LE PERE DI PIRILLO Leggenda delle Marche

LE PERE DI PIRILLO Leggenda delle Marche per bambini della scuola primaria.

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LE PERE DI PIRILLO Leggenda delle Marche

 C’era un povero contadino della Valle del Tronto il quale altro non possedeva che un piccolo pezzo di terreno. Ma i miseri frutti di quel campicello non bastavano a sfamare la famiglia.

Per fortuna, sorgevano su quel terreno tre bei peri che, neri e rinsecchiti d’inverno, quando giungeva la primavera si rivestivano di teneri germogli. Spuntavano poi i  fiori bianchi e, infine, a suo tempo, ecco che facevano capolino tra il fogliame i grossi frutti succosi.

Erano proprio una meraviglia quelle pere! Il buon contadino, al momento giusto, le coglieva e le portava al mercato della città, guadagnando tanto denaro da poter acquistare il grano necessario per tutto l’inverno.

Un anno, al momento del raccolto, il contadino di accorse che qualcuno gli rubava i bei frutti. Ciò doveva accadere durante la notte, perchè solo al mattino constatava il furto, ora di dieci, ora di venti ed ora di cinquanta pere.

Il pover’uomo era disperato. Come avrebbe vissuto la famiglia il prossimo inverno?

A questo punto entrò in scena Pirillo, uno dei figli del contadino: un ragazzino agile e furbo di dieci anni. Pirillo, dunque, disse al padre: “Babbo, stanotte farò io la guardia. Vedrai che scoprirò il ladro”.

Scesa la sera, Pirillo prese pane e cacio, si armò di una roncola e, salito su uno degli alberi, si nascose fra i rami più alti. Passò un’ora e ne passarono due, e Pirillo, per vincere il sonno, diede fondo alle sue provviste.

Allorchè la campana del villaggio suonò la mezzanotte e la luna era alta nel cielo e ricamava la terra con arabeschi d’argento, d’improvviso, sgranando gli occhi, Pirillo vide avanzare una strega, un’orribile donna con la barba d’un caprone e le zanne di un cinghiale.

La vecchiaccia s’appressò all’albero e stava per cogliere una pera quando Pirillo con un gesto veloce le colpì la mano con la roncola. La strega lanciò un urlo di dolore, guardò in alto e scorse Pirillo fra i rami. Cominciò allora a lagnarsi: “Dammi una pera, ragazzino, una pera soltanto”.

E Pirillo, di rimando: “Ne hai già rubate tante, vattene!”

“Se non mi dai una pera” minacciò la strega, “scuoterò l’albero finchè non cadrai!”

Pirillo scoppiò in una risata: “Provaci, se sei capace!”

Allora la strega cominciò davvero a scuotere il pero e con tanta forza che Pirillo finì per piombare a terra ai piedi della vecchia. Questa, in un attimo, lo afferrò, lo legò stretto al suo grembiule e, montata a cavalcioni su una scopa, volò veloce fino a casa sua, in una capannuccia fra i boschi.

“Eccoci qua! Ora, invece delle pere, mangerò te!” esclamò la vecchia con voce stridula.

Così detto, accese il fuoco nel camino e vi mise sopra un enorme paiolo colmo d’acqua. Quando l’acqua bolliva, Pirillo disse alla strega: “Slegami, almeno, e fammi spogliare. Non vorrai mangiarmi con tutti i vestiti”.

La vecchia approvò, slegò il fanciullo, poi brontolò minacciosa: “Ora, spogliati, su, che l’acqua è già pronta”.

Mentre Pirillo fingeva di spogliarsi, si volse al paiolo e lo scoperchiò. Fu un attimo: Pirillo si lanciò sulla strega, la afferrò per i piedi e la capovolse nell’acqua bollente, nel paiolo dovere avrebbe dovuto finire lui.

Leggenda toscana IL MULINO MALEDETTO

Leggenda toscana IL MULINO MALEDETTO – per bambini della scuola primaria.

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Leggenda toscana IL MULINO MALEDETTO

Ai tempi del Medioevo molti poggi ai confini della Maremma erano incoronati da mulini a vento che provvedevano a macinare il grano delle campagne circostanti. Qualcuno, ridotto in rovina, si vede ancora oggi. Uno di questi, eroso com’è da secoli, ha un aspetto così desolante, che sembra proprio un enorme spaventapasseri.

