa ha un peso inferiore a quello esercitato dalla pressione dell’aria che spinge dal basso il cartone.

Il vento

L’aria è sempre in movimento. Lo si può constatare considerandone gli effetti. Osserviamo le foglie muoversi nella brezza, il bucato sventolare,  le nuvole correre nel cielo. Questo movimento si chiama vento.
Da che cosa dipende il vento? Per poter spiegare questo fenomeno bisogna dire qualcosa sulla temperatura dell’aria. L’aria ha una sua temperatura, più calda o più fredda, secondo la stagione, l’altitudine, l’azione del sole, ecc… Ebbene: l’aria calda è più leggera dell’aria fredda e tende a salire. L’aria fredda è più pesante e tende a discendere e ad occupare quindi il posto dell’aria calda.
Possiamo procedere ad alcuni piccoli esperimenti.

Proviamo a fare sul termosifone qualche bolla di sapone. Queste saliranno verso l’alto, ciò non accadrà o accadrà con minor effetto, per le bolle di sapone che faremo in un punto lontano dalla sorgente di calore.

Se potessimo misurare, a vari livelli, la temperatura di una stanza riscaldata, potremmo constatare che, verso il soffitto, l’aria è molto più calda che nei pressi del pavimento. Ebbene, è questa differenza di temperatura che produce il vento. Quando, fuori, l’aria calda sale, l’aria fredda si precipita ad occuparne il posto e forma, così, una corrente – vento che poi noi chiamiamo con diversi nomi a seconda del punto cardinale da cui proviene.
Pensiamo adesso a tutta l’aria che avvolge il nostro globo. Sappiamo che essa è freddissima nelle regioni nordiche e caldissima nelle regioni equatoriali. Ecco perchè l’atmosfera è sempre in movimento: l’aria fredda tende ad occupare il posto di quella calda che sale e quindi si formano venti che possono essere deboli, oppure violenti e disastrosi. Abbiamo detto che essi prendono il nome del punto cardinale da cui provengono. Abbiamo così Ponente, Levante, Ostro, Tramontana, rispettivametne provenienti da ovest, est, sud e nord. E poi venti intermedi: sud-ovest Garbino o Libeccio; sud-est Scirocco; nord-est Greco; nord-ovest Maestrale. Per stabilire la direzione del vento,  si usa la rosa dei venti.

Le nuvole

Nell’atmosfera ci sono le nuvole. Ci sarà facile invitare i bambini ad osservare il cielo e quindi le nuvole. Come sono le nuvole che si presume portino la pioggia? Quali nuvole si vedono nel cielo di primavera? In quello dell’estate? Nuvole grigie, pesanti, oscure; nuvole leggere e delicate; nuvoloni bianchi e bambagiosi. Se uno di noi capitasse in una nuvola si troverebbe in breve bagnato. Infatti tutte le nuvole sono formate da vapor acqueo parzialmente condensato in minutissime gocce e, negli strati superiori dell’atmosfera, in cristallini di ghiaccio.
Ma da dove provengono queste goccioline e questi cristallini di ghiaccio? Ammassi di vapore acqueo si elevano nell’atmosfera., resi leggeri dal calore del sole. Quando il vapore acqueo si condensa diviene visibile ai nostri occhi appunto sotto forma di nubi.

Esperimento scientifico per creare nuvole in vaso qui: 

Osservazione e classificazione delle nuvole qui: 

Il ciclo dell’acqua, dettati e letture, qui: 

La pioggia

Vediamo come accade il fenomeno per cui l’acqua cade sulla superficie terrestre. Le nuvole sono sospese in una massa d’aria, che, essendosi riscaldata, sta innalzandosi. Le gocce di cui le nuvole sono formate, divenute più pesanti per la ulteriore condensazione dovuta al contatto con strati di aria fredda cominciano effettivamente a cadere, ma l’aria calda che tende ancora a salire, le risospinge verso l’alto. Facciamo l’esempio di una pallina da ping pong che venga sollevata al disopra di un ventilatore. La pallina resterà sollevata in aria, sospinta dall’aria che sale dall’apparecchio. Lo stesso avviene per le goccioline d’acqua che formano le nuvole. Ma ecco che esse ingrossano anche perchè urtandosi, si fondono tra loro e diventano quindi più pesanti. E così le gocce cominciano a cadere sulla terra. E’ la pioggia.

Esperimento scientifico per creare la pioggia in un vaso qui: 

La nebbia

L’aria è piena di vapore acqueo che proviene dalla superficie del mare o dei laghi o del suolo, potendo con sè un po’ del calore degli oggetti che ha abbandonato. Per constatare questo fenomeno basta bagnare un dito con l’alcool ed esporlo all’aria. Si avvertirà subito una sensazione di freddo e ciò perchè l’alcool, evaporando, porta con sè un po’ del calore del dito. Se il vapore acqueo che si trova nell’aria è abbondante, si dice che l’aria è umida. Quando l’aria è molto umida, l’evaporazione diminuisce ed è allora che, nelle giornate estive molto umide e afose, il sudore ci si appiccica addosso.
Abbiamo avuto occasione di vedere, specie in un raggio di sole, il pulviscolo atmosferico, cioè minutissime particelle che danzano nell’aria. Questo pulviscolo è formato dalla polvere che si leva dal suolo, da piccolissime spore, da impurità di ogni genere. Quando il vapore acqueo che proviene dal suolo ancora caldo si raffredda a contatto dell’aria fresca notturna, esso si condensa attorno ad un minuscolo granello di polvere. Queste goccioline formano una specie di nuvola bassa sul suolo, che si chiama nebbia.
Quindi, la nebbia è una specie di nuvola bassa sulla terra, formata da vapore acqueo condensato e pulviscolo atmosferico. Essa si forma anche sul mare e sui laghi e non appena il sole la riscalda a sufficienza, sparisce perchè le goccioline d’acqua evaporano e salgono nell’aria.

Esperimento scientifico per creare la nebbia in vaso qui: 

La neve

Quando l’aria è molto fredda, il vapore si condensa in tanti piccoli cristalli di ghiaccio che riunendosi formano quelli che chiamiamo i fiocchi di neve. Questi sono leggeri e morbidi perchè inglobano grandi quantità di aria. Se si osservano con una forte lente di ingrandimento, si potrà vedere che sono di  forma diversa, ma tutti fatti a stellina con sei punte.

Qui un tutorial per realizzare bellissimi fiocchi di neve di carta: 

La grandine

Il fenomeno della grandine avviene prevalentemente in estate e c’è la sua ragione. In questa stagione, l’aria è talvolta molto calda e, come abbiamo visto, tende a salire. Nelle altissime regioni atmosferiche, l’aria calda incontra generalmente  correnti assai fredde, anzi, gelate. Allora, le goccioline d’acqua che l’aria contiene, cominciano a turbinare non solo, ma gelano e si trasformano in cristalli di ghiaccio. Anche qui avviene lo stesso fenomeno della pioggia; cioè i cristalli di ghiaccio cadono e incontrano,  nella loro caduta, altre gocce d’acqua a cui si uniscono. Le correnti d’aria calda li sospingono incessantemente verso l’alto finchè i ghiaccioli, divenuti ormai grossi e pesanti, precipitano sulla terra con gli effetti disastrosi che tutti conosciamo. Nel fiocco di neve è contenuta molta aria, nel chicco di grandine no. Ecco perchè questo è più pesante e compatto.

La rugiada

Abbiamo occasione di vedere la rugiada sulle piante e sulla terra, di mattina presto, quando il calore del sole non l’ha ancora fatta evaporare.
Come si è formata? La spiegazione è semplice. Durante la giornata, i caldi raggi del sole hanno riscaldato la terra, le erbe, i fiori. Durante la notte, invece, questi si raffreddano e il vapore acqueo vi si condensa in brillanti goccioline. In autunno o in inverno, quando le notti sono molto fredde, si forma invece la brina. Mentre la rugiada è benefica, la brina, come è noto, danneggia le piante e talvolta quella che si chiama una brinata o una gelata può distruggere un intero raccolto.

Lampi e fulmini

E’ facile, durante un temporale scorgere nel cielo i lampi e vedere cadere un fulmine. La spiegazione di questo fenomeno risale a quanto abbiamo detto a proposito della pioggia. Le goccioline di acqua che, sospinte dalle correnti calde si aggirano vorticosamente nell’aria, si caricano ad opera di questo movimento di elettricità. Questa elettricità si manifesta, appunto, nel lampo che è un’enorme scintilla elettrica che scocca fra due nubi cariche di elettricità (positiva e negativa).
Se la scarica colpisce il suolo, abbiamo il fulmine di cui conosciamo gli effetti talvolta drammatici.
Il tuono è il rimbombo dell’aria quando viene squarciata dal lampo e dal fulmine, ma non deve incutere paura perchè, quando il tuono si sente, il pericolo è già passato.

L’arcobaleno

Portiamo a scuola un prisma e con esso facciamo osservare ai bambini che un raggio di sole, apparentemente fatto di luce bianca, passando attraverso il prisma si scompone di sette bellissimi colori. Ciò avviene perchè i diversi colori di cui è composta la luce bianca sono dal prisma deviati in modo diverso. La stessa cosa avviene con l’arcobaleno. Le gocce di pioggia ancora sospese nell’aria vengono attraversate dalla luce del sole i cui raggi si piegano come nel prisma di cristallo. I colori dell’arcobaleno sono sette: rosso, giallo, celeste, verde, arancione, indaco e violetto.

Un arcobaleno nella noce qui: 

L’arcobaleno nella leggenda del Lago di Carezza qui: 

Girandole e trottole per studiare lo spettro luminoso qui 

Dettati ortografici

L’aria atmosferica
La parte inferiore dell’atmosfera è costituita dallo strato gassoso che circonda il nostro globo e che lo segue nel suo movimento di rotazione. L’atmosfera è una massa gassosa alta mille chilometri.

La pressione atmosferica
L’atmosfera preme enormemente sulla superficie del nostro globo e noi non ne rimaniamo schiacciati perchè la pressione si esercita sul nostro corpo internamente ed esternamente, ciò che produce equilibrio. Quando questo equilibrio viene a mancare, come nel caso in cui l’uomo salga a grandi altezze senza essere munito di speciali apparecchi per respirare e per sostenere la mancanza di pressione, si rilevano gravi disturbi e quasi sempre la morte.

Tre elefanti sulle spalle
Chi porta elefanti sulle spalle? Chi è quest’uomo così robusto da non rimanere schiacciato non solo sotto il peso di tre elefanti, ma di uno soltanto? Siamo tutti noi, che sopportando il peso dell’aria, è come se portassimo un peso uguale a quello di tre grossi elefanti.

La pressione atmosferica
L’atmosfera pesa enormemente sopra di noi. E perchè non ne rimaniamo schiacciati? Perchè l’aria esercita questa pressione su tutte le parti del nostro corpo, non solo, ma anche nell’interno, e il risultato è che queste enormi pressioni, enormi ma uguali, si equilibrano e l’uomo può muoversi benissimo senza alcun disturbo.

La stratosfera
La stratosfera è chiamata la regione del buon tempo permanente. Il cielo è di una bellezza commovente: scuro, turchino, cupo o viola, quasi nero.
La terra, lontana, è invisibile: non si vede che nebbia. Soltanto le montagne emergono. Dapprima avvolte nelle nubi, si rivelano a poco a poco.  Una cima poi un’altra. Lo spettacolo è magnifico. (A. Piccard)

Le conquiste degli spazi
La conquista degli spazi è agli inizi. Chissà quanti palpiti, chissà quanta ammirazione, quanti evviva dovremo spendere per le sempre più meravigliose imprese future! Se siamo diversi dalle bestie, è proprio per questo insaziabile, anche se folle bisogno di andare sempre più in là, di svelare uno ad uno i misteri del creato. (D. Buzzati)

L’atmosfera
Noi siamo immersi completamente nell’aria, anzi, nella sfera d’aria che circonda la terra; meglio sarà se diremo atmosfera, che significa, appunto, sfera d’aria. La terra gira, gira vorticosamente, es e noi non ce ne accorgiamo dipende dal fatto che tutto gira con la terra, comprese le nuvole che fanno parte dell’atmosfera.

La conquista dello spazio
A ogni passo di là dalle conosciute frontiere, volere o no, il nostro cuore palpita. Al pensiero che un uomo come noi sta bivaccando lassù, nella vertiginosa e gelida parete trapunta di stelle, vien fatto di correre su per le scale, di affacciarsi sull’ultima terrazza e di agitare un lumino. Chi lo sa, se ci vede: si sentirà meno solo. (D. Buzzati)

Il lancio del missile
Il razzo, avvolto alla base da un bagliore di fiamma e da una nuvola di vapori, si stacca dalla piattaforma e sale sempre più velocemente verso l’alto. L’astronauta comincia con voce pacata a trasmettere a terra tutte le informazioni richieste dal suo eccezionale servizio e contemporaneamente esegue tutte le operazioni assegnategli come se fosse seduto davanti a una scrivania. Solo una volta, mentre la capsula ha raggiunto l’altezza di 185 chilometri, si lascia sfuggire un’esclamazione: “Che vista meravigliosa!”

Aria calda e aria fredda
Mutamenti improvvisi di temperatura molto spesso portano pioggia o tempo burrascoso. E’ per questo motivo che, alla fine di una calda giornata estiva, quando comincia a levarsi il vento e l’aria rinfresca e il cielo si copre di nuvole, si può essere quasi sicuri che ci sarà un temporale. L’aria, così calda per tutta la giornata, comincerà a salire, e quella fredda scende rapidamente a prendere il suo posto, portando con sè vento e pioggia. (J. S. Meyer)

Un oceano d’aria
Noi viviamo sul fondo di un oceano d’aria, che si innalza per chilometri e chilometri sopra le nostre teste ed è molto pesante. Se non ne sentiamo il peso è solo perchè la sua pressione si esercita sul nostro corpo dall’alto, dal basso e dai lati, in ogni direzione contemporaneamente. Inoltre c’è sempre aria nei nostri polmoni e in tutto il nostro corpo, e quest’aria che è dentro di noi e quella che è intorno a noi si bilanciano così che non di accorgiamo di quanto l’aria pesi. (J. S. Meyer)

L’atmosfera
La quasi totalità degli esseri viventi ha bisogno di aria per respirare. Anche gli alberi, le erbe, i fiori, hanno bisogno di aria; ma se potessero esistere senza di essa, sarebbero immobili come cose dipinte. Non una sola tra le innumerevoli foglie degli alberi si muoverebbe; non un solo filo d’erba si piegherebbe, e ramoscello o fronda stormirebbero ondeggiando alla brezza. E non potrebbero esserci ne api ne farfalle ne uccelli di alcuna specie, poichè come potrebbero volare se non di fosse aria a sostenerne il volo? Ogni cosa al mondo sarebbe silenziosa e muta, poichè il suono non può propagarsi se non attraverso l’aria. (J. S. Meyer)

L’aria
Senza aria o atmosfera non si avrebbe ne tempo bello ne tempo brutto, ne pioggia ne neve; e non si saprebbe che cosa sono il sereno, le nuvole, i temporali. Senz’aria non potrebbero vivere ne uomini ne animali, la quasi totalità degli esseri viventi ha bisogno di aria perchè questa necessita per respirare. ( J. S. Meyer)

Un oceano d’aria
Immaginate che cosa significherebbe vivere sul fondo dell’oceano. Supponete per un momento di poter camminare sul fondo oceanico, con tante migliaia di tonnellate d’acqua che premono su di voi e pesano come montagne. Naturalmente, non si potrebbe resistere poichè il nostro corpo non è fatto per sopportare un peso così enorme: si resterebbe schiacciati in meno di un minuto. Eppure tutti noi viviamo sul fondo di un oceano d’aria che si innalza per chilometri e chilometri sopra la nostra testa ed è molto pesante. (J. S. Meyer)

Salire nell’atmosfera
Quanto più saliamo nell’atmosfera, tanto minore è la quantità di aria sopra di  noi e minore sarà la pressione. Se potessimo salire per sessanta o settanta chilometri, difficilmente troveremmo ancora un po’ d’aria, e sarebbe la morte per noi. Il nostro corpo, infatti, è costituito per poter vivere sulla terra, nel fondo dell’oceano d’aria, e proprio dove l’aria è più pesante. (J. S. Meyer)

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Il vento

Venti e piogge
I venti non solo servono a ventilare decentemente questo nostro quartiere di residenza che è la terra, ma compiono inoltre l’alta funzione di distribuire la pioggia, senza la quale sarebbe impossibile lo sviluppo normale della vita animale e vegetale. La pioggia non è altro che acqua evaporata dagli oceani, dai mari chiusi, dalla terra arida e dalle foglie delle piante e dai nevai continentali e trasportata dall’aria sotto forma di vapore.  Quando i venti, che trasportano questo vapore, incontrano aria fredda si ha la pioggia. (Van Loon)

Il vento
Il vento è una corrente. Ma, cos’è che produce una corrente? Cos’è che la mette in moto? Le differenze di temperatura dell’aria. Di solito una parte dell’aria è più calda dell’aria circostante e quindi più leggera, e perciò tende a levarsi in alto. Levandosi, crea il vuoto. L’aria fredda delle regioni superiori, essendo più pesante, precipita turbinando nel vuoto. (Van Loon)

Vento e pioggia
Quando un vento, carico di vapore acqueo, incontra una catena di montagne, possono accadere due cose. O la sua violenza deve spezzarsi contro questo ostacolo, oppure, per poterlo oltrepassare, la corrente aerea deve innalzarsi a grande altezza. Trovando, così, una zona più fredda, il vapore acqueo si condensa, si trasforma in pioggia, e il vento, ormai diventato asciutto, passa oltre. Quindi la zona che è situata al di qua della catena di monti, avrà frequenti piogge e clima umido, la zona situata al di là avrà clima asciutto e cielo sereno. (Van Loon)

Altri dettati ortografici sul vento qui: 

Poesie e filastrocche sul vento qui: 

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Le nuvole

Le nubi che corrono all’impazzata per il cielo sono leggere, soffici e, spinte dal vento, sembrano bianchi agnelli in corsa. Si divertono qualche volta ad oscurare il sole, a cingere di un pallido alone la luna lucente, a coprire e a scoprire le cime lontane dei monti. Qualche volta si appesantiscono, si fanno nere e minacciose: sono allora foriere di temporale. Si scaricano in furiosi acquazzoni e non di rado in dannose grandinate. (R. Mari)

Le nuvole
Che cosa sono quelle nuvole soffici che vediamo pigramente e oziosamente fluttuare nel cielo azzurro? La maggior parte di esse hanno l’aspetto di fiocchi bambagiosi, delicati e soffici: sembrerebbe bello poter andar vagando qua e là per cielo, adagiati su di esse, spinti da un gentile venticello! Ma sappiamo che in realtà non si tratta di bambagia e tanto meno di fiocchi morbidi e leggeri.

Le nubi
Le nubi sono costituite da miliardi e miliardi di minutissime goccioline di acqua, ciascuna delle quali è così piccola che non si vede a occhio nudo. Di tali goccioline ce ne sono miliardi in una goccia di pioggia: di qui si potrà comprendere la piccolezza di ognuna e come possa essere invisibile a occhio nudo. (J. S. Meyer)

Forma delle nuvole
Quelle nuvole d’aspetto soffice e bambagioso sono chiamate cumuli. I cumuli spesso sono considerati come nuvole del bel tempo. Talvolta i cumuli si avvicinano e si uniscono sì che tutto il cielo ne è presto ricoperto. Non si tratta più di cumuli, ma di strati. Essi formano una specie di coltre e ci avverte che la pioggia può non essere lontana. Alte nel cielo, talvolta a quindici chilometri dalla terra, viaggiano quelle nuvole fini e delicate che sono dette cirri, che vuol dire riccioli. Sono freddissime  e invece che da goccioline d’acqua, sono costituite da minuti cristalli di ghiaccio. (J. S. Meyer)

Nuvole
La mattina, al primo chiarore, sorgono dai prati umidi. La sera sbucano in un batter d’occhio da qualche gola più oscura, si assottigliano, innalzandosi velocissime per le coste, si librano per le cime dei monti, poi, in un batter d’occhio, come scaturiscono, svaniscono. Il vento le incalza, le sbaraglia, le sgretola e le disperde dopo una lotta silenziosa di giganti. (G. Giacosa)

Le nuvole
Quando, levandosi dal suolo, l’aria calda le incontra, intorno ai mille o ai duemila metri, correnti o strati d’aria più fredda, il vapor acqueo in essa contenuto si raffredda e le minute goccioline di cui è composta si raggruppano insieme e formano gocce più grosse. Miliardi di gocce si ammassano e si condensano sempre più, formano cioè delle nuvole. A poco a poco si riuniscono tutte e in breve il cielo ne è completamente ricoperto. (J. S. Meyer)

Le nuvole
E’ appena giorno e io che mi sono svegliato presto ne approfitto per continuare a registrare le mie memorie nel mio caro giornalino, mentre i miei cinque compagni dormono della grossa.
Ieri l’altro dunque, cioè il 30 gennaio, dopo colazione, mentre stavo chiacchierando con Tino Barozzo, un altro collegiale grande, un certo Carlo Pezzi gli si accostò e gli disse sottovoce: “Nello stanzino ci sono le nuvole”.
“Ho capito!” rispose il Barozzo strizzando un occhio.
E poco dopo mi disse: “Addio Stoppani, vado a studiare” e se ne andò dalla parte dove era andato il Pezzi.
Io che avevo capito che quell’andare a studiare era una scusa bella e buona e che invece il Barozzo era andato nello stanzino accennato prima dal Pezzi, fui preso da una grande curiosità, e senza parere, lo seguii pensando “Voglio vedere le nuvole anch’io”.
E arrivato a una porticina dove avevo visto sparire il mio compagno di tavola, la spinsi e… capii ogni cosa.
In una piccola stanzetta che serviva per pulire e assettare i lumi a petrolio (ce n’erano due file da una parte, e in un angolo una gran cassetta di zinco piena di petrolio e cenci e spazzolini su una panca) stavano quattro collegiali grandi, che nel vedermi, si rimescolarono tutti, e vidi che uno, un certo Mario Michelozzi, cercava di nascondere qualcosa.
Ma c’era poco da nascondere, perchè le nuvole dicevano tutto: la stanza era piena di fumo e il fumo si sentiva subito che era di sigaro toscano.
“Perchè sei venuto?” disse il Pezzi con aria minacciosa.
“Oh bella, sono venuto a fumare anch’io”
“No, no!” saltò a dire il Barozzo “Lui non è abituato… gli farebbe male, e così tutto sarebbe scoperto”.
“Va bene, allora starò a veder fumare”
“Bada bene” disse un certo Maurizio Del Ponte, “Guai se…”
“Io, per regola” lo interruppi con grande dignità, avendo capito quel che voleva dire, “la spia non l’ho mai fatta, e spero bene!”
Allora il Michelozzi, che era rimasto sempre prudentemente con le mani di dietro, tirò fuori un sigaro toscano ancora acceso, se lo cacciò avidamente tra le labbra, tirò due o tre boccate e lo passò al Pezzi che fece lo stesso, passandolo poi al Barozzo che ripetè la medesima funzione passandolo a Del Ponte che, dopo le tre boccate di regola, lo rese al Michelozzi… e così si ripetè il passaggio parecchie volte, finchè il sigaro fu ridotto ad una misera cicca e la stanza era così piena di fumo che ci si asfissiava…
“Apri il finestrino!” disse il Pezzi al Michelozzi. E questi si era mosso per eseguire il saggio consiglio quando il Del Ponte esclamò:
“Calpurnio!”
E si precipitò fuori della stanza seguito dagli altri tre.
Io, sorpreso da quella parola ignorata, indugiai un po’ nell’istintiva ricerca del suo misterioso significato, pur comprendendo che era un segnale di pericolo; e quando a brevissima distanza dagli altri feci per uscire dalla porticina, mi trovai faccia a faccia con il signor Stanislao in persona che mi afferrò per il petto con la destra e mi ricacciò indietro esclamando: “Che cosa succede qua?”
Ma non ebbe bisogno di nessuna risposta; appena dentro la stanza comprese perfettamente  quel che era successo e con due occhi da spiritato, mentre gli tremavano i baffi scompigliati dall’ira, tuonò: “Ah, si fuma! Si fuma, e dove si fuma? Nella stanza del petrolio, a rischio di far saltare l’istituto! Sangue d’un drago! E chi ha fumato? Hai fumato tu? Fa’ sentire il fiato… march!”
E si chinò già mettendomi il viso contro il viso in modo che i suoi baffoni grigi mi facevano il pizzicorino sulle gote. Io eseguii l’ordine facendogli un gran sospiro sul naso ed egli si rialzò dicendo: “Tu no… difatti sei troppo piccolo. Hanno fumato i grandi… quelli che sono scappati di qui quando io imboccavo il corridoio. E chi erano? Svelto… march!”
“Io non lo so!”
“Non lo sai? Come! Ma se erano qui con te!”
A queste parole i baffi del signor Stanislao incominciarono a ballare con una ridda infernale.
“Ah, sangue d’un drago! Tu ardisci rispondere così al direttore? In prigione! In prigione! March!”
E afferratomi per un braccio mi portò via, chiamò il bidello e gli disse: “In prigione fino a nuovo ordine!”
(Vamba)

Poesie e filastrocche sulle nuvole qui: 

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La pioggia

Quando l’ammasso delle nuvole che si condensano con il freddo, si raffredda maggiormente, allora tutti i miliardi di goccioline che lo formano e che hanno già un discreto volume, diventano sempre più grosse e più pesanti e a un bel momento, cominceranno a staccarsi dalle nubi ed a precipitare sulla terra in forma di pioggia. La pioggia cade e le nuvole a poco a poco si dissolvono. (J. S. Meyer)

La pioggia
La pioggia non è altro che acqua evaporata dagli oceani, dai mari chiusi e dai nevai continentali e trasportata nell’aria sotto forma di vapore. Poichè l’aria calda può contenere molto maggior vapore che la fredda, il vapore acqueo viene trasportato senza molta difficoltà finchè i venti non incontrino aria fredda; quando ciò avviene, il vapore si condensa e precipita nuovamente alla superficie della terra in forma di pioggia o grandine o neve. (Van Loon)

Altri dettati ortografici sulla pioggia qui: 

Poesie e filastrocche sulla pioggia qui: 

Dettati ortografici sul temporale qui: 

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La nebbia

La nebbia è una nuvola bassa sulla terra formata da vapore acqueo e pulviscolo atmosferico. Essa si forma prevalentemente sul mare e sui laghi e non appena il sole la riscalda a sufficienza sparisce perchè le goccioline d’acqua evaporano e salgono nell’aria.

Altri dettati ortografici sulla nebbia qui: 

Poesie e filastrocche sulla nebbia qui: 

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La neve

La neve è una precipitazione atmosferica che avviene quando la temperatura dell’aria in cui il vapore acqueo si va condensando, diventa molto bassa. Per questo fatto, il vapore acqueo si condensa in minutissimi cristalli di ghiaccio disposti a forma di stella, i quali, cadendo, si raggruppano fra loro formando i fiocchi di neve.

Fiocchi di neve
Andate al’aperto con una tavola scura mentre nevica e studiate, mediante una lente di ingrandimento, le stelline graziose che vi cadono a miliardi dal cielo. Osserverete la mirabile costruzione di queste foglioline di cristallo, di questi grappoli di stelline, ognuno delle quali è un capolavoro che nessun gioielliere saprebbe mai imitare. (B. H. Burgel)

Altri dettati ortografici sulla neve qui:

Poesie e filastrocche sulla neve qui:

Un libretto fatto a mano sulla neve qui: 

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La brina

Dettati ortografici su brina,  gelo, ghiaccio, qui: 

Poesie e filastrocche su brina, gelo e ghiaccio qui: 

50 e più giochi da fare col ghiaccio qui:

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La rugiada

La rugiada compare sempre la mattina presto, di primavera, d’estate, e anche al principio dell’autunno. Se di giorno ha fatto molto caldo e la notte è fresca, è certo che al mattino seguente ci sarà molta rugiada sui prati. Sull’erba, sulle foglie, sui fiori ci saranno tante goccioline d’acqua che brillano come diamanti alla luce dell’alba. (J. S. Meyer)

Altri dettati e poesie sulla rugiada qui: 

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L’arcobaleno

Dettati ortografici sull’arcobaleno qui: 

Poesie e filastrocche sull’arcobaleno qui: 

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La grandine

La grandine è formata di granellini gelati che cadono da nuvole cineree. E’ preceduta spesso da un uragano nel quale si percepisce un rullio caratteristico causato, pare, dallo sfregamento dei granellini di ghiaccio che si muovono in moto vorticoso, rapidissimo. La grandine è sempre apportatrice di rovine; i granelli possono raggiungere anche la grandezza di un uovo e un peso notevole.

La grandine
D’estate, quando da noi fa un caldo insopportabile, a diverse migliaia di metri dal suolo la temperatura può essere bassissima; e allora succedono strane cose. L’aria calda che si solleva dalla terra comincia, a un certo punto, a turbinare e a trasportare con sè goccioline di acqua. Su, sempre più su le sospinge l’aria calda, finchè esse raggiungono gli strati d’aria dove la temperatura è molto bassa. Allora gelano, si trasformano in minuti ghiaccioli e cominciano a cadere. Così turbinando e cadendo, si uniscono fra loro e formano chicchi di ghiaccio che, per l’aumentato peso, precipitano sulla terra in forma di grandine. (J. S. Meyer)

Altri dettati sulla grandine qui: 

Poesie e filastrocche sulla grandine qui: 

La bufera

La natura è bella anche nei suoi furori: una bufera è tanto più bella, quanto più è terribile e intensa. Ecco che il cielo si oscura e il sole si nasconde fra le nuvole scure, coi contorni neri, che si rincorrono, si inseguono come eserciti in battaglia. Guizzano i lampi e le nubi vibrano e si scuotono come invase da una corrente elettrica che le illumina, ora di una luce azzurra, ora dorata, ora argentea. Di quando in quando guizzi di lampi serpeggiano nell’oscuro esercito delle nuvole.
(P. Mantegazza)

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VULCANI materiale didattico vario

VULCANI materiale didattico vario

Sul Vesuvio

Salgo per un sentiero, il quale, serpeggiante ed angusto, in tutto rassomiglia ai sentieri di alta montagna: soltanto qui non vi sono cigli erbosi e neppure quei rari fiorellini dalle tinte intense che si trovano fino alle più grandi altezze, qui vi à la lava arida e granulosa nella quale il piede affonda come nella sabbia; qui non vi sono alberi od arbusti. Tutto è arido, tetro, arso… Arrivo sull’orlo del cratere. Larghissimo e concentrico è il cratere e le ripe, incurvandosi tutto intorno, danno l’idea di quello che doveva essere il monte prima dell’eruzione di Pompei, che ne sventrò la cima e ne fece un vulcano. (A. Moravia)

I vulcani attivi in Italia

Quattro sono i vulcani attivi in Italia: Vesuvio, Etna, Stromboli e Vulcano.

Il Vesuvio è un tipico vulcano a cono; il cratere attuale è il prodotto di un’antica eruzione che ha sventrato il cratere precedente. La più spaventosa eruzione storica del Vesuvio è stata quella dell’anno 79 dopo Cristo: le città di Ercolano, Pompei e Stabia furono annientate con tutti gli abitanti, e rimasero seppellite dalle ceneri eruttate dal vulcano.

I lavori di disseppellimento, che durano ormai da due secoli, hanno permesso di riconoscere in ogni particolare la vita degli antichi Romani, le loro abitazioni, i costumi, le suppellettili.

In attività eruttiva sono Vulcano e Stromboli, quest’ultimo in attività continua da più di 3000 anni. Passando con il piroscafo presso l’isola di Stromboli durante la notte, si vede il vulcano risplendere come un faro.

Il maggior vulcano italiano, l’Etna, è anche uno dei massimi coni eruttivi della Terra. Per altezza è il maggior monte dell’Italia peninsulare e insulare, poichè supera i 33oo metri, mentre il Gran Sasso non raggiunge i 3000 metri.

E’ un enorme cono costituito da colate laviche sovrapposte e da strati di tufo. Da millenni questo vulcano è in continua attività; attualmente si verifica un’eruzione ogni dieci anni circa.

Disastrosa fu l’eruzione del 1669: le lave sgorgate da una spaccatura lunga 18 chilometri formarono i Monti Rossi e coprirono una superficie di 50 chilometri quadrati. Vennero totalmente o parzialmente distrutti dodici centri abitati, tra cui buona parte della città di Catania, ove le colate di lava si spensero al mare. Si contarono 90.000 vittime.

La distruzione di Pompei

Dopo lunghi secoli di silenzio, nell’agosto del 79, il Vesuvio si risvegliò improvvisamente: tra boati e scuotimenti spaventosi, la sommità del monte si aprì, e dalla voragine si levò un fittissimo nembo di cenere e lapilli che oscurò il sole, e ricadendo sulla terra, coprì i campi e le case, seppellendo tutto sotto una coltre di morte. Le popolazioni, sbalordite per lo spettacolo mai visto, pazze di terrore, fuggirono incalzandosi per le vie, spargendosi per i campi, avventurandosi sul mare irato, inseguite sempre dalla pioggia implacabile di cenere e di sassi. I deboli cadevano e morivano, calpestati dai fuggitivi o soffocati dalle emanazioni micidiali del suolo; i più forti correvano senza meta, a tentoni nel buio fitto, urlando. Nè mancarono gli illusi che, sperando nella pronta fine del cataclisma, si serrarono nelle case, si stiparono nei sotterranei e morirono o schiacciati sotto le macerie o esausti dalla fame o asfissiati. (A. Manaresi)

I vulcani

Al centro della Terra si trova una enorme massa di materiale incandescente avvolto tra fiamme e gas, i quali di tanto in tanto provocano spaventose esplosioni. Quando avvengono queste esplosioni il materiale incandescente viene lanciato con tale forza che riesce a rompere anche la crosta terrestre e forma una larga spaccatura attraverso la quale giunge alla luce. Qui, a mano a mano che esce, si solidifica e dà origine ad un monte a forma di cono, che si chiama vulcano. Alla sommità del cono vi è il cratere, una grande apertura circolare, sempre pronta ad emettere da un momento all’altra lava, lapilli e cenere infuocata. In Italia vi sono tre vulcani ancora attivi, pronti cioè a mettersi in eruzione. Essi sono il Vesuvio, l’Etna e lo Stromboli.