I contadini, se sono costretti a passarci sotto, si voltano dall’altra parte per non vederlo, e ricordano con un brivido la triste leggenda che si racconta intorno ad esso.

Devi sapere, dunque, che ci fu un tempo in cui questo mulino svettava superbo sul colle con le sue belle ali roteanti al minimo soffio di vento. Ne era padrone un mugnaio che, però, era una vera peste: crudele, egoista, avaro, maligno.

Questi difetti li riversava sui poverini obbligati a macinare il loro grano da lui perchè, nella zona, quel mulino era l’unico che esistesse a vista d’occhio.

Che faceva il mugnaio? Ecco qua: rubava sul peso della farina; esigeva, per consegnarla, prezzi esorbitanti; prestava denaro ai contadini bisognosi, ma solo per chiedere indietro una cifra doppia. E se qualcuno si ammalava o gli andava male il raccolto, non aveva pietà e gli portava via tutto: la casa, gli arnesi e le bestie.

Succedeva così che, mentre quei poverini diventavano sempre più poveri e timorosi, quel mugnaio diventava sempre più ricco e prepotente.

E nessuno poteva farci nulla.

Dicono che c’è una giustizia per tutti. Ed ecco che un’annata la carestia e la siccità ridussero a zero i raccolti. Furono guai per i contadini senza un chicco di grano, ma furono guai anche per il mugnaio che non ebbe più grano da macinare.

Venne l’inverno, un invernaccio per tutti. Il mugnaio, a dir la verità, se la passava ancora benino. Chiuso nella sua casa, pane e fuoco non gli mancavano ma, inutile dirlo, se li teneva per sè, sprangato dentro.

Del resto, chi mai avrebbe bussato a quella porta? Nessuno, neanche a morir di fame. Una sera, però, qualcuno bussò.

“Chi diavolo sarà!” mugugnò il mugnaio. E andò ad aprire.

Era una donna con una creaturina in braccio. Tutti e due con gli abiti stracciati, tremanti di freddo.

“Pietà signore!” implorò la donna, “Pietà di un po’ di fuoco e di un po’ di pane”

Chiunque si sarebbe sentito spezzare il cuore. Il mugnaio, no. Duro e sgarbato, rispose: “Via, via, andate a cercare in paese!”

E siccome la donna insisteva e supplicava, il malvagio esplose con un urlo: “Vattene, se non vuoi che ti bastoni!”
In quell’attimo, accadde qualcosa che fece indietreggiare il mugnaio, pieno di sgomento. La donna, d’improvviso, si era prodigiosamente trasformata; da una povera stracciona qual era, si era mutata in una signora avvolta di luce splendente. E diversa era anche la sua voce, mentre in tono ardente esclamava: “Guai a te, uomo senza cuore! D’ora in avanti il tuo mulino sarà per sempre maledetto. Le sue ali non si muoveranno più!”

E davvero, da quella notte, le ali del mulino più non si mossero. Nei giorni seguenti, invano il mugnaio si rivolse ai più abili meccanici perchè le facessero funzionare. Le ali, lassù, parevano inchiodate nel cielo. Neppure  i venti più impetuosi, neppure le bufere più violente, riuscirono a smuoverle. Ben presto, esse diventarono nidi di neri corvi che gracchiavano, volteggiando sul mulino maledetto.

Quanto al mugnaio, nessuno ne seppe più nulla. Forse, una notte, protetto dalle tenebre, era fuggito lontano dalla squallida dimora, portandosi con sè i rimorsi di tutte le sue cattive azioni. 

Leggenda di ALASSIO – Liguria

Leggenda di ALASSIO – una leggenda ligure per bambini della scuola primaria.

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Leggenda di ALASSIO – Liguria

Forse pochi sanno l’origine del nome della città di Alassio…

… mille anni fa, circa, viveva in Germania una bella e intelligente fanciulla, dagli occhi azzurri e dai capelli d’oro: Alassia si chiamava, ed era figlia nientemeno che dell’imperatore di Germania, Ottone I.

Alassia amava e voleva sposare lo scudiero imperiale. Figuratevi un po’ se Ottone avrebbe permesso che sua figlia andasse sposa a uno scudiero! Egli aveva pensato per lei ben altre nozze!

Così, quando ella si presentò al padre per chiedere il consenso ne ebbe un deciso rifiuto.

I due giovani allora pensarono di fuggire. Difatti, pochi giorni dopo, quando l’alba non aveva ancora vinto le tenebre, essi lasciarono il palazzo reale e si diressero verso il sud, verso il sole.