Le formiche e il gigante

Un gruppo di uomini irsuti e vestiti di pelli si inoltra, a passo cauto, tra la vegetazione che ammanta la falda del monte. Sono armati di grossi randelli in cima ai quali hanno legato una pietra scheggiata a forma di lancia. Hanno avvistato un cerbiatto e poichè sono affamati, vogliono ucciderlo. Ma il cerbiatto è scomparso.
Ora gli uomini lo cercano fra gli alberi che coprono i fianchi della montagna. Sono alberi così fitti e così alti che il sole vi penetra a stento. Se gli uomini salissero su su, fino a raggiungere la vetta, vedrebbero gli alberi cambiare aspetto. Prima castagni fronzuti, poi querce possenti, infine abeti, pini e faggi, sempre più alti, sempre più oscuri.
Il paesaggio è selvaggio, come è selvaggio l’aspetto di quegli uomini che rassomigliano agli animali di cui vanno a caccia. Irsuti, muscolosi, fronte bassa e occhi infossati, braccia lunghe e aspetto selvatico, essi non conoscono che una legge: uccidere per mangiare.
Il monte è alto e scosceso, così alto che la sua cima, spesso, è avvolta dalle nubi. Gli uomini non sono mai saliti fin lassù: hanno paura di questo gigante. Quando le nubi si diradano e la vetta appare nitida nel cielo, essi la guardano con timore, così aguzza, spoglia e rocciosa, spesso coperta di bianco. Certo, quel monte è un nume potente che, dall’alto, guarda con disprezzo i piccoli uomini, simili a formiche, che si arrampicano per i suoi pendii. Se appena lasciasse cadere un masso su di loro, ne schiaccerebbe un bel mucchio. Se scatenasse le acque, che sgorgano fra le sue rocce, li spazzerebbe tutti, proprio come si spazza uno stuolo di formiche affaccendate. Se scuotesse appena le sue membra di pietra, li travolgerebbe in un diluvio di sassi, tra rombi spaventosi.
Gli uomini sanno tutto questo, perchè l’hanno provato. E perciò temono la montagna. La temono e l’amano. Quando le furie non la squassano, la montagna apre, benevola, le sue caverne a ripararli dalle intemperie; fornisce loro i nodosi randelli e le pietre con cui atterrare la preda; i suoi alberi maturano abbondanti frutti squisiti. Gli uomini amano la montagna nonostante le sue ire, purchè però non sputi fuoco. Anche questo, infatti, talvolta accade. Essi hanno visto con sbigottimento scaturire talvolta dalla cima di un monte un’immensa fiumana liquida che bruciava tutto ciò che incontrava lungo il suo cammino. Soltanto dopo che il gigante si era calmato, il fiume di fuoco diventava di nuovo pietra nera, consolidata lungo i fianchi. In seguito, l’avrebbero chiamata lava.
Ecco perchè le formiche hanno paura del gigante.
Eppure, il gigante sarebbe stato domato dalle formiche.
Siamo nello stesso luogo, ma mille e mille anni dopo. La montagna ha cambiato aspetto. I suoi versanti non sono più ricoperti da quella fitta vegetazione che impediva al sole di penetrare. Nelle zone più basse i campi coltivati si estendono a perdita d’occhio, solcati da strade su cui passano macchine velocissime. Graziose casette sorgono qua e là, fitte fitte, una vicina all’altra, e formano un paese da cui emerge la punta di uno svelto campanile.
Gli alberi non ammantano più i fianchi di questa montagna domata: sono stati abbattuti per fabbricare le case, le navi, per essere trasformati in tanti oggetti di cui l’uomo si serve perchè la sua vita sia sempre più comoda e facile. Forse ne ha abbattuti un po’ troppi. Soltanto in alto, la foresta è rimasta intatta, ma i fianchi della montagna sono ormai spogli. E la montagna si è vendicata lasciando precipitare le sue acque che, non più trattenute dai grossi tronchi, hanno portato devastazioni e rovine. L’uomo è corso ai ripari e ha imparato a rispettare gli alberi.
Ora la montagna è sua amica ed egli è salito sulla sua vetta e vi ha piantato la bandiera.
E’ vero che la vetta non è più così rocciosa e aguzza come al tempo degli uomini irsuti e coperti di pelli. Per troppi secoli si è eretta verso il cielo: le sue piogge l’hanno flagellata, le nevi che l’hanno ricoperta, ghiacciandosi, l’hanno spaccata in tutti i sensi; i torrenti, che per tanto tempo sono precipitati lungo i suoi fianchi, hanno trascinato pietre, terra, scavando profonde e ampie vallate dove si sono gettate le acque dei fiumi.
L’uomo è ormai amico della montagna. Le catene dei monti, che si stendono per migliaia e migliaia di chilometri, gli hanno permesso di difendersi dagli invasori meglio di una fortezza. Ed entro quelle catene egli ha stabilito i limiti della sua patria.
In tempo di pace, vi ha tracciato ampie strade su cui ha fatto passare le sue macchine rombanti e i suoi treni fragorosi. E per far questo, si è giovato dei valichi che si aprivano tra una vetta e l’altra. Talvolta, dove non era possibile servirsi dei valichi, ha scavato lunghe gallerie che hanno traforato addirittura la montagna da una parte all’altra.
Ecco perchè la montagna ha cambiato aspetto: quegli uomini che si arrampicavano lungo i suoi fianchi simili a formiche, così deboli in confronto della sua potenza, l’hanno dominata. Hanno imbrigliato le sue acque perchè non portassero devastazioni, ma fertilità; hanno sostituito la selvaggia vegetazione con campi e pascoli; hanno costruito comode abitazioni lungo i suoi fianchi, servendosi dei tronchi e delle pietre che la stessa montagna forniva; persino le lave, che essa aveva fatto scaturire fra un diluvio di fiamme, si sono trasformate, per opera degli uomini, in terreni fertili.
Le formiche hanno vinto il gigante.
(Mimì Menicucci)

La distruzione di Pompei

Da parecchi giorni la terra era scossa da un lieve terremoto; a un tratto le scosse divennero più violente. Una grossa nuvola nera di cenere, interrotta da lingue di fuoco, usciva dal cratere del Vesuvio e si ingrandiva sempre più: discese dal monte, coprì i campi e giunse fino al mare.
La terra sprofondò. Donne, uomini, bambini, fuggirono terrorizzati dalle loro case, urlando, piangendo, invocando gli dei. Non si vedeva nulla: i fanciulli chiamavano la mamma,  le mamme i figli, i mariti le spose. Sembrava giunta la fine del mondo.
Anche a Pompei si udì un terribile boato e sulla città sembrò scendere la notte. Moltissimi si trovavano nell’anfiteatro ad assistere ad uno spettacolo di gladiatori. I cittadini, impazziti di terrore, si riversarono sulla strada che conduceva al mare. Alcuni riuscirono a salvarsi, altri si attardarono nelle loro case per prendere i gioielli e i denaro. Di questi ultimi nessuno si salvò: morirono asfissiati dalle ceneri e dai vapori ardenti. Pompei fu sepolta e così Ercolano e Stabia.

La famosa eruzione del Vesuvio del 79

Lo scrittore romano Plinio il Giovane ci ha lasciato in una sua lettera questa viva e impressionante descrizione dell’eruzione del Vesuvio che nel 79 seppellì le città di Pompei, Ercolano e Stabia. Lo zio dello scrittore, Plinio il Vecchio, considerato il più grande naturalista romano e autore di una Storia Naturale, spinto dall’amore della scienza, accorse, incurante del pericolo, per osservare da vicino il fenomeno, ma trovò la morte.
“La nube, che da lontano era difficile capire da qual monte sorgesse (solo più tardi si seppe che proveniva dal Vesuvio), somigliava per la sua forma ad un albero, più precisamente ad un pino, poichè, dopo essersi levata assai in alto, come un tronco altissimo, si ramificava intorno e appariva ora bianca, ora nerastra, secondo che era più carica di terra o di cenere.
Come era naturale, dato il suo amore alla scienza, mio zio credette che quel grandioso fenomeno fosse degno di essere esaminato più da vicino.
Ordinò dunque che gli si apparecchiasse la sua lancia (egli si trovava a Miseno, al comando della flotta romana) e stava già per uscire di casa, quando ricevette un biglietto di Rectina, moglie di Casco, atterrita dall’imminente pericolo, poichè la sua villa stava ai piedi del Vesuvio, nè altro scampo vi era se non per mare, e pregava affinchè egli volesse salvarsi da sì grande catastrofe.
Allora mio zio mutò consiglio e si accinse ad affrontare col più grande coraggio ciò che prima pensava di osservare con interesse di studioso.
Fece venire delle quadriremi, vi montò sopra egli stesso e partì per portare soccorso, non solo a Rectina, ma a molti altri, poichè la spiaggia bellissima assai era popolata.
A mano a mano che le navi si avvicinavano, una cenere più spessa e più calda pioveva su di esse; già cadevano tutt’intorno lapilli e scorie ardenti, già si era formata una improvvisa laguna, profotta dal sollevamento del fondo del mare, e il lido era reso inaccessibile peri cumuli di lapilli.
Allora, dopo essersi fermato, alquanto incerto se tornare indietro o procedere oltre, mio zio disse al pilota, che gli consigliava appunto di guadagnare l’alto mare: “La fortuna aiuta i forti: drizza la prua verso la villa di Pomponiano”.
Pomponiano si trovava a Stabia… Mio zio, portato là dal vento assai favorevole alla sua navigazione, abbraccia il suo amico tutto tremante, lo rincuora, lo esorta a farsi coraggio…
Frattanto dal Vesuvio, in più punti, si vedevano rilucere vasti incendi, il cui fulgore era accresciuto e fatto più palese dalle tenebre della notte…
Si consultarono fra loro se chiudersi dentro o se fuggire per l’aperta campagna; poichè, da un lato, le case ondeggiavano per i frequenti terremoti e sembrava che, schiantate dalle fondamenta, fossero gettate ora su un fianco ora su un altro e poi rimesse a posto; dall’altro lato, all’aperto, la pioggia delle pomici, sebbene leggere e porose, non incuteva minor paura. Tuttavia il confronto fra i due pericoli fece scegliere quest’ultimo partito: si scelse dunque l’aperta campagna…
Essi escono e si proteggono il capo, coprendosi con dei guanciali, che legano mediante lenzuoli, precauzione necessaria contro la tremenda pioggia che veniva dall’alto.
Altrove era giorno, ma là dove essi erano perdurava la notte, la più nera ed orribile fra tutte le notti, squarciata solo da un gran numero di fiaccole e da lumi d’altro genere.
Si credette bene accostarsi alla riva e vedere da vicino quello che il mare permettesse di tentare. Ma le onde erano sempre grosse e agitate da un vento contrario.
Qui, sdraiato sopra un lenzuolo che aveva fatto distendere per terra, mio zio chiede e bevve due volte dell’acqua fresca. Poi le fiamme e l’odor di zolfo, che le preannunciava, fecero fuggire tutti gli altri e costrinsero mio zio a levarsi in piedi. Si rizzò, appoggiandosi  a due schiavi, ma cadde immediatamente, come fulminato.” (Plinio il Giovane)

Storia di Roma IMPERIALE – Gli scavi di Pompei

Dopo diciassette secoli, furono iniziati gli scavi per riportare alla luce Pompei. Chi si reca oggi a visitarla, vede com’era una città al tempo di Roma antica: lunghe vie lastricate, il Foro, le terme, i templi, le case adorne di statue e affreschi, i colonnati, i giardini.
La vita a Pompei si è fermata, ma le rovine della città ci parlano ancora di quel tempo antico.

Storia di Roma IMPERIALE – La morte di Plinio

Plinio il Vecchio era un illustre scienziato. Durante l’eruzione del Vesuvio volle studiare da vicino il fenomeno e nello stesso tempo portare aiuto all’amico Pompeiano che si trovava a Stabia. Fece allestire alcune navi e partì.
Nonostante la pioggia di pietre e di ceneri ardenti, egli riuscì a giungere a Stabia.
L’indomani Plinio, Pompeiano e altri tentarono di avviarsi a piedi verso la spiaggia, ma lungo la strada l’aria, mista a vapori di zolfo, si faceva sempre più irrespirabile e Plinio morì soffocato, vittima della sua generosità.

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SCOPERTA DELL’AMERICA materiale didattico vario

SCOPERTA DELL’AMERICA materiale didattico vario per la scuola primaria: dettati, letture, racconti, poesie e filastrocche sul tema.

Eric il rosso e i suoi figli

Un tempo, non c’erano libri che descrivessero terre lontane, non c’erano carte geografiche e nessuno tracciava itinerari che permettessero di andare in un luogo sconosciuto con una certa sicurezza. La gente non viaggiava molto e  credeva il mondo più piccolo di quello che non fosse in realtà.
I mezzi di trasporto erano primitivi, la gente andava a piedi, o tutt’al più, si serviva di carretti trascinati da cavalli, da asini o da buoi. Chi voleva andare per mare doveva accontentarsi di viaggiare su piccole navi che andavano un po’ a caso perchè la scienza della navigazione era ancora molto indietro.
Oltre tutto, i mari erano infestati da pirati e le strade da briganti; quindi, chi si metteva in viaggio, doveva essere anche un uomo di fegato.
Eppure, malgrado tutte queste difficoltà, c’erano uomini che arrivavano fino alle terre più lontane, sfidando disagi, pericoli e spesso rimettendoci anche la vita. Un po’ per smania di ricchezze, un po’ per amore dell’avventura, approdavano spesso a terre sconosciute e quando ne tornavano, raccontavano meraviglie.
Nelle terre del Nord dell’Europa, ghiacciate e desolate terre, prive quasi di vegetazione a causa del clima polare, abitava un popolo che , avendo poco da fare su quella terra così inospitale, era sempre in mare. Si chiamavano Vichinghi, ed erano arditi navigatori che non avevano paura di uscire nel gran mare aperto.
Uno dei più audaci, chiamato Eric il Rosso, sbarcò su quella terra che oggi noi chiamiamo Groenlandia. E i suoi figli, più audaci di lui, andarono ancora più in là, e approdarono in un territorio di cui ignoravano completamente l’esistenza e che chiamarono “terra delle viti”, perchè vi cresceva rigogliosa la pianta dell’uva. Era la parte più settentrionale di quella che oggi si chiama America.
Ma pochi si interessarono ai racconti che i figli di Eric fecero quando tornarono in patria e dell’avventura dei biondi Vichinghi nessuno parlò più.
Passarono cinquecento anni e i popoli europei avevano continuato a viaggiare. Attraversavano l’Asia per giungere alle Indie favolose, ricche di spezie, di sete, di gioielli e poichè le merci da trasportare erano tante e davano ricchi guadagni, la gente si cominciò a domandare se fosse stato meglio arrivarci per mare e caricare quelle preziose merci sulle navi invece che su carri e carretti.
Un italiano, disegnatore di carte geografiche, certo Toscanelli, era convinto che la Terra fosse rotonda, anche se pochi, a quell’epoca, erano della sua opinione. Disegnò, perciò, una carta secondo questa sua teoria e la mandò a un suo amico genovese, Cristoforo Colombo, che era fra quelli che cercavano una nuova via per le Indie e voleva arrivarci veleggiando verso Occidente.
Matto, lo diceva la gente. Com’era possibile raggiungere l’India e la Cina che si trovano a levante, mettendo, invece, la prua a ponente? Ma Colombo aveva studiato bene i venti e le correnti, e aveva visto che tanto gli uni quanto le altre si dirigevano verso ovest. Anche lui, come Toscanelli, era sicuro che la terra fosse rotonda, quindi, una nave che seguisse le correnti e fosse favorita dai venti, doveva arrivare alle Indie, pur facendo la strada opposta a quella fino allora fatta.
Tanto insistette, il navigatore genovese, che finalmente ottenne tre caravelle dalla regina di Spagna che lo stimava molto. Raccolse un equipaggio di uomini spericolati e avidi soltanto di guadagno, e si mise in mare.
“Fra sue mesi arriveremo alle Indie!” disse a quegli uomini rotti a tutti i rischi. Ma due mesi passarono e l’India non si vedeva.
Spericolati sì, avidi sì, ma a un certo punto quegli uomini si intimorirono. Cielo e mare, mare e cielo. E come sarebbero potuti tornare indietro se i venti continuavano a spingerli sempre nella stessa direzione?
Colombo, a un certo punto, rischiò la vita. L’equipaggio si ammutinò: o interrompere il viaggio e cercare di tornare in Patria, o quel genovese della malora avrebbe passato un brutto quarto d’ora.
Finalmente, in una brumosa mattina di autunno, fu intravista, all’orizzonte, una striscia di terra. Era il 12 ottobre 1492: una data che i ragazzi avrebbero studiato sui libri di geografia e anche su quelli di storia.
“E’ l’India!” disse Colombo. Ma non era l’India. Era un’isola sconosciuta e Colombo, grato a Dio che gli aveva salvato la vita, la chiamò San Salvador.
Alcuni uomini di pelle rossastra andarono incontro ai navigatori. Colombo li chiamò Indiani, come chiamò Indie Occidentali le terre che si intravedevano all’orizzonte. Veramente non si trattava ne di Indie ne di Indiani, ma questo Colombo non lo seppe mai.
Gli indigeni dalla pelle rossastra e dai capelli neri e setosi, che si chiamavano Occhio d’Aquila e Uragano di Primavera, fecero una festosa accoglienza a Colombo e ai suoi uomini. Erano ornati di collane e di monili d’oro che non esitarono a dare in cambio di specchietti e perline di vetro, cose che destavano la loro meraviglia perchè non le avevano mai viste.
Ma dopo i primi festosi incontri, le cose cambiarono. Gli Spagnoli, alla vista di tutto quell’oro, non capirono e non vollero altro. Per cercare il prezioso metallo si spinsero su altre isole, ma non lo trovarono. Decisero allora di tornare in patria a prendere altre navi e altri uomini. Era una terra favolosa, quella, e chissà quante ricchezze celava. Bastava saperle cercare.
Colombo fece in tutto quattro viaggi e scoprì altre isole. Ma ignorò sempre di aver scoperto un nuovo continente. Convinto di essere sbarcato nella favolosa terra delle sete e delle spezie, già descritta da Marco Polo nel suo libro “Il Milione”, fu deluso di non trovare ne le une ne le altre. E poichè non era riuscito a portare in Spagna i ricchi tesori che gli Spagnoli speravano, lo sfortunato e ardimentoso navigatore fu abbandonato da tutti e morì povero e solo dopo essere stato anche in prigione.
Gli Spagnoli continuarono i loro viaggi e parecchi di essi si stabilirono nelle nuove terre, alcuni a cercarvi l’oro, altri a coltivare canna da zucchero.
Trovarono finalmente la terraferma. Pianure e dopo quelle pianure, montagne. E su quelle montagne gran numero di Indiani che coltivavano granaglie, fagioli, tabacco, e andavano a caccia con archi e frecce.
Ma ben presto l’avidità e la prepotenza degli Spagnoli guastarono l’amicizia con gli indigeni, e fra Pellirosse e Visi Pallidi vi furono guerre lunghe e sanguinose.
Intanto si era scoperto che non si trattava delle Indie, ma di un continente di cui tutti, fino allora, avevano ignorato l’esistenza. E un fiorentino, Amerigo Vespucci, che l’esplorò e la descrisse, ebbe la fortuna di dargli il suo nome.
(M. Menicucci)

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LA GERMINAZIONE tavole e schede

LA GERMINAZIONE tavole e schede  pronte per la stampa e il download gratuito, in formato pdf, per bambini della scuola primaria. Aggiungo all’articolo illustrazioni e didascalie che possono essere utili per preparare un cartellone da parete.

Trovi la tavola riassuntiva della classificazione delle piante qui:

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E questo lo stesso materiale in formato scheda:


LA GERMINAZIONE tavole e schede

IL FIORE E LA FECONDAZIONE tavole e schede

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PARTI DELLA PIANTA tavole

PARTI DELLA PIANTA tavole  pronte per la stampa e il download , in formato pdf, per bambini della scuola primaria.

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La pianta utilizzata ad esempio è quella del fagiolo. La tavola, oltre ad indicare le principali parti di cui si compone una pianta, ne illustra anche le quattro principali funzioni, che sono:
– assorbimento
– respirazione
– traspirazione
– funzione clorofilliana.

Questa è la tavola contenente tutte le didascalie:

Questo è invece la tavola da compilare:

PARTI DELLA PIANTA tavole

FUNGHI tavole riassuntive e schede

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ALGHE tavole riassuntive e schede

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MUSCHIO tavole riassuntive e schede

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MUSCHIO tavole riassuntive e schede

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FELCI tavole riassuntive e schede

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FELCI tavole riassuntive e schede

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GRAMINACEE tavole riassuntive e schede

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LE LILIACEE tavole riassuntive e schede

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ALBERI FORESTALI tavole riassuntive e schede

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LE SOLANACEE tavole riassuntive e schede

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LE COMPOSTE tavole riassuntive e schede

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LE OMBRELLIFERE tavole riassuntive e schede

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LE ROSACEE tavola riassuntiva e schede

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LE ROSACEE tavola riassuntiva e schede

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LA CLASSIFICAZIONE DELLE PIANTE scheda riassuntiva

LA CLASSIFICAZIONE DELLE PIANTE scheda riassuntiva pronta per la stampa e il download in formato pdf, per bambini della scuola primaria.

Le piante si suddividono in due grandi categorie: le piante con fiore e le piante senza fiore.

Tra le piante con fiore troviamo quelle con foglie a nervature non parallele e quelle a nervature parallele.

Tra le piante con foglie a nervature non parallele troviamo tutte le piante che presentano fiori completi, cioè con stami, petali, sepali e pistilli, che sono:
– crucifere
– rosacee
– leguminose
– ombrellifere
– composte
– solanacee

e piante che presentano due qualità di fiori sullo stesso albero, che sono gli alberi forestali come la quercia.

trovi il materiale sulle crocifere qui:

trovi il materiale sulle rosacee qui:

Ho utilizzato la pianta del fagiolo in queste tavole:

– parti della pianta e funzioni: 

– il fiore e la fecondazione:

– la germinazione: 

trovi il materiale sulle ombrellifere qui:

trovi il materiale sulle composte qui:

trovi in materiale sulle solanacee qui:

trovi il materiale sugli alberi forestali (cupolifere) qui:

Tra le piante con foglie a nervature parallele troviamo:
– liliacee
– graminacee

trovi il materiale sulle liliacee qui:

trovi il materiale sulle graminacee qui:

Le piante senza fiore comprendono:
– felci: con radici, fusto, foglie
– muschi: con fusto e foglie, senza radici
– alghe: ne radici ne fusto ne foglie

trovi il materiale sulle felci qui:

trovi il materiale sui muschi qui:

trovi il materiale sulle alghe qui:

I funghi non sono da considerarsi piante.

trovi il materiale sui funghi qui:

LA CLASSIFICAZIONE DELLE PIANTE scheda riassuntiva

ITALIA materiale didattico

ITALIA materiale didattico – una raccolta di materiale didattico vario per iniziare lo studio della geografia italiana nella scuola primaria.

Come l’Italia sorse dal mare
Durante una gita in montagna, Roberto scoprì con sorpresa, nella parete rocciosa, l’impronta di una piccola conchiglia, e chiede al babbo come potesse quella conchiglia trovarsi lassù, a duemila metri sopra il livello del mare. Il babbo sorrise.
“La cosa è semplice” spiegò. “Milioni di anni fa, tutte queste montagne erano sepolte sotto il mare. Poi emersero, portando in alto dei fossili, cioè i resti pietrificati di pesci e di molluschi. Dove ora sorge la nostra bella penisola,una volta si stendevano e acque del Mediterraneo”.
“Ma come fece l’Italia a emergere dal mare?”
“Guarda” fece il babbo.
Prese il giornale, lo distese per terra, poi appoggiò le mani sui due lati e incominciò a premere verso il centro. Il foglio si accartocciò, si sollevò in tante pieghe.
“Vedi?” riprese il babbo, “Ecco come si sollevarono i monti. Fa’ conto  che la mano destra sia il continente africano e la mano sinistra sia il continente europeo. Ora devi sapere che  i continenti si muovono, come se fossero degli immensi zatteroni. I due continenti, accostandosi lentamente, fecero sollevare in tante pieghe il fondo del Mediterraneo, appunto come mi hai visto fare con il giornale. Così nacque la catena delle Alpi e la lunga, frastagliata catena degli Appennini…”.
Roberto ascoltava stupefatto.

“Hai presente la cartina geografica dell’Italia fisica? Sembra uno stivale proteso verso il mare. Ma guarda  bene: c’è tutta una struttura montagnosa che ne costituisce l’ossatura. A nord, come un grande arco, si stende la catena delle Alpi. Dalle Alpi Occidentali si dipartono gli Appennini che percorrono in lungo tutta l’Italia. Le stesse montagne della Sicilia sono un prolungamento degli Appennini, e perciò si chiamano Appennini Siculi”.
“E le pianure, come sono nate?”
“Dai depositi dei fiumi. Guarda la Pianura Padana. Dalle Alpi scendono molti fiumi che trasportano detriti e terriccio. Col passare dei secoli questi detriti hanno colmato il mare e così si sono formate le pianure. Non è chiaro?”
Roberto si fermò un attimo a guardare. All’orizzonte si estendeva la pianura sconfinata, velata da una leggera nebbiolina. Sembrava appena uscita dal mare, proprio come aveva detto il babbo.

Come si è formata l’Italia
Siamo nell’era terziaria (l’uomo apparirà soltanto nell’era successiva, la quaternaria). Le precedenti ere: primigenia, primaria e secondaria, avevano già visto alcune terre sprofondare lentamente nel mare ed altre emergere; ora un’altra grande vicenda, detta “corrugamento alpino” sta per cambiare volto all’Europa.
Una parte dell’Europa meridionale sprofonda nel mare, e nel Mediterraneo soltanto il massiccio Sardo-Corso continua a spuntare dalle acque, mentre comincia ad emergere, ciò che sarà il nostro suolo, una leggera falce di terra, costituita dalle maggiori creste alpine. Lentamente ecco affiorare poi, fra le spume del mare, il bruno dorso dell’Appennino nelle sue cime più alte, cosicchè l’Italia appare come una serie di isole. Continuando i movimenti corruganti per effetto delle immani forze endogene della terra, ecco man mano delinearsi l’alto e potente arco alpino e ad esso, e tra di loro, saldarsi le isole, che si spingono nel mare verso sud a formare un’unica lunga catena: l’Appennino.

Nel Pliocene, ultimo periodo dell’era terziaria, la cui durata si calcola dai sei ai dieci milioni di anni, l’Italia comincia a delinearsi nella sua struttura essenziale, caratteristica: c’è quantomeno lo scheletro, cui i successivi innalzamenti e  i depositi alluvionali dei fiumi aggiungeranno, poco per volta, la polpa delle pianure.
Nel passaggio dal Pliocene al Quaternario si ebbe un forte abbassamento della temperatura con relativo imponente sviluppo dei ghiacciai, e con un’intensa attività vulcanica.
Dell’epoca glaciale si calcola la durata in 600.000 anni. Tutti i più alti rilievi alpini erano coperti di ghiaccio; solo le cime più ripide e scoscese emergevano nude. I sistemi glaciali più estesi delle Alpi erano quelli della Dora Riparia, della Dora Baltea, del Ticino, dell’Adda, dell’Oglio, dell’Adige, del Piave e del Tagliamento.
I ghiacciai depositavano, ai margini e soprattutto alla fronte, i detriti di cui erano carichi: i depositi frontali si presentano tuttora come archi di colline disposte ad anfiteatro. Al ritirarsi dei ghiacciai, le conche situate a monte di tali sbarramenti morenici si colmarono d’acqua, a costituire gli odierni laghi d’Iseo, di Garda, Maggiore, di Como.

I ghiacciai hanno modellato anche le vallate sulle quali scorrevano, arrotondandone e lisciandone il fondo ed i fianchi (sezione a U), cosicchè la forma di queste valli si presenta oggi ben diversa da quella delle valli erose unicamente dai fiumi (che hanno una sezione a V).
Dai ghiacciai scendevano enormi fiumane, che divagavano capricciosamente, su letti larghissimi, per l’intera Pianura Padana, in più punti acquitrinosa e intransitabile.
Sull’Appennino, data la minore altezza dei rilievi e la diversa latitudine, non si ebbe un’espansione glaciale imponente come sulle Alpi; ma ghiacciai locali ebbero tutti i massicci più elevati, dal monte Antola nell’Appennino ligure, al monte Pollino in Calabria. I ghiacciai più estesi furono quelli del Cimone e della Cusna nell’Appennino toscano; nell’Appennino centrale quelli dei monti Sibillini, del Gran Sasso, del Velino-Sirente, della Maiella, del monte Marsicano, del monte Greco; nell’Appennino meridionale quelli dell’Alburno, del Matese, del Pollino e della Serra Dolcedorme; qualche ghiacciaio ebbe anche l’Etna.
Estesi invece furono i bacini lacustri appenninici, prosciugati poi in varie epoche, e di cui restano, comunque, cospicui residui.

Alla fine del Terziario l’Etna aveva iniziato la sua attività; attività endogena si era avuta nei monti Berici, nei Lessini, nei colli Euganei, nei monti Iblei in Sicilia, nel monte Ferru in Sardegna, e nell’interno di Alghero e di Bosa (dove si trovano colate laviche caratteristiche: le giare).
Il Pleistocene vide imponenti attività vulcaniche sul versante tirrenico: centri eruttivi si ebbero nella Toscana meridionale (Orciatico, Montecatini, Roccastrada, ecc…), nel monte Amiata, nel gruppo della Tolfa, dei monti Volsini, Cimini, Sabatini, dei Colli Laziali; più a sud furono attivi il vulcano di Roccamonfina, i Campi Flegrei, il Vesuvio, i vulcani delle isole Ponziane, di Ischia, il Vulture, e quelli delle Eolie e di Linosa.
Estintasi l’attività eruttiva, i crateri, in molti casi si trasformarono in laghi. Le ceneri e i lapilli eruttati si consolidarono in estesi depositi di tufo; Roma stessa è in parte costruita su rilievi tufacei provenienti dal Vulcano Laziale.

Il periodo che segue il ritiro dei ghiacciai è detto Olocene e risale al 20-25.000 anni fa.
E’ difficile farci un’idea dell’aspetto che presentava la nostra Italia. Sulle Alpi i ghiacciai si andavano ritirando verso le loro posizioni attuali: la montagna si copriva di boschi fittissimi, popolati da fiere, da mammiferi giganteschi, da uccelli.
Al ritiro  dei ghiacciai corrispondeva un maggior deflusso di acque che andavano ad innalzare il livello dei mari; l’Adriatico avanzava verso nord a sommergere lo spazio tra la Penisola Italiana e la Balcanica.
I grandi laghi si venivano colmando e al posto di essi subentravano pianure interne, spesso cosparse di bacini residui o di acquitrini. Frequente anche la formazione di torbiere. L’attività vulcanica si veniva a poco a poco spegnendo o attenuando. La rete idrografica si veniva stabilizzando con fenomeni di cattura, erosione regressiva, ecc…
L’Italia andava assumendo a poco a poco quella che è la sua attuale fisionomia; l’uomo vi si diffondeva, e con l’uomo iniziava anche l’intelligente opera trasformatrice del paesaggio naturale.

Come è nata l’Italia

L’Italia è una terra di incomparabile bellezza per i suoi stupendi paesaggi che vanno dalle alte vette nevose delle Alpi alle splendide coste, dai boschi alle fertili pianure.
E’ una penisola e cioè una terra circondata dal mare da tutte le parti meno una. Si stende nel Mar Mediterraneo ed è simile, per la sua forma, a uno stivale.
Ma un tempo non aveva questa forma, anzi, in tempi assai più remoti non esisteva affatto, come qualsiasi altra terra: è noto infatti che i continenti sono terre emerse.
Da un potente sconvolgimento della crosta terrestre era sorto dal mare un immenso fascio di catene che attraversava quasi tutto il globo. In questo fascio, c’erano anche le Alpi. E alla base delle Alpi, di frangevano, spumeggiando,  le onde.

In seguito, lentissimamente, il suolo cominciò a sollevarsi, a emergere dall’acqua ed ecco il dorso dell’Appennino nereggiare fra le spume del mare. A grado a grado, la catena appenninica si unisce a quella delle Alpi. Altre terre emergono qua e là come tante isole, e dopo milioni di anni, queste isole affioranti dal mare si saldano insieme. E’ lo scheletro montuoso dell’Italia. Intorno a questo scheletro, lentamente si vengono formando le pianure. Fra queste, la più vasta, la pianura del Po. Dove ora sono le fertili terre coltivate, una volta c’era il mare, e pertanto vi si rinvengono numerose conchiglie fossili, testimoni di un tempo in cui le acque si spingevano nelle gole alpine che allora erano insenature costiere, profonde e strette. Una parte delle Alpi, quella che si chiama Dolomiti, sorge addirittura su banchi di corallo.

A quest’epoca il globo era ricoperto, quasi interamente, dai ghiacci e, nella loro corsa al piano, le acque provenienti dai ghiacciai trasportavano ammassi di pietre, rocce e detriti di ogni genere, strappati ai versanti lungo i quali precipitavano.
I ghiacciai delle Alpi, nonostante la loro apparente immobilità, avevano invece un moto lento ma continuo, e per l’azione di questo movimento, nel corso dei secoli  il dorso dei monti si levigò, si abbassò, i crepacci si colmarono trasformandosi in ampie valli in fondo alle quali scorreva un fiume. I sassi e le rocce, trasportati dalle acque e trascinati dal movimento dei ghiacciai, formarono degli ammassi che oggi si chiamano morene.
Le morene, sempre nel corso dei secoli, si alzarono come barriere e le acque, arrestate da questi ostacoli, formarono i bellissimi laghi subalpini, gemme dell’Italia settentrionale.

Nel frattempo, il fondo del mare si andava sollevando e al posto delle acque si formava un’ampia e bassa pianura, attraverso la quale si convogliavano le acque provenienti da una parte dalle Alpi e dall’altra dagli Appennini. Queste acque infine si raccolsero in un ampio e maestoso fiume che un giorno si sarebbe chiamato Po.
Nel corso dei millenni l’Italia prese la forma attuale. Ma questa non sarà certo la sua forma definitiva. Se, fra migliaia e migliaia di anni gli uomini saranno ancora su questa terra, essi vedranno un’Italia ben diversa dall’Italia di oggi. Quelli che attualmente sono picchi altissimi, si saranno trasformati in vette arrotondate e in dolci pendii; le valli si saranno colmate e i fiumi avranno cambiato il loro corso. Dove oggi c’è una verde pianura, ci sarà forse una montagna di detriti rocciosi; nuove spaccature si saranno aperte e in fondo ad esse scorreranno le acque tumultuose di nuovi fiumi; dove oggi c’è un ghiacciaio forse ci sarà un lago azzurro, qualche isola sarà scomparsa nel mare e altre ne saranno emerse. Il delta del Po si sarà saldato all’opposta sponda adriatica, e Venezia, se ancora esisterà, sorgerà sulle rive di un lago…

Come potranno avvenire questi cambiamenti? Forse la nostra patria è davvero destinata ad essere vittima di paurosi sconvolgimenti e convulsioni della terra? Si tratterà sì anche di sconvolgimenti e convulsioni, ma soprattutto dell’azione secolare degli elementi. L’aria, l’acqua, il fioco sono le forze naturali che modificano incessantemente la forma della terra. Il vento che spazza, per migliaia e migliaia di anni, il crinale di una montagna, finisce con l’appiattirlo, col levigarlo; la pioggia che flagella il monte per secoli, scalza i massi di pietra e li fa rotolare lungo i pendii, approfondisce i crepacci, corrode le vette, trascina a valle i detriti. Il ghiaccio che si forma nelle fenditure, spacca le pietre più dure, le disgrega, le riduce in frammenti…

Nell’interno della terra il fuoco ancora rugge e divampa. Talvolta, questo fuoco trova una via d’uscita in una frattura della crosta terrestre e allora erompe all’esterno in un getto violento di fiamme, di cenere, di lave liquefatte.

E il fuoco? Con l’andar del tempo, dove prima c’era soltanto una spaccatura della roccia, eruttante fuoco, si forma un vulcano. In Italia abbiamo  ancora alcuni vulcani attivi: l’Etna, il Vesuvio, lo Stromboli. Ma un tempo i vulcani di questa nostra terra erano molto più numerosi e con le loro eruzioni coprirono intere regioni di alti strati di tufo, di cenere, di lava che si andarono solidificando. I sette colli su cui venne fondata Roma sono fatti di tufo, cioè di cenere vulcanica solidificata.

Passano mille e mille anni e il vulcano si esaurisce, si quieta, si spegne. Nel suo cratere, ormai inattivo, si raccolgono le acque formando un lago pittoresco. Tale è l’origine di alcuni laghi dell’Italia centrale, il lago di Vico, di Nemi, di Albano, ecc…

Ma il fuoco non scaturisce soltanto dalla terra, bensì anche dal fondo del mare. E col tempo si formano delle isole tutte di origine vulcanica, come Ischia, Procida, Capraia, Ponza, le Eolie, ecc… E, nell’andare dei secoli, così si formeranno anche isole che forse gli uomini un giorno abiteranno. Nel 1931 sorse, dal fondo del Mar Ionio, un’isola vulcanica che fu chiamata Fernandea e che dopo qualche settimana fu di nuovo inghiottita dalle acque.

Ecco come il paesaggio cambia, ecco come nel corso dei millenni cambia l’aspetto dei monti, delle pianure, dei mari, della costa.

Ma il paesaggio non cambia soltanto per opera degli elementi o degli sconvolgimenti o dei cataclismi. Cambia anche per l’opera dell’uomo che assoggetta la terra alla sua volontà, ai suoi bisogni, alle esigenze della sua vita. Prendiamo, come esempio, ancora una volta, la Pianura Padana. Oggi, questa terra è una delle più fertili d’Italia, ma un tempo, mille e mille anni fa, era una distesa arida e sassosa dalla parte dei monti, paludosa, cespugliosa e fangosa lungo il fiume. I fiumi che l ‘attraversavano spostavano continuamente il loro corso, lasciando ammassi di ghiaia e invadendo terre fino allora asciutte.

Com’è avvenuta la trasformazione che ha fatto, di questa regione ingrata e malsana, una delle più ricche e fertili terre d’Italia? E’ avvenuta per opera dell’uomo. L’uomo ha sistemato le acque costringendole entro il loro letto mediante l’erezione di argini e di muraglioni; le ha convogliate in canali, formando così un sistema di irrigazione che ha reso fertili le zone prima di allora malsane e paludose; ha costruito potenti dighe per costringere le acque a mettere in moto macchinari, opifici e, soprattutto, ha impiantato centrali elettriche per dare la forza motrice e la luce a città e paesi anche molto lontani.

Non contento di questo, l’uomo ha scavato il sottosuolo e ne ha tratto il gas metano che va ad alimentare impianti casalinghi, portando fiamma e calore da per tutto. Con il sorgere delle industrie, con l’incremento dell’agricoltura, con l’avanzare della civiltà, la regione si è popolata di grandi e attive città che l’uomo ha collegato fra loro con chilometri e chilometri di strade, creando una fitta rete di comunicazioni che ha favorito rapidi spostamenti da un paese all’altro. Ecco che cosa può mutare profondamente l’aspetto di un luogo.

(Mimì Menicucci)

era secondaria
era terziaria
era quaternaria
oggi

Il nome “Italia”

Molti furono i nomi usati nell’antichità per designare la nostra penisola. I Greci la chiamarono Esperia o “Terra del tramonto” per indicarne la posizione rispetto alla loro patria (l’Italia è a occidente della Grecia); altri la dissero Enotria o “Terra del  vino”; altri ancora Saturnia o “Terra di Saturno”, dio delle messi.
Prevalse infine il nome Italia, usato in un primo tempo per designare l’estrema punta della Calabria e poi dai Romani esteso a tutta la penisola.

E’ un nome bellissimo, ma purtroppo non se ne conosce l’esatta etimologia. Un tempo lo si faceva derivare da quello di un leggendario re Italo, più tardi lo si ritenne una derivazione dal termine osco Viteliu (o dalla voce latina vitulus) a indicare che l’Italia era una terra ricca di bovini. Oggi si è propensi a credere che esso derivi da Italoi che significa abitanti dei monti, quali infatti sarebbero stati i primi abitanti della montuosa Calabria.

Nel IV secolo aC il nome Italia era già esteso a tutto il territorio a sud dell’Arno; durante l’impero di Augusto comprendeva anche la Pianura Padana. Le tre grandi isole Sicilia, Sardegna e Corsica furono denominate Italia soltanto durante il regno di Diocleziano (IV secolo dC).

Dove l’Italia cresce di sette millimetri all’ora

Alle foci del Po la terra d’Italia avanza in mare di sessanta metri all’anno, che, se non sbaglio i conti, sono circa diciassette centimetri al giorno: qualcosa come sette millimetri all’ora. Possono sembrare pochi, perchè il mondo, in fatto di rapidità, si è fatto esigente; ma se si pensa che la marcia continua da decine di migliaia di anni e che a forza di millimetri l’instancabile fiume ha riempito tutto quello che era, un tempo, il golfo padano e che oggi è la Pianura Padana, il pensiero di questo lavoro, che si  svolge dalla preistoria e continuerà quando di noi non sarà più nemmeno un pizzico di polvere, fa venir voglia di levarsi il cappello. (O. Vergani)

L’azione modellatrice del mare
L’azione morfologica del mare, rispetto alle coste, si esercita attraverso le due forme fondamentali dell’abrasione e dell’alluvionamento, ciascuna della quali assume però diversi aspetti. Ci limiteremo a quelli che interessano le coste italiane.
Quando si affacciano sul mare rocce argillose o argillosabbiose di consistenza omogenea, l’abrasione genera delle ripe a picco (analoghe alle falaises francesi), di cui si hanno esempi sulle coste delle Marche; quando le rocce piombano a picco sul mare, l’abrasione crea, a livello del mare, una piattaforma costiera sulla quale poi si smorza il moto ondoso. Quando invece si affacciano al mare rocce con strati di diversa consistenza, si generano piccole insenature dove l’abrasione è più forte, alternate a piccoli promontori in corrispondenza degli strati più resistenti.
Il mare scava poi solchi di battente e grotte, frequentissime sulle coste alte italiane. La più celebre delle grotte erose dal mare è certamente la Grotta Azzurra di Capri, ma numerose altre ve ne sono nelle isole dell’Arcipelago napoletano, nella Penisola Sorrentina (Grotta Verde), al Capo Palinuro, sulla costa della Calabria tirrenica, lungo il Promontorio Circeo, nell’Argentario, nel Promontorio di Portovenere, sulla costa ligure di ponente e in Sardegna. Parecchie grotte si trovano a diverse altezze rispetto all’attuale livello marino: esse testimoniano antiche linee di spiaggia e spesso, come la grotta delle Arene Candide nella Riviera di Ponente, danno reperti preistorici.
Altra azione dell’abrasione marina è il distacco dalla terraferma di scogli, faraglioni, isolotti: ne sono esempi l’isola Palmaria (il cui distacco dalla costa di Portovenere fu però dovuto anche ad altre cause); l’isola di Dino presso la costa calabra; alcune isolette davanti alla costa occidentale e l’isolotto di Capo Passero all’estremità sud-est della Sicilia; l’isola Monica davanti alla costa di Santa Teresa di Gallura in Sardegna, ecc…
In senso opposto all’abrasione, e con effetti molto più rilevanti, agisce l’alluvionamento. I materiali erosi e quelli riversati dai fiumi, talora, dopo un più o meno lungo trasporto ad opera delle correnti e una elaborazione meccanica e chimica, vengono dal mare depositati a formare coste alluvionali piatte, sabbiose, normalmente strette (ad esempio in molte piccole insenature liguri, sulle coste calabresi, marchigiane, abruzzesi ecc…) accompagnate spesso, in quelle di maggior ampiezza, da dune accumulate dal vento in cordoni litorali, quali si trovano sulle coste toscane (dove vengono chiamati tomboli), laziali (dove vengono chiamati tumuleti), della Sicilia e della Sardegna.
I più vistosi effetti dell’alluvionamento si hanno alle foci dei fiumi, nei delta. Nei mari più riparati, come nell’Adriatico centrale e in fondo al golfo di Taranto, i materiali riversati dai fiumi formano cimose litoranee regolari; altrimenti si ha la formazione di veri e propri delta dalle complicate e irregolari ramificazioni, che in epoca storica, per effetto dell’azione abrasiva e delle correnti litoranee del mare, hanno subito alterne vicende di avanzamento, di stasi, di spostamenti che, complicati dall’intervento dell’uomo, ne hanno più volte mutato la configurazione: tali l’apparato deltizio Po – Adige, i delta della Magra, dell’Ombrone, del Garigliano, del Tagliamento, del Serchio – Arno, del Volturno, del Crati, del Simeto ecc…
Complessivamente la costa avanza a spese del mare: Adria e Ravenna, che nell’antichità erano città marine, ora distano dal mare rispettivamente 14 e 8 chilometri; Luni, da cui prende nome la Lunigiana, ora nell’interno, era anticamente un porto etrusco.

Il nostro paese

Vi sono paesi nel mondo, i quali, per la loro posizione geografica e configurazione, sono destinati a rappresentare sempre una delle prime parti della storia mondiale: fra questi vi è l’Italia. Pochi paesi nel mondo hanno confini così ben delimitati, come il nostro; pochi paesi hanno una posizione geografica così privilegiata come quella dell’Italia. Situata nel centro del più bel mare del mondo, esso riassunse in sè quella civiltà mediterranea, romana e cristiana, che oggi è la civiltà del mondo intero. (Gribaudi)

La forma dell’Italia

L’Italia è una penisola circondata da tre parti dal mare e a nord incoronata dalla fulgida catena delle Alpi. Ma un tempo non aveva questa forma. Una serie di paurosi e violenti sconvolgimenti fecero affiorare alcune terre e sprofondarne altre; il mare invase immensi territori e da altri si ritirò ruggendo. Il risultato di queste convulsioni di acqua e di terra fu la forma caratteristica di acqua e di terra fu la forma caratteristica delle Alpi, alle splendide marine, dai boschi selvosi alle fertili pianure.

La pianura Padana

Dove ora sono le fertili terre coltivate della pianura padana, una volta c’era il mare che si spingeva nelle gole alpine che allora erano insenature costiere. I ghiacciai che ammantavano le alte cime delle Alpi e che, apparentemente erano immobili, si muovevano, invece, con un moto lentissimo, ma continuo, trascinando ammassi di pietre, rocce e detriti di ogni genere, strappati dai versanti lungo i quali scendevano. Nel frattempo, il fondo del mare si andava sollevando e si formò così una vasta pianura attraverso la quale si convogliavano le acque irruenti dei fiumi. Fra questi, il più grande, il più ricco d’acqua, il Po.

L’azione degli elementi

Il vento che spazza, per migliaia e migliaia di anni, il crinale di una montagna, finisce per appiattirlo, per levigarlo. La pioggia che flagella il monte per secoli, scalza i massi pietrosi e li fa rotolare lungo i pendii, approfondisce i crepacci, corrode le vette, trascina a valle i detriti. E il fuoco? Nell’interno della terra il fuoco ancora rugge e divampa. Talvolta, questo fuoco trova una via di uscita in una frattura della crosta terrestre e allora erompe all’esterno in un getto violento di fiamme, di cenere, di lave liquefatte. Con l’andar del tempo, dove prima c’era soltanto una spaccatura della roccia eruttante fuoco, si forma un vulcano. La terra, insensibilmente, cambia forma e dimensione.

L’opera dell’uomo

Il paesaggio non cambia soltanto per opera degli elementi e dei cataclismi. Cambia anche per l’opera dell’uomo che assoggetta la terra alla sua volontà, ai suoi bisogni, alle esigenze della sua vita. Egli sistema le acque costringendole entro il loro letto, costruisce dighe e centrali elettriche che daranno vita ai suoi opifici ed energia elettrica alle sue città. Traccia chilometri e chilometri di strade, rende fertili zone un tempo paludose e malsane, costruisce case che formano paesi e città. Ecco che cosa può mutare profondamente l’aspetto di un luogo.

Come si è formata l’Italia

La penisola italiana è emersa dal mare. Per secoli e secoli dalle azzurre onde di un mare sconvolto, affiorano punte, scogli, terre che a settentrione si disposero a semicerchio, le Alpi. E si formarono montagne, colline, pianure; i fiumi precipitarono nelle valli e dove le acque passavano crescevano le erbe e le piante, sbocciavano i fiori. Presto la terra fu tutta un verdeggiare di floridi campi. Nelle selve cinguettarono gli uccelli, per le pianure corsero, code e criniere al vento, torme di cavalli selvaggi; dalle macchie folte uscirono grandi buoi che giravano intorno i grandi occhi stupiti. Poi nei campi, presso i fiumi, apparvero uomini alti e forti, dallo sguardo fiero, che impugnavano rami nodosi e schegge di selce.

I primi abitatori dell’Italia

Chi furono i primi abitatori dell’Italia? Oggi ci soni i Veneti, i Liguri, i Romani, i Piemontesi, tutti Italiani dalle Alpi alla Sicilia, ma migliaia e migliaia di anni fa gli abitanti erano ben diversi e anche l’Italia presentava un aspetto del tutto differente da quello di oggi. Una regione coperta di fittissime foreste, senza abitazioni, senza coltivazioni, senza alcun segno di civiltà. E su questa terra, lussureggiante di boschi, ancora scossa dalle convulsioni di decine e decine di vulcani, gruppi di uomini irsuti, dalle grosse teste e dalle lunghe braccia, vagavano fra gli alberi in cerca di cibo.

I primi abitatori dell’Italia

Nelle grotte del monte Circeo si sono trovati resti di uomini vissuti in Italia migliaia e migliaia di anni fa, razze del tutto scomparse. Ma la civiltà non è avanzata con lo stesso passo in tutte le regioni del mondo. Le migrazioni portarono ondate di popoli più civili di quelli che abitavano la penisola.

Popoli d’Italia

 Col passare del tempo, ondate di uomini migrarono nella penisola; erano popoli provenienti dalle città del Mediterraneo, che avevano imparato a costruire le navi, che conoscevano il commercio e sapevano fare i calcoli; erano Etruschi, che sapevano fabbricare bellissimi vasi di terracotta e avevano una forma di avanzata civiltà, erano i Galli che provenivano dal nord, erano i Cartaginesi che venivano dall’Africa. Tanti popoli, tante razze, che si mescolarono fra loro, costruirono le abitazioni, diffusero le loro scoperte. Uomini dai capelli biondi o bruni, ma tutti di carnagione chiara, forti, intelligenti, industriosi: gli antenati dei futuri Italiani.

Le morene

Nell’antichità tutta la pianura dell’Italia settentrionale formava un vasto golfo. Le pittoresche gole alpine erano, allora, altrettante anguste insenature costiere che servivano di afflusso alle acque scendenti dai ghiacciai che in quel tempo coprivano la maggior parte dell’Europa. Nella loro corsa al piano, i ghiacciai convogliavano macigni rocce detriti che strappavano ai versanti tra i quali precipitavano: a questo materiale si dava il nome di morena. Le morene ostruivano così le vallate e all’atto dello scioglimento dei ghiacciai trattenevano l’acqua formando così un lago.

Regioni d’Italia

Vorrei cantarvi tante canzoni,
o dell’Italia dolci regioni:
Piemonte, Veneto e Lombardia,
Liguria, Emilia, Toscana mia!
Le Marche e l’Umbria vorrei vedere,
l’Abruzzo, il Lazio e le costiere
della Campania, tutto un giardino,
ricche di frutta, di grano e vino.
Puglia, Calabria, Basilicata,
Sicilia bella, terra incantata,
Sardegna bruna di là dal mare,
oh, vi potessi tutte ammirare! (A. Cuman Pertile)

Lo stivale

Io non son della solita vacchetta
nè sono uno stival da contadino,
e se paio tagliato con l’accetta
chi lavorò non era un ciabattino;
mi fece a doppia suola e alla scudiera
e per servir da bosco e da riviera.
Dalla coscia in giù fino al tallone
sempre all’umido sto senza marcire,
son buon da caccia e per menar di sprone.
I molti ciuchi ve lo posson dire:
tacconato di solida impuntura
ho l’orlo in cima e in mezzo la costura. (G. Giusti)

Italia
Quando nomino “Italia” voglio dire
questa terra divina
su cui si corica e cammina
il mio povero corpo
e mi fa piangere e soffrire:
questo azzurro che riempie le pupille
dei miei bambini,
quest’aria che respiriamo;
questi campi, questi giardini
pieni di fiori
così belli e perfetti
che sembrano fatti con gli stampi.
Quando nomino “Italia” voglio dire
questa pianura, questi monti,
che sono solo italiani
perchè non sono così belli in nessun altro luogo;
questo mare ch’è tutto mio
perchè l’ho accarezzato con le mani,
queste città serene e soleggiate. (C. Govoni)

Italia
Italia:
parola azzurra
bisbigliata sull’infinito
da questa razza adolescente
ch’ha sempre
una poesia nuova da costruire
una gloria nuova da conquistare.
Italia:
primavera di sillabe
fiorite come le rose dei giardini
peninsulari,
stellata come i firmamenti del Sud
fatti con immense arcate blu.
Italia:
nome nostro e dei nostri figli,
via maestra del nostro amore,
rifugio odoroso dei nostri pensieri,
ultimo bacio sulle nostre palpebre
nel giorno che la morte
serenamente verrà.

Osservando la carta geografica troveremo la spiegazione dei versi “Dalla coscia in giù fino al tallone sempre all’umido sto senza marcire”. L’Italia, infatti, è circondata per tre parti dal Mar Mediterraneo che, in vicinanza delle coste, prende diversi nomi: Mar Ligure, Mar Tirreno, Mar Ionio, Mare Adriatico, facilmente rilevabili sempre dall’osservazione della carta.  E ci sarà facile anche spiegare il significato dell’ “orlo in cima e in mezzo la costura“, osservando la catena delle Alpi che a nord costituisce una potente frontiera naturale, e quella degli Appennini che si stende per tutta la lunghezza della penisola.

La felice posizione che l’Italia occupa nel Mediterraneo, ne fa il centro delle comunicazioni fra l’Europa, l’Asia e l’Africa. Anche per tale motivo, nel passato Roma potè divenire caput mundi, il centro del mondo conosciuto allora. La scoperta dell’America, spostando questo centro dal Mediterraneo all’Atlantico, dette un duro colpo alla supremazia commerciale dell’Italia; tuttavia, la sua posizione geografica continua ancor oggi ad essere molto importante, in quanto la nostra penisola fa da tramite tra l’Europa centrale, l’Africa ed i paesi del Medio Oriente.

L’Italia
Quando gli antichi Greci sbarcarono in quella regione dell’Italia che oggi chiamiamo Calabria, vi trovarono un popolo che portava il nome di Vituli. Quel nome significava “popolo di vitello” perchè era, per quella gente, un animale sacro.
La pronuncia greca cambiò in Itali la parola Vituli, perciò quella reglione fu chiamata Italia.
Più tardi, con la venuta dei Romani e con l’espansione del loro dominio, il nome venne a designare tutta la Penisola, oltre il Po fino ai piedi delle Alpi.
La nostra Penisola, che si protende per più di mille chilometri al centro del Mar Mediterraneo, ha la forma di un ampio stivale, con un tacco un po’ alto, sormontato da un robusto sperone.
Essa è come un gigantesco ponte gettato a congiungere l’Europa con l’Africa.
Per questa sua particolare posizione l’Italia subì dapprima l’influenza di alcune civiltà sorte lungo le coste del Mediterraneo, e divenne poi essa stessa sede si una grande civiltà, quella di Roma, che si diffuse in tutto il mondo antico.

La natura ha dato all’Italia confini ben definiti. A nord la grande cerchia delle Alpi la separa dall’Europa. Attraverso facili valichi e numerose gallerie, sono possibili le comunicazioni con la Francia, la Svizzera, l’Austria, la Slovenia.
Scendendo verso sud, l’Italia è lambita dal Mar Mediterraneo, che ad est prende in nome di Mare Adriatico, a sud di Ionio, ad ovest di Tirreno e Ligure.
Dai mari italiani emergono numerose isole, spesso raggruppate in arcipelaghi. Le più vaste sono la Sicilia e la Sardegna.
Le isole minori, sparse un po’ in tutti i mari, sono raggruppate in arcipelaghi. L’arcipelago Toscano comprende la ferrigna isola d’Elba, attorno alla quale sono disseminate Gorgona, Capraia, Pianosa e l’isola del Giglio. Dell’Arcipelago delle Ponziane fanno parte le isole di Ponza, Palmarola, Ventotene e Santo Stefano. L’Arcipelago Campano è costituito dalle isole napoletane di Ischia, Procida, Capri e Nisida. L’Arcipelago delle Eolie o Lipari, di fronte alle coste settentrionali della Sicilia, comprende Salina, Filicudi, Alicudi e i grandi crateri attivi di Vulcano e Stromboli. Al largo di Palermo emerge, solitaria, Ustica. L’Arcipelago delle Egadi, ad ovest della Sicilia, comprende le isole di Favignana, di Marettino e di Levanzo. Pantelleria, famosa per i suoi vini, fa parte della provincia di Trapani. Le Pelagie sono situate presso le coste dell’Africa. Fra esse abbiamo Lampedusa, Linosa e Lampione. Le Tremiti emergono nell’Adriatico, a nord del Gargano, con le isolette di Caprara e San Domino. Altre isole, sparse attorno alle coste della Sardegna, sono San Pietro, Sant’Antioco, Asinara, Caprera, La Maddalena.

Per il lavoro di ricerca
Come è nato il nome della nostra Patria?
Che forma ha l’Italia?
Ha sempre avuto la forma attuale, l’Italia, oppure, come tutte le terre emerse, ha subito numerose trasformazioni?
I confini dello Stato Italiano, retto oggi a Repubblica, coincidono sempre con i confini naturali della regione?
Quali territori restano esclusi?
Quanti abitanti conta l’Italia? Che cos’è il censimento?
Da quali mari è bagnata la penisola italiana?
Dove sono situati tali mari?
Qual è la massima profondità del mar Ligure? E del mar Tirreno? Del mar Ionio? Del mar Adriatico? Del mare di Sicilia? Del mare di Sardegna?
Quali tipi di coste conosci?
Com’è il clima d’Italia?
Quali sono i principali golfi della costa ligure, tirrenica, ionica e adriatica?
Quali sono le principali penisole italiane?
Quali sono le due maggiori isole?
Quali altre isole conosci?
Sai dire il nome dello stretto che separa le coste calabresi dalla Sicilia?
Come si chiamano i punti estremi dell’Italia?

Osserviamo la carta geografica (località marine)
Qual è il mare che bagna la spiaggia di Ancona?
E la spiaggia di Napoli?
Pensate che i mari siano tutti uguali? Chissà quale sarà il più profondo… il più salato… il più pescoso…
Sapete nominare ed indicare sulla carta il nome dei mari italiani e distinguere, dall’intensità del colore blu, il più profondo?

Lo Stato italiano
Perchè una nazione diventi Stato occorre che vi sia un ben determinato confine (detto confine politico) il quale può identificarsi con quello naturale, che segna i limiti della regione; e poi occorre anche che entro questo territorio circoscritto vi sia un governo, con proprie leggi, con un proprio esercito, una propria bandiera, insomma che la nazione costituisca un’entità politica differenziata dalle altre.
Nella nostra regione fisica si è formato lo Stato Italiano, retto oggi a Repubblica, i cui confini però, per quanto ottimi, non coincidono sempre con i confini naturali della regione. Restano infatti esclusi circa 21.000 km2 corrispondenti al 7% del territorio totale della regione fisica. E precisamente:
– l’isola di Corsica (Francia)
– il Nizzardo
– il monte Chaberton, la valle stretta di Bardonecchia, il Passo del Moncenisio, tre piccoli lembi sulle Alpi Occidentali (alla Francia)
– il Canton Ticino (alla Svizzera)
– la Venezia Giulia e l’Istria (all’ex Jugoslavia)
– l’isola di Malta e Gozo (Stato indipendente)
– il Principato di Monaco (Stato indipendente)
– la Repubblica di San Marino (Stato indipendente)
– la Città del Vaticano (Stato indipendente).
Solo modestissimi lembi di terre al di là dello spartiacque alpino sono stati incorporati nello Stato Italiano:
– la valle del Reno di Lei
– la valle di Livigno
– il passo di Dobbiaco
– il passo di Tarvisio
Pure le Isole Pelagie, nel mar Ionio, fanno parte dello Stato Italiano (Lampedusa, Lampione, Linosa). Esse fisicamente sono isole africane.
Questi lembi, sommati assieme, danno una superficie di appena 684 km2.

Il clima d’Italia
Possiamo suddividere il territorio italiano, per caratteri climatici, in sei regioni:
1. regione alpina. Temperatura decrescente con l’altitudine; inverni lunghi e nevosi, estati brevi e fresche. Piogge abbondanti soprattutto verso est. Clima mite nella zona dei laghi e delle valli ben riparate.
2. regione padano-veneta. Clima continentale. Minime invernali che scendono a  15° – 17° sotto zero; massime estive fino a 36° – 38° sopra lo zero.
3. regione ligure-tirrenica. Clima mite, piogge autunnali, cielo prevalentemente sereno; neve rara.
4. regione adriatica. Maggiori contrasti fra estate e inverno quanto a temperatura, e minore piovosità rispetto alla regione ligure-tirrenica.
5. regione peninsulare interna. Formata dagli altipiani e dalle conche dell’Umbria e dell’Abruzzo, dalle alte terre del Sannio, dell’Irpinia, della Basilicata e della Calabria. Temperatura decrescente con l’altitudine; inverni rigidissimi, neve copiosa; estati molto calde. Piovosità variabile da zona a zona.
6. regione insulare. Clima mite ed uniforme; inverni temperati, estati lunghe e calde. Piogge scarse, soprattutto invernali; neve soltanto sulle cime più alte.

Le isole
La Sicilia è la più grande isola italiana e di tutto il Mediterraneo; dagli antichi era detta Trinacria per la sua forma a tre punte. Misura 25.000 km2 di superficie; i vertici del triangolo sono costituiti da Capo Faro, da Capo Passero e da Capo Boeo. Il lato maggiore, verso il Tirreno, ha coste alte e rocciose; notevoli la  penisoletta di Milazzo, i golfi di Termini, di Palermo e di Trapani.
Fronteggiano questa cosa le isole di Lipari o Eolie (tra le quali la maggiore è appunto Lipari; tuttavia molto note sono anche Stromboli, per il suo vulcano, e Ustica) e il gruppo delle Egadi.
Il lato medio, verso il canale di Sicilia, ha coste prevalentemente basse e unite; sporge appena Capo Granatola e molto falcata è l’insenatura di Terranova; porti artificiali sono Marsala e Porto Empedocle. Fronteggiano queste coste, a notevole distanza, l’isola di Pantelleria e il gruppo delle Pelagie (Linosa e Lampedusa). Il lato più breve, rivolto verso il mar Ionio, ha coste frastagliate e basse nel tratto meridionale, unite a quelle settentrionali. Molto ampia e aperta è l’insenatura del golfo di Catania; dei tre porti (Messina, Siracusa e Augusta) il più importante è certamente il primo, per le comunicazioni col continente.
I monti della Sicilia sono una continuazione dell’Appennino. A nord, lungo la costa, si elevano i monti Peloritani, i Nebrodi, le Madonie, a sudest si stendono gli altipiani collinosi, come i monti Erei e i monti Iblei. Isolato sorge l’Etna o Mongibello (m 3279), il più imponente vulcano attivo d’Europa. Ai piedi dell’Etna si stende la piana di Catania. Ad ovest l’isola è occupata da una serie di altipiani, da groppe collinose e da piccoli massicci.

La Sardegna è la seconda isola dell’Italia e del Mediterraneo, coi suoi 24.000 km2 di superficie. Sulla costa settentrionale notevoli sono il golfo dell’Asinara, delimitato a ovest dall’isola omonima, e le Bocche di Bonifacio, che dividono la Sardegna dalla Corsica; Porto Torres è lo scalo di Sassari.
La costa verso il Tirreno, nel tratto rivolto a nordest, è incisa da rias e forma i golfi degli Aranci, o di Terranova, e di Orosei; è fronteggiata da numerose isolette tra cui Caprera, Tavolara e La Maddalena. La costa meridionale, verso il canale di Sardegna, sporge coi capi di Carbonara e di Spartivento, che racchiudono il golfo di Cagliari. La costa che guarda il mar Esperico si sviluppa sinuosa, coi golfi di Alghero a nord e di Oristano al centro, e a sud con le isole di San Pietro e di Sant’Antioco, la quale ultima forma il golfo di Palmas.
In Sardegna, più che vere e proprie catene montuose, vi sono altipiani e massicci separati da pianure o da larghi avvallamenti.
Il massiccio più aspro è il Gennargentu, che tocca i 1834 metri; da ricordare per la loro ricchezza di minerali, nell’angolo sudovest dell’isola, i monti di Iglesias.
L’unica pianura di una certa estensione è quella del Campidano, tra i golfi di Oristano e di Cagliari.

Delle isole minori italiane meritano di essere ricordate, nel Tirreno, l’arcipelago toscano formato dall’Isola d’Elba e dalle più piccole Gorgona, Capraia, Pianosa, Montecristo, Giglio, Giannutri; le Pontine, di fronte al golfo di Gaeta, formate dalle isole di Ponza, Zannone, Palmarola, Ventotene e Santo Stefano; le Napoletane, cioè Ischia, Procida, Vivara e Capri. Nell’Adriatico ricordiamo le Tremiti e Pelagosa.

Principali isole italiane (superficie in km2)
Sicilia…………….. 25.426,2
Sardegna………… 23.812,6
Elba…………………….223,5
Sant’Antioco…………108,9
Pantelleria……………..82,9
San Pietro………………51,3
Asinara………………….50,9
Ischia…………………….46,4
Lipari…………………….37,3
Salina…………………….26,4
Giglio…………………….21,2
Vulcano…………………20.9
Lampedusa…………….20,2
La Maddalena…………20,1
Favignana………………19,8
Capraia………………….19,5
Caprera………………….15,8
Marettimo………………12,3
Stromboli……………….12,2
Capri……………………..10,4
Montecristo……………10,4
Pianosa………………….10,3
Filicudi…………………….9,5
Ustica………………………8,3
Ponza………………………7,5
Tavolara………………….5,9
Levanzo…………………..5,6
Linosa……………………..5,4
Stagnone………………….5,4
Alicudi……………………..5,1
Spargi………………………4,2
Procida…………………….3,9
Molara……………………..3,4
Panaria…………………….3,3
Santo Stefano…………….3,1
Giannutri…………………..2,3
Gorgona……………………2,0
San Domino……………….2,0

I fiumi

Per l’abbondanza delle piogge e per la presenza delle due catene montuose delle Alpi e degli Appennini, i fiumi che scorrono in Italia sono numerosi. Essi, però, a causa della forma stretta e allungata della Penisola, hanno in gran parte corso breve.
Per le loro particolari caratteristiche possiamo distinguerli in fiumi alpini e fiumi appenninici.
I fiumi alpini sono di origine glaciale, hanno cioè origine dai ghiacciai, nascono dalle Alpi e sono soggetti a piene primaverili ed estive, causate dallo scioglimento delle nevi. I principali hanno corso lungo e sono ricchi di acque.
I fiumi appenninici, mancando sull’Appennino i nevai e i ghiacciai, sono alimentati quasi esclusivamente dall’acqua piovana. Essi hanno corso breve, e sono soggetti a improvvise e talvolta rovinose piene primaverili ed autunnali, e a secche estive quasi assolute. Sono quindi fiumi a carattere torrentizio.

Il Po è il più grande fiume d’Italia. Nasce dal Monviso, nelle Alpi occidentali, e percorre tutta la Pianura Padana fino all’Adriatico, nel quale si getta con foce a delta.
Durante il suo corso di 652 chilometri, riceve e numerosi affluenti che discendono in parte dal versante meridionale della catena alpina (affluenti di sinistra) e in parte dal versante settentrionale della catena appenninica (affluenti di destra). Bagna le città di Saluzzo, Torino, Casale Monferrato, Piacenza, Cremona.
Gli affluenti di sinistra del Po sono la Dora Riparia e la Dora Baltea, la Sesia, il Ticino, l’Adda, l’Oglio e il Mincio.
Gli affluenti di destra sono il Tanaro (l’unico che nasce dalle Alpi Marittime, presso il Col di Tenda), la Scrivia, la Trebbia, la Secchia, il Panaro.

Gettano le loro acque nell’Adriatico, oltre il Po, i seguenti fiumi alpini: l’Adige, il Brenta, il Piave, la Livenza, il Tagliamento e l’Isonzo.
Dagli Appennini scendono il Reno, la Marecchia, il Foglia, il Metauro, l’Esino, il Tronto, la Pescara, il Sangro, il Biferno, il Fortone e l’Ofanto.
Nel mar Ionio sfociano, con abbondanza di acque in primavera ed in autunno, il Bradano, il Basento, l’Agri, il Sinni e il Crati.
Nel Tirreno si gettano la Roia, la Polcevera, la Lavagna, l’Arno, l’Ombrone, il Tevere, il Garigliano, il Volturno e il Sele.
I fiumi delle isole sono di scarsa importanza ed hanno un regime di acque incostante; assomigliano più a grossi torrenti che a veri e propri fiumi. In Sicilia scorrono l’Alcantara, il Simeto, il Salso, il Belice e il Platani. In Sardegna i fiumi più importanti sono il Coghinas, il Triso, il Flumini Mannu e il Flumendosa.

I laghi

L’Italia è, tra i paesi dell’Europa, uno dei più ricchi di laghi. Sparsi un po’ in tutte le regioni della Penisola, se ne contano 4100. Essi danno una nota di bellezza a molti paesaggi.
Possiamo distinguerli in laghi alpini, laghi prealpini, laghi vulcanici, laghi appenninici e laghi costieri.
I laghi alpini, piccoli e sparsi in tutta la catena alpina, abbelliscono il paesaggio d’alta montagna. Nelle loro acque fredde e limpide si specchiano spesso le alte cime rocciose, il verde cupo degli alberi e il cielo azzurro. I più pittoreschi sono i laghi di Ledro, di Carezza, di Caldonazzo, di Braies, di Misurina.
Allo sbocco delle valli prealpine si stendono i laghi più importanti della Penisola. Solitamente sono di forma irregolare, e le loro acque riempiono il fondo di lunghe valli scavate dai ghiacciai, che un tempo scendevano fino ai margini della Pianura Padana. Sono tutti alimentati da un fiume e circondati da monti che si specchiano a picco nelle acque azzurre, o discendono con dolci declivi e a balze verdeggianti verso le rive popolate di ville e di giardini.

I laghi prealpini esercitano una benefica influenza sul clima e sulla vegetazione. Infatti sulle loro sponde prosperano piante proprie dei paesi caldi, quali il limone, il cedro, l’ulivo. La suggestiva bellezza del paesaggio, inoltre, è motivo di richiamo per numerosi turisti italiani e stranieri.
I principali laghi prealpini sono:
– il Lago Maggiore o Verbano, che ha per immissario e per emissario il fiume Ticino. La parte settentrionale del bacino appartiene alla Svizzera. Dallo specchio delle sue acque emergono le meravigliose Isole Borromee: Isola Madre, Isola Bella, Isola dei Pescatori.
– il Lago di Como o Lario, che è formato dall’Adda e si biforca in due rami: di Como e di Lecco. E’ il più profondo fra i laghi prealpini (m 410).
– il Lago d’Iseo o Sebino, che riceve le acque del fiume Oglio. In esso sorge l’isola più vasta dei laghi prealpini: Montisola.

– il lago di  Garda o Benaco, che è il più esteso d’Italia. Per la sua posizione, che è la più meridionale tra quelle dei laghi prealpini, gode di un clima particolarmente mite, che favorisce una vegetazione di tipo mediterraneo: ulivi, viti, agrumi. E’ formato dal fiume Sarca il quale, uscendone, prende il nome di Mincio.
I laghi vulcanici sono situati nella fascia antiappenninica del Lazio, della Campania e della Basilicata, e riempiono con le loro acque il cratere di antichi vulcani spenti. Perciò la loro forma è generalmente circolare.
I principali sono i laghi di Bolsena, di Bracciano, di Albano e di Nemi, nel Lazio; il lago d’Averno, nei Campi Flegrei, in Campania; i laghi di Monticcchio, in Basilicata.
Anticamente molti laghi, ora prosciugati e scomparsi, occupavano vaste conche dell’Appennino. Fra quelli rimasti i più notevoli sono il lago Trasimeno, in Umbria; il lago di Scanno, nell’Abruzzo; il lago del Matese, in Campania.
Lungo le coste della penisola vi sono dei laghi che si sono formati a causa del moto ondoso del mare, il quale ha accumulato cordoni sabbiosi dinanzi alle insenature chiudendole. Tali laghi sono i laghi di Lesina, di Varano, di Salpi, in Puglia; il lago di Fusaro in Campania; i laghi di Fondi, di Fogliano, di Sabaudia, nel Lazio; i laghi di Massaciuccoli, di Burano, di Orbetello in Toscana; i laghi di Elmas, di Cabras, di Sassu in Sardegna.