Cammina e cammina, dopo lunghe peripezie e non poche sofferenze, essi arrivarono finalmente in una terra piena di luce e di fiori: la Liguria. Innamorati di tanta bellezza decisero di fermarsi in quel luogo incantevole. Si stabilirono, infatti, poco ad ovest di Albenga, e lì si sposarono.

Ma per vivere dovettero lavorare e lavorare: fecero i contadini, i pescatori, coltivarono i fiori. Infine lui si mise a fare il carbonaio e lei imparò a meraviglia a tessere i merletti.

Ma che importava? Vivevano contenti, mentre il loro figlio Aleramo cresceva bello, forte ed intelligente. Non poche prove di coraggio egli aveva saputo dare. Fra l’altro aveva tratto in salvo alcuni pescatori durante una furiosissima tempesta che aveva sorpreso piccole barche al largo della costa ligure.

Passarono così molti anni…

Un bel giorno, sul far della sera, arrivò nella vicina città di Albenga nientemeno che l’imperatore. Era invecchiato, molto invecchiato. Da quando la sua figliola era fuggita, preso dal rimorso, egli non aveva più conosciuto un momento di pace.

Aveva sì inviato messi a cercarla in tutte le parti dell’impero. Ogni città, ogni terra era stata frugata, ma sempre inutilmente, sicchè il povero sovrano aveva finito col perdere ogni speranza.

Ed ecco che ora viene a sapere che la sua figliola diletta vive lì vicino col marito e col figlio. L’imperatore non volle questa volta agire di propria testa. Si recò dal vescovo di Albenga e chiese a lui consiglio su quel che doveva fare: “Perdona!”, fu la risposta.

Non era il caso di dirlo, perchè questa volta l’imperatore andò anche più in là.

Non solo concesse all’amata figliola il suo paterno perdono, ma fece il nipote Aleramo marchese del Monferrato.

E quando la figlia dell’imperatore morì, la località dove ella era vissuta contenta e felice prese il suo bel nome: Alassio.

Leggenda del Lago Santo modenese

Leggenda del Lago Santo modenese – una leggenda dell’Emilia Romagna, per bambini della scuola primaria.

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Leggenda del Lago Santo modenese

“Va bene!” disse il gigante, con la sua voce di tuono, al ministro del re, “In cambio però voglio quindici paia di buoi, trenta mucche, centocinquanta pecore e cinquanta otri di vino!”

Il ministro del re, microscopico e tremante ai piedi della grotta, fece dietro front e corse a riferire. Il re accettò e subito, senza perdere un attimo, il gigante si tirò su le maniche e si mise al lavoro. E che lavoro! Si trattava, nientedimeno, di sollevare una montagna e precipitarla a valle, distruggendo così un‘intera città con tutti i suoi abitanti.

Non era, però, una gran fatica, per un gigante dalle braccia lunghe dodici miglia e le mani vaste come un paese…

“Che cos’è questa storia?” dirai tu.

E’ la storia di un lago, un lago chiamato Lago Santo, pittoresco specchio d’acqua dell’Appennino Modenese. Sta a sentire…

…Secoli e secoli or sono, un re malvagio valicò lunghe catene di monti per venire a conquistare una città. Già altre città, già altri paesi e villaggi aveva conquistato e distrutto, senza che la sua cattiveria fosse stata punita.

Questa volta, però, si trattava di una città che non meritava di essere asservita, perchè i suoi abitanti l’avevano edificata con amore, e l’avevano resa bella, ricca e fiorente.

Allorchè essi si accorsero del pericolo che stavano correndo, per notti e per giorni si misero a scavare un enorme vallone di dove, ben nascosti e protetti, al momento opportuno avrebbero potuto scacciare il nemico con una pioggia di frecce.

Venuto a conoscenza della cosa, il re chiamò il ministro e gli impose di trovare un rimedio alla situazione. Fu così che il ministro corse alla grotta del gigante e di laggiù, microscopico e tremante, gridò: “Ehi, tu! Che cosa chiedi in cambio, per darci una mano?”

“Quindici paia di buoi!” rispose il gigante, che dal suo antro seguiva e vedeva ogni cosa, “Trenta mucche…”

E intanto si stropicciava beato le mani, pensando che, con poca fatica, avrebbe avuto da mangiare e da bere per tutto l’inverno.

Ed eccolo al lavoro. Distese le braccia, lunghe dodici miglia ciascuna, roteò le mani grandi come paesi, e afferrata a caso una montagna per il cocuzzolo, se la pose sulla testa e si incamminò per raggiungere il punto giusto di dove, scagliandola, avrebbe in un batter d’occhio seppellito città e cittadini.

Ma che cosa avvenne, ad un tratto?

Avvenne questo: miliardi di formicuzze piccine e tenaci accorsero da ogni dove e cominciarono a scavare con tutte le loro energie la montagna che il gigante portava sulla testa. Scava e scava, ben presto esse l’attraversarono da un capo all’altro. Così il gigante, si ritrovò con la testa infilata nella galleria scavata dalle formiche e con la montagna tutta intorno al collo come… un collarino.

Ma che terribile collarino! Strozzato a quel modo, che poteva fare il povero gigante? Urlava, e le sue urla si perdevano in un gorgoglio. Cercava di scrollarsi di dosso la montagna, ma più scrollava e più essa gli si assestava intorno al collo…
Sbuffava e smaniava, ma tutti i suoi movimenti non producevano che un lieve rotolio di sassi e di terriccio… Era la fine. A poco a poco, infatti, le forze gli mancarono ed egli morì.

Intanto si era messo a piovere. Una pioggia abbondante, continua, che scrosciava dilagando per la campagna e per il vallone, dividendo inesorabilmente la città dai suoi nemici.

Piovve giorno e notte, per più giorni e più notti. Ormai la città era salva e i cittadini potevano guardare con gioioso sollievo quella pioggia benedetta che li aveva liberata dal pericolo.

Così, quando tornò il sole, raggiunto il luogo in cui il gigante era crollato, tutti videro che la pioggia aveva riempito fino all’orlo anche il buco scavato dalle brave formicuzze nella montagna, formando un grazioso laghetto.

A ricordo di quel gesto di bontà, lo chiamarono Lago Santo. 

Leggenda del Castello di Gemona – Friuli Venezia Giulia

Leggenda del Castello di Gemona – Friuli Venezia Giulia

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Leggenda del Castello di Gemona – Friuli Venezia Giulia

C’era una volta un uomo che andava intorno con un carrettino sgangherato. Una notte d’estate giunse a Gemona. Non aveva il becco di un quattrino, e non sapendo dove andare a dormire, si distese sulle panchine che stanno sotto il Palazzo Comunale. Quando fu mezzanotte sentì una voce che lo chiamava. Egli si svegliò spaventato e chiese: “Chi è?”

“Costantino,” rispose una voce sommessa, “se tu hai coraggio, io posso darti la fortuna; domani sera, a quest’ora, fatti trovare qui. Io tornerò”.

Costantino, il giorno dopo, pensava impaurito che cosa avrebbe dovuto fare. Alla fine decise di tornare a dormire sotto il palazzo.

A mezzanotte precisa, l’anima ritornò.

“Costantino!” disse, “Armati di coraggio, e vieni con me sulla torre del castello. Tu non mi vedrai, ma io ti sarò sempre vicino. Appena entrato nella torre , lancia un sasso e subito dopo vedrai comparire una bestiaccia a cavallo di una gran cassa contenente un tesoro. Essa terrà una chiave in bocca. Tu non spaventarti, ma afferra la chiave e fa ogni  sforzo per levargliela di bocca. Se non ci riuscirai la prima volta, tenta la seconda ed anche una terza. Ricordati, però, che devi far questo prima che suoni il tocco.”

Costantino, tremando, salì la riva del castello ed appena entrato nella torre gettò un sasso. Immediatamente, tra tuoni e lampi, comparve la bestiaccia. Costantino le andò incontro per toglierle la chiave, ma prese a tremare per la grande paura, e la prima volta potè appena toccarla.

Provò la seconda e non riuscì a strappargliela. Provò anche la terza, ma, proprio quando stava compiendo il maggior sforzo, sentì battere l’una, e bestiaccia e cassa scomparirono tra le fiamme.

Costantino, sconvolto, uscì dalla torre, e a metà discesa ritrovò l’anima, che gli disse: “Costantino, io avevo sperato proprio che tu mi avresti liberata. Ora, purtroppo, deve ancora nascere l’albero, con cui sarà fatta la culla di colui che mi libererà”.