Il suolo d’Italia
Veramente meravigliosa è la varietà delle terre e delle coste d’Italia. Qui sono monti giganteschi, avvolte da nubi le cime nevose e scintillanti al sole, dirupi solcati da ghiacciai e flagellati dalla tempesta, balze scoscese, cupi burroni precipitosi, massi erranti per la pianura, e sassi e ciottoli e ghiaie alle falde. Foreste di castagni, di faggi, di larici e di pini fanno veste  a quei monti, poi cespiti di rododendri ed erbe dal cortissimo stelo, e muschi e licheni, che di varie tinte, brue, argentine, dorate, coronano le rocce. Urla il lupo fra quelle foreste, e balza la lince, s’appiatta l’orso e corre presso la neve, nel suo manto invernale, il candidissimo ermellino, e ronzano insetti. E alle cime, ai pendii, alle nevi, alle foreste, ai vaganti nuvoloni, fanno specchio nella valli romite le onde limpidissime degli incantevoli laghi. Costà son valli di soavissime chine, sparse d’ulivi, echeggianti, d’autunno, delle grida festose delle vendemmiatrici, e fertili piani sparsi e biondeggianti messi, solcati da fiumi maestosi o da fecondi canali; e colà vaste, malinconiche pianure, e terre scaldate da un ardentissimo sole, dove allignano piante e volano e corrono e strisciano animali dell’Africa vicina.

Cinta dal mare per sì gran parte, s’allunga l’Italia in una distesa di svariatissime coste; qua con dolce pendio lentamente digradanti, là scosse e  percosse dalle onde; ora  selvose, ora nude, ora coronate da ridenti colline, che si protendono in lunghi promontori e capi, e file di scogli, o scavate in vasti golfi, o seni o porti amplissimi e contro ogni mare sicuri.
Invero, se la varietà e la bellezza della terra opera in bene sull’uomo, gli Italiani dovrebbero essere i primi del mondo. (M. Lessona)

Grotte d’Italia
Nel Carso Triestino abbiamo le grotte di Trebiciano, dei Serpenti, dei Morti e le cavità di San Canziano, percorse dal Timavo nella parte sotterranea del suo corso; in quello della Cicceria, l’Abisso Bertarelli, profondo 450 metri; in quello carniolino le Grotte di Postumia col Piuca sotterraneo; presso la Selva di Tarnova l’Abisso Montenero di 480 metri; sulla Bainsizza quello di Verco di 518 metri.
Ma la massima profondità, d’Italia e del mondo, è data alla Pluga della Preta nei Lessini con 637 metri; sul monte Campo dei Fiori presso Varese abbiamo la Grotta abisso Guglielmo di 350 metri; nelle Alpi Apuane la Tana dell’uomo selvatico di 318 metri.
Migliaia sono le grotte italiane che sono state regolarmente esplorate con successo, molte infatti hanno permesso di ritrovare e riportare alla luce manufatti appartenenti alle diverse epoche preistoriche. Numerose sono quelle situate in terreno calcareo, come quelle dei già nominati altipiani carsici: del Cansiglio, di Asiago, dei Tredici Comuni, di Serle nel bresciano, oppure quelle dei diversi tratti dei monti lombardi, laziali, campani, e delle Murge pugliesi.
Fra le grotte più famose citiamo quelle di Castellana; le più vaste quelle di Postumia e San Canziano; quelle di Grimaldi (Liguria); delle Scalucce di Breonio nel veronese; del Diavolo e ROmanelli nella Terra d’Otranto; di Pertosa nel salernitano; di Pastena (Frosinone); di Capri; di Sant’Angelo nel ternano. Quelle dell’isola di Levanzo, nelle Egadi, hanno rivelato graffiti che si avvicinano alla famosa arte paleolitica delle caverne franco-cantabriche, e figure dipinte.

Il clima italiano

La temperatura
La nostra penisola è tanto allungata che necessariamente i paesi del nord hanno temperature più basse dei paesi del sud. Infatti i paesi del sud sono più vicini all’Equatore, mentre quelli del nord sono  più vicini al Polo Nord.
Per l’influenza benefica, poi, dell’ampio Tirreno, le spiagge tirreniche sono più calde di quelle adriatiche, essendo queste bagnate da un mare più ristretto, quasi interno e poco profondo.
Inoltre le zone montane hanno temperature più basse delle zone di pianura.
E questo perchè l’umidità della pianura conserva meglio il calore, e perchè le parti più basse sono più estese e perciò rimandano all’aria molti più raggi caldi ricevuti dal sole.
Questo valga per la temperatura media dell’anno.

Inoltre, mentre nelle zone marittime non vi è molta differenza tra estate e inverno, nelle zone di pianura non marine, come la Pianura Padana, la differenza è enorme.
Infatti il calore viene conservato meglio dalle acque che non dalle terre, le quali rapidamente lo rimbalzano e lo disperdono.
Invece nelle zone di montagna, come ad esempio sulle Alpi, vi è enorme differenza tra le calde giornate (calde anche d’inverno, quando c’è il sole e non c’è troppo vento) e le rigide nottate (rigide anche d’estate, specialmente nelle notti serene).

La piovosità
Le regioni più piovose in Italia sono quelle montuose. Questo perchè i monti, essendo più freddi, condensano l’umidità più delle pianure; si producono così le nubi e dalle nubi le piogge.
Sui monti del Lago Maggiore, sui monti della Carnia e dell’Istria, sull’Appennino Ligure alle spalle di Genova, si possono avere anche tre metri d’altezza  di acqua all’anno; cioè se avessimo un recipiente aperto alto tre metri, all’aria libera, in un anno si riempirebbe totalmente (purchè naturalmente impedissimo l’evaporazione).
Le zone meno piovose sono le pianure molto basse, come il Ferrarese e il Tavoliere della Puglia, in cui a mala pena si raggiunge il mezzo metro.

Ed è poco perchè la vegetazione possa crescere bene, a meno che come a Ferrara non vi passino molti fiumi o, come nelle Puglie, non siano stati costruiti molti canali di irrigazione.
Ma che importa se in posto piove anche molto, ma solo nel periodo in cui le piante non ne hanno bisogno? Le zone più fertili sono quelle in cui piove tra la primavera e l’autunno, cioè quando la vegetazione vive attivamente o sta per mettersi a riposo.
In Italia si hanno a questo riguardo tre caratteristici regimi.

Sulle coste della Sicilia, della Sardegna e di altre terre meridionali, piove specialmente d’inverno. Il perchè è semplice. D’inverno il mare è più caldo della terraferma, quindi si formano dei venti che dalle fredde terre circostanti vanno verso il più tiepido mare sulle cui isole convergeranno i venti umidi, saliranno e determineranno perciò le piogge. D’estate, siccità quasi assoluta. E’ il clima chiamato mediterraneo. Peccato che piova solo d’inverno, perchè è d’estate che le piante volentieri si inebrierebbero di acqua! Però debbo dirvi che in queste regioni, sempre tiepide e calde, anche d’inverno, vi sono piante caratteristiche che possono sopportare la siccità estiva: pini mediterranei dalla chioma a ombrello, olivi, querce da sughero, fichi d’india, agavi, ginepri, mirti, lauri, ginestre, eriche, pistacchi, capperi e altro ancora.

Sulle Alpi e sui monti in generale piove o nevica specialmente d’estate. Infatti è d’estate che i monti, ben riscaldati dal sole, richiamano i venti dai mari attorno; e i venti umidi incontrandosi o condensando l’umidità a contatto dei monti, producono nubi e poi piogge. E’ il clima chiamato continentale. I pini e gli abeti d’alta montagna molto opportunamente non perdono le foglie, perchè non potrebbero nei tiepidi ma brevi tre mesi estivi rifarsele e lavorare per fabbricarsi il cibo. Fanno eccezione i larici, che perdono le foglie anche se sono conifere come i pini e gli abeti e anche se, come questi, crescono sulle montagne.
Duvunque altrove piove di primavera e d’autunno con grande vantaggio della vegetazione.
In conclusione in Italia vi sono quattro tipi di clima:
– il clima alpino, con molto basse temperature notturne e invernali, e con piovosità abbondante estiva: le Alpi e parte dell’Appennino settentrionale e centrale;
– quello mediterraneo, con temperature miti  per tutto l’anno e con piovosità invernale e non troppo abbondante, anzi talora scarsa: le isole e la penisola a sud di Salerno;
-quello peninsulare con temperature miti lungo la costa, mediocri nell’interno e con piovosità primaverile e autunnale: tutta la parte rimanente della Penisola;
– quello della Pianura Padana, con temperature elevate d’estate e basse d’inverno, piovosità primaverile e autunnale.

Elementi del clima
Il clima è composto di più elementi e le sue caratteristiche sono influenzate in modo determinante da numerosi fattori.
Per stabilire lo stato del tempo si prendono in considerazione la temperatura dell’aria (misurata con il termometro), la pressione atmosferica (misurata con il barometro) ed i venti (la cui velocità è misurata con l’anemometro), la nebulosità del cielo (stimata in decimi), l’umidità dell’aria (misurata con l’igrometro) e le precipitazioni (misurate col pluviometro).

L’osservazione metodica, giorno per giorno, delle condizioni meteorologiche nel loro diverso combinarsi e manifestarsi e la registrazione dei relativi dati, condotta per più anni di seguito, permettono non solo di seguire il loro andamento nel corso delle quattro stagioni, ma anche di identificarne le caratteristiche medie e di stabilire così il tipo di clima di una certa regione, vasta o ristretta che sia.

La previsione del tempo in montagna
Sono i grandi moti atmosferici che determinano le condizioni meteorologiche generali; e sono le diverse condizioni meteorologiche generali; e sono le diverse condizioni della superficie terrestre che reagiscono diversamente, a seconda della reazione particolare che le terre, le acque, le foreste, le paludi, i deserti, e soprattutto le montagne, esercitando sui venti, la temperatura e l’umidità delle correnti aeree.

Specialmente e in maniera rilevantissima sono le catene montuose, e fra queste naturalmente le Alpi, che modificano potentemente l’andamento generale del tempo, determinando così fenomeni locali, i quali sono spesso in aperta contraddizione con le previsioni fatte dai centri meteorologici, che occorre ripeterlo, si limitano a riferire sulle condizioni generali generali del tempo, dipendenti nell’immediato futuro dalle leggi generali di successione dei grandi fenomeni atmosferici.

Per il tempo locale occorre possedere quella lunga precisa conoscenza della regione per cui si può tentare di prevedere il tempo che farà, cercando di concordare le segnalazioni dei bollettini meteorologici con i pronostici eminentemente locali, ma fidandosi soprattutto di questi ultimi.
E’ indubbio che la meteorologia ha fatto grandissimi progressi, ma è altrettanto vero che nulla di assolutamente definitivo è stato raggiunto. Meno che meno, in materia di previsioni in montagna, problema questo quanto mai arduo e forse insolubile per la scienza stessa.

In montagna si possono ascoltare tutti i bollettini di questo mondo; si possono avere a disposizione barometri e termometri e fare le più accurate osservazioni, e confrontarle e studiarle: tutto ciò, diciamolo francamente, servirà certamente, ma non c’è da fidarsi troppo.
Questo ben tenga presente chi frequenta la montagna e soprattutto chi fa dell’alpinismo: nulla trascurino di quanto può insegnar loro la scienza, anzi ne facciano pure tesoro; ma si valgano soprattutto dell’esperienza dei montanari e della loro personale esperienza. E più di tutto, gli alpinisti, quando si mettono sull’alta montagna, siano ben certi della loro robustezza, del loro allenamento e della loro capacità, e si affidano fiduciosi alla buona fortuna. (A. Sanmarchi)

Un lembo d’Italia in territorio straniero
Sulla sponda orientale del Lago di Lugano sorge Campione d’Italia, piccolo Comune che occupa un’area di soli 2,6 kmq, ed è abitato da poco più di mille persone. E’ grazioso, ma non varrebbe la pena di segnalarlo se non rappresentasse una vera e propria curiosità storica. Esso, infatti, pur essendo in territorio svizzero, appartiene all’Italia e precisamente alla provincia di Como, città dalla quale dista solo 25 km. La sua posizione, unica al mondo, trova origine nel lontano secolo VIII, quando l’allora signore di Campione fece dono dei propri beni agli Abati di Sant’Ambrogio. Alla fine del secolo XVIII fu assegnato alla Lombardia e, con la Lombardia, passò poi all’Italia.

Il posto di frontiera più alto d’Italia
Da Courmayeur, nelle notti serene, guardando verso il Monte Bianco, sulla sinistra del Dente del Gigante, si scorge un lumicino che sembra sospeso nel vuoto. E’ la casermetta di Punta Helbronnen, situata a quota  3462, sede del più alto presidio di frontiera d’Italia, anzi d’Europa. Cinque carabinieri italiani e altrettanti gendarmi francesi controllano qui i passaporti dei passeggeri della Funivia dei Ghiacciai, che dal dicembre del 1957 unisce l’Italia alla Francia sorvolando il massiccio del Bianco.

La traversata, lunga 15 km, ha inizio a La Palud, piccola frazione di Courmayeur, in territorio italiano, e termina a Chamonix, capitale dell’alpinismo francese, dopo aver raggiunto la massima altitudine di  3842 m a l’Auguille du Midi. E’ un volo entusiasmante durante il quale si può ammirare ciò che di più sublime hanno le Alpi. Da Punta Helbronner all’Aiguille du Midi, per un tratto di cinque chilometri, si sorvola uno dei massimi ghiacciai alpini e la formidabile cupola del Bianco sembra così vicina che si è tentati di allungare la mano per accarezzarla.

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Materiale didattico sui minerali

Materiale didattico sui minerali per la scuola primaria.

Il regno minerale

Un sasso, un pezzo di ferro sono corpi senza vita, senza movimento: non respirano, non mangiano, non crescono e non si riproducono.
Restano sempre in quello stato senza invecchiare nè morire.
Non somigliano proprio per nulla agli animali e alle piante: sono infatti corpi inorganici e si dicono minerali.
Molti minerali si trovano nelle cave, alla superficie della terra. Altri invece sono estratti con duro e faticoso lavoro dalle miniere, profonde e lunghe gallerie scavate sotto terra.

Minerali commestibili

L’acqua è un minerale composto di due gas: l’idrogeno (due parti) e l’ossigeno (una parte), combinati insieme. L’acqua, come l’aria, è indispensabile alla vita animale e vegetale. E’ molto abbondante sulla terra, sia allo stato liquido (mari, laghi, fiumi e sorgenti) sia allo stato solido (ghiacciai), sia allo stato di gas, come vapor acqueo (nell’aria).
Essa è presente in grande quantità anche nel nostro corpo (circa il 70%) e in quello di tutti gli esseri viventi (animali e piante). L’acqua è un liquido insapore, incolore e inodore; diventa ghiaccio, cioè solidifica, a zero gradi; bolle, invece, a 100 gradi.

Il sale è un minerale ricavato dall’evaporazione dell’acqua del mare in grandi bacini, costruiti lungo la costa. Oltre che in cucina il sale viene usato per la preparazione di vari prodotti industriali, mediante speciali accorgimenti.

Il salgemma è il sale che, a forma di grossi cristalli, si estrae dalle miniere.

La città di sale
Vi è una città in Polonia, Wieliczka, sotto la quale è scavata una grande città sotterranea lunga quattromila metri e  larga milleduecent0, con una rete stradale lunga complessivamente novantatre chilometri. Strade scavate nel minerale grigio, lucido, che scintilla alla luce delle lampade elettriche; di tanto in tanto piazze coperte, dalle volte sostenute da eleganti colonne grige e luminose; scale che conducono da un piano all’altro: tutto ciò che vediamo è sale.
Monti anni fa i minatori che scendevano qui sotto, intagliarono la roccia salina e diedero forma a una bella chiesa che dedicarono a Santa Cunegonda e a una cappella che consacrarono a Sant’Antonio.
Muri, altari, statue, colonne, lampade: tutto è di sale.

L’aria

L’aria è un minerale allo stato gassoso, indispensabile alla respirazione e quindi alla vita degli animali e delle piante. Essa è costituita da un miscuglio di azoto, ossigeno e piccole tracce di altri gas, come l’anidride carbonica, il vapor acqueo, ecc…
L’aria avvolge la terra formando quell’immenso involucro che si chiama atmosfera.

Minerali da costruzione

L’argilla è una terra che, lavorata con acqua, si lascia modellare con facilità.  Viene usata per la fabbricazione di mattoni pieni e forati e di tegole e piastrelle per l’edilizia; per la preparazione di vasi, stoviglie, ceramiche, maioliche, porcellane.
Per ottenere i mattoni ed altri laterizi, impiegati come materiale da costruzione, l’argilla viene bagnata, impastata, modellata in una macchina, lasciata essiccare all’aria libera e poi cotta in fornace.

Il calcare è una pietra comune; cotta in fornaci ad alta temperatura, si riduce  in finissima polvere bianca (detta calce viva); bagnata con acqua (calce spenta), si riscalda gonfiandosi; rimescolata poi con sabbia dà la calcina o malta che si usa nella costruzione di edifici.

Il gesso è friabile allo stato grezzo. Cotto a forte temperatura, perde l’acqua che contiene e diviene polvere finissima; mescolato di nuovo con acqua, indurisce prestissimo. Si usa per intonaci e per decorazioni in rilievo di pareti e di soffitti e per la preparazione di statuette, di busti, di medaglioni decorativi. (I gessi per la lavagna si ottengono ricuocendo l’impasto di gesso).

Nei cementifici si cuoce e si tritura una miscela di calcare e di argilla ottenendo il cemento, un materiale da costruzione importantissimo. Il cemento, ridotto in polvere, mescolato alla ghiaia e alla sabbia, forma il calcestruzzo, un impasto con cui vengono gettate le fondamenta ed innalzate le strutture degli edifici. Il cemento armato è un insieme d calcestruzzo e di sbarre di ferro. E’ molto resistente alla compressione e alla trazione e garantisce la massima solidità.

Il marmo è la più pregiata tra le pietre da costruzione. Serve per statue, colonne, monumenti e per la preparazione di elementi decorativi nell’edilizia: rivestimenti di pareti e di scale, pavimentazioni, ecc…
I marmi più noti e pregiati sono: il bianco di Carrara, il rosso di Verona, il verde di Polcevera, il nero Portoro, il Botticino, il badiglio, l’alabastro, l’onice, il cipollino, il serpentino.

Una cava di marmo
Operai al lavoro con la perforatrice e il martinello. Il marmo viene staccato dalla montagna in grandi blocchi. Si praticano alcuni fori profondi con la perforatrice, nei fori si introduce una carica di dinamite, si accende la miccia e, pochi minuti dopo, uno scoppio. Il blocco si stacca e viene poi tagliato in grosse lastre col filo metallico elicoidale, formato da tre fili d’acciao avvolti in spirale. Il filo sega il marmo con l’aiuto di un poco di sabbia silicea bagnata con molta acqua.

Cave di marmo
Quasi tutti del paese lavorano  in vario modo il marmo. Chi sale la montagna all’alba per scavarlo. E chi lo trasporta dalle montagne al piano.
A mezzo di certe strade lisce e storte, come il gioco delle montagne russe; il masso imbracato con doppie corde, le cui cime attorcigliano i pilastri, si muove e scende, piano, sgusciando sui travetti di legno, insaponati.
Gli uomini visti da lontano sembrano api attorno a un pezzo di pane bianco che si muove lentamente verso un alveare in pianura.
Invece sono uomini che trafficano, intorno ad un masso gigante, con pali, con legni, con cavi ininterrottamente, finchè il masso non è sulla carretta che lo aspetta sulla via carraiola. (E. Pea)

Minerali combustibili

Gli strati profondi della crosta terrestre racchiudono alcuni minerali che hanno una grandissima importanza per la vita dell’uomo: i combustibili. Essi costituiscono una preziosa fonte di energia perchè, bruciando, sviluppano calore e forniscono alle macchine l’energia necessaria per compere il loro lavoro. I combustibili più importanti sono il carbone, il petrolio e il metano.

Il carbone
Il carbone ha un’origine antichissima. In epoche lontanissime, quando l’uomo ancora non esisteva, profondi sconvolgimenti si susseguirono nella crosta terrestre. La Terra era in gran parte ricoperta di alberi giganteschi e, quando i terremoti squassavano il suolo, intere foreste rimanevano sepolte sotto enormi strati di fango e di roccia.

I vegetali subirono una lenta trasformazione. Si carbonizzarono e diedero origine a una roccia nera e compatta: il carbon fossile.
Il carbon fossile più antico, e quindi più pregiato, è l’antracite. Esso brucia lentamente, sviluppando grande calore.
Un altro tipo di carbone, meno antico dell’antracite, ma anch’esso assai pregiato, è il litantrace, che viene usato nella fabbricazione di gas illuminante.

Al termine della lavorazione per produrre il gas, rimane un carbone chiamato coke. Esso veniva usato per il riscaldamento e, negli altiforni, per la produzione della ghisa.
La lignite è un carbone non molto pregiato perchè bruciando sviluppa poco calore e lascia molte scorie.
Il carbone più recente è la torba, che è un combustibile di scarso rendimento.
In Italia esistono miniere di carbon fossile in Val d’Aosta e in Sardegna, ma la quantità prodotta è scarsa e insufficiente al fabbisogno nazionale.

In una miniera di carbone
Dal pozzo della miniera salgono le gabbie dell’ascensore.
Ritornano alla luce, dalle profondità della terra, i minatori che hanno terminato il loro turno di lavoro.
Sono neri di polvere di carbone e stanchi per la dura fatica.
Una nuova squadra è già pronta per dare il cambio.
Ogni minatore indossa la divisa di lavoro: pantaloni chiusi negli stivaloni, giubbotto ed elmetto di cuoio. Sul davanti dell’elmetto brilla la lente di una piccola torcia elettrica.
Montano nella gabbia, ordinati a gruppi di sei alla volta. Il cancelletto si chiude. Un rumore di catene e di ruote indica che l’ascensore è in movimento e che gli operai della miniera scendono nella profondità della terra. Un’altra gabbia si riempie a parte.

Ancora gabbie che risalgono e che scendono.
Nella miniera il lavoro non si interrompe mai.
Dai fondo del pozzo si diramano a destra e a sinistra gallerie larghe e basse. Ogni due o tre metri, puntelli di legno reggono la volta del soffitto. Un cartello vistoso ammonisce che dentro la galleria non si deve fumare nè accendere qualsiasi fiammella. Una sigaretta accesa, un piccolo insignificante fuoco, può produrre scoppi di grisou, incendiare il carbone e seppellire nelle frane i minatori.
Carrelli pieni e vuoti percorrono in su e in giù le gallerie, sferragliando sulle piccole rotaie. Arrivano all’imbocco di speciali pozzi, dove vengono agganciati a resistenti cavi di acciaio, che li afferrano e li fanno salire alla superficie per depositare il loro carico.

Tornano vuoti in fondo alla miniera, per essere di nuovo riempiti. In ogni braccio di galleria si sente il martellante picchiettio delle perforatrici, che scavano e intaccano i blocchi di carbone.
Allo scialbo chiarore delle lampade elettriche, i minatori, nudi fino alla cintola, perforano le pareti. Sotto i colpi dei martelli elettrici, blocchi di nero minerale si staccano, vengono subito frantumati in piccoli pezzi e caricati sui carrelli. Il lavoro è febbrile.

Gli uomini, lucidi di sudore, illuminati dalle lampade attaccate agli elmetti, sembrano strani fantasmi. Il calore è soffocante. L’aria, pressata nelle gallerie dalle pompe esterne, è pesante, calda, e non dà alcun refrigerio.
Nella miniera non si canta e non si parla; si s’intende coi gesti. Il rumore assordante delle perforatrici, lo sferragliare dei carrelli in movimento, i sordi colpi dei picconi, lo stridere delle catene delle ruote, sovrastano qualunque voce.

Finalmente, dopo un turno di quatto ore di lavoro, i minatori montano nelle gabbie e salgono a rivedere la luce ed a respirare di nuovo aria libera e pura.
Una nuova squadra di minatori è pronta per scendere nelle profondità della terra, per scavare nuovo carbone.
Così, ogni giorno, ogni notte.
(D. Romoli)

In una miniera di carbone
Siamo a mille metri sotto terra. Davanti a noi si apre un lungo corridoio scavato nel carbone, illuminato ogni cento metri da una lampada di sicurezza appesa all’armatura di legno.
Camminiamo tra le rotaie della ferrovia di scarico con la testa inclinata sulla spalla per non urtare nelle travi della volta.
(C. Malaparte)

Il lavoro in miniera
Il calore è terribile… l’aria è densa, grassa, irrespirabile. Lo stridere degli scalpelli, l’ansimare dei petti, le voci roche, il sibilo dell’aria compressa delle pistole, i colpi sordi dei picconi e dei martelli riempiono di un frastuono orrendo lo spazio dove i minatori lavoravano.
Uno degli addetti alle perforatrici ferma l’attrezzo, si mette a sedere, in disparte, sul manico di un piccone, addenta vorace un pezzo di pane; e in quel semplice gesto si rivela umano, creatura viva a mille metri sotto il proprio paese, la propria casa.
(C. Malatesta)

Minatori
Soldati di un’arma sconosciuta
per cui tutta la vita è guerra eterna,
bandiera essi non hanno, nè fanfara:
e il loro tamburo è il rombo del motore.
Han cucito il piastrino sulla blusa
son sopra inciso il nome
che testimoni della loro presenza
quando all’appello non risponderanno.
In una mano reggono la lampada
e nell’altra il piccone,
a brano a brano rompono la notte
quasi in cerca di un altro sole.
(N. Moscardelli)

Il carbon fossile
In epoche lontanissime, quando l’uomo ancora non esisteva sulla terra, la natura badò ad immagazzinare le grandi riserve di energia che sono servite e servono all’industria moderna: in grandi cataclismi, foreste gigantesche scomparvero sotto terra; qui bruciarono senza fiamma (come il legno nelle cataste del carbonaio) e si trasformarono in carbon fossile.

Il petrolio
Il petrolio è un minerale liquido che si è formato nel sottosuolo moltissimi secoli fa.
Sul fondo dei mari si accumularono nei secoli resti di animali e di piante. Col tempo questi depositi furono ricoperti di sabbia e fango, e lentamente si trasformarono in petrolio.
I giacimenti di petrolio vengono sfruttati mediante potenti macchine trivellatrici dotate di motore e di un’asta di trivellazione munita, all’estremità, di uno scalpello perforatore.

Il petrolio è un minerale molto prezioso: fornisce il bitume per pavimentare strade e terrazze, serve per preparare una speciale cera per candele e materie plastiche. Ma soprattutto il petrolio ci dà la benzina che fa muovere macchine, automobili, aeroplani e navi.

La raffinazione del petrolio grezzo
Quando, trivellando il terreno, cioè perforandolo a grandi profondità, sgorga il petrolio, esso deve essere a lungo raffinato per trasformarlo in benzina.
Le raffinerie sorgono spesso lontano dai giacimenti.
Enormi recipienti, colmi di petrolio grezzo, vengono scaldati a lungo: il calore divide il petrolio grezzo in cinque parti diverse che galleggiano una sopra l’altra, senza mescolarsi fra loro. La benzina è la più leggera e sta in alto, senza confondersi col petrolio da illuminazione che, a sua volta, galleggia sulla nafta più densa. Sotto, in fondo al recipiente, stanno gli olii e il bitume.

Sono pronti, così, la benzina per le automobili e gli autocarri e le navi; gli olii per lubrificare le macchine e il bitume per pavimentare le strade.
Gli stabilimenti nei quali il petrolio viene raffinato spesso sono lontani dai pozzi; e il prezioso liquido, per giungervi, deve fare un lungo viaggio: prima, in grossi tubi (gli oleodotti), per esser portato a grandi petroliere, che gli faranno passare il mare; dopo essere stato raffinato il petrolio riprende nuovamente il viaggio per essere distribuito.

Il petrolio in Italia

C’era una volta una gallina sbarazzina che fuggì dal pollaio e andò a rifugiarsi in un vecchio pozzo abbandonato. E c’era un contadino che la inseguì: discese appeso a una fune, deciso a riportarla a casa. Sul fondo accese una candela per vedere dove si fosse rifugiata la ribelle, e allora successe il cataclisma: uno scoppio, una fiammata, un odore nauseabondo… Gallina e contadino rimasero nel pozzo anneriti, bruciacchiati e ben decisi a non rimettervi più dentro ne piede ne zampa.

Questo accadeva parecchi anni fa in un podere della Pianura Padana: si trattava delle prime tracce di idrocarburi (petrolio e gas metano) trovati in Italia. Poi il petrolio sembrò scomparire. Fu cercato con ostinazione, anche se con mezzi non troppo potenti, ma sembrava che l’Italia non avesse nessuno di quei giacimenti sotterranei che arricchivano altre nazioni.
Alcuni tecnici, però, continuarono a lavorare con accanimetno, animati da un uomo di grande energia, Enrico Mattei. E nel 1946 proprio nel centro della Pianura Padana, una trivellazione giunse a 1600 m di profondità e fece scaturire un getto di gas metano.

Voi forse sapete com’è fatta una trivella. Un altissimo castello di acciaio regge un’asta metallica che affonda nel terreno, girando su se stessa: è una trivella con una punta dotata di denti durissimi, capaci di sgretolare e forare qualunque roccia. Gira e scende, lentamente, sempre più in basso: a mano a mano che penetra nel sottosuolo, si aggiungono all’asta nuovi settori.

Ma i ricercatori non procedono alla cieca. Prima di loro i geologi, cioè coloro che studiano la composizione della terra e delle rocce e la loro disposizione, hanno cercato di capire che cosa ci poteva essere a mille e più metri di profondità: hanno fatto esplodere cartucce di dinamite per ascoltare l’eco dello scoppio, hanno usato strumenti precisi e delicati. Ma quanto è difficile trovare il punto esatto di un autentico giacimento di petrolio o di metano!
I tecnici italiani dell’ENI (Ente Nazionale Idrocarburi) acquistarono fiducia e slancio, dopo il primo successo. Altri possi diedero metano in abbondanza. Poi, nel 1949, la notizia clamorosa: a Cortemaggiore, in Emilia, i pozzi davano anche petrolio, oltre a gas.

Da allora si è fatta molta strada: oltre che nella Pianura Padana, il metano è scaturito in Abruzzo e in Basilicata. Giacimenti di petrolio sono stati scoperti sulle coste e sotto il mare di Gela, in Sicilia. Sono sorte così nuove industrie, con un nome nuovo: “petrolchimiche”. Esse ricavano dagli idrocarburi innumerevoli altri prodotti, dalle materie plastiche d’ogni tipo ai concimi chimici.
Oggi i tecnici italiani sono abilissimi e lavorano anche all’estero. Perforano pozzi in molte zone dell’Africa e dell’Asia, nei deserti, nelle savane e sul mare, con la stessa abilità, con la stessa pazienza, con successo e fortuna.
(D. Volpi)

Storia del petrolio
Il petrolio (dal latino petra ed oleum, cioè “olio di pietra” era già conosciuto migliaia di anni fa. Si sa, infatti, che gli antichi Egizi ricavavano dal petrolio la pece in cui immergevano le bende usate per fasciare le mummie. I Romani adoperavano questo liquido per lubrificare le ruote dei carri. In America, molto tempo prima dell’arrivo degli Europei, gli Indiani raccoglievano il petrolio che galleggiava sulla superficie di alcune acque sorgive; lo usavano per curare malattie e ferite.

Ma bisogna giunger al XIX secolo per trovare uno sfruttamento industriale del petrolio. Verso la metà del XIX secolo lo sviluppo della tecnica fece ricercare nuove fonti di energia. Per centinaia di anni gli uomini avevano svolto la loro attività finchè durava la luce del sole; al calar delle tenebre dovevano interrompere il lavoro perchè i mezzi di illuminazione erano scarsi e poco efficaci: torce, fiaccole, lampade a olio e candele, poi olio di balena.

Si era presentato inoltre un nuovo e urgente problema da risolvere. Nuove macchine si stavano costruendo in tutti i Paesi più progrediti. Fino a quei tempi, quasi tutti i prodotti erano opera del lavoro manuale, oppure si ottenevano con l’aiuto di semplicissime macchine azionate a mano, le cui lente ruote potevano essere ingrassate con un pezzetto di lardo o con poche gocce di olio vegetale. Ma ora le nuove macchine erano più complesse ed esigevano lubrificanti migliori e in grande quantità. Ed ecco che qualcuno in America si accorse che l’olio di Seneca (così veniva chiamato il petrolio dal nome di una tribù di Indiani che ne faceva uso), una volta purificato, bruciava nelle lampade con una luce molto chiara e luminosa. Lo scoprì un certo Sam Kier, venditore ambulante di petrolio per uso medicinale. Egli aveva distillato il petrolio per togliergli il caratteristico odore sgradevole; fu così che ottenne il cherosene, primo prodotto estratto dal petrolio grezzo.

Nello stesso periodo, la parte più pesante del petrolio venne analizzata e si trovò che sostituiva un ottimo lubrificante. Dunque, il petrolio poteva soddisfare le esigenze della nuova industria. La prospettiva di ingenti guadagni spinse i pionieri americani ad accaparrarsi le terre dove si trovavano giacimenti petroliferi. All’inizio tentarono di raccogliere il petrolio schiumandolo dalla superficie delle acque su cui galleggiava. Poi, per merito di Edwin Drake, fu trovato un sistema più pratico e redditizio, quello che, perfezionato e potenziato, viene usato ancor oggi: la trivellazione di un pozzo.

Dopo il successo di Drake (1859) migliaia di persone si dedicarono alla ricerca del petrolio. Anche in Europa, nel frattempo, venivano scoperti e sfruttati dei giacimenti. Si cominciò in Romania, dove il primo “campo petrolifero” venne scoperto nel 1856 con una produzione di duemila barili all’anno; la stessa cifra venne raggiunta dagli Stati Uniti.
L’Italia venne terza nel 1860 con la scoperta dei giacimenti dell’Appennino Tosco – Emiliano, raggiungendo alcuni anni dopo la produzione degli altri due Stati.
Ma mentre la Romania andò aumentando la sua produzione e l’aumento degli Stati Uniti raggiunse cifre iperboliche, il progesso produttivo del nostro Paese si arrestò ed è ancor oggi modesto.

Il metano
E’ chiamato anche “gas delle paludi”: si forma, infatti, dalla putrefazione delle acque stagnanti.
E’ un utile minerale gassoso che si estrae dal sottosuolo attraverso pozzi simili a quelli per il petrolio, ma solitamente meno profondi. Viene usato in sostituzione della benzina per i motori a scoppio, nell’industria e per usi domestici.

Per trasportarlo da un luogo all’altro si usano i metanodotti, condutture che portano, appunto, il metano. Per far giungere questo gas anche ai piccoli paesi si usano anche delle bombole speciali che permettono la conservazione e un facile trasporto del prodotto.

Lo zolfo
E’ un minerale di colore giallo. L’Italia ne ha ricchi giacimenti in Sicilia, nelle Marche, nella Romagna e in Calabria. Lo si trova a fior di terra (solfatare) e in ricche miniere (solfare).
Serve per la fabbricazione dei fiammiferi, della polvere da sparo e dei concimi. Viene pure impiegato per preparare coloranti, medicinali, per la vulcanizzazione della gomma e per combattere alcune malattie della vite.

Carbone rosso
Nuvole di vapore, bianco come la neve, si alzano violentemente nel cielo. Lentamente si dissolvono e lasciano cadere sulla terra, quasi senza alberi, deserta, riarsa, una polvere impalpabile fine e bianca.
Quegli sbuffi di vapore sono più caldi dell’acqua bollente. Si sprigionano da spaccature del suolo, e tra boati e fischi, si alzano dalla terra molle per condensarsi nell’aria. Le case del paese sono quasi addossate agli stabilimenti,  che sorgono nel mezzo di una conca vulcanica, orrida e desolata.
Siamo a Larderello, il regno dei “soffioni boraciferi”; nella terra, che anticamente era creduta l’ingresso dell’inferno.

Si respira un’aria acidula, odorante di zolfo e di marcio.
I soffioni naturali, che sono i più deboli per getto di vapori, si raccolgono in acque fumanti, nei cosiddetti “lagoni”.
Quelli provocati artificialmente, con trivellazioni del suolo, sono coperti con grandi cappe metalliche, in modo che il vapore non vada perduto. Ogni cappa di soffione imprigiona il vapore e lo conduce, per mezzo di robuste tubature di ferro, agli stabilimenti, dove si unisce ad altri tubi, di altri soffioni. Le tubazioni immettono in “lagoni” artificiali, che scaricano l’acqua sopra immense distese di lamiere ondulate.

Altri soffioni, meno importanti, riscaldano, coi loro 200 gradi di calore, le lamiere di essiccazione. Fanno evaporare l’acqua, che lascia nelle scanalature una polvere bianca: l’acido borico.
I soffioni più potenti vengono incanalati verso macchine gigantesche, che muovono ruote e motori. Mastodontiche dinamo elettriche, azionate dalla forza del vapore, tra un rumore assordante, producono enormi quantità di energia. Danno la possibilità alle centrali di fornire elettricità alle ferrovie della Toscana ed a molti stabilimenti industriali.

Luce, calore, moto, energia, sono forniti dal “carbon rosso”, cioè dal calore delle manifestazioni vulcaniche.
Tutto viene dato gratuitamente dalla natura.
Larderello, con i suoi soffioni e i suoi stabilimenti posti nella vasta conca di un grande cratere vulcanico, continua giorno e notte a gettare al cielo le sue alte e violente colonne di fumo bianco. La sua costante potenza supera quella delle più poderose centrali termiche d’Europa.
Le alte ciminiere, le gabbie delle sonde, le armature dei suoi pozzi di trivellazione, sono come alberi fantastici, che sorgono fra il fumo dei vapori di quella terra riarsa, ma benefica.
Sembra l’ingresso dell’inferno, ma invece  è la gloria della volontà umana, che ha saputo imprigionare, a suo profitto, le forze della natura.
Il nome Larderello, che viene dato alla zona, deriva dal conte Francesco Lardarel che iniziò lo sfruttamento del “carbon rosso”.

I soffioni, oltre all’energia elettrica, danno acido borico, acido carbonico, azoto, idrogeno e metano, che vengono usati in moltissime industrie.
Un solo soffione può avere la portata di oltre centomila chilogrammi di vapore all’ora. Ogni centrale elettrica, azionata dai soffioni, può produrre cinquecento milioni di chilowatt (kW) di energia elettrica all’anno.
(D. Romoli)

I metalli

I metalli sono fra i minerali più utili all’uomo. Si trovano nel sottosuolo, quasi sempre mescolati con altri minerali. Gli utensili dell’artigiano, gli attrezzi del contadino, le macchine, gli arnesi, i motori, i tubi e moltissimi altri oggetti sono di metallo.
Il fuoco fonde i metalli e l’uomo se ne serve per separarli dai minerali coi quali sono mescolati.
Le caratteristiche dei metalli sono la lucentezza e la pesantezza. Alcuni, poi, si dicono malleabili perchè si possono ridurre in lamine sottilissime; altri sono detti duttili perchè si possono ridurre in fili sottilissimi.

Il ferro
Ho ottenuto il permesso di visitare una miniera di ferro, perciò mi unisco a un gruppo di minatori che stanno per incominciare il loro turno di lavoro.
Entriamo nella miniera. La gabbia di un ascensore ci accoglie: subito sprofondiamo nelle viscere della terra. Dopo pochi istanti l’ascensore si ferma e noi usciamo nel buio.

Gli uomini fissano la lampada sugli elmetti e imboccano una galleria di cui non si scorge il fondo. Io cammino in mezzo a loro. Da lontano mi giungono strani rumori: rimbombi, stridori di macchine, gorgoglii di acque che scorrono invisibili. Finalmente scorgo alcune deboli luci: sono le lampade di altri minatori che devono essere sostituiti dai miei compagni. Mentre quelli si allontanano, questi incominciano a lavorare: afferrano i martelli perforatori e li accostano alla roccia.
“Dov’è il ferro?” chiedo al caposquadra.

“Qui, davanti a lei!”
“Ma questa è pietra, non è ferro…”
L’uomo sorride, afferra un pezzo di roccia che era per terra e me lo mostra: “Il ferro, com’è conosciuto dalla gente, non si trova quasi mai allo stato puro. Esso è nascosto nelle rocce. Questo sasso è appunto un minerale di ferro, cioè una roccia che lo contiene in abbondanza. Per ottenere il ferro, bisogna liberarlo dalla sua prigione di pietra. Ma per far questo dobbiamo portarlo fuori dalla miniera”.
Intanto i minatori hanno terminato di forare la roccia che chiude il fondo della galleria.
“Perchè fate questi buchi nella montagna?” domando ancora.

“Per preparare le mine”, mi risponde il caposquadra. “In questi fori noi mettiamo l’esplosivo. Quando esso scoppierà, spaccherà il minerale in tanti pezzi”.
Mentre egli mi spiega, i minatori introducono nei fori i candelotti di esplosivo, poi li collegano con le micce.
Ora dobbiamo allontanarci perchè c’è pericolo. Di corsa ci rifugiamo lontano, in una nicchia della roccia.
Dopo qualche minuto si sentono fortissimi scoppi e la galleria si riempie di fumo e di polvere.

Nella ferriera
Seguiamo un carico di minerale di ferro. All’uscita dalla miniera i vagoncini scaricano nei carrelli di una teleferica il minerale portato dal basso. Per questa via esso giunge nella ferriera. Qui è frantumato da apposite macchine e preparato per entrare nell’altoforno.

L’altoforno è una grande costruzione a forma di tino, aperto in alto. Dalla sua sommità vengono introdotti i minerali di ferro, il carbon fossile e altre sostanze che favoriscono la fusione.
Il forno rimane acceso in continuazione. Il carbone, per il calore interno, si incendia, sviluppando 1500 gradi. A questa temperatura il minerale fonde. Il ferro che vi era contenuto si raccoglie in basso; le altre sostanze galleggiano sopra il ferro fuso.

Allora si apre lo sportello della colata, posto alla base del forno. Il metallo, liquido ed incandescente, esce sotto forma di un ruscelletto sfavillante, corre verso gli stampi, li riempie. Qui diventa solido e lentamente si raffredda.

Il ferro uscito dall’altoforno si chiama ghisa: non è ancora ferro puro perchè contiene tracce di altre sostanze.
A sua volta la ghisa viene rifusa in altri forni e purificata. Così si trasforma in acciaio ed in ferro puro.
L’acciaio è un composto di ferro e carbone. E’ assai più duro, più resistente, più flessibile del ferro e perciò si presta meglio alla costruzione di macchine e di congegni.

Utilità del ferro
Il ferro è di un’utilità che sorpassa quella di ogni altro metallo ed entra nella maggior parte degli oggetti che ci circondano.

Di ferro è probabilmente il telaio della nostra finestra, di ferro è l’asta e la maniglia che servono a chiuderla; di ferro la serratura che dà sicurezza alla nostra stanza; di ferro la chiave che ne muove i congegni; di ferro gli alari del nostro caminetto; di ferro le molle con cui vi accomodiamo sopra i pezzi di legna; di ferro i chiodi su cui abbiamo appeso i quadri; di ferro il fusto del nostro letto; di ferro molti utensili di cucina, di ferro le sbarre di sostegno della casa; di ferro, nelle loro parti più importanti, gli strumenti dell’agricoltura…

Sulla bocca dell’altoforno
L’altoforno! Ne avevo visto, da bambino, il lampeggiare corrusco oltre i tetti fumosi di un capannone lungo, massiccio, greve, simile a un mostro antidiluviano, addormentatosi per errore tra le piccole case grige, spaurite, della periferia industriale.

Ed un giorno, ero poco più di un giovinetto, entrai nello stabilimento.
Il mio posto era tra lo scarico dei vagoni e una specie di gabinetto d’analisi; ma una mattina non resistetti e sgattaiolai nel capannone dell’altoforno.

Era inverno e, appena entrato, ebbi una sensazione piacevole di tepore; ma subito mi accorsi che l’aria aveva qualcosa di acre, di pesante. La gran fornace era lì, a pochi metri. I carrelli, caricati da manovali pagati a cottimo che lavoravano con una frenesia inumana, entravano, si aprivano nel be mezzo come una mela spaccata, lasciavano cadere il loro carico e se ne tornavano via, richiudendosi mentre dalla gola del forno erompeva una nube giallastra, fetida, che si disperdeva, pigramente, oltre i travicelli bluastri.
(M. Comassi)

Il rame
E’ un metallo di un bel colore rossiccio, molto abbondante in natura. A contatto con l’umidità perde la sua lucentezza e si riveste di uno strato verdastro, il verderame, sostanza pericolosa quando di forma sui contenitori per alimenti.
Il rame si usa soprattutto per la fabbricazione di cavi elettrici e di caldaie. Fuso in lega con lo stagno forma il bronzo; in lega con lo zinco forma l’ottone.

L’alluminio
E’ un metallo color bianco argenteo, molto malleabile, di facile lavorazione. Non si trova libero in natura, ma è contenuto nei minerali della bauxite e del caolino.
E’ usato per la fabbricazione di fili elettrici, di utensili da cucina, di scatolame. In lega con altri metalli, serve alle industrie automobilistiche ed aeronautiche.

Il piombo
E’ tenero, grigio, pesante. E’ adoperato per la fabbricazione di tubazioni, di caratteri tipografici (in lega con l’antimonio), di accumulatori elettrici, di pallini da caccia. Entra in diverse leghe.

Lo zinco
E’ azzurrognolo; si usa per rivestire fili, lamiere, reti metalliche, grondaie, secchi e vasche di ferro, onde evitare il formarsi della ruggine.

Il mercurio
E’ l’unico metallo liquido. Si estrae da un minerale rossastro, il cinabro, che era conosciuto come sostanza colorane dagli Etruschi e dai Romani. Era molto usato nella costruzione di termometri, ed è utilizzato per pompe ed altri strumenti.

Lo stagno
E’ di colore argenteo; è usato per rivestire recipienti di ferro o di rame. La latta dei barattoli è una leggera lamina di ferro stagnato. Unito al piombo dà la lega dei saldatori.

Minerali preziosi

L’argento è usato per coniare medaglie, per posaterie di lusso, per bracciali e collane, per orologi ed anelli, ecc…
L’oro si trova in natura in forma di pepite o in granelli mescolati a sabbia. Giallo e lucente è, come l’argento, metallo duttile e malleabile. Come l’argento, esso entra in lega con il rame ed acquista così la durezza necessaria per la sua utilizzazione, che è simile o uguale a quella dell’argento. Non è attaccabile da alcun acido.
Il platino, assai raro, è di colore bianco argenteo: è metallo che resiste ad alte temperature e, come l’oro, ma è assai costoso.

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Dettati ortografici e materiale didattico sulle PIANTE

Dettati ortografici e materiale didattico sulle PIANTE

Una strana pianta
Stamani la zia Bettina s’è molto inquietata con me per uno scherzo innocente che, in fin dei conti, era stato ideato con l’intenzione di farle piacere.
Ho già detto che la zia è molto affezionata a una pianta di dittamo che tiene sulla finestra di camera sua,  a pianterreno, e che annaffia tutte le mattine appena si alza. Basta dire che ci discorre perfino insieme e gli dice: “Eccomi, bello mio, ora ti do da bere! Bravo, mio caro, come sei cresciuto!”. E’ una mania, e si sa che tutti i vecchi ne hanno qualcuna.
Essendomi dunque alzato prima di lei, stamattina, sono uscito di casa, e guardando la pianta di dittamo m’è venuta l’idea di farla crescere artificialmente per far piacere alla mia Bettina che ci ha tanta passione.
Lesto lesto, ho preso il vaso e l’ho vuotato. Poi al fusto della pianta di dittamo ho aggiunto, legandovelo bene bene con un pezzo di spago, un bastoncino dritto, sottile ma resistente, che ho ficcato nel vaso vuoto, facendolo passare attraverso quel foro che è nel fondo di tutti i vasi da fiori, per farci scolare l’acqua quando si annaffiano.
Fatto questo, ho riempito il vaso con la terra che vi avevo levata, in modo che la pianta non pareva fosse stata minimamente toccata; e ho rimesso il vaso al suo posto, sul terrazzino della finestra, il cui fondo è di tante assicelle di legno, facendo passare tra l’una e l’altra di esse il bastoncino che veniva giù dal foro del vaso e che io tenevo in mano, aspettando il momento il momento di agire. Dopo neanche cinque minuti, eccoti la zia Bettina che apre la finestra di camera, e incomincia con la sua scena patetica col dittamo:
“Oh, mio caro, come stai? Oh, poveretto, guarda un po’: hai una fogliolina rotta.. sarà stato qualche gatto… qualche bestiaccia…”
Io me ne stavo lì sotto, fermo, e non ne potevo più dal ridere.
“Aspetta, aspetta! seguitò a dire la zia Bettina.
“Ora piglio le forbicine e ti levo la fogliolina troncata, se no secca… e ti fa male alla salute, sai, carino!”
Ed è andata a prendere le forbicine. Io allora ho spinto un po’ in su il bastoncino.
“Eccomi, bello mio!” ha detto la zia Bettina tornando alla finestra. “Eccomi, caro !”
Ma ha cambiato a un tratto il tono della voce ed ha esclamato: “Non sai cos’ho da dire?Che tu mi sembri cresciuto!”
Io scoppiavo dal ridere, ma mi trattenevo, mentre la zia seguiva a nettare il suo dittamo con le forbicine e a discorrere: “Ma sì, che sei cresciuto.. E sai cos’è che ti fa crescere? E’ l’acqua fresca e limpida che ti do tutte le mattine… Ora, ora.. bello mio, te ne do dell’altra, così crescerai di più…”
Ed è andata a pigliar l’acqua. Io intanto ho spinto in su il bastoncino, e questa volta l’ho spinto parecchio in modo che la pianticella doveva parere un alberello addirittura.
A questo punto ho sentito un urlo e un tonfo. “Uh, il mio dittamo!”
E la zia per la sorpresa e lo spavento di veder crescere la sua pianta a quel modo, proprio a vista d’occhio, s’era lasciata cascar di mano la brocca dell’acqua che era andata in mille pezzi.  Poi sentii che borbottava queste parole: “Ma questo è un miracolo! Ferdinando adorato, che forse il tuo spirito è un questa cara pianta che mi regalasti o desti per la mia festa?”
Io non capivo precisamente quel che voleva dire, ma sentivo che la sua voce tremava e, per farle più paura che mai ho spinto più in su che potevo il bastoncino. M mentre la zia, vedendo che il dittamo seguitava a crescere, continuava ad urlare: “Ah! Oh! Oh! Uh!, il bastoncino ha trovato un intoppo nella terra del vaso, e siccome io lo spingevo con forza per vincere il contrasto, è successo che il vaso si è rovesciato fuori dalla finestra, ed è caduto rompendosi ai miei piedi.
Allora ho alzato gli occhi e ho visto la zia affacciata, con un viso che faceva paura.
“Ah! Sei tu!” ha detto con voce stridula. Ed è sparita dalla finestra per riapparire subito sulla porta, armata di un bastone.
Io, naturalmente, me la son data a gambe per il podere, e poi sono salito sopra un fico dove ho fatto una gran scorpacciata di fichi verdini, che sredovo di scoppiare.
Vamba (da “Il giornalino di Gian  Burrasca”)

Dal fiore al frutto

Tra la nube dei fiori del frutteto le api sono incessantemente all’opera; e se osserviamo un fiore schiuso da qualche ora, sullo stimma verde ed umido non sarà difficile scorgere qualche granulo di polline giallo portato lì da un’ape.
L’impollinazione è il primo atto della nascita di un frutto. Prendiamo due fiori, il primo lasciamolo libero all’aria, il secondo ingabbiato in un sacchettino di garza in modo che le api non vi si possano posare. Il primo verrà impollinato, il secondo no; poche ore dopo vedremo che i petali del primo fiore stanno cominciando a scolorire; il rosa del fiore di pesco diventa bianco, il bianco del pero diviene grigio. Il secondo fiore si mantiene invece fresco e puro, i suoi colori risplendono per richiamare un insetto che porti il polline così necessario.

Torniamo ora al primo fiore, che è stato impollinato; i suoi petali cadono, il suolo sotto agli alberi è coperto di petali. Il fiore del mele e del pero si riduce così al solo calice, una stellina verde a cinque punte. Nel fiore del pesco anche il calice appassisce; ma entro pochi giorni vedremo che sotto alla spoglia rinsecchita c’è qualche cosa che preme e si gonfia, finchè la spoglia si spacca e cade; è l’ovario, che nel fiore era minutissimo ed ora invece è già trasformato in una minuscola pescolina. Dentro di esso vi sono diverse loggette nelle quali si trovano dei corpicini verdi: i semi.

Nel frutticino del melo, come in quello del pesco, già poche ore dopo l’impollinazione si svolge un’attività straordinaria; se potessimo osservare la respirazione di queste creaturine ci accorgeremmo che respirano il doppio o il triplo di un fiore non impollinato. Lo sviluppo dei semi, che comincia subito dopo l’impollinazione, è la causa di questa notevole attività.
Il seme è la parte più importante del frutto. Nel seme vi è un embrione ossia una pianta piccolissima: lo si vede molto bene ad esempio fendendo in due il seme del cachi. Per le piante il seme è la parte più importante del frutto; avviene così che esse nutrano più volentieri un frutto che ha molti semi di uno che ne ha pochi; e che lasciano cadere un frutto che non ne ha nessuno.
Si verificano così, poco dopo la fioritura, le “cascole” delle piante da frutto. Cadono prima i fiori che non hanno ricevuto il polline; poi cominciano a cadere i frutticini. Sono le mele e le pere in cui l’embrione è morto perchè ha sofferto la siccità o la brina; oppure i frutti con pochi semi. Non c’è da preoccuparsi in genere per queste cadute di frutti; sull’albero ce ne sono talmente tani che ne restano sempre abbastanza per un buon raccolto.

Ed ecco che i frutti cominciano a prendere colore; il verde diventa giallo, certe parti della buccia cominciano a prendere il color rosso.
Le ciliegie, per esempio, sono di un rosso acceso bellissimo; merli e passeri non possono fare a meno di fermarsi ad ammirarle e dar loro una beccatina. Finchè il seme è immaturo, il frutto ha cercato di non farsi notare, è rimasto verde; ma ora che il seme è pronto, il frutto si rende visibile, perchè c’è il caso che il merlo o il passero invece di beccare semplicemente la ciliegia voglia portarsela via per mangiarla con comodo; e in questo caso il seme verrebbe portato lontano.

Una quantità di alberi da frutto e di altre piante vengono diffuse dagli uccelli; il caffè per esempio viene diffuso dalle scimmie e il tasso e il vischio dal merlo. Ci sono parecchi semi che hanno una buccia talmente dura da poter sopportare i succhi gastrici dello stomaco degli animali. L’animale mangia il frutto, lo digerisce e lascia cadere il seme a qualche chilometro di distanza.
Confrontiamo ora due tipi di frutto, la nocciola e la ciliegia: il primo è un frutto secco, ossia l’ovario del fiore si è trasformato in un guscio durissimo che protegge il seme. Il secondo è invece un frutto polposo: all’esterno troviamo una buccia elastica; poi un secondo involucro: la polpa del frutto; infine un terzo involucro, il guscio durissimo che protegge il seme. I botanici hanno cercato di classificare i frutti in una serie di tipi diversi, e hanno avuto un bel da fare perchè su cento piante troveremo cento tipi di frutto. Vediamone qualcuno.
Il baccello del fagiolo è di nuovo un frutto secco. Però, al contrario della noce, quando è maturo si apre lasciando uscire i semi.

Un altro bel tipo di frutto è la capsula: anch’esso si apre quando è maturo, ma non si divide in sue valve come il baccello. Prendiamo ad esempio la capsula del garofano e dei suoi parenti: finchè i semi sono teneri è un piccolo orciolo verde ben chiuso. Quando i semi maturano si apre alla sommità con una perfetta corona di dentini che si rovesciano all’indietro; sono sei oppure dieci, o talora cinque secondo la pianta. Anche il papavero possiede una capsula altrettanto graziosa: ha un coperchio piatto che a maturità si solleva leggermente scoprendo una serie di fessure. Gli steli nel frattempo si sono essiccati e sono divenuti rigidi; il vento non li fa più ondeggiare dolcemente, ma imprime loro una serie di scosse brusche che fanno volar fuori i semi.

Insomma la varietà di forme dei frutti è veramente straordinaria, come potremmo osservare guardando qualche decina di piante diverse. Un curioso passatempo è quello di sezionare un fiore cercando quale parte diventerà il frutto. Nel pesco e nel pisello, per esempio, togliendo il calice, la corolla e la corona degli stami rimarrà libero l’ovario con lo stimma: e sarà molto facile riconoscere nell’ovario la futura pescolina o il futuro baccello. Nel fico invece sarà piuttosto difficile trovare il fiore perchè è al sicuro e ben protetto.

sull’argmento impollinazone e fecondazione trovi altro materiale didattico qui:

Come è fatto il seme?

Prendiamo un seme di una mela e togliamogli la buccia scura: nell’interno troveremo due masserelle simili a foglie bianche spesse e dure:  i cotiledoni. In alto, tra i cotiledoni, vi è un piccolo essere dall’apparenza insignificante che racchiude in sè tutta la vita della futura pianta: è l’embrione.
Questo, quando il seme sarà interrato, prenderà nutrimento dai cotiledoni e diventerà una nuova pianta. Ma i cotiledoni a che cosa servono? A nutrire l’embrione finchè non avrà la forza sufficiente per assorbire dal terreno il nutrimento.

L’astuzia delle piante per la diffusione dei semi

Le piante non si possono muovere dal posto dove si trovano abbarbicate e perciò adoperano i sistemi più ingegnosi per poter diffondere i loro semi.
Alcune ricoprono il seme di una polpa dolce e succosa, perchè gli animali e l’uomo stesso se ne impadroniscano e, gettato via il nocciolo, che è duro, permettano, anche senza volere, la nascita di una nuova pianta.
Alcune hanno i semi muniti di ganci e uncini, che si aggrappano al pelo degli animali e ai nostri vestiti e vengono trasportati lontano, prima di cadere sulla terra dove genereranno un’altra pianta.

Altre hanno i semi muniti di eliche o di paracadute, graziosi ombrellini di fate. Il vento li stacca dalla piante madre e, su per le vie dell’aria, li conduce con sè fino al luogo dove la terra li accoglierà.
Altre piante ancora, che vivono vicino all’acqua, hanno semi come piccole navicelle, che navigano sulla corrente senza che l’acqua li corrompa, finchè approdano e danno vita ad una nuova pianta.
Ma le piante più curiose sono quelle che esplodono addirittura i loro semi, come fanno il geranio, la viola, il popone. I semi sono tanto pigiati dentro la loro stanzina che, quando non ne possono più, schizzano fuori come piccoli proiettili, si capisce, senza far fracasso. (A. Lugli)

Importanza dell’albero

Enorme è l’importanza che riveste l’albero nell’economia dei popoli, con la sua triplice funzione: produttrice, difensiva e climatica.
Chi può enumerare tutti i prodotti che l’albero ci fornisce sia direttamente che attraverso i mirabili processi chimici e meccanici delle industrie moderne?

Dai frutti, che ci donano, insieme con tutte le fragranze, l’intero complesso degli alimenti indispensabili alla vita (zuccheri, amidi, proteine, grassi, sali, vitamine), al legno che, nelle sue fibre dure e pur cedevoli, tenaci e pur elastiche, assomma le virtù di una materia prima insostituibile per le industrie del legname, per l’ebanista, il liutaio, il carpentiere; dal sughero soffice e impermeabile alle pregiate resine, dalle materie tannanti alle sostanze medicinali, dalla carta alla seta artificiale.

Non meno importante è la funzione difensiva esercitata dall’albero. Guai se i monti non fossero, almeno in parte, coperti dal manto protettore dei boschi, guai se i terreni incoerenti e franosi rimanessero esposti all’azione distruttiva delle acque dilavanti e degli agenti degradatori dell’atmosfera. Si chiamano dilavanti le acque che, durante le piogge torrenziali, scorrono impetuosamente lungo i declivi asportandone la coltre terrosa e mettendo a nudo la roccia. (esperimento sull’erosione del suolo  )

Quanti colli, in passato adorni di magnifiche selve, sono oggi completamente isteriliti a causa di un inconsulto diboscamento e mostrano i loro fianchi incisi da solchi profondi separati da lame di roccia striata e corrosa, gli orridi calanchi e, al piede dei declivi, ammassi caotici di sfasciume, selvagge petraie di grigio calcare rupestre, in un quadro di squallore e desolazione.
E’ l’albero che protegge gli argini dei torrenti e contiene l’impeto delle acque, è l’albero che trattiene e consolida i terreni franosi nell’intreccio delle sue radici salde come maglie d’acciaio, è l’albero che imbriglia le mobili dune e le trasforma in colline verdeggianti, che redime la mortifera palude, erompe trionfante dalle ardenti sabbie del deserto sol che le sue radici trovino un minimo di umidità vitale.

Ben nota è l’influenza che l’albero esercita sulle condizioni climatiche del territorio circostante.
La vegetazione boscosa attenua le  radiazioni solari, assorbe calore e lo restituisce lentamente all’atmosfera, rendendo meno aspra l’escursione termica diurna; rompe, con l’ostacolo opposto dal tetto delle sue chiome, la forza del vento, e la sua azione prosciugante trattiene e condensa l’umidità atmosferica, influenzando il regime delle piogge. Infine, il bosco accresce bellezza al paesaggio e gli dà un’impronta di solennità e di magnificenza.
(B. D’Alessandro)

Vedi anche:

A che cosa servono le piante

Le piante sono amiche generose degli uomini e degli animali. Chi ci darebbe il pane e gli altri cibi, le vesti e il legname per costruire mobili ed altri oggetti utili, se non ci fossero le piante?
Inoltre esse ci danno medicinali, cellulosa e gomma tanto necessarie alle nostre industrie.
Sono utilissime alla nostra salute. Infatti hanno il mirabile potere di assorbire dall’aria un gas nocivo, l’anidride carbonica, e di  donarne un altro prezioso che si chiama ossigeno.

Le loro radici ramificate nel terreno ed i loro tronchi sono come delle barriere che impediscono il formarsi di frane e valanghe. Le loro foglie ci donano l’ombra e la frescura nelle ore afose dell’estate ed i loro fiori ci rallegrano con i loro colori.

La bellezza degli alberi

Gli alberi sono belli in qualunque stagione: quando d’inverno ricoperti di brina o di neve assumono, al nostro sguardo, le forme più strane; quando, in primavera, le tenere foglie li ricoprono; quando, d’estate, offrono comodo ristoro; quando, d’autunno, si vestono dei più vari e vivaci colori.

Per il lavoro di ricerca:

. Quali differenze ci sono tra alberi, arbusti ed erbe?
. Quali sono le parti principali di una pianta?
. A che cosa serve la radice? E il fusto?
. A che cosa servono le foglie?
. Quali piante si dicono alimentari e perchè?
. Che cosa sono i cereali?
. Quali piante da frutto prosperano nelle nostre campagne?
. Quali sono le piante industriali? A che cosa servono?
. Che cosa sono le conifere?
. Dai semi o fiori o frutti o radici di molte piante si ricavano sostanze preziose per la salute dell’uomo: ricerca il nome di alcune di esse.
. Che cosa scorre sotto la corteccia delle piante?
. Dormono anche le piante?
. Senza le piante, potrebbero vivere gli uomini e gli animali?
. Che cosa sono gli ortaggi?
. Perchè alcune piante si dicono tessili?
. Ricerca notizie sulla canapa, il lino e il cotone.
. Che cosa sono le piante grasse?
. Dove vivono le alghe?
. Quali sono i nemici degli alberi?

Alberi, arbusti, erbe

La terra verdeggia di piante: sono alberi, arbusti, erbe.
Gli alberi hanno tronco altro e vigoroso e rami estesi, ricchi di foglie. Gli arbusti hanno gambi brevi, legnosi, flessibili, intrecciati fittamente. Le erbe hanno stelo sottile, corto, fragile e crescono folte nei prati.

Le piante offrono alimenti e sostanze utili agli uomini ed agli animali. L’uomo si nutre di frutta e di ortaggi; costruisce mobili di quercia e di noce; molti animali si nutrono di semi e di erbe.

Le parti principali di una pianta

Le parti principali di una pianta sono la radice, il fusto e le foglie.
La radice serve a fissare la pianta al terreno. Assorbe da questo l’acqua e le sostanze minerali necessarie alla nutrizione della pianta.

Il fusto sorregge le foglie ed i fiori. Nel suo interno vi sono canali che servono a trasportare, dalle radici alle foglie e da queste agli altri organi, le sostanze necessarie alla nutrizione della pianta. Alcuni fusti (bulbi, rizomi, tuberi) servono alla pianta come magazzini di riserva.

Le foglie sono generalmente verdi. Esse sono i polmoni delle piante: con le foglie la pianta respira. Inoltre, le foglie provvedono a fabbricare una parte del nutrimento necessario alla pianta.

Come sono fatte le piante

Tre sono le parti fondamentali della pianta: le radici, il fusto e le foglie.
Le radici affondano nel terreno come le fondamenta di una casa ben costruita. Ad esse, infatti, è affidato il compito,  importantissimo, di sostenere la pianta. E come le fondamenta di un edificio racchiudono la cantina nella quale si possono conservare le provviste, anche le radici funzionano da cantina e dispensa per la pianta.

La terza funzione delle radici, forse la più importante di tutte, è quella di assorbire il nutrimento dal terreno. A questo scopo le estremità delle radici sono coperte da sottili peluzzi che si insinuano nel terreno. La parte estrema di essi è protetta da una cuffia che permette alla radice di avanzare nel terreno. Così, attraverso la sottilissima membrana che ricopre la radice, la pianta assorbe dal terreno il nutrimento che le occorre.

Il fusto ha forme diversissime; è fusto il filo d’erba come una quercia gigantesca. Si hanno così fusti che durano un anno e fusti che possono sfidare i secoli. All’esterno il grosso tronco legnoso è ricoperto da una spessa corteccia che ne difende le delicate parte interne. A volte questa corteccia si trasforma in sughero. Lungo il fusto spuntano gemme da cui nasceranno i rami e le foglie.
L’interno di un fusto è un meraviglioso impianto di condutture. I canali che lo percorrono sono di due tipi: tubi legnosi che portano verso le foglie l’acqua e le sostanze alimentari assorbite dal terreno e tubi crobosi (tessuto vegetale che forma pareti sottili e ricche di fori, in funzione di crivello, cioè di setaccio) che riportano giù verso le radici ed i suoi depositi sotterranei ciò che le foglie hanno trasformato.
Osservando la base tagliata di un tronco, noi vediamo tanti anelli concentrici: sono i tubi o canale crobosi.
Le foglie nascono sul tronco e dai rami, che del tronco sono la continuazione. Prima appare una piccola gemma, protetta da squame pelose ed attaccaticce, poi da questa si dispiega la foglia in tutta la sua bellezza.
Sole e luce sono la vita delle foglie e la loro funzione è proprio questa: assorbirne il più possibile. La loro forma può essere svariatissima, semplice, composta, ovale, tonda, irregolare, ma sempre esse rappresentano una grande finestra aperta verso il sole.

La foglia è composta di una delicata trama di nervature che sono le parti ultime e sottilissime dei vasi crobosi e legnosi. La parte (o pagina) superiore di una foglia è la grande vetrata attraverso la quale la luce entra a fiotti. Dietro questa delicata pellicola si accalcano le cellule ricche di clorofilla, la sostanza verde capace di trasformare un gas dell’aria in alimento per la pianta.

La pagina inferiore invece, molto meno verse, opaca, ha delle piccolissime aperture, dette stomi, attraverso le quali l’aria passa e circola dentro la foglia.
Per vivere, anche le piante, come l’uomo, e gli animali, hanno bisogno di respirare ossigeno, un gas contenuto nell’aria, emettendo poi un altro gas, l’anidride carbonica, come sostanza di rifiuto.

Le foglie

A cosa servono le foglie? Le radici succhiano acqua e sali minerali dal terreno. Il gambo trasporta acqua e sali minerali fino alle foglie. Ma l’acqua e i sali minerali non bastano a fare il cibo per la pianta. Occorre anche aria e sole.
Sotto le foglie ci sono tante piccole aperture; attraverso di esse, l’aria entra nelle foglie e si mescola all’acqua e ai sali minerali trasportati dal gambo e sparsi in tutta la foglia attraverso sottili vene. Quando il sole splende sulle foglie, esse fanno il cibo con l’aria, l’acqua ed i sali minerali. Le foglie, dunque, sono molto importanti perchè permettono alla pianta di fabbricarsi il cibo.

Quando le foglie hanno fabbricato il cibo, lo mandano in tutte le parti della pianta attraverso altri sottili canali, simili a quelli che servono a portare l’acqua e i sali minerali dalle radici alle foglie. Questo cibo ha l’aspetto di un liquido e si chiama linfa.
La pianta non adopera tutto il cibo che le piante producono. Una parte del cibo prodotto dalle foglie viene immagazzinato come riserva, per quando la pianta sarà senza foglie e non potrà fabbricarne.
Il cibo che non viene adoperato può essere immagazzinato in varie parti. Tutte le piante, però, immagazzinano cibo nei loro semi, perchè esso serve per far crescere le nuove piante.

Il sangue delle piante

Gli alberi dell’orto si sono svegliati nel chiaro mattino di aprile.
– Che cosa succede? – domanda un giovane pesco a un pero suo vicino.
– Sento qualche cosa di strano serpeggiarmi in ogni parte. Come un dolce umore che dalle radici sale fino all’ultimo ramo e mi rende forte e felice. Che sia questo tiepido sole che di ha svegliati? –
– Anch’io sento lo stesso umore scorrermi dentro – risponde il pero – ma non è il sole. E’ la linfa, mio caro, è il nostro sangue che dalle radici sale su su, fino alle foglie, e da lì scende di nuovo e si spande in ogni nostra fibra. E’ la linfa: quella che darà alle foglie le sue sostanze preziose, ai fiori il colore ed il profumo, ai frutti la polpa e lo zucchero, al legno e alla scorza quanto è loro necessario per crescere. –
– E darà sempre così, ogni anno? – domanda ancora il pesco.

– Sempre. Ogni anno questo miracolo si rinnova. Io sono assai più vecchio di te, vedi, e pure adesso mi sento giovane e forte. E se tu crescerai grosso e robusto e ti coprirai di fiori e darai tanti frutti, lo dovrai sempre a questo sangue nuovo e generoso che a primavera ti sentirai scorrere dentro. –
– Pensare che io credevo di essere mezzo morto durante tutto l’inverno! E’ bello svegliarsi con questa nuova vita! – esclama il pesco.
– Sì, è bello! – e il vecchio pero distende meglio i suoi rami in un impeto di rinnovata giovinezza.

Le piante respirano, mangiano, bevono, dormono

La pianta respira, la pianta mangia, la pianta beve, la pianta dorme. Essa respira come noi l’aria atmosferica che avviluppa il globo di una sfumatura azzurrina, ma la sua respirazione ha luogo in senso inverso della nostra: essa infatti consuma l’anidride carbonica, elemento mortale per noi.

Essa mangia e beve: i suoi alimenti sono l’acqua, il carbonio, l’ammoniaca, lo zolfo, il fosforo.
L’organizzazione meravigliosa delle sue radici e delle sue foglie le permette di prendere, e perfino d’andare a cercare, i suoi principi nutritivi nell’aria e nel suolo, tanto lontano quanto le sue braccia possono estendersi.