Sotto il Castello di Gemona dovrebbe essere sepolto un tesoro. Ci si può, dunque, spiegare perchè, come dicono, compare ogni tanto qua e là qualche buca scavata di fresco. Qualcuno, certamente, tenta nottetempo di scoprirlo.

(V. Ostermann)

CONTURINA Leggenda del Trentino Alto Adige

CONTURINA Leggenda del Trentino Alto Adige, per bambini della scuola primaria.

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CONTURINA

Leggenda del Trentino Alto Adige

Nella Valle di Contrin, adagiata ai piedi dell’immensa parete verticale della Marmolada, vive ancora il ricordo della leggenda di Conturina, la bellissima fanciulla vittima della propria bellezza e dell’odio della matrigna.

La matrigna di Conturina era una nobile e ricca signora, padrona di un castello e madre di due brutte ragazze.

Molti principi e giovani cavalieri venivano in visita al castello; tutti ammiravano Conturina e nessuno si occupava delle altre due.

La matrigna, alla quale ciò dispiaceva, un bel giorno ordinò a Conturina di non pronunciare una parola in presenza degli ospiti. E disse a tutti che la ragazza era stupida e muta.

Ma i giovani visitatori ammiravano anche così la ragazza stupenda.

Allora la matrigna ordinò che, quando vi fossero ospiti in casa, Conturina restasse sempre perfettamente immobile. E disse a tutti che la figliastra era muta e paralitica.

Ma i giovani visitatori ammiravano anche così la ragazza stupenda.

La matrigna, furente, mandò a chiamare una strega, la quale con un incantesimo trasformò Conturina in pietra.
Tutti si innamorarono della statua bellissima.
Allora la matrigna ordinò che la fanciulla impietrita venisse portata sopra un’altissima rupe, che domina il Passo di Ombretta, che venisse infitta nella roccia e abbandonata lassù.
E così fu fatto.
Mesi ed anni passarono senza che nessuno sapesse dove era andata a finire la povera Conturina.

Dopo alcuni anni, fra i pastori si cominciò a dire che nella solitudine della Val d’Ombretta, qualche volta si udiva cantare una voce di donna.

Una notte un giovane soldato, che era di sentinella sul passo, nel silenzio profondo riuscì a comprendere anche le parole del canto, nel quale Conturina raccontava la sua storia. Il soldato le gridò che allo spuntar del giorno si sarebbe arrampicato su quella rupe per liberarla. Ma Conturina gli rispose che era troppo tardi.

Nei primi sette anni sarebbe ancora stato possibile liberarla, ma alla fine del settimo anno l’incantesimo si era fatto insolubile e nessuna forza umana sarebbe valsa ormai a staccarla da quella rupe, dove ella era destinata a rimanere per sempre.

E così fu.

Qualche volta, chi passa per quel deserto di rocce che è la Valle Ombretta, specialmente di sera, ode ancora il mesto canto della povera Conturina.

(C. F. Wolf)

Lo specchio di MISURINA – leggenda Veneta

Lo specchio di MISURINA – leggenda Veneta per bambini della scuola primaria.

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Lo specchio di MISURINA – leggenda Veneta

 C’erano una volta un papà e una bambina. La bimba si chiamava Misurina e Sorapis il papà. Papà era un gigante, e Misurina una bimba piccina piccina, che poteva benissimo stargli nel taschino del panciotto. Eppure, quella piccina piccina poteva a suo agio prendere in giro quel papà grande come una montagna.

E’ la sorte che tocca ai papà troppo buoni con le bambine che non meritano nessuna bontà. E Misurina intanto cresceva stizzosa ed insolente.

Al castello di babbo Sorapis tutti la fuggivano come la peste, uomini di corte e valletti di camera, dame di compagnia e donne di cucina.

“Signori miei”, gemeva Sorapis, “lo so, lo so. Misurina è un po’ monella, ma è tanto una cara bambina! Rimedieremo… rimedieremo…”.

Ma non rimediava, pover’uomo. Anzi, la piccola, crescendo, diventava sempre più insopportabile. Il suo difetto più grande, però, era la curiosità. Una bimba così curiosa non la si sarebbe incontrata in tutto il mondo. Voleva sapere tutto, voleva vedere tutto.

Un giorno la nutrice le disse: “Una signorina come te, dovrebbe possedere lo specchio Tuttosò”

“E che cos’è questo specchio?” esclamò la bimba, facendosi rossi per l’emozione.