Essa dorme: la maggior parte delle piante segue docilmente la natura e dorme dal tramonto al levar del sole; ma altre osano appena di levarsi prima del mezzogiorno e perfino non di svegliano affatto quando il tempo è piovoso.
(D. Sant’Ambrogio)

Anche le piante si nutrono
Oltre all’azione clorofilliana, di cui abbiamo fatto cenno, la pianta svolge altre attività, intese a crearsi il necessario nutrimento, attraverso le radici (quasi sempre sotterranee, qualche volta acquatiche). Attraverso i peli assorbenti, le radici assimilano dal terreno le sostanze indispensabili alla vita vegetale, disciolte in acqua, cioè in soluzione, come fosforo, potassio, azoto, calcio, magnesio, zolfo, tutti sotto forma di sali. Come il nostro stomaco secerne diversi acidi che trasformano il cibo ingerito in chimo, così le radici emettono acidi che trasformano le sostanze del terreno in modo da poter essere assorbite. Le radici inoltre sono molto più lunghe e più vaste della parte aerea della pianta; se mai abbiamo visto sradicare una pianta, possiamo averne un’idea approssimativa: più alta è una pianta, più profonde ed estese sono le radici, che devono non solo assorbire il nutrimento, ma sostenere anche tutta la pianta.

Alcune strani piante sono, almeno in parte, carnivore, quasi come gli animali; per esempio la dionea, che vive nell’America settentrionale, possiede foglie particolari e, quando un insetto si posa su di esse, immediatamente si chiudono, trattenendo imprigionato l’insetto. Subito dalle foglie esce un liquido che uccide la bestiolina e la rende digeribile per la pianta. Quando il pasto è consumato, le foglie si riaprono e ciò che non è stato digerito viene lasciato cadere.

La radice
La pianta vive costruendo il suo corpo con i materiali che ricava dall’aria (anidride carbonica) e dal terreno (acqua e sali minerali sciolti in essa).
Una parte della pianta, la radice, scende nel terreno, mentre l’altra si innalza nell’aria. Il vento, con la sua forza, potrebbe buttare a terra le parti aeree della pianta, se questa non fosse ben fissata al terreno. La radice compie questo lavoro. Inoltre la radice, come abbiamo detto, mediante i suoi peli assorbenti, che si inseriscono tra i detriti del terreno ed assorbono come tante pompe aspiranti il liquido nutritivo del terreno stesso, alimenta la pianta. La radice può anche compiere in certe piante, come la carota e la barbabietola, la funzione di magazzino di sostanze nutritive.

Ogni pianta ha una sua particolare radice che si sviluppa in maniera diversa secondo la struttura del terreno.
Nel deserto dell’Africa esiste una pianta cespugliosa, l’Alhagi camelorum, che è capace di sviluppare ben 40 metri di radice per raggiungere l’acqua sotterranea.
Le radici possono essere a fittone o fascicolate.

Sono a fittone le radici che si sviluppano in continuazione del fusto, come quella della fava, della carota, del pino e del garofano.

radici a fittone
radice napiforme

Sono fascicolate le radici che si sviluppano a ciuffo, come quelle del frumento, del granoturco, della segale.

radice tuberosa fascicolata carnosa
radice affastellata

L’apparato radicale e la zona pilifera
Sulla superficie delle radici sono sparsi i peli radicali che facilitano l’assorbimento dell’acqua e dei sali contenuti nel terreno. Al termine la radice è protetta da una cuffia che si rinnova.

L’aria e le piante
Non hai mai pensato che la pianta, oltre che della luce, del calore, dell’umidità e dell’acqua ha bisogno, per vivere, anche dell’aria? E’ proprio così: come gli uomini e gli animali tutti, anche la pianta respira. Possiamo fare un piccolo esperimento. Ci occorrono due vasi o campane di vetro. Lasciamo completamente vuoto il primo recipiente.

Nel secondo mettiamo una pianticina e ricopriamo il recipiente con un foglio di carta nera perchè non passi neppure un po’ di luce.
Passato un giorno e una notte introduciamo nei recipienti una candelina accesa. Che cosa succede? Succede che la fiamma della candelina rimane accesa nel recipiente vuoto mentre si spegne in quello in cui è stata messa una pianticina.

Questo esperimento ci dimostra che la pianta ha assorbito tutto l’ossigeno contenuto nel recipiente ed ha emesso l’anidride carbonica che ha fatto spegnere la candelina.
La respirazione delle piante avviene soprattutto per mezzo delle foglie, che presentano sulla loro superficie tante piccole aperture o stomi, cioè bocche attraverso le quali avviene appunto lo scambio gassoso necessario alla vita delle piante.

Funzione delle foglie
Le foglie sono i polmoni della pianta, quindi respirano l’aria che le circonda, trattengono l’anidride carbonica ed emettono ossigeno. Ma come avviene? Ciò che rende verdi le foglie è la clorofilla (pigmento colorante, attivo), che sotto l’influenza della luce ed ad una certa temperatura (10° – 35°) scompone l’anidride carbonica contenuta nell’aria, trattiene il carbonio e libera l’ossigeno (infatto l’anidride carbonica è CO2, cioè composta da carbonio e ossigeno). Cosa ne fa la foglia del carbonio?

Sempre per azione della clorofilla, sotto l’influenza della luce, il carbonio si combina con gli elementi dell’acqua contenuti nella linfa proveniente dalle radici, e dall’unione si questi tre elementi inorganici (carbonio, idrogeno, ossigeno) si forma una sostanza organica vegetale: l’amido, che poi, a sua volta, si trasforma in altre sostanze, che circolano nella pianta, un poco come nel nostro sangue, che viene continuamente rifornito dai cibi digeriti e dall’ossigeno della respirazione.

Se le piante compiono questa meravigliosa funzione di purificare l’aria, diminuendo la quantità di anidride carbonica, nociva per noi, è indispensabile avere molto verde a disposizione, accrescerne il numero, rimboschire le zone prive di alberi, rispettare le piante e averne cura.

Le piante di difendono dal caldo, dal freddo, dalla fame, dalla sete, e dai pericoli. Come?
Le radici delle piante affondano nel terreno. Perciò le piante non possono muoversi come gli animali per cercare il cibo e l’acqua. E, quando arriva il freddo, non possono migrare in cerca di luoghi più caldi.
La maggior difesa, per una pianta, consiste nel crescere e nel vivere in quei luoghi dove essa può trovare quello che le occorre: terreno che fornisca il nutrimento necessario, acqua a sufficienza, temperatura adatta ai suoi bisogni.

Ma le piante hanno anche tanti nemici! Gli erbivori mangiano l’erba dei prati, le foglie e le cortecce degli alberi; alcune larve di insetti e insetti adulti rodono le radici o divorano foglie e frutti. Come si difendono le piante da questi nemici?
In alcuni casi, le piante si difendono con armi che ricordano le unghie e i denti degli animali. Il biancospino e la rosa sono armati, per esempio, di spine; il cardo e il carciofo hanno foglie e fiori pungenti; l’ortica brucia la pelle di chi sfiora le sue foglie.

La maggior difesa di una pianta è però data dall’abbondante produzione di semi. Se una pianta muore, molte altre crescono e prendono il suo posto.

Perchè gli alberi perdono le foglie in inverno?

Quando l’albero ha le foglie circolano per tutto il tronco l’acqua e i sali minerali assorbiti dal terreno. Se questi liquidi circolassero anche d’inverno, il freddo potrebbe farli gelare e, così gelati, essi spaccherebbero internamente la piana, facendola morire. Per questo molti alberi perdono le foglie.

Vi sono però anche alberi che non perdono le foglie: l’alloro, l’ulivo, l’edera. Anche l’abete, il cipresso, il pino non perdono le foglie. Nei paesi freddi, il periodo caldo dura poco. Se l’abete e le piante simili ad esso dovessero aspettare il caldo per mettere le foglie e nutrirsi, avrebbero troppo poco tempo per farlo. Non riuscirebbero ad accumulare cibo a sufficienza per sopravvivere durante la stagione fredda.  Per questo continuano a tenere le foglie, e a nutrirsi anche quando fa freddo. Ma come mai la linfa che circola nel tronco di questi alberi non gela?
Quando fa molto freddo, possiamo vedere appeso ai distributori di benzina un cartello che dice: “Mettete nell’acqua della vostra automobile l’antigelo”. Vi sono cioè delle sostanze che, messe nell’acqua, impediscono a questa di gelare.

Avete mai provato a prendere in mano un pezzo di corteccia di abete, o di pino, o di cipresso? E’ appiccicosa, perchè contiene una sostanza che si chiama resina. La resina è l’antigelo delle piante che vivono dove fa freddo e continuano a tenere le foglie.
Insieme con la linfa, circola nella pianta anche la resina, che impedisce alla linfa di gelare.
Così l’abete, il pino, il cipresso possono continuare a tenere le foglie d’inverno.

La disseminazione

La natura ha provveduto perchè le piante giovani vadano a svilupparsi lontano dalla madre.
L’abete e il pino hanno semi alati. Il tiglio ha addirittura il frutto alato. I semi del cotone sono avvolti in una peluria vaporosa.

La pianta chiamata dente di leone ha il frutto secco con tanti pelini raggiati che formano come un paracadute. Il vento stacca dalla pianta madre questi semi e questi frutti e li sparge lontano.
Nelle leguminose, quando i semi sono maturi, il baccello esplode e lancia lontano i semi che contiene.
Altri frutti sono pesanti e il vento non li potrebbe trasportare. E allora?

Anche questo caso è stato risolto. Il profumo, il colore, il sapore dolce dei frutti invita gli animali a mangiarli. La polpa dei frutti è facilmente digeribile, ma i semi che vi stanno dentro, coperti da una buccia durissima, no. Essi vengono espulsi dall’intestino dell’animale e lasciati a terra. Lì essi germogliano. (O. Valle)

Il fusto
Il fusto o caule è quella parte della pianta che si sviluppa dal fusticino dell’embrione, in una direzione che di solito è opposta a quella della radice; serve a portare le foglie e a condurre la linfa.
Per lo più ha forma cilindrica, diventando conico più in alto, verso l’apice; vi sono però anche fusti poliedrici (salvia, menta), appiattiti o sferici (come in certe piante grasse), ecc…

Varia è la consistenza: quelli deboli, pieghevoli son detti erbacei; quelli lignificati, tronchi; al fusto del grano e delle altre graminacee, vuoto nell’interno e ingrossato ai nodi, dove si inseriscono le foglie, si dà il nome di culmo.
Varia è anche la lunghezza dei fusti, da quelli così brevi che si direbbero mancanti a quelli giganteschi, alti più di 100 metri, come varia è la grossezza: ve ne sono di sottilissimi e di colossali, il cui diametro raggiunge, e può anche superare, una dozzina di metri.

Il fusto che si innalza e sta dritto per virtù propria, reggendo rami e foglie, si dice eretto; quello che invece striscia sul suolo si chiama prostrato. Altri ancora per innalzarsi hanno bisogno di aiuto, e cioè o si avvolgono a spirale intorno a sostegni rigidi (fagiolo, vilucchio, luppolo) e sono detti fusti volubili, oppure diventano rampicanti, aggappandosi ai sostegni per mezzo di radici avventizie (edera) o di organi di attacco detti cirri o viticci (vite, zucca, pisello, ecc…).

E’ la necessità che hanno le foglie di essere esposte alla luce a determinare il portamento, la ramificazione del fusto ed anche il suo allungamento; così, dove sono molto fitte, le piante hanno il fusto più alto.

Gemme

L’apice vegetativo del tronco, delicato come quello della radice, è coperto, invece che dalla cuffia, da tante foglioline: all’insieme  dell’apice e delle foglie che lo proteggono si dà il nome di gemma.
Oltre alla gemma apicale, di solito il gusto ne porta altre laterali, che danno origine ai rami; i rami, a loro volta portano gemme terminali e laterali, dalla quali si hanno ulteriori ramificazioni,  oppure foglie e fiori.

Le piante, la luce e il calore

Una delle scorse estati trovai, in una vallata alpina, una galeopsis alta circa mezzo metro.
Ne raccolsi i semi e li affidai al terreno nel giardino botanico alpino Chanousia del Piccolo San Bernardo, a 2000 metri sul mare. Ebbene, l’anno dopo, ebb delle piante minuscole, alte appena due o tre centimetri.
Un’altra volta, sempre nello stesso giardino, coltivai una pianta di stella alpina (edelweiss). La pianta prosperò e mise i suoi candidi e caratteristici fiori, che fotografai. A ottobre porti con me, in vaso, la pianta a Tivoli, presso Roma, e la collocai sul muro di una terrazza. Verso la fine di novembre, la pianta perdette le foglie, in aprile cominciò a rimetterle e in maggio fiorì.
Con grande meraviglia di tutti però, foglie e fiori non erano più bianchi, come avrebbero dovuto, bensì verdastri, quasi come quelli di una qualunque erba.
Che cosa era accaduto? La pianta si era accorta che a Tivoli le notti non erano così rigide come in alta montagna, nè i raggi del sole così ardenti e luminosi e… aveva trovato inutile l’acquisto del suo bianco mantello di lana che l’avrebbe, a un tempo, riparata dal freddo e dall’energetica insolazione. Perciò aveva abbandonato i peli che la ricoprivano e la rendevano bianca… lasciando vedere tutto il colore verde delle sue foglie.
A luglio riportai la pianta in montagna; essa soffrì, per il brusco cambiamento. Avvizzì, perdette le foglie, ma non morì. Ne rimise delle nuove… che, erano bianche per fitta peluria. La stella alpina aveva rimesso il mantello.
Ecco dunque provato che le piante sentono lo stimolo del calore. Ma esse avvertono anche la luce.
Osservate il girasole. Non volge sempre la sua grande inflorescenza verso l’astro luminoso? E, se si piega da quella parte, non sente, forse?
Osservate quelle graziose campanelline che si chiamano convolvoli. Sono aperte e bellissime sul far della sera e per tutta la notte, fino alla mattina; ma, non appena sorge il sole, una dopo l’altra si chiudono, come se temessero la luce troppo intensa.
Altri fiori, al contrario (la margherita, ad esempio) temono le tenebre e chiudono e abbassano i petali non appena il sole tramonta. Non indica questo che le piante avvertono la mancanza e la presenza di luce?
Osservate un campo di trifoglio. Di giorno le tre foglioline, di cui è formata ogni foglia, sono aperte a ventaglio, ma di notte sono abbassae le une contro le altre. Così fa l’ippocastano, il ben noto albero dei nostri viali.
(L. Vaccani)

Curiosità sulle piante

Una scoperta recente ha svelato il segreto delle piante. Una sostanza chiamata auxina presiede alla crescita delle varie parti della pianta (radici, foglie, rami, fiori, ecc…).
L’uomo è riuscito a estrarre da diverse fonti vegetali questa straordinaria sostanza e ha provato le prime applicazioni pratiche. Trattando dei fiori di pomodoro recisi con auxina estratta da frutti, ad esempio, si sono ottenuti, in vitro, dei pomodori grandi e senza semi, ma di buon sapore.

In ogni pianta vi sono gemme dette dormienti perchè possono rimanere prigioniere della corteccia anche più di cento anni senza sbocciare. Si apriranno, invece, quando, essendo stati distrutti gli altri germogli dall’uomo o dalle intemperie, la pianta si trovi in condizioni particolarmente difficili, che minacciano la sua vita.

Un seme può mantenersi vivo per anni, anche per secoli. Alcuni semi di pianta sensitiva sono infatti germogliati dopo sessant’anni. Semi di fagiolo dopo cento anni e altri di segale dopo centocinquanta anni.
In mancanza di umidità, però, nessun seme è in grado di germogliare.

Alcuni alberi possono giungere a età molto avanzata. Per esempio, il cipresso e il tasso possono vivere tremila anni, il castagno duemila, il pino settecento.
Le maggiori altezze raggiunte dagli alberi dei nostri boschi sono: abete bianco 75 m; larice, cipresso e pino 50 m.
In America, certe conifere come la sequoia gigante, superano i 120 m di altezza, i 15 m di diametro alla base e talvolta raggiungono i cinquemila anni di età.

Una palma che cresce in Brasile ha foglie enormi: circa 20 m di lunghezza e 10 m di larghezza. Altra foglia gigante è quella della Victoria Regia che galleggia sulle acque degli stagni e dei fiumi  dell’America tropicale. Ha la forma di una coppa di due metri di diametro.

I fuoriclasse della botanica

Ecco alcuni semi, fiori, frutti, piante ed alberi che sono veri e propri “campioni mondiali” di qualche specialità che indicheremo:
il seme più grosso: cocco
il fiore più grande: bolo
il frutto più voluminoso: turien
l’albero più alto: sequoia
l’albero più grosso: baobab
il legno più leggero: balsa
il legno più pregiato: ebano
la pianta più delicata: sensitiva
la pianta più ricca di olio: sesamo
la pianta che piange di più: vite
l’albero europeo più longevo: tiglio.

Le piante alimentari

Sono piante alimentari quelle che danno all’uomo foglie, frutti e semi utili al suo nutrimento. Alimentare vuol dire nutrire. L’uomo coltiva queste piante con molta cura e cerca di migliorarne la qualità e la quantità.
Esse popolano i campi, i frutteti, gli orti; fanno bella mostra di sè sui banchi del mercato e nelle vetrine dei negozi.

Il grano

In tutte le campagne d’Italia, in giugno, è facile osservare un campo di grano, che ci appare come un mare di spighe bionde. Gli steli, che prendono il nome di culmi, si piegano ed ondeggiano quando il vento soffia furiosamente. Essi resistono bene alle raffiche violente; cessato il vento, si rialzano come se nulla fosse accaduto. Anche se abbattuti al suolo, riescono a raddrizzarsi.
Perchè i culmi sono tanto resistenti?

Il culmo resiste meglio alle flessioni perchè è cavo. L’uomo, forse prendendo esempio dalle piante, ha imparato a usare i tubi per le sue costruzioni. Il culmo è diviso in tanti pezzetti, o segmenti, perchè un tubo corto resiste alle flessioni meglio di uno lungo.
Dai nodi dello stelo partono le foglie che lo avvolgono per un tratto. In alto, lo stelo termina con la spiga, composta di numerose spighette, difese da piccole lance, le reste. Ogni spiga porta dai trenta ai quaranta chicchi di grano.
Da noi, in Italia, il grano viene seminato in autunno. L’umidità della terra fa gonfiare il seme, in cui si può vedere una puntina, detta germe o embrione della nuova pianta.
Prima di tutto l’embrione forma una radichetta che si affonda nel terreno.
Poi si forma una fogliolina che ben presto spunta dal suolo.

In seguito si formano molte altre foglie e poi la spiga, che contiene i semi nutrienti che il sole fa maturare e imbiondire.
L’agricoltore coltiva il grano per la preparazione del pane e della pasta. Quando il sole di giugno ha maturato e indorato la spiga, il contadino miete il grano. Le spighe vengono trebbiate in una macchina che separa la paglia  e la pula dai chicchi, che cadono nei sacchi.

Il grano è portato al mulino ed i chicchi vengono ridotti in farina. La farina, mescolata con lievito, acqua e sale, viene impastata; la pasta è modellata in pagnotte che sono poste a cuocere nel forno.
Altra farina è utilizzata dai pastifici e trasformata in pasta alimentare.

Vedi anche:

Il granoturco

E’ alto più di due metri, ha un gambo robusto e grosse foglie ruvide. In cima porta un ciuffo di fiori e, dove le foglie si attaccano al gambo, si forma una pannocchia protetta da un cartoccio di foglie spesse. La pannocchia è formata da un torsolo, il tutolo, sul quale sono fissati centinaia di grani rotondi, di colore giallo rossiccio.
Quando la pannocchia è bionda viene raccolta, scartocciata e lasciata al sole perchè i grani finiscano di maturare. Poi è sgranata e i chicchi vengono macinati o usati interi per alimentare il pollame e il bestiame. Con la farina di granoturco si cuociono polente squisite.

Ma a quante altre cose serve il granoturco! Da esso derivano più di duecento prodotti. Si usa nella manifattura della carta, del sapone, dei bottoni, della colla, della tela cerata, delle vernici. Non basta: la radio, i telefoni, le gomme per automobili, l’industria dei gelati e dei fuochi d’artificio sono tutte tributarie del granoturco.

L’orzo e la segale

Appartengono alla stessa famiglia del grano. L’orzo ha uno stelo più breve di quello del grano e cresce in luoghi freddi. Il suo seme è usato come alimento per gli uomini e gli animali e per fabbricare la birra.
La segale ha uno stelo molto più lungo e pieghevole di quello del grano e una spiga più magra, più allungata. E’ coltivata nei paesi di alta montagna. Con la sua farina si impasta il pane scuro.

Il riso

E’ un cereale che cresce sotto l’acqua, nelle risaie, che sono terreni allagati. La pianta rimane nell’acqua fino a che lo stelo è alto circa un metro e porta la spiga matura. Essa è un ciuffo che contiene un gran numero di chicchi.
In Italia il riso è coltivato nella Pianura Padana.

Le piante da frutto

Quante piante da frutto prosperano nelle nostre campagne! A primavera, ecco le ciliegie, che ci giungono con le fragole di cui sono ricchi, oltre che i giardini, i boschi dei nostri monti.
A giugno maturano le albicocche dorate, a cui tengono dietro le pesche morbide e vellutate. Contemporaneamente matura il ribes rosso, acidulo, apprezzato per le conserve.
Le susine sono gustose e sane: la loro pianta non richiede troppe cure e cresce facilmente.
I bei poponi gustosi ed i grossi cocomeri ci dissetano nel cuor dell’estate.

Poi arrivano i fichi, saporiti e dolcissimi, ci avvertono che l’autunno è vicino con le sue mele e le sue pere.
L’autunno è anche la stagione dell’uva e delle noci, mentre, sui monti, si raccolgono le castagne.
Lungo le sponde dei nostri mari crescono gli aranci: i loro frutti spiccano fra il verde cupo del fogliame. Ad essi si accompagnano i gialli limoni, i grossi cedri ed i mandarini profumati.

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Il melo

Il melo ha foglie tondeggianti, seghettate ai margini. I fiori, bianchi all’interno e rosati all’esterno, hanno cinque petali e sono riuniti in mazzetti. I frutti hanno la polpa dolce e profumata e contengono semi molto piccoli.

Il ciliegio

Ha foglie ovali, seghettate ai margini. I bianchi fiori, riuniti in mazzetti, hanno un lungo picciolo. Il frutto contiene un nocciolo che racchiude il seme.
Anche il pesco e il susino hanno i semi racchiusi in un duro nocciolo.

Il fico

E’ un albero non molto alto, con rami contorti. Le foglie sono ampie e ruvide. I fiori sono racchiusi in quella specie di piccola pera che noi chiamiamo frutto e mangiamo quando è matura.
I veri frutti sono i granellini contenuti nel suo interno.

L’olivo

mosca olearia

E’ un albero che ama il sole e l’azzurro. Non importa che la terra in cui affonda le radici sia arida e pietrosa.
L’olivo è un albero che sa cercare con le profonde radici anche la minima goccia d’acqua. Il suo tronco è contorto e nodoso; gli anni della sua vita non si contano. Quanti anni vive un olivo? Esso vive centinaia di anni. E’ antico come i templi della Grecia, è vecchio come certi castelli in rovina. Molte volte il tronco dell’ulivo è scavato, sembra lì lì per morire. Ed ogni anno, invece, al soffio della primavera, appaiono i suoi fiori a grappolo che a poco a poco si trasformano in drupe, i suoi frutti gonfi di olio. Il tempo del raccolto dura tutto l’inverno. Le donne e gli uomini, con sacchi e ceste, si avviano verso gli oliveti.

Gli alberi aspettano gli uomini per cedere i loro preziosi frutti. Si adoperano pertiche, si battono con riguardo i rami. Sotto gli olivi sono distesi grandi lenzuoli per raccogliere i frutti che cadono e per metterci quelli che si sono staccati da soli dai rami. Le olive mature, di un bel violetto – nero, vengono poi portate all’oleificio, e da esse si estrae l’olio con macchine speciali: frantoi, torchi e filtri.

Le olive verdi vengono mangiate subito o messe in salamoia.
L’uomo fin dall’antichità ha ricavato un olio alimentare, oltre che dalle olive, dalle noci, dalle arachidi, dalle mandorle.

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Gli ortaggi

Gli ortaggi sono le piante alimentari che di coltivano nell’orto. L’orto è un terreno che si estende, di solito, vicino alla casa dell’uomo e può essere facilmente irrigato.
La famiglia degli ortaggi è molto numerosa; essi germogliano in ogni stagione, anche sotto la neve, e gli ortolani li inviano a ceste e a sacchi su tutti i mercati.

Tra essi ha particolare valore la pianta della patata, di cui consumiamo il tubero, ricco di una materia farinosa e nutriente detta fecola.
Così consumiamo il bulbo dell’aglio e della cipolla, la radice della carota e della barbabietola.

Altro ortaggio di notevole valore per la nostra mensa è il pomodoro, il cui frutto rosso e saporito viene consumato fresco o conservato sotto forma di salsa.
L’orto di dà anche i legumi che costituiscono un alimento gustoso e nutriente.

La carota

Le foglie della carota sono frastagliatissime e i fiori sono riuniti a formare una specie di ombrello. La radice ingrossata è per la pianta una specie di magazzino di sostanze nutritive. Proprio perchè contiene queste sostanze, noi mangiamo la radice.
Anche la barbabietola e la rapa hanno radici ingrossate che noi utilizziamo come cibo.

Il cavolo

Il cavolo ha foglie larghe e carnose, che costituiscono un ottimo alimento per l’uomo. Ha un fusto breve e una grossa radice.
Nell’orto crescono altre piante di cui noi utilizziamo le foglie: spinaci, insalata, prezzemolo , salvia.
Le foglie della salvia non ingialliscono e non cadono in autunno: la salvia è perciò una pianta sempreverde.

La patata

Ha fiorellini bianco – violacei raccolti in mazzetti. Il  fusto ha rami sotterranei ingrossati e carnosi, chiamati tuberi, ricchi di sostanze nutritive. Noi mangiamo i tuberi. Ogni tubero porta delle gemme, dalle quali può nascere una nuova pianta.

Anche la cipolla ha un fusto sotterraneo ricco di sostanze nutritive, il bulbo. Esso è la parte che mangiamo.
Forse sarà una sorpresa per molti ragazzi sapere che parenti della patata sono il pomodoro, la melanzana, il peperone e perfino il tabacco.

pomodoro peperone e tabacco

Qualcuno potrà dire: “Ma la patata ha i frutti sottoterra, mentre i suoi parenti li hanno sui rami”. Non è vero: anche la patata ha i suoi frutti sui rami: sono delle piccole bacche verdi che all’uomo non servono, anzi sono velenose.

Il fagiolo

Nell’orto, anche se piccolo, possiamo trovare un gran numero di piante utili all’uomo. Tra queste, una delle più diffuse è il fagiolo. Il seme del fagiolo è formato, oltre che dall’embrione, da due parti dette cotiledoni, dapprima unite, che si dividono appena la germinazione è incominciata. Il fagiolo rampicante ha bisogno di un sostegno; lo cerca e vi si attorciglia.

Le larghe foglie del fagiolo, assetate di luce, si dispongono in modo da ricevere i raggi solari. Nel luogo in cui stavano i fiori, si formano i frutti: i baccelli, entro i quali stanno i semi.
Il fagiolo ha diversi parenti, che fanno parte della famiglia delle leguminose: il pisello, che può essere consumato fresco, ma si conserva facilmente essiccato o anche cotto e inscatolato; la fava, che viene per lo più consumata fresca. Oltre a questi, sono parenti del fagiolo la lenticchia, la soia, il lupino, il glicine, l’arachide e diecimila altre piante.

Il pepe

Il pepe, la forte spezia che viene dall’Indocina e dal Siam, è fornito da alti alberi, di cui vi sono esemplari bellissimi in Sicilia. I frutti del pepe, distaccati ancora immaturi e disseccati, danno il pepe nero, mentre i frutti maturi, essiccati con parte della polpa, formano il pepe bianco, che è molto più forte.

Il caffè

E’ una pianta che è assai importante per l’economia del mondo. La sua patria originaria è stata l’Abissinia. Gli Arabi diffusero l’uso della bevanda di caffè: essi non potendo bere vino, perchè vietato dal Corano, ricorsero al caffè, che è il vino dell’Islam.

In Europa il suo uso divenne di moda alla fine del secolo XVII: a Venezia lo si beveva amaro, perchè si riteneva che l’amaro servisse a mantenere in giovinezza chi lo beveva.
Ormai il caffè è bevuto da per tutto: costituisce una bevanda stimolante, che vince la stanchezza ed acuisce la mente.

 

Le piante tessili

C’è un gruppo di piante che forniscono, nello stelo o nelle foglie, fibre adatte ad essere intrecciate e tessute: sono le piante tessili. Le loro fibre hanno lunghezza diversa e vario spessore, resistenza e flessibilità. Dalle fibre si estraggono i fili per la tessitura che, oggi, è fatta con telai meccanici molto perfezionati.
Sono piante tessili la canapa, il cotone, il lino e la iuta.

La canapa

canapa

La canapa ha uno stelo alto fino a due metri, ha foglie larghe come il palmo della mano e ciuffi di foglioline aguzze e ruvide.
Il contadino coltiva la canapa con molta cura, lavora profondamente il terreno e lo concima in abbondanza. La semina avviene in febbraio o marzo, e la raccolta in luglio e agosto.
Dopo il taglio, i fusti si lasciano essiccare per due o tre giorni. Poi vengono messi in vasche piene d’acqua (maceri): successivamente si sfilacciano e le fibre ottenute sono inviate nelle grandi fabbriche per la lavorazione industriale.
Queste fibre servono a fare tele, corde e spago. In Itali asi coltiva la canapa nell’Emilia, nel Piemonte, nel Veneto e in Campania.

Il cotone

cotone

Molti dei nostri indumenti sono di cotone. Che cos’è il cotone?
E’ una bella pianta che cresce nelle pianure di zone molto calde. Nella valle del Nilo, in Egitto, nel sud degli Stati Uniti d’America e in India è molto abbondante. In piccole quantità viene coltivato anche in Italia, in Sicilia.
La pianta del cotone è piuttosto alta; può raggiungere anche i due metri. Quando i suoi frutti sono giunti a maturazione, si aprono e mostrano i semi ricoperti di un candido fiocco. Al momento della raccolta, i fiocchi vengono messi in sacchi ed inviati ai cotonifici. In queste fabbriche il cotone viene lavorato; da esso si ottengono fili lunghissimi, che apposite macchine avvolgono in grosse matasse. In seguito, altre macchine tesseranno il filo col quale si otterranno tessuti di ogni genere.

Il lino

lino

E’ una pianta alta una sessantina di centimetri. Nel periodo della fioritura, la pianta del lino si copre di piccoli fiori di color azzurro pallido e il campo assomiglia a una distesa d’acqua.
Dal fusto del lino si ricavano le fibre che, filate, torte e intrecciate, sono usate per tessere tele assai fini, trine, merletti.
Il seme del lino è fortemente oleoso.

Le piante industriali

Molti alberi popolano i boschi della collina e della montagna o fiancheggiano le sponde dei fiumi; essi offrono il loro tronco al lavoro dell’uomo e al riscaldamento della sua casa. Questi alberi producono legno per mobili, legname da costruzione, legna da ardere, pasta di legno per la produzione della carta.
Il noce e il faggio offrono legno pregiato per mobili; il rovere ha legno adatto per i pavimenti; il pioppo produce legno per la preparazione di compensati e di cellulosa; l’acacia, l’olmo, il gelso danno legna da ardere.

Le conifere

Appartengono a questa classe gli alberi che producono frutti duri, a forma di cono: le pigne. Sono il pino, il larice, l’abete. Essi crescono sulla montagna; una specie di pino, il marittimo, ha la chioma a forma di ombrello e vive lungo le coste italiane.
Questi alberi hanno foglie trasformate in sottili aghi verdi; dai loro tronchi cola una sostanza profumata: la resina.
Con il tronco dell’abete e del larice si preparano travature e serramenti.

La quercia

La quercia è un albero rude e forte che si innalza lento, vestito di una scorza ruvida, ma che custodisce un legno che dura eterno e resiste alle insidie del tempo. La quercia è nel fiore della sua bellezza quando ha, almeno, un secolo di vita; ed è bellissima quando è tre, quattro volte centenaria.

Piante che guariscono

Non si può avere un’idea di quante sono le piante dai cui semi o fiori o frutti o radici si ricavano sostanze medicinali preziose per la salute dell’uomo; anche da quelle che sono velenose, purchè se ne usi il succo con molta discrezione.
Per esempio c’è una pianta chiamata belladonna le cui bacche sono velenosissime; ma da esse si ricava un liquido che, preso in poche gocce, aiuta la cura di molte malattie; non solo, ma serve anche a dilatare la pupilla degli occhi, se vi si lasciano cader due o tre gocce, in modo che l’oculista possa meglio osservare chi ricorre a lui perchè ha la vista debole.

Dalla corteccia dell’albero di china si ricava un’altra sostanza preziosa che si usa soprattutto per confezionare il chinino, che abbassa la febbre ed un tempo era indispensabile per la cura della malaria.
In India cresce una pianta alta fino a sette metri, che da noi non raggiunge i due metri di altezza, il ricino.
La modesta camomilla, che cresce come una margherita nei nostri orti dà, bollita, un infuso che aiuta la digestione e il sonno; e così si preparano infusi con le foglie di mente, di timo, di malva. Taluni gradevoli, taluni no, ma tutti balsamici.
E, d’inverno, quante volte la mamma ha preparato quella specie di polentina fatta con i semi di lino, racchiusa in una pezzuola e posta calda calda sul petto per sgombrarlo da qualche brutto catarro? E il catarro, le bronchiti e tanti altri mali delle vie respiratorie si curano con le gocce di eucalipto; l’eucalipto è una grande pianta che cresce in India e nei paesi che le sono vicini.

Dalla radice di una pianta detta liquirizia si ricava un altro succo tanto utile; non serve solo a fare dolci, ma anche a preparare pastiglie per il mal di gola perchè ha la proprietà di ammorbidire le vie respiratorie.
Oggi molte medicine sono preparate esclusivamente con prodotti chimici, fabbricati nei laboratori, ma una volta quante malattie si curavano solo ricorrendo alle erbe, alle foglie, alle piante; decotti, infusi, distillati erano comuni in tutte le case. Tutte queste piante così benefiche per l’uomo hanno un nome: piante officinali.

Le piante grasse

Sono piante originarie di zone dove le piogge sono rare. Hanno il fusto verde, capace di conservare l’acqua assorbita dalle radici durante le piogge, per utilizzarla nei periodi di siccità. Anche le loro foglie si sono trasformate in spine per non disperdere l’acqua.

Le alghe

Anche sott’acqua vivono alcune pianticelle: le alghe, che formano sul fondo marino meravigliose praterie, macchie, radure e foreste. Tra queste strane piante vivono moltissimi pesci e animaletti che si nutrono di esse, vi si nascondono e vi depositano le uova.
Alcune alghe sono sottili come capelli, altre larghe e ondulate come nastri, altre disposte a ventaglio e a ciuffo. Ci sono alghe rosse, verdi, brune. Ci sono alghe piccolissime che l’occhio umano non distingue e che vivono sospese nelle acque. Ce ne accorgiamo soltanto quando si trovano in grande quantità, perchè fanno apparire torbide le acque.

Le piante della strada

Un mondo meraviglioso, sconosciuto a moltissimi, ci offre persino la strada della città dove attorno allo zoccolo di un lampione, nello spigolo del marciapiede spunta un filo verde, un ciuffo di fiorellini: le erbacce, le più umili tra le creature che vivono sulla terra. Ma lo stesso filo d’erba, per quanto piccolo possa essere, è una di quelle meraviglie che l’uomo non è riuscito ancora a decifrare completamente. Anche le altre erbe della strada hanno una loro storia, le loro caratteristiche.

La lattuga selvatica è addirittura un indicatore geografico. Le sue foglie, esposte al sole, sono costantemente orientate in direzione Nord – Sud. In questo modo i loro lembi ricevono solo di striscio i raggi cocenti del mezzogiorno.
La poa è l’erbetta che annuncia per prima, col suo tenue verde, l’arrivo della primavera. Questa pianta occhieggia al sole di ogni strada, a qualsiasi altitudine, resistendo al calpestamento continuo. La più audace è senz’altro la petacciola che sfida, con le foglie tenaci, persino le ruote dei carri spingendosi fino al centro della carreggiata.

Altre erbe, come la malva e la stessa ortica, sono ben note come erbe medicinali. Il fieno stellino munisce i semi di gancetti che si attaccano a tutto ciò che li avvicina; il dente di leone ha invece armato i suoi semi di un paracadute per farli volare lontano.
La sanguinella, dalle foglie sottili, si difende dal calpestio dei passanti, stando aderente al suolo.

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Le piante carnivore

Le piante carnivore, o insettivore, costituiscono una delle parti più interessanti e più strane dell’immensa flora terrestre. Si tratta, come il nome stesso indica, di piante che si nutrono di piccoli animali, per lo più insetti o minuscoli crostacei, dai quali utilizzano le sostanze loro necessarie, ad esempio l’azoto, che non possono trovare nell’ambiente in cui vivono.
Infatti crescono generalmente in luoghi umidi, acquitrinosi o sono piante acquatiche: solo alcune abitano terreni sabbiosi o rocciosi.

Dato il singolare modo di nutrizione, esse sono fornite di speciali dispositivi per imprigionare la preda e producono sostanze dette enzimi che permettono la digestione e quindi l’assimilazione dell’animale catturato.
Gli apparati per la cattura non sono altro che foglie trasformate in organi cavi (ascidi) di vario aspetto, simili ad urne o a vescicole, così da essere perfettamente adatte alla nuova funzione. La parte più interessante dunque di questi vegetali sono le foglie, dall’apparenza innocua, che si tendono simili a tentacoli, per catturare l’incauto insetto.
Queste piante carnivore prosperano nei nostri paesi come in quelli tropicali, e ve ne sono di moltissime specie, circa cinquecento; ma qui parleremo delle più interessanti.

Bellissima è la Nepente, pianta rampicante delle foreste indonesiane; la parte terminale delle sue foglie costituisce un ascidio a forma di urna ricoperta di piccoli peli, munita di coperchietto e colorata vivacemente. La natura, così saggia e giusta nel disporre l’ordine delle cose, ha donato a queste foglie, nell’orlo dell’ulna, sostanze zuccherine che attirano gli insetti verso quell’irresistibile dolcissimo cibo. Essi si posano, ignari della fine crudele che li attende, e succhiano avidi lo zucchero, ma la foglia muove i peli come minuscoli tentacoli e l’insetto vi resta inesorabilmente impigliato, scivola nel fondo dell’ulna, dove il liquido secreto della pianta stessa prepara il processo di digestione.

L’Erba vescica, invece, che è una pianta acquatica priva di radici,  ha foglie trasformate in piccole vesciche, vere e proprie trappole per gli incauti animaletti che vi penetrano.

E stranamente belle, ma piene di insidie, sono le foglie della Drosera, le cui tre specie Drosera rotundifolia, intermedia e longifolia sono molto diffuse anche da noi, specialmente nelle torbiere di montagna. Le foglie,rotonde od allungate, di un bel verde, sono ricoperte da numerosi e lunghi tentacoli rossi, le cui estremità secernono una sostanza vischiosa, rifrangente la luce, che appare come una gocciolina di rugiada. L’insetto, richiamato da quella multicolore trasparenza, vi si posa e subito rimane invischiato, mentre i tentacoli, lasciato ormai il loro aspetto innocuo e bellissimo, si curvano su di lui e lo soffocano.

Terminato il processo di digestione, i tentacoli ritornano nella posizione primitiva, pronti ad attirare altri animaletti, con spietata ed incosciente crudeltà.
Un’altra interessantissima pianta carnivora è la Dionaea muscipola, comunemente detta “piglia – mosche”. E’ un’erba alta circa 20 centimetri, che cresce nell’America settentrionale e le cui foglie sono dotate di una sensibilità notevolissima. La lamina fogliare, sostenuta da un picciolo spatolato, ha i margini provvisti di denti lunghi e acuminati: essa è divisa dalla nervatura principale che funziona da cerniera, in due tempi mobili. Su ciascuno di essi si trovano, oltre a numerose ghiandole, tre setole, che stimolate dal contatto di piccoli animali, fanno avvicinare i due lembi con movimento brusco e rapido, cosicchè i denti marginali si incastrano uno all’altro e la preda resta prigioniera.

E cento e cento altre piante, di apparenza strana e diversa, che qui sarebbe impresa ardua elencare, vivono sui monti, negli acquitrini, tra le misteriose folte vegetazioni tropicali. Ma ognuna ha in comune l’istinto crudele di catturare le piccole prede, ragione del loro nutrimento e della loro perpetuazione.

Piante viaggiatrici

Anche le piante viaggiano, e vanno addirittura da una parte del mondo all’altra.
Il riso, col quale la mamma prepara la saporita minestra, nacque in India; di là fu trapiantata nell’Estremo Oriente: in Cina e in Giappone, ove divenne il cibo preferito di questi popoli. Molto più tardi, e precisamente nel 1468, giunse anche in Europa, portato da alcuni mercanti italiani Il primo riso fu da noi coltivato nella pianura di Pisa.

Quasi lo stesso viaggio del riso fecero gli agrumi. Solo che, mentre il riso scelse le umide pianure, gli agrumi scelsero le coste ben soleggiate del Mediterraneo. Nacquero essi pure in India, poi si diressero nell’Estremo Oriente. Primo ad arrivare in Europa fu il cedro, che anche i Romani adoperavano; poi arrivarono le piante di limone e di arancio amaro, portate dagli Arabi intorno all’anno mille; infine, dopo altri cinquecento anni i Portoghesi trapiantarono nel Mediterraneo anche l’arancio dolce, dai bei frutti succosi.

Ma la pianta più girellona è certo quella del caffè. Essa nacque nelle montagne dell’Abissinia e di lì passò, ma non si sa ne quando ne come, in Arabia. In Arabia fu anzi preparata la prima tazza di caffè per merito di un pastorello, attento osservatore delle sue pecore. Egli aveva notato, infatti, che le sue miti pecore diventavano irritate, belavano, restavano sveglie la notte, quando avevano mangiato i frutti di una certa pianta. Provò a cogliere quei frutti, ne fece un infuso e così nacque la prima tazza di caffè. La bevanda piacque moltissimo agli Arabi ed ai Turchi che ne fecero subito grande uso; da essi lo conobbero i mercanti veneti, e vollero introdurne l’uso anche nella loro città, dove aprirono la prima bottega del caffè. Ma da principio nessuno voleva bere quell’amaro miscuglio (allora non c’erano le macchine espresso, e lo stesso zucchero era un genere rarissimo venduto dai farmacisti, come medicina), ma poi piacque, e nessuno ne potè fare a meno.

Nel 1705 arrivò in Europa anche la prima pianta di caffè: la regalò un olandese al re di Francia Luigi XIV, Abituata ai climi caldi, non avrebbe potuto sopravvivere all’inverno di Parigi, e allora il re pensò di farla viaggiare ancora, mandandola nientedimeno che in America, nel suo possesso della Martinica. L’affidò al cavaliere Declieux che fu davvero compito cavaliere, e protesse la pianta, che minacciava ad ogni momento di morire, come se fosse stata una principessa di sangue reale. Basti dire che, quando a bordo mancò l’acqua, il fedele cavaliere rimase senza bere, pur di dissetare la sua protetta. Così essa giunse ancora viva alla Martinica, che è un’isola dell’arcipelago delle Antille; e lì riprese forza, crebbe, mise al mondo figlioli, nipoti e pronipoti a migliaia e migliaia.

Le immense coltivazioni americane di caffè ebbero tutte origine da quella prima piantina viaggiatrice, salvata dal buon Declieux.
Il Nuovo Mondo ci aveva già regalato molte piante utilissime, prima che il caffè vi sbarcasse. Lo stesso Cristoforo Colombo, insieme con i sigari degli indigeni, aveva portato in Spagna i chicchi del granoturco, che dà il buon pane dei poveri negli anni di carestia.
Più tardi gli Spagnoli trovarono in Cile la patata, e la mandarono in patria. Ma nessuno voleva cibarsene, ne in Spagna ne in Inghilterra ne in Francia. Ci vollero decine e decine di anni prima di convincere la gente a nutrirsene, e dovette mettersi di mezzo un re di Francia, che fece servire patate ai suoi pranzi, e portò appuntati sulla giacca mazzetti di fior di patata.
Allora i cortigiani, per far cosa gradita al re, mangiarono anch’essi patate; quando le persone del popolo videro che i nobili mangiavano patate, le vollero anche loro, e così la patata entrò, come prezioso cibo, in tutte le case: in quelle ricche come in quelle povere.

Altri arrivi si ebbero in quello stesso tempo: arrivarono i pomodori dal Perù, e da altre regioni varie qualità di fagioli.
E insieme con le piante arrivò anche un volatile dalla carne saporita: il tacchino, che gli Aztechi del Messico già avevano addomesticato. (R. Frattina)

Piante secolari

Non tutte le specie di piante vivono, naturalmente, lo stesso numero di anni: vi sono piante, soprattutto quelle delicate dei fiori, che hanno vita assai breve; ve ne sono invece altre la cui vita dura lunghi anni e anche secoli. Fra queste ultime poi vi sono piante eccezionali, quasi fossero i campioni della loro specie, la cui vita dura per un tempo che lascia sbalorditi.

Vicino a Gerusalemme, nell’orto dei Getsemani, vi sono ulivi che hanno più di duemila anni.  Sempre in Palestina, sulle pendici del Libano, alcuni cedri di età incalcolabile hanno raggiunto alla base dei loro tronchi una circonferenza di ben dodici metri.

In Sicilia, fino a pochi anni fa, si ammirava un castagno detto dei cento cavalli perchè la tradizione narrava che un re con cento cavalieri avesse trovato ristoro sotto le sue enormi fronde. E tanti avrebbe potuto accogliere infatti; misurava, solo di tronco, sessanta metri di circonferenza!

In America, nella California, ha sempre destato la più viva curiosità un albero che per la sua gigantesca proporzione è stato battezzato Mammut. Si dice che abbia addirittura più di seimila anni di età.
Un tronco altrettanto gigantesco fu portato una volta a un’esposizione di San Francisco, in America: il suo interno era stato svuotato e vi si potè tenere un concerto, con tanto di pianista davanti a un piano a coda e quaranta invitati in comode poltrone!

La terra
Dentro la terra c’è un qualche cosa che nessuno conosce, che si trasforma nel tronco duro e legnoso degli alberi, nella polpa morbida e zuccherina delle fragole, in quella farinosa del grano, nel nettare dei fiori, nella sostanza carnosa del fungo.
E’ un qualche cosa che sale su dalla terra per le scaglie, per i tronchi nodosi e contorti e si trasforma nel profumo delicato dei fiori, nel sapore dolce dell’uva, nel succo amarognolo delle prugne, in quello bruciante dell’ortica, in quello untuoso delle olive.

Attraverso quali filtri, in quali misteriosi laboratori si fabbricano le combinazioni chimiche che danno origine a queste sostanze? E come tutto ciò sta rinchiuso nel mistero della terra umida, scura, friabile, che non sa di nulla?
Quando penso e osservo tutto ciò, mi pare impossibile che io sia sulla terra, piccino piccino, a vedere tali cose grandi.

Piante parassite

Ecco una pianta che non trae il nutrimento dal terreno: è il vischio, che affonda le sue radici sui rami di alcuni alberi, rubando loro la linfa già elaborata: è una pianta parassita.

Nasce una pianta

Prendiamo un seme di fagiolo, pianta tra le più comuni e conosciute. Mettiamolo in un bicchiere contenente un po’ d’acqua. A poco a poco l’involucro tenace che proteggeva il seme si è screpolato e ha lasciato vedere due piccoli ammassi farinosi, i cotiledoni, che serviranno ad alimentare la nuoca pianticina.
Guardiamo bene il nostro seme di fagiolo: non si possono già riconoscere una radichetta, un fusticino, una piccola gemma?
Nel piccolo seme non c’è dunque già tutta la pianta? Proprio così: anche la più gigantesca pianta dei monti e delle foreste è già tutta contenuta nell’umile seme.

La germinazione

Se poniamo dei semi di fagiolo a poca profondità in un terreno umido e areato, vedremo che a poco a poco si svolgerà una radichetta, che si copre di peli succiatori e si ramifica. Apparirà poi il fusticino che cerca subito la luce, mentre i cotiledoni, dopo che hanno offerto sostanze nutritive alla pianticina, appassiscono e cadono.
Infine ecco le foglie che si disporranno in un modo singolare  sul fusto che è erbaceo e ha bisogno di avvolgersi ad un sostegno.
Il fiore del fagiolo comprende il calice, la corolla, gli stami e il pistillo: è dunque un fiore completo.
Il calice è composto, come tutti fiori in cui esso è presente, dai sepali; la corolla è composta dai petali.
Allorchè il frutto del fagiolo è maturo, ecco che si forma il baccello che ha la forma di  un sacchettino dalle pareti assai resistenti, nel cui interno si trovano i semi, o fagioli.

Il risveglio della pianta

Dopo circa quattro mesi dalla germinazione, la nostra pianta di fagiolo incomincia ad ingiallire, dopo che ha prodotto i fiori ed i frutti.
Poi, a poco a poco dissecca e muore.
Il ciclo del fagiolo si compie in breve tempo: si dice che il fagiolo è una pianta annuale.
Ma una forza misteriosa è racchiusa nei semi: basterà che siano messi nella buona terra perchè diano origine a nuove piante.

Esercizi di ricerca e di sperimentazione

Prova a far germogliare tra due pezzi di carta imbevuta d’acqua dei semi: le radici appariranno coperte di piccolissimi peli.
Qual è la loro funzione? Come si chiamano?
Prova a togliere dal terreno una piantina: vedrai che i peli radicali sono coperti di particelle terre fitte. Anche se tieni immersa a lungo la piantina nell’acqua on potrai liberare le sue radici si quelle particelle di terra.
Sembra che vi siano incollate.
Ricorda che le funzioni delle radici sono quelle di alimentare la pianta e di ancorarla saldamente al terreno.
Studia ancora la funzione dei peli succiatori. Poni in un bicchiere contenente acqua una piantina e mettine un’altra in un bicchiere contenente olio. La pianta che la zona pilifera nell’acqua continuerà a vegetare: l’altra invece come si presenterà dopo poco tempo?
In che modo i peli succiatori assorbono dal terreno l’acqua contenente i sali nutritivi in essa disciolti?
Fai la seguente esperienza e saprai rispondere bene.
Procurati una membrana semipermeabile (un po’ di cellophane) e metti in essa un poco di colla da falegname sciolta. Lega poi la membrana ad un tubo di vetro lungo 30 cm ed avente il diametro di mezzo centimetro. Questo apparecchio da te costruito si chiama osmometro.
Prova ad immergere e a mantenere l’osmometro in acqua colorata. Vedrai che l’acqua salirà nel tubo di vetro passando attraverso i pori della membrana.
Questo passaggio dall’esterno all’interno della membrana si chiama fenomeno di osmosi.
Com’è l’estremità della radice delle piante? Non somiglia la cuffia al puntale di un bastone? Osservane una con l’aiuto di una buona lente.
Perchè è più resistente. Quale compito ha?
Che cosa emettono i peli succiatori della pianta?
Prova a lasciare per alcuni giorni su una lastra levigata di marmo una pianticella in germinazione. Vedrai l’impronta che vi lascerà la zona pilifera, che ha corroso la superficie del marmo.
I peli succiatori della pianta emettono acido carbonico, che ha il potere di sciogliere il carbonato di calcio, che si trova nel terreno, fornendo così il calcio utile alla nutrizione della pianta.
Prova ad immergere un ramo di giglio bianco in una vasca in cui ci sia dell’acqua colorata. Come diventeranno dopo qualche giorno i candidi fiori del giglio? Perché? Puoi fare lo stesso esperimento con un fusticino legnoso. Guardalo bene dopo aver immerso immerso in acqua una parte di esso: osserva l’alone circolare colorato al centro del fusto.
Perchè un albero muore, se si toglie un anello di corteccia?
La clorofilla ha un immenso valore per la vita degli animali e delle piante: senza clorofilla non di sarebbe vita nella terra. Il processo clorofilliano non si produce nel buio.
Prova a seminare del frumento in due vasi pieni di terra. Uno di essi lo terrai al buio, l’altro alla luce. Come saranno le pianticelle cresciute al buio? Esponendole alla luce rinverdiranno?
Il colore verde è più vivo nella pagina superiore o in quella inferiore della foglia? Perchè?
Pesta in un mortaio delle foglie verdi di una pianta: metti poi la poltiglia ottenuta in un bicchiere contenente alcool.
Come si colorerà l’alcool? Quale sostanza  si è disciolta nell’alcool?
Copri una parte di una foglia con della stagnola e lasciala attaccata ala pianta per tutta la giornata. Quando è giunte la sera, stacca la foglia e togli la stagnola: immergi poi la foglia in una soluzione di iodio. Noterai subito che la parte non coperta dalla stagnola assumerà il colore blu, perchè contiene amido, mentre la parte che durante il giorno era coperta dalla stagnola rimane incolore.
Ciò dimostra che la funzione clorofilliana si svolge di giorno sotto l’azione della luce e del calore del sole.
In estate una grande quantità di vapore acqueo passa dalle foglie nell’aria: pensa che un solo albero in un giorno emette fino a cento litri d’acqua!
Come si chiama questa attività della pianta?
E’ utile per la nostra vita?

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Materiale didattico sul FIORE

Materiale didattico sul FIORE per bambini della scuola primaria.

I fiori

Il gambo dei fiori si chiama peduncolo.

sezione di un fiore

La parte più bella ed appariscente è la corolla, composta da foglioline variamente colorate che si chiamano petali.

petalo

Al di sotto della corolla vi è il calice, le cui foglioline verdi, dette sepali, sono più piccole dei petali. Il calice serve a proteggere il fiore quando è ancora in boccio.

sepali

Nell’interno della corolla vi sono gli stami, filamenti sottili che terminano in un rigonfiamento pieno di polline, una polverina di colore giallo.

stami

Ancora nell’interno della corolla si possono notare uno o due pistilli (simili a bottigliette), la parte più larga dei quali è l’ovario.

pistillo

Aprendo delicatamente l’ovario troviamo gli ovuli (simili a piccole uova), che daranno vita ai semi.
Quando il polline entra nell’ovario, i petali e gli stami cadono, l’ovario si ingrossa ed a poco a poco si trasforma in frutto.

Com’è fatto un fiore

Per il lavoro di ricerca

– Quali parti puoi distinguere nel fiore? Tali parti esistono sempre in ogni fiore?
– Che cos’è il polline e a che cosa serve?
– Che cosa contiene l’ovario?
– A che cosa servono gli ovuli?
– Che cos’è l’impollinazione e come può avvenire?
– Quando è avvenuta l’impollinazione che cosa accade?
– Che cos’è il seme e a che cosa serve?
– Perchè i fiori sono tanto diversi l’uno dall’altro?
– Tutte le piante fioriscono?
– Come si chiamano le piante che hanno fiori e frutti e che quindi si riproducono per mezzo di semi?
– Come provvedono a riprodursi le piante che non hanno fiori? Quali sono le principali di esse?
– Quali sono i più comuni fiori dei nostri prati e dei nostri giardini?
– Generalmente i fiori si dischiudono di giorno; ve ne sono alcuni però che di giorno, quando c’è troppa luce, si chiudono. Ne hai già sentito parlare?
– Altri fiori si chiudono appena toccati accartocciando i petali, come per proteggersi. Ne conosci qualcuno?
– Che cosa sono le serre?

A che cosa servono gli ovuli e i granelli di polline?

Gli ovuli sono gli organi destinati a trasformarsi in semi. Perchè questa trasformazione avvenga occorre, però, che gli ovuli si incontrino con un granello di polline.

tipi di granuli di polline ingranditi

Il polline viene prodotto dalle antere. Esso dovrà perciò venir trasportato fin sulla punta del pistillo: da qui potrà scendere fin nell’ovario dove incontrerà gli ovuli. Allora si formeranno i semi, ed il fiore avrà adempiuto il suo compito; infatti a questo punto il fiore appassisce e cade.

sezione schematica di un fiore

Bisogna ricordare una importante legge che regola l’impollinazione dei fiori: in genere il fiore, perchè dai suoi semi possa nascere una pianta sana e vigorosa, deve essere fecondato con polline prodotto da un altro fiore.
Ma chi provvede a portare il polline dall’uno all’altro fiore?

Ciascuna famiglia di piante ha scelto il suo modo per provvedere a questo trasporto: c’è chi si serve del vento, chi dell’acqua e chi dell’opera di diversi animaletti, generalmente insetti, ma in qualche caso anche uccelli e molluschi.

Impollinazione

Perchè possa aver luogo una impollinazione è necessario che il polline di un fiore venga portato sul pistillo di un altro fiore della stessa specie.

Impollinazione per mezzo di insetti

Molti fiori nel punto più profondo della loro corolla secernono il nettare, un succo sciropposo, dolce e profumato, che è un ottimo cibo per gli insetti. L’insetto, per nutrirsi, vola sul fiore e si intrufola fra i petali; nel raggiungere le goccioline di nettare sfiora le antere e impolvera di granelli di polline il suo corpicino peloso.

Quando ha succhiato tutto il nettare di un fiore l’insetto si leva a volo e va in cerca di un altro fiore della medesima specie per trovare altro nettare dello stesso sapore. Anche qui, intrufolandosi nella corolla, urta gli organi del fiore e finisce col depositare sulla punta appiccicosa del pistillo qualche granello del polline che reca addosso. Il polline può venire così a contatto con gli ovuli contenuti nell’ovario e fecondarli.

Gli insetti sono dunque dei diligenti corrieri di trasporto di polline; compiendo questo servizio essi compensano i fiori del nettare che viene offerto loro ad ogni sosta.

Impollinazione per mezzo del vento

Altre piante producono fiori piccoli, privi di corolle, di odore, di nettare. Esse si affidano per la fecondazione al vento.
Un esempio tipico è la quercia: preleviamo in aprile – maggio, quando le foglie stanno formandosi, un rametto; noteremo dei lunghi filamenti. Se osservati con la lente, noteremo in essi dei ciuffetti di stami con le loro antere.

Piogge di polline

I pini e le conifere in genere sono fecondati dal vento. Essi, quando è l’epoca di maturazione dei loro fiori maschili, lasciano cadere il polline in quantità così grande che nelle pinete si assiste ad una vera e propria pioggia di polline.

La varietà dei fiori

La varietà dei fiori è veramente grande.
Ci sono fiori con petali nettamente distinti (rosa, garofano); altri con petali tutti saldati insieme, come nelle campanule e nelle primule; fiori con petali diversi l’uno dall’altro e disposti in modo del tutto particolare; altri con petali e sepali dello stesso colore (tulipano).

Spesso i fiori sono irriconoscibili: assumono l’aspetto di animali, di foglie; alcuni sono snelli e armoniosissimi, atri tozzi e pesanti; sono piatti o cilindrici o allungatissimi, hanno forma di bottiglia, di tubo, di croce, di mano aperta, di pantofola, e altro ancora.

Naturalmente, viene subito spontanea una domanda: perchè la natura ha creato fiori tanti diversi, a volte tanto strani? Una spiegazione completa non si può dare, ma una risposta abbastanza sensata è questa: per necessità.
In natura, tutto quello che chiamiamo bellezza, stranezza, non è che necessità. Le forme strane, i colori fantastici, gli odori repellenti o soavissimi non sono stati creati per nostra meraviglia e diletto, ma rispondono a bisogni ben precisi della vita vegetale. La natura non fa nulla di inutile.
Quali sono queste esigenze, queste necessità? Evidentemente quelle connesse con la vita e la funzione del fiore.
Il fiore è un organo della pianta a cui è affidato un compito importante e delicato: quello di produrre il seme perchè la pianta possa riprodursi.

Quindi le corolle sgargianti, le forme strane, le bizzarrie (o meglio, quelle che a noi sembrano forme strane o bizzarre), i profumi intensi servono a favorire in tutti i modi quella importantissima funzione.
Servono quindi ad attirare gli insetti; a costringerli a penetrare nell’interno e magari ad agitarsi, a dibattersi per caricarsi ben bene di polline; servono per respingere gli animali non graditi; per riparare il preziosissimo polline dalla pioggia e dalla polvere, e per altri motivi ancora.

Le fanerogame

Fiori e frutti, per quanto strano possa sembrare, non sono altro che foglie trasformate. E trasformate per la più importante delle funzioni, quella di riprodursi. Non tutte le piante possiedono fiori; non ne hanno le alghe, ad esempio, nè i funghi: anch’essi provvedono naturalmente a perpetuarsi, ma lo fanno in modo diverso, mediante delle piccolissime spore.

alghe
fungo

La massima parte delle piante che cadono sotto i nostri occhi si riproducono mediante i fiori  e prendono perciò il nome di fanerogame  (piante a nozze visibili).

Curiosità: il linguaggio dei fiori

Per chi volesse esprimere con i fiori un proprio sentimento, ecco il significato attribuito ad alcuni di essi:
gelsomino – amabilità
violetta – modestia e bellezza d’animo
magnolia – simpatia
viola del pensiero – ricordo
geranio rosso – stupidaggine
miosotis – non ti scordar di me
narciso – egoismo
bocca di leone – non ti fidare
papavero rosso – indifferenza
margherita – ci penserò.

La serra

La primavera è la stagione in cui i semi che i contadini hanno seminato nei campi crescono, perchè oltre alla terra, che dà nutrimento, trovano tutte le cose di cui hanno bisogno: acqua, perchè piove molto; luce, perchè i giorni di allungano; caldo, perchè il sole riscalda più che in inverno.

Si possono far crescere le piante anche in inverno, se riusciamo a dare alle piante tutto ciò di cui hanno bisogno, cioè nutrimento, acqua, caldo, luce, se cioè facciamo in casa nostra una primavera artificiale.

Dove fa freddo, le piante si possono far crescere nelle serre. Una serra è una grande costruzione con le pareti ed il soffitto di vetro. Attraverso il vetro entra la luce del sole, che serve alle piante; ma il freddo non riesce ad entrare, inoltre ci sono stufe per scaldare le piante. Il calore della stufa non esce fuori, perchè il vetro lascia entrare la luce, ma non lascia uscire il caldo.

I  fiori guardano il sole

Un rapporto misterioso lega le piante alla luce e al calore. La loro attività, si sa, è in funzione delle stagioni e delle variazioni della temperatura. Alcune sembrano conformarsi al cammino apparente del sole e seguirlo nel suo percorso in cielo: tale è il caso del papavero e del girasole, la cui grossa testa d’oro presenta sempre la sua ampia faccia all’astro del giorno. Molte, infine, variano le posizioni di veglia e di sonno in relazione con l’alternanza del giorno e della notte: ciò è rilevabile particolarmente in alcune piante delle leguminose, come il trifoglio, l’erba medica, l’acacia, il fagiolo e soprattutto la sensitiva.

All’avvicinarsi della notte, il trifoglio e l’erba medica inclinano le foglioline, portando le loro pagine superiori in contatto le une con le altre. Nel fagiolo, nell’acetosella, nel lupino, nella robinia e in alcune altre piante di questo genere, le foglioline, invece, si abbassano e accostano le loro pagine inferiori.

Nella sensitiva (Mimosa pudica), i movimenti di veglia e di sonno sono molto più complicati. Questa pianta, come abbiamo visto, ha le foglie composte di foglioline pinnate, situate lungo quattro piccioli secondari retti a loro volta da un picciolo principale. Venuta la sera, le foglioline si ripiegano verso l’alto, abbracciandosi a due a due con le loro pagine superiori e ripiegandosi sul picciolo secondario. Nello stesso tempo, il picciolo principale si abbassa e si inclina lungo lo stelo, trascinando così il resto della foglia; verso le otto della sera, il movimento di discesa è terminato. Il riposo è breve perchè, a partire dalle dieci della sera, il picciolo principale comincia a rialzarsi e prima dell’alba ha superato la linea orizzontale, i piccioli secondari divergono, le foglioline si piegano e la foglia intera riprende la posizione di veglia, che conserve poi durante tutta la giornata. Fatto curioso: se si sopprimono artificialmente i periodi alternati del giorno e della notte, cioè di luce e di oscurità, sottomettendo le sensitive a una luce continua, le fasi di attività e di riposo, di veglia e di sonno, persistono ancora per un certo periodo. Abbiamo qui un sorprendente fenomeno di memoria organica, una specie di abitudine acquisita della pianta, che essa può perdere solo gradatamente.

Anche lo sbocciare dei fiori è legato, il più delle volte, all’alternanza del giorno e della notte e, in generale, alle vicissitudini luminose o termiche.

L’orologio dei fiori

Flora, la dea della primavera, che è stata spesso rappresentata nella pittura romana come una giovane donna adorna di fiori, ha dato il suo nome al complesso delle piante spontanee e coltivate di una certa regione. Questo gentile… dono, se così possiamo chiamarlo, è opera di un famoso naturalista svedese del XVIII secolo, Carlo Linneo, il quale usò per primo con questo significato il nome di Flora in una sua opera.

Linneo ha fatto anche qualcosa d’alto, ha donato a Flora… un orologio. Egli cioè ha stabilito una specie di orologio, secondo le ore in cui si schiudono o si chiudono numerosi fiori, dai più mattinieri, che si aprono prima dell’alba, ai più tardivi, che spiegano le loro corolle all’arrivo della notte. Tra  i fiori indicati da Linneo ne abbiamo scelti alcuni e abbiamo ricostruito un orologio, non completo, ma sufficientemente indicativo:
convolvolo delle siepi – si apre tra le 3 e le 4
cicoria – si apre tra le 4 e le 5
lino – si apre tra le 5 e le 6
calendula officinalis – si apre tra le 6 e le 7
anagallide – si apre tra le 7 e le 8
malva – si apre tra le 9 e le 10
ornitolago – si apre tra le 10 e le 11
portulaca – si apre tra le 12 e le 13
malva – si chiude tra le 13 e le 14
polmonoria – si chiude tra le 14 e le 15
bella di giorno – si chiude tra le 15 e le 17
enotera – si apre tra le 17 e le 18
bella di notte – si apre tra le 18 e le 19
geranio – diffonde il suo profumo verso le 20.

Curiosità sui fiori

Si trovano, in natura, fiori piccolissimi, lunghi soltanto alcuni decimi di millimetro. Altri, invece, raggiungono dimensioni straordinarie, probabilmente allo scopo di rendersi visibili agli insetti, anche da lontano e tra la folta vegetazione tropicale. I due più grandi fiori esistenti vivono nelle foreste tropicali dell’arcipelago malese: la Rafflesia Arnoldii che ha il diametro di un metro e pesa circa undici chili; e lo Amorphophallus titanum che raggiunge un’altezza di due metri e mezzo!

Una strana orchidea, il selenipedio, ha petali lunghissimi, simili a un nastro, talvolta lunghi oltre 70 cm.
La passiflora è anche chiamata “fiore della passione” perchè la forma degli stami e dei pistilli ricorda i simboli della passione di Gesù.

Sorprendente è la fioritura del bambù: queste piante fioriscono in età molto avanzata (alcuni a 120 anni!) e una sola volta nella loro vita. Infatti, appena fiorite, muoiono. Ma il fatto davvero curioso è che le piante di bambù di una stessa specie fioriscono contemporaneamente in ogni parte del mondo, indipendentemente dai fattori climatici.

Impollinazione e fecondazione del fiore

Spesso i fiori attirano e cedono il polline solo a un certo tipo di insetti, per evitare di disperderlo su fiori non della stessa specie. Cioè, un fiore che attira e carica di polline un calabrone, può darsi che non faccia altrettanto nei confronti di un’ape o di una farfalla. Una prova di ciò è da questo fatto curioso. Quando il trifoglio rosso fu introdotto in Australia, esso prosperò ma non si riprodusse: mancava l’insetto impollinatore adatto. Fu indispensabile acclimatare nel nuovo continente anche l’imenottero (bombo), che era l’insetto pronubo del trifoglio.

Per meglio regolare la distribuzione del polline, i fiori si aprono e chiudono a ore fisse, quasi semafori nell’intenso traffico degli insetti.
Vi sono piante che emanano un odore disgustoso per l’uomo, simile a quello della carne marcia o del concime. Pronubi di questo tipo di fiore sono moscerini e mosche che amano questi odori.
Quando un’ape ha visitato un’orchidea, esce a ritroso dal piccolo spazio contenente il nettare. Il fiore, allora, le configge nella nuca una freccia che porta due sacchi pollinici. L’ape vola su un altro fiore che a sua volta le toglierà questa sua curiosa acconciatura.

La natura ha pensato proprio a tutto: nei paesi tropicali dove vivono fiori dalla corolla molto lunga, si trovano farfalle che hanno la spiritromba (apparato succhiatore della farfalla) che può raggiungere anche la lunghezza di 25 cm.
Esiste un fiore, il gichero, che tiene prigionieri nel calice gli insetti che vengono a succhiare il suo nettare. Questa… dolce prigionia può prolungarsi anche per diversi giorni, fintanto cioè che gli stami, maturando, non lasciano cadere il polline su di loro.

Il fuoco agli uomini – LEGGENDA SARDA

Il fuoco agli uomini – LEGGENDA SARDA per bambini della scuola primaria

LEGGENDE ITALIANE

Il fuoco agli uomini – LEGGENDA SARDA

 In Sardegna, nel Logudoro, si racconta questa bella leggenda:

Una volta, al mondo, non c’era il fuoco. Gli uomini avevano freddo ed andarono da Sant’Antonio, che stava nel deserto, a pregarlo che facesse qualcosa per loro. Sant’Antonio ebbe compassione e siccome il fuoco era all’inferno, decise di andare a prenderlo.

Col suo porchetto e col suo bastone di ferula, Sant’Antonio si presentò, dunque, alla porta dell’inferno e bussò:
“Apritemi! Ho freddo e mi voglio riscaldare!”

I diavoli alla porta videro subito che quello non era un peccatore, ma un Santo, e dissero:
“No! No! Ti abbiamo riconosciuto! Non ti apriamo. Se vuoi lasciamo entrare il porchetto, ma te no!”

E così il porchetto entrò. Cari miei, appena dentro si mise a scorrazzare con una tale furia da mettere lo scompiglio ovunque, tanto che i diavoli, ad un certo punto, non ne poterono proprio più.
Finirono perciò per rivolgersi al Santo, che era rimasto fuori dalla porta.

“Quel tuo porco maledetto ci mette tutto in disordine! Vientelo a riprendere!”
Sant’Antonio entrò nell’inferno, toccò il porchetto col suo bastone e quello se ne stette subito quieto.
“Visto che ci sono” disse Sant’Antonio, “mi siedo un momento per scaldarmi”.

E si sedette su un sacco di sughero, proprio sul passaggio dei diavoli.
Infatti, ogni tanto, davanti a lui passava un diavolo di corsa. E Sant’Antonio, col suo bastone di ferula, giù una legnata sulla schiena.

Ad un certo punto i diavoli, arrabbiati, esclamarono:
“Questi scherzi non ci piacciono. Adesso ti bruciamo il bastone.”
Infatti lo presero e ne ficcarono la punta tra le fiamme.

Il porco, in quel momento, ricominciò a buttare all’aria tutto: cataste di legna, uncini, torce e tridenti. E i diavoli avevano un bel da fare a mettere a posto. Non ci riuscivano e non riuscivano neppure ad acchiappare quel… diavolo di porchetto.