“Uno specchio dove basta specchiarcisi per saper tutto quanto si vuol sapere”.

“Oh” mormorò Misurina, “E come posso averlo?”

“Domandalo al tuo papà, che sa tutto”.

Misurina andò dal babbo, saltellando come un passero.

“Papà,” cominciò a gridare prima di giungergli accanto, “devi farmi un regalo!”.

“Se posso, gioietta”

“Sì che puoi”

“E allora sentiamo”

“Prima giura che me lo farai”

“Non posso giurare se non so di che regalo si tratta”

“Voglio lo specchio Tuttosò”

Sorapis impallidì. “Tu non sai ciò che mi chiedi, figliola”

“Sì che lo so!”

“Ma non sai che lo specchio appartiene alla fata del Monte Cristallo?”

“E che mi importa? Lo comprerai!”

Il povero Sorapis sospirò…

“O glielo ruberai.”

“Senti… Misurina…”

“L’hai promesso, papà!”

E quel demonio di figliola si mise a piangere e a sospirare e a rotolarsi per terra. “E se non mi porterai quello specchio, io morirò”.

Il povero papà si mise in testa la corona, vestì il mantello di ermellino, prese lo scettro a mo’ di bastone, e si avviò dalla fata che abitava a pochi passi da lui. Non appena giunse al castello, bussò.

“Avanti” disse la fata, che sedeva nella sala del trono, insieme con due damigelle. “Chi sei e cosa vuoi?”

“Sono Sorapis, e voglio lo specchio Tuttosò”

“Corbezzoli!” rise la fata, “Solamente? Come se si trattasse di fragole!”

“Oh, fata, fatina, non ridere… se tu non me lo dai, la mia bambina morirà”

“La tua bambina? E che ne sa dello specchio Tuttosò? A che le serve? Come si chiama questa bambina?”

“Misurina”

“Ah, ah!” disse la fata, “La conosco di fama. Le sue grida giungono fino a me quando fa i capricci, e questo è un capriccio ben degno di lei. Va bene, io ti darò lo specchio, ma a un patto”

“Sentiamo” accondiscese il re.

“Vedi quanto sole batte da mattina a sera sopra il mio giardino?”

“Vedo” rispose Sorapis.

“Mi brucia tutti i fiori e mi dà noia. Mi ci vorrebbe una montagna a gettarmi un po’ d’ombra. Ecco, bisognerebbe che tu, grande e grosso come sei, ti contentassi di trasformarti in una bella montagna. A questo patto ti darei lo specchio Tuttosò”.

“Oh… oh…” disse Sorapis, grattandosi un orecchio e sudando freddo.

“Prendere o lasciare” disse la fata.

“Va bene! Dammi lo specchio”, sospirò il poverino.

La fata trasse da uno scrigno, che aveva a portata di mano, un grande specchio verde e glielo porse, ma poichè si accorse che il povero Sorapis era diventato smorto, ebbe pietà di lui, e gli disse:

“Facciamo una cosa; capisco che tu non hai troppo desiderio di trasformarti in una montagna, ed è naturale, ma, d’altra parte, hai paura che la tua bimba muoia se non mantieni la promessa che le hai fatto. Ritorna al tuo castello e di’ alla bimba la condizione per cui può venire in possesso dello specchio; se ella ti vuol bene rinuncerà a possederlo per non perdere il suo papà, e tu mi rimandi lo specchio, e se no, se no… io non ne ho colpa”.

“Sta bene” rispose il re, e ripartì.

Misurina lo aspettava seduta sullo spalto più alto del castello e non appena lo vide, gli gridò: “Ebbene, me l’hai portato?”

“Eh, sì, te l’ho portato”, ansimò il poverino. E presala in mano per parlarle meglio, le riferì l’ambasciata della fata del Monte Cristallo. Misurina battè le mani.

“Tutto qui?” disse, “Dammi pure lo specchio, papà, e non pensarci. Diventare una montagna deve essere una bellissima cosa. Anzitutto non morirai più, poi ti coprirai di prati e di boschi ed io mi ci divertirò.

Il poveretto impallidì, ma tanto valeva; la sua condanna era stata decretata. Non appena Misurina ebbe afferrato lo specchio, Sorapis si ampliò, si ampliò, si gonfiò, parve lievitasse nel sole, si impietrì, e in un attimo diventò la montagna che ancora oggi si erge di fronte al Monte Cristallo.