“Se volete che lo faccia star buono” disse Sant’Antonio, “dovete ridarmi il mio bastone”.
Glielo diedero ed il porchetto stette subito buono.
Ma il bastone era di ferula ed il legno di ferula ha il midollo spugnoso. Se una scintilla entra nel midollo continua a bruciare di nascosto, senza che di fuori si veda.

Così i diavoli non si accorsero che Sant’Antonio aveva il fuoco nel bastone. Il Santo col suo bastone se ne uscì ed i diavoli tirarono un sospiro di sollievo.

Appena fu fuori, Sant’Antonio alzò il bastone con la punta infuocata e la girò intorno, facendo volare le scintille, come dando la benedizione, e cantò:
“Fuoco, fuoco,
per ogni loco;
per tutto il mondo
fuoco giocondo!”

Da quel momento, con grande contentezza degli uomini, ci fu il fuoco sulla terra. E Sant’Antonio tornò nel deserto a pregare.

Italo Calvino

Anfimonio ed Anapia LEGGENDA DELLA SICILIA

Anfimonio ed Anapia LEGGENDA DELLA SICILIA

 

LEGGENDE ITALIANE

Anfimonio ed Anapia LEGGENDA DELLA SICILIA

Anfimonio ed Anapia erano due fratelli che vivevano moltissimi anni fa, nei dintorni di Catania. Vivevano tranquilli e sereni nella loro bella casa e lavoravano volentieri e con gioia. Nel loro semplice cuore regnava l’amore e la venerazione per i genitori ed era bello vederli pieni di riguardi, sempre obbedienti, sempre pronti a far cosa gradita.

Avvenne un giorno, che l’Etna ebbe una terribile eruzione. Aveva incominciato con boati spaventosi e dal suo cratere erano usciti lapilli e un nero fumo denso che aveva coperto il cielo, oscurando perfino il sole. Poi, lungo i fianchi della montagna, era cominciato a colare un pauroso fiume di lava incandescente che lentamente, ma inesorabilmente, progrediva lungo le pendici, verso i campi rigogliosi di messi, verso le case degli uomini.

Ma gli abitanti della città non si decidevano a lasciarla; speravano sempre che l’Etna si calmasse, che la lava si arrestasse. Solo quando essa giunse alle prime case, che caddero con immenso fragore, tutti si decisero a raccogliere quanto di meglio possedevano e a fuggire davanti al pericolo.

Anche Anfimonio ed Anapia avevano atteso nella speranza che il pericolo scomparisse.

I due fratelli, invece di cercar di mettere in salvo i loro averi, si caricarono sulle spalle i loro genitori: uno il padre, l’altro la madre, che erano oramai vecchi ed infermi e non avrebbero potuto fuggire. Poi uscirono dalla loro casetta.

Ma non potevano correre, e il fiume di lava veniva giù più svelto di loro.  Ben presto li avrebbe raggiunti.
Allora il padre e la madre dissero: “Figlioli, noi siamo vecchi e infermi; abbiamo vissuto abbastanza; lasciateci qui, salvatevi; a voi sorride ancora la vita!”

Ma i due buoni fratelli non vollero abbandonare il loro prezioso peso e raddoppiarono le energie. Per un poco parve riuscissero a vincere in velocità la lava, poi, sfiniti, si fermarono. Abbracciarono stretti i loro cari e …attesero coraggiosamente la morte.

Ma, oh… miracolo! La lava si divise in due torrenti: uno a destra, l’altro a sinistra, lasciando libero lo spazio sul quale si trovavano i quattro abbracciati e un sentiero che permise ai due fratelli di porre in salvo i genitori e se stessi.

Il fatto miracoloso stupì i Catanesi che soprannominarono Anfimonio ed Anapia “Fratelli pii”, ed il luogo dove essi passarono fu chiamato “Campi pii”.

Quando, divenuti vecchi, i due fratelli morirono, i cittadini eressero loro un grande monumento.

E la loro memoria fu sempre venerata, come esempio di amor filiale, non solo dai Catanesi, ma dai Siciliani tutti e anche da altri popoli.

Origine dello Stromboli LEGGENDA CALABRESE

Origine dello Stromboli LEGGENDA CALABRESE

LEGGENDE ITALIANE

Origine dello Stromboli LEGGENDA CALABRESE

Lo Stromboli è quel vulcano che sorge dalle acque del mare, proprio dirimpetto alla costa tirrenica della Calabria, e dietro il quale, la sera, il sole si tuffa per andare a nanna, lasciandosi dietro un incendio di porpora e d’oro.

Ma forse non conosci la sua origine, non sai come sia stato collocato proprio lì, in quello specchio di azzurro mare. Ascolta allora cosa racconta il pescatore calabrese, mentre rattoppa le reti sulla spiaggia di Palmi.

Sul monte che domina la graziosa cittadina di Palmi, e che ha preso il nome del santo, sant’Elia stava un giorno in solitaria meditazione, quando gli si accostò un uomo con un gran sacco sulle spalle.

“Che cosa porti in quel sacco, e dove vai?” gli chiese sant’Elia.
L’uomo, che aveva il viso tutto sporco, aprì il sacco e ne cavò fuori un gran mucchio di monete d’argento.

“E’ una gran fortuna” egli disse. “L’ho scoperta in un casolare abbandonato e sono disposto a dividere con te. Prendine quante ne vuoi; sono anche tue!”

Il santo prese le monete e cominciò a lanciarle lungo la china. A mano a mano che rotolavano, esse si tramutavano in pietre nere, di quelle che si vedono ancor oggi sul luogo.

Contrariato, l’uomo (che era il diavolo) balzò in piedi. D’improvviso, alle sue spalle si aprirono due grandi ali nere di pipistrello, con le quali egli si alzò in volo, planò sul mare e vi si tuffò, sprofondando.

Le acque gorgogliarono e schiumarono, si elevò una nuvolaglia, e quando questa si fu dileguata, ecco che sul mare si delineava un isolotto a forma di cono, dal cui vertice incavato uscivano lingue di fuoco e fumo.

Era lo Stromboli, e sotto di esso c’era il demonio imprigionato, che soffiava fiamme e tuoni.

Il vecchio pescatore di Palmi, dopo aver narrato la leggenda, si segna devotamente per non cadere in tentazione del demonio, mentre lo Stromboli, nel velo del tramonto, fuma da sornione la sua antica pipa.

Sulla cima del Monte Sant’Elia, si trova ancora un macigno con alcune impronte di unghie lasciate dal diavolo, prima di spiccare il volo per inabissarsi nel Tirreno.

IL PESCATORE DI TRANI Leggenda pugliese

IL PESCATORE DI TRANI Leggenda pugliese

LEGGENDE ITALIANE

IL PESCATORE DI TRANI Leggenda pugliese

 Viveva un tempo, a Trani, un povero pescatore che, nonostante passasse lunghe ore in mare a pescare, riusciva a stento a provvedere alle necessità della sua numerosa famiglia.

Una notte, gettate le reti, il pescatore si adagiò nel fondo della barca lasciata in balia delle onde e, rimuginando i suoi tristi pensieri, a poco a poco finì per addormentarsi. Fu risvegliato bruscamente da un forte strappo alle reti. Che cosa succedeva? Forse era quella la volta buona?

Certo, a giudicare dal peso, il pesce incappato nella rete doveva essere enorme. Tira e tira, il brav’uomo, eccitato e felice, riuscì finalmente a rovesciare nella barca un pesce gigantesco. Ma, ahimè, si trattava di un pescecane.
La delusione del pescatore si tramutò in una grande meraviglia, quando il pescecane cominciò a parlare.

“Hai pescato il tuo genio” disse lo squalo. “Sono io che dirigo la tua vita, non lo sapevi? Ebbene, ascolta ora. Fa’ a pezzi il mio corpo poi, raccolti tutti i miei denti, seminali nel tuo orto. Vedrai cosa succederà tra un paio di mesi”.
Il pescatore obbedì.

Trascorsi i due mesi s’avvide che nel suo orta stava crescendo un albero. In poche settimane la pianta divenne alta e frondosa.

“E ora?” pensava il pescatore aggirandosi intorno all’albero che, a parte la grandezza, non aveva nulla di particolare.

La risposta alla sua ansioso attese venne, d’improvviso, una mattina. L’uomo stava contemplando l’albero, quando, in men che non si dica, lo vide sparire sottoterra, lasciando al suo posto un magnifico cavallo bianco con la sella preparata.

Anche il cavallo parlò. Disse: “Saltami in groppa, che faremo un lungo viaggio”.

Il viaggio, infatti, fu lunghissimo e pieno di incredibili avventure. Il pescatore, ormai divenuto cavaliere, ebbe la fortuna di conoscere tutti i paesi della terra e di compiervi azioni così valorose da meritarsi la stima di grandi e potenti signori, che fecero a gara per averlo loro ospite e per colmarlo di ricchezze.

Passarono in tal modo alcuni anni e il pescatore, un bel giorno, stanco di viaggiare, decise di tornare al proprio paese per godersi in santa pace, con la sua famiglia, le ricchezze accumulate.
Però, giunto che fu a Trani, ebbe la triste sorpresa di apprendere che la moglie, credutolo morto, si era rimaritata, creandosi un’altra famiglia.
Desolato, l’uomo tornò alla sua vecchia casupola. Entrò nell’orto e andò a sedersi sul luogo ove un tempo era cresciuto l’albero.
Che gli restava da fare? Se ne stava lì, pieno di amarezza, a contemplare quel po’ di terra smossa, allorchè qualcosa attirò la sua attenzione. Fra le zolle c’era un pesciolino. Era un piccolo pesce argenteo che guizzava, boccheggiando. Il pescatore si curvò, fece per prenderlo, ma ecco che al contatto delle sue dita il pesce cominciò a gonfiarsi raggiungendo in breve dimensioni colossali.

Ma guarda guarda! Era di nuovo il pescecane pescato tanti anni fa.

“Sei tu, dunque!” disse il pescatore, “E allora? Io ho fatto tutto ciò che mi hai ordinato. Ho raccolto i tuoi denti, li ho seminati, ho visto crescere il grande albero che poi si è trasformato in un cavallo. Ho viaggiato per anni e anni, ho compiuto ogni sorta di imprese ed ho guadagnato onori e ricchezze. Ma a che vale tutto ciò se ora ho perduto la mia famiglia?”

Rispose il pescecane: “Le tue avventure non sono terminate. Riportami in mare, mettimi tra le onde e montami in groppa”.

Poco dopo, il pescecane e il pescatore prendevano il largo e scomparivano verso l’alto mare.

Che ne fu di loro? Nessuno le seppe mai.

“Forse” commentano i pescatori di Trani, a conclusione della leggenda,”stanno ancora vagando laggiù, tra le onde”.

Quello che è certo è che il nostro pescatore in paese non lo si rivide più.

Ronca Battista LEGGENDA DELLA BASILICATA

Ronca Battista LEGGENDA DELLA BASILICATA

LEGGENDE ITALIANE

Ronca Battista LEGGENDA DELLA BASILICATA

 Questa che leggiamo adesso è una leggenda solo per metà. Infatti Ronca Battista esistette davvero. E veri sono anche i fatti da lui compiuti, che ora narreremo. Assieme ai fatti, però, è mescolata anche un po’ di leggenda, suggerita dalla fantasia popolare.

Anzitutto Ronca Battista non era il vero nome del nostro personaggio. Si chiamava Giovan Battista Cerone. Il nome di “Ronca” glielo diedero i suoi concittadini di Melfi, perchè essendo bottaio di mestiere, egli usava una roncola per tagliare i rami che gli servivano per i cerchi alle botti.

Ogni giorno, di buon mattino, Battista usciva da Melfi con un pezzo di pane in tasca e si recava nei boschi di Vulture a far la sua provvista di rami. Sceglieva quelli di castagno, che sono i più flessibili, proprio adatti per far cerchi. E sapeva tagliarli con arte insuperabile: un colpo netto di roncola, tac, e il ramo era già nelle sue mani senza che l’albero se ne fosse accorto.

Mangiato il suo pane e bevuto un sorso d’acqua da una sorgente, Battista se ne tornava poi a Melfi a lavorare.
Fin qui, tu dirai, non c’è nulla di speciale nella vita di questo Battista.

E’ vero! Ma aspetta un po’. A proposito, dimenticavo di dirti che siamo nel secolo XVI. Agli inizi di quel secolo la città di Melfi era ancora un feudo della nobile famiglia dei Caracciolo, fedele agli Spagnoli. Ma già scorrazzavano per la regione bande di Francesi che assalivano ora un paese ora l’altro, saccheggiando la popolazione. Quando i Francesi si avvicinarono a Melfi, Gianni Caracciolo, signore della città, decise di resistere ad ogni costo. E i Melfitani furono d’accordo con lui.

Capo dei Francesi era il generale Lautrec, tipo crudele e senza scrupoli. Egli era convinto di prendere Melfi in quattro e quattr’otto, e perciò ci rimase molto male quando si accorse che i Melfitani, chiuse le porte delle mura, si apprestavano alla difesa.

La lotta durò a lungo, feroce da parte degli assedianti ed eroica da parte degli assediati. Sulle mura e davanti alle porte avvenivano spesso scontri sanguinosi. Per di più, i Melfitani comiciavano a soffrire la fame, così che nottentempo qualche cittadino doveva uscire di nascosto dalla città per procurarsi un po’ di cibo nelle campagne.

Anche il nostro Battista, una notte, riuscì a sfuggire alle sentinelle francesi ed a raggiungere il bosco. Più che cibo, però, lui cercava legni per le sue botti, perchè non avendo famiglia, di mangiare non gliene mancava. Quella notte, anzi, egli aveva in tasca, come al solito, il suo pezzo di pane. Attesa l’alba, per vederci meglio, Battista diede mano alla roncola e staccò alcuni rami. Si avviò quindi in fretta, e alle soglie del bosco incontrò una vecchia tremante di freddo che lo fermò.

“Bravo giovane” disse la poveretta, “i Francesi hanno distrutto la mia capanna e rubate le mie provviste. Aiutami tu!”

Impietosito, Ronca diede il proprio pane alla vecchia. Prese quindi i rami e, acceso un fuocherello, preparò un lettino di frasche alla donna, poi lo ricoprì col suo mantello.

“Va bene così, nonnina?” chiese alla fine.

“Sii benedetto, figliolo!” disse con gratitudine la vecchina. Poi, per ricompensarlo, volle dargli un bacio in fronte e toccargli la roncola.

“D’ora in avanti” aggiunse, “questa roncola compirà prodigi!”

Battista stava per sorridere, incredulo, quando d’improvviso la vecchia si trasformò in una fata splendente e sparì.

“Diamine!” esclamò Battista “Allora è vero!”
Volle provare la roncola magica colpendo un albero, e l’albero volò subito via come una pagliuzza.
Sbalordito e contento, Battista si avviò verso Menfi.

“Se qualche sentinella oserà fermarmi, guai a lei!” pensava, maneggiando la roncola.
Sì! Altro che sentinelle! C’erano tutti i Francesi attorno alla città, scatenati nel pieno di una battaglia e, a quanto pareva, le cose andavano piuttosto male per i Melfitani.

Senza esitare, Battista si slanciò allora nella mischia, mulinando a dritta e a manca la sua roncola magica.

I Francesi intorno a lui cominciarono a piombare a terra come nespole. Invano lo assalivano da ogni parte. Più ne venivano, più ne cadevano. Sembrava che invece di una sola roncola, Battista ne maneggiasse mille. Ad un certo punto, esasperati, i Francesi gli diedero tutti addosso. Ne caddero a decine. Ma ce ne fu uno, d’un tratto, che con un salto riuscì a raggiungerlo alle spalle e a colpirlo fortemente al capo con una mazza di ferro. Battista stramazzò al suolo.

La fine di Ronco Battista segnò la fine della resistenza di Melfi. La città, caduta in mano ai Francesi, fu saccheggiata e incendiata.
Era la Pasqua del 1528.

Oggi c’è una via, a Melfi, che è dedicata alla memoria di Ronca Battista. Ma anche senza questa via, i Melfitani non avrebbero certo dimenticato l’eroico bottaio. Da quel giorno, infatti, la storia di Battista è sempre stata raccontata, di padre in figlio. A un certo punto, è vero, ci fu qualche padre che inventò l’episodio della fata; qualche padre, forse, incapace di credere che solo il coraggio e l’amor patrio avessero potuto rendere prodigiosa la roncola di Battista. E fu così che la storia divenne per metà leggenda.

Paolaccio LEGGENDA DEL MOLISE

Paolaccio LEGGENDA DEL MOLISE

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Paolaccio LEGGENDA DEL MOLISE

Paolaccio era un vagabondo senza parenti, senza amici e senza neppure un angolo di casa. Ma se lo meritava, perchè voglia di lavorare non ne aveva e, per di più, non faceva che imprecare e dimostrarsi tanto malvagio da attirarsi solo l’antipatia e il disprezzo di tutti. Pareva che nei suoi occhi ardesse sempre una luce cattiva, e chi lo vedeva girava al largo.

Una notte, mentre dormiva in un campo, vicino a Termoli, Paolaccio venne svegliato da una voce che ripeteva il suo nome. Al che lo fissava curiosamente.

“Chi diavolo sei?” chiese.

“Lo hai detto, sono proprio il diavolo. Sono venuto a proporti un patto”.

Paolaccio non si impressionò.

“Di che si tratta?” chiese di malanimo.

“Vuoi diventare ricco?” chiese a sua volta il diavolo.

“Se lo voglio? Non chiedo di meglio. E che dovrei fare in cambio?”

“Non devi fare nulla. Devi darmi solo la tua anima”

“Per questo ci sto” disse Paolaccio “Che me ne faccio dell’anima? Ma dimmi: come avrò le ricchezze?”

“Prima firma il patto e poi te lo dirò” rispose Belzebù.

Paolaccio, che non sapeva scrivere, fece una crocetta sul foglio.

“Bene” gongolò il demonio, “Ed ora stai a sentire. La vedi quella rete? Ti servirà per pescare”

“Bella roba!” esclamò Paolaccio “Come se i pesci dessero la ricchezza!”

“I pesci che ti farò pescare io, sì” proseguì il diavolo “Sono pesci bianchi e rosei che hanno una specialità: quella di inghiottire i tesori accumulati nelle navi sommerse: gemme stupende, monete d’oro e altre rarità. Sono pesci che stanno al mio servizio, pronti a farsi pescare dai miei protetti. Tu ora lo sei e quindi puoi pescarne quanti ne vuoi. Dovrai soltanto dire, immergendo la rete:

“Fortuna, vieni su:
te l’ordino nel nome
del grande Belzebù”

Paolaccio non lasciò passare la notte. Subito si avviò verso gli scogli e trasse a riva con la rete un’infinità di quei pesci biancorosei. Erano tutti pesantissimi e Paolaccio, apertili uno ad uno, accumulò in un batter d’occhio smeraldi, rubini, brillanti ed oggetti d’oro che sfavillavano con mille luci al chiarore delle stelle.

“Questa sì che è una ricchezza!” gongolava Paolaccio, non stancandosi di immergere le mani in quel tesoro.

Da quel giorno ebbe inizio per Paolaccio un’altra vita. Si comprò un palazzo principesco, si vestì da gran signore e cominciò a dare feste sfarzose, circondandosi di ogni lusso. Inutile dire che in un lampo ebbe amici a non finire, gente che lo cercava, lo ossequiava, lo lodava. Paolaccio era generoso con tutti, spandeva doni a destra e a sinistra, e ad ogni elogio che riceveva era convinto di essere diventato un grand’uomo.

Tutto dunque procedeva a meraviglia, senonchè un giorno, un brutto giorno, capitò al palazzo, che era in piena festa, uno strano individuo. Era un essere macilento, vestito di stracci, proprio fuor di posto in mezzo a tanto splendore. Ma Paolaccio lo riconobbe subito, e fattosi largo tra la folla gli si avvicinò.

“Che sei venuto a fare, qui?” gli chiese con sgomento.

“Lo sai” rispose Belzebù, “Sono venuto per il nostro contratto che, per l’appunto, scade oggi…”

“Vattene” supplicò Paolaccio colmo di terrore, “Vattene via, lasciami!”

“Eh, caro mio! Non posso. I patti sono patti. Io ti ho dato la ricchezza, tu te la sei goduta, ed ora è tempo che tu mi dia la tua anima”.

In quello stesso istante un boato terribile fece tremare il palazzo e Paolaccio cadde morto.

Qualcuno dirà: ma quei pesci biancorosei esistono veramente? Pare di sì. Molti pescatori li hanno visti. Dicono, però, che bisogna accontentarsi di guardarli da lontano perchè sono creature del demonio e non portano che male. 

Il mostro del mare LEGGENDA ABRUZZESE

Il mostro del mare LEGGENDA ABRUZZESE per bambini della scuola primaria.

 

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Il mostro del mare LEGGENDA ABRUZZESE

Questo mostro del mare era Landoro, una specie di enorme drago con due occhi grandi come carri che spadroneggiava sulla superficie del mare sibilando, stridendo ed emettendo vampe di fuoco. I pescatori lo udivano da molto lontano. Ma erano ancora i tempi in cui non esistevano le barche e quindi a nessuno era mai venuto in mente di affrontare il mostro e di liberare il mare dalla sua presenza.

Da Landoro, orribile, passiamo a una fanciulla bionda, con gli occhi sognanti che passava gran parte del suo tempo sul litorale marino, guardando con nostalgia verso l’orizzonte. Era Lada. Lada guardava i gabbiani che volteggiavano liberi sulle onde e pensava: “Potessi essere come loro…”.

Un giorno questo vivo desiderio le fece spuntare sulle spalle due candide ali. La gioia di Lada fu grande. Si rizzò sulla pianta dei piedi, spiccò un salto e subito si sentì librata in alto nell’azzurro del cielo. Che meraviglia! Ora le onde correvano sotto di lei e davanti si spalancava il mare come un invito senza fine. Volava così da qualche tempo cantando, allorchè volgendo lo sguardo in basso, Lada vide il mostro dagli occhi giganteschi. La fanciulla alata ebbe un brivido d’orrore, si sentì perduta, come attratta da quegli occhi terribili in cui fiammeggiava la luce del male.

Per fortuna Landoro  quel giorno non cercava vittime. Guardò Lada poi, d’improvviso, si inabissò nelle onde. Con un sospiro di sollievo la fanciulla volò verso la costa, discese sul lido e, a poco a poco, si liberò dall’orrore del mostro. Ma, ahimè, quelle ali erano ormai inutili. Ora Lada non avrebbe più osato sorvolare il mare e spingersi fino al lontano orizzonte.

La fanciulla piangeva disperata, allorchè sentì una voce vicina: “Che cos’hai? Perchè piangi?”

Lada si volse e vide un bellissimo giovane che la guardava con dolcezza. La fanciulla narrò allo sconosciuto la sua tremenda avventura.

Il giovane, dopo un istante di meditazione, così disse: “Queste ali, Lada, sono un dono degli dei. Esse devono rallegrarti e non affliggerti. E perchè la tua gioia continui, io ucciderò Landoro e ti riaprirò la strada lucente del cielo sopra il mare”

“Chi sei?” chiese Lada colpita da tanto coraggio.

“Sono Geri” rispose il giovane, “il figlio della Quercia e del Vento”.

Lada vide il giovane impugnare una spada fulgente e avviarsi verso il mare. Scendeva la notte. Qualche stella cominciava a spuntare nel cielo. Lada si addormentò con la visione di Geri che procedeva sulle sponde. Quando si svegliò era l’alba e il mare era rosso. E rossa era anche la sabbia, rosse erano le sue mani e le sue ali.

Davanti a lei, come uscente dalle onde, avanzava Geri con la spada rosseggiante che stillava gocce di sangue.

“Lada! Lada!” gridò il giovane, “Ho ucciso il mostro!”

Quando le fu vicino e le si sedette accanto narrò come aveva affrontato Landoro, come l’aveva trafitto fra le onde. I due giovani erano felici. Persino le onde parevano felici, sciogliendosi ai loro piedi con un canto di liberazione.
Ma a poco a poco, dallo stesso mare, giunsero sulla costa segni di sgomento. Turbini di gabbiani atterriti e volteggianti sulle onde parevano fuggire da qualcosa di tremendo. L’aria cominciò a diventare irrespirabile, densa di vapori ripugnanti. I pesci si riversavano a migliaia verso la spiaggia e morivano boccheggiando sulla rena. Ora il litorale era gremito di gente piena di smarrimento e in preda all’angoscia.

Che cosa mai succedeva?

Era la vendetta del mostro. Era la morte, lugubre amica di Landoro, che ora si diffondeva ovunque, fra terra, mare e cielo, abbattendosi spietata su ogni essere vivente.

In breve, sotto la sua furia, ogni vita scomparve.

Lada e Geri seguirono la sorte di tutti, e da quel giorno, per secoli, la terra, il mare e il cielo rimasero disabitati, squallidi e silenziosi.

Poi la vita tornò a sbocciare da un piccolo fiore incantevole sulla sponda di un fiume. Era un fiore a forma di stella, dai mille petali. Un giorno dopo l’altro, questi petali si trasformarono in esseri viventi. Uno in uomo, un altro in donna, un altro in rondine, un altro ancora in farfalla e così via.

La terra si ripopolò di creature, tornò a palpitare di speranza, di gioia, di bontà, di amore…

Il miracolo di San Catello LEGGENDA DELLA CAMPANIA

Il miracolo di San Catello LEGGENDA DELLA CAMPANIA per bambini della scuola primaria.

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Il miracolo di San Catello LEGGENDA DELLA CAMPANIA

Patrono di Castellammare di Stabia è San Catello, vescovo e martire, al quale i fedeli attribuiscono numerosi miracoli. Tra questi si  ricorda con commozione il miracolo del grano.

Un anno, a causa di una lunga e terribile siccità, tutti i paesi intorno al Vesuvio furono colpiti da una grave carestia: le bestie morivano perchè non avevano erba e gli uomini morivano anch’essi di fame e non sapevano che rimedio trovare. Si inginocchiavano davanti a San Catello e, piangendo, lo pregavano perchè avesse pietà della loro miseria.

Un giorno del mese di giugno, al largo della costa una nave, carica di grano, fu accostata da una barchetta sulla quale c’era un vecchio con la lunga barba e la figura solenne. Il vecchio salì sulla nave e riuscì a convincere il capitano della nave a portare il suo carico di grano a Castellammare, dove glielo avrebbero ben pagato. E, per essere sicuro che il capitano non cambiasse idea, il vecchio gli diede un anello con diamante che portava al dito.

Il capitano della nave acconsentì di buon grado e, arrivato a Castellammare, vendette molto bene tutta la sua merce. Contento degli affari fatti, si sentì naturalmente il dovere di ringraziare quel buon vecchio che lo aveva indirizzato là. Per cui descrivendone la figura, ne chiedeva notizie a tutti. Ma nessuno glielo sapeva indicare.

Alla fine un popolano lo portò nella chiesa dedicata a San Catello. Era forse il Santo patrono della città l’uomo descritto dal capitano?

Proprio così! Infatti, davanti alla statua del santo, il capitano, pieno di meraviglia, esclamò inginocchiandosi: “E’ proprio lui! E’ il venerando vecchio dalla barba, che mi venne incontro sul mare e mi convinse a portare il grano qui!”

La commozione e lo stupore dei fedeli raggiunsero il colmo quando videro che al dito del Santo mancava l’anello col diamante, lo stesso che il capitano della nave aveva ricevuto da quel vecchio dalla figura solenne che lo aveva avvicinato al largo della costa. 

La lampada che non si spegne – leggenda del Lazio

La lampada che non si spegne – leggenda del Lazio per bambini della scuola primaria.

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La lampada che non si spegne – leggenda del Lazio

Un giovane alto e biondo si fermò improvvisamente sul declivio a guardare tra il folto dei pini dove occhieggiava il mare. Aveva visto dondolarsi nell’azzurro dell’acqua una piccola nave.

Stupito da quell’insolito approdo, discese dal colle e lanciò un richiamo: “Chi siete? Che cosa cercate nella terra di Evandro, re degli Arcadi?”.

Un guerriero, che procedeva dinanzi agli altri, fissò il giovinetto e sorridendo rispose: “Sono Enea, capo dei Troiani. Nella terra di Evandro vengo a cercare alleati ed armi contro i Rutuli ed il loro feroce re Turno”.

A queste parole il giovane, senza indugiare, corse incontro all’ospite, esclamando: “Benvenuto, illustre eroe! Io sono Pallante, unico figlio di Evandro. Anche se il nostro regno è povero, leali sono gli Arcadi e sacra l’ospitalità”.

Enea e il principe salirono insieme per il declivio, seguiti dai Troiani; oltrepassarono il crinale, scesero a valle fino in vista del Palatino, su cui sorgeva Pallantea, la città dei pastori.

Evandro distese le pelli più ricche perchè i Troiani potessero riposare, offrì pane buono e miele, ascoltò Enea, che gli chiedeva alleanza.

“Gli dei mi hanno indicato l’Italia ed hanno predetto che dalla mia gente sarà fondata una città potente, grande, dominatrice del mondo: perchè i destini si compiano anche il tuo aiuto è necessario”.

Allora Evandro fece suonare il rustico corno per riunire i pastori a parlamento e ordinò a quelli più giovane e più robusti di armarsi d’arco, di frecce, di lance, di corazze per scendere in campo armati.

Anche il giovane Pallante volle combattere per Enea.

E le schiere, in ordinanza, tra uno scintillio di lance, raggiunsero il Tevere, ne seguirono le sponde ed arrivarono in campo aperto di fronte ai Rutuli.

La battaglia si ingaggiò furiosa da ambo le parti.

Il principe si gettava nelle mischie più pericolose e non esitava ad accettare i corpo a corpo con i guerrieri nemici più anziani e poderosi.

Ad un tratto si trovò di fronte al gigante Turno, il re dei Rutuli.

“Fanciullo, è temerario provarsi con me”

“Il prode non si ritira anche se il pericolo è grande”

E con queste parole scagliò la sua asta di solido frassino, ferrata e tagliente alla cima. L’aste battè sullo scudo di Turno, ma fu rigettata all’indietro.

“Ora sostieni tu la forza del mio colpo!” gridò il re dei Rutuli. E scagliò con forza. L’asta terribile trapassò lo scudo del giovanetto, lacerò la corazza, e gli si confisse nel petto.

Quando il mesto corteo che portava le spoglie di Pallante fu in vista dei luoghi paterni, il vecchio re scese incontro al diletto figlio; si chinò su di lui, quasi a ricercarne il respiro e, sentendolo gelido, si accasciò giù come quercia colpita dal fulmine.

Pallante fu sepolto in una grotta, che si apriva nel Colle Palatino, e su di lui venne posta una lampada accesa; poi la tomba fu chiusa con sassi e terriccio.

Passarono gli anni e passarono i secoli…

Il Palatino vide dal solco di Romolo sorgere la Roma quadrata; la vide allargarsi, la vide dominare i popoli italici, la vide signora di popoli e di civiltà.

Ed altri secoli passarono…

Un giorno, come turbine di guerra, i barbari si gettarono sull’Urbe, la misero a ferro e a fuoco, rovistarono ovunque, avidi di bottino.

Alcuni, battendo con le aste dove il Palatino infoltiva di corbezzoli, sentirono la terra rimbombare come se dentro fosse vuota. Stupiti, svelsero gli arbusti, scavarono, scavarono fino a ritrovare una grotta: e in fondo videro scintillare un lume.

Avanzarono timorosi e sotto il luccicore d’una lampada scorsero un corpo grande e giovanile, intatto e chiuso nelle sue lucide armi.

Vinto lo sgomento, i barbari staccarono la lampada e vi soffiarono sopra: la fiamma si piegò, guizzò, ma non si spense.

Il prodigio li impaurì: compresero che qualcosa di misterioso proteggeva la piccola lingua di fuoco. Tornarono nella grotta, appesero la lampada accesa vicino a Pallante, mirarono per un attimo i bellissimi lineamenti del giovinetto, poi arretrarono fino all’aperto, accumularono nuovamente sassi e pietre all’entrata della tomba, quindi vi ripiantarono i corbezzoli estirpati. Poi si allontanarono, volgendosi di tratto in tratto a riguardare il colle, che chiudeva un mistero per essi insolubile: quello della lampada accesa, simbolo della luce di Roma che non può morire.

(O. Visentini)

IL DRAGO DI TERNI leggenda umbra

IL DRAGO DI TERNI leggenda umbra, per bambini della scuola primaria.

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IL DRAGO DI TERNI leggenda umbra

 Come mai sullo stemma della città di Terni è raffigurato un drago?
Narra la leggenda che tanti e tanti anni fa, viveva nel territorio ternano un orribile drago che teneva in continuo terrore tutta la popolazione.

Ogni zona dei dintorni era infatti malsicura per la presenza del mostro, e ben pochi erano quelli che potevano avventurarsi in un viaggio senza correre il rischio di essere assaliti. Talvolta, poi, accadeva che il drago, spinto dalla fame, arrivasse addirittura fino alle porte della città, cosicchè la gente doveva rinserrarsi nelle case. Era, insomma, un vero flagello cui occorreva porre d’urgenza rimedio.

Fu così che un giorno il Consiglio degli Anziani della città si riunì e decise di risolvere a qualsiasi costo la terribile situazione. Vennero convocati al Palazzo del Comune alcuni cittadini che avevano fama di ardimentosi. Uno dopo l’altro, però, essi rifiutarono di affrontare la rischiosa impresa.

“Signori miei” diceva uno, “Io ho moglie e figli. Non posso mettere in pericolo la mia vita”.
E un altro: “Onorevoli Consiglieri, ho un lavoro importante da svolgere, come voi sapete. Come posso abbandonarlo così d’un tratto per cimentarmi con quella bestiaccia?”

E ci fu chi si lagnò di avere un braccio malato; e chi accampò la scusa di dover fare un viaggio d’affari; e chi, persino, si rammaricò di dover esimersi dall’impresa, avendo la nonna inferma.

Gli Anziani non sapevano più a che santo rivolgersi. E già stavano per rinunciare ad ogni cosa quando, un bel mattino, si presentò loro un giovane ternano della nobile famiglia dei Cittadini. Era rivestito di un’armatura lucidissima, baldanzoso e fiero, e pareva già pronto a misurarsi col drago. Infatti disse: “Signori, col vostro permesso, ci vado io a fare una visitina  a quel mostro. Che ne dite?”

Figurarsi gli Anziani! Dissero subito di sì, che andasse pure, con tutti i loro auguri e le loro benedizioni. 

Il drago era acquattato ai margini di un boschetto. Sembrava assopito e sarebbe stata una cosa facile balzargli addosso e trafiggerlo. Ma ecco che nel preciso momento in cui il giovane stava per scagliare la lancia, il drago si eresse in tutta la sua mole e avanzò fulmineo verso il temerario. Il giovane lo evitò per miracolo.

Gli attimi che seguirono furono spaventosi. Ben due volte il giovane trafisse la bestia, ma le ferite sembravano prodotte da uno spillo. Accadde invece che, a un certo momento, il sole si riflettè nell’armatura e i lampi di luce che ne scaturirono abbagliarono il mostro. Fu questione di un secondo. Il giovane saettò la lancia con tutta la sua forza e, finalmente, trafitto da parte a parte, il drago stramazzò e rimase immobile per sempre.

Qualche cittadino di Terni, che aveva osato assistere da lontano alla scena, corse subito in città a dare la strepitosa notizia. In breve tutta la popolazione, con alla testa gli Anziani, si radunò sul luogo della lotta per constatare coi propri occhi la fine del mostro. Inutile dire che il giovane venne festeggiato solennemente e che per parecchi giorni la città visse tutta in tripudio.

Probabilmente questa leggenda ebbe origine dal fatto che, un tempo, gran parte del territorio ternano era paludoso e che la malaria diffondeva tutt’intorno il suo pestifero alito di morte, specialmente nel rione “La Chiusa”.

Poi i terreni vennero prosciugati dalla bonifica (l’assalto del giovane cavaliere), e divennero fertili e belli. Così gli acquitrini e la malaria rimasero solo un lugubre ricordo e si identificarono, nella fantasia popolare, con la figura del drago.

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