Misurina, trovatasi innalzata a quell’altezza prodigiosa sulla cresta di una montagna bianca e nuda, dove a poco a poco gli occhi di suo padre morivano, gettò un grido terribile e, presa da un capogiro, col suo specchio verde precipitò giù.

Allora dagli occhi semispenti di Sorapis, incominciarono a scendere lacrime e lacrime, fino a che gli occhi si spensero e le lacrime non piovvero più.

Con quelle lacrime si è formato il lago sotto cui giacciono Misurina e lo specchio, e in quel lago il Sorapis si riflette e cerca con gli occhi morti la sua bimba morta.

(P. Ballario)

Leggenda del MONTE DISGRAZIA – Lombardia

Leggenda del MONTE DISGRAZIA – una leggenda della Lombardia, per bambini della scuola primaria.

Leggenda del MONTE DISGRAZIA

Il Monte Disgrazia, in fondo alla val Malenco, nella provincia di Sondrio, è oggi aspro, roccioso e brullo. Ma non è sempre stato così.

Molti secoli fa, quella montagna era ammantata di incantevoli pascoli verdi. Era un luogo talmente meraviglioso che aveva meritato il nome di Monte Bello.

A primavera i pastori risalivano verso la cima e sui pascoli erbosi si fermavano fino all’autunno coi loro greggi.
Così per molti secoli.

Un giorno comparve, presso le baite situate più in alto, un vecchio uomo sfinito dal caldo e dal digiuno. I pastori, in quel momento, stavano consumando il loro frugale pasto: pane duro e formaggio.

Il povero viandante chiese, umilmente, un po’ di cibo e il permesso di riposarsi fra loro un giorno o due, dicendo che si sentiva sfinito e febbricitante. Ma i pastori lo derisero e risposero che non avevano nessuna voglia di ospitare vagabondi malati.

“Va’ a morire altrove. Qui non c’è posto per un vagabondo come te!”

Scacciato così crudelmente, il povero vecchio seguitò in silenzio il suo cammino più a valle e si fermò solo davanti all’ultima baita, la più bassa, la più piccola e, dall’aspetto, la più povera.

Qui, all’ombra di una grande quercia sedeva tutto solo un giovane e robusto pastore. Il pellegrino gli si accostò e gli si sedette a fianco senza dir nulla. Le gambe non lo reggevano più e la vista gli si annebbiava. Il giovane pastore capì quegli occhi che piangevano e che imploravano; si alzò, gli porse l’acqua fresca della sua borraccia, poi un po’ di pane e un po’ di formaggio. Quindi lo invitò a riposare nella sua baita dicendo: “Seguiterai il cammino fra qualche giorno. Io sono solo e la tua compagnia mi farà felice”.

Il vecchio lo guardò con profonda riconoscenza. “Grazie, buon pastore” gli rispose, “Ma devo arrivare al paese prima di sera. Per raggiungerlo ci vuole qualche ora di cammino ed io sono vecchio. Accompagnami, piuttosto, fino a quelle case laggiù!”

“Se proprio vuoi proseguire, ti accompagnerò volentieri. Aspetta un momento perchè io raduni il mio gregge.” disse il pastore.

“Non occorre, lascialo pure così”, rispose il pellegrino.

Ed il vecchio, appoggiandosi al giovane, fece con lui, in silenzio, un buon tratto di cammino. All’improvviso il cielo si oscurò in modo pauroso. Non erano nuvole, ma caligine, a tratti squarciata da immense vampate di fuoco.

“Non voltarti indietro” raccomandò il pellegrino. Ma il pastore si volse lo stesso. Il monte ardeva in un gigantesco rogo. Le fiamme mandavano così vivida luce che gli occhi del pastore non la potevano sostenere e rimasero ciechi. Il giovane allora, pieno di terrore, si gettò a terra piangendo e pregando: “Dio misericordioso, ti supplico, perdona la mia disobbedienza  e toglimi da questa notte!”

“Allunga la mano” disse allora il pellegrino ” e lavati con l’acqua del fiume; poi torna presso il tuo gregge,  che è  salvo nel tuo pascolo. Abbi fede!”

Appena il pastore ebbe raccolta, con le mani tremanti, un po’ d’acqua e se ne fu bagnati gli occhi, riacquistò la vista e si guardò intorno pieno di stupore. Il cielo era ritornato sereno e tutto era pace e silenzio.

Ma il monte… il bel monte prima ravvolto di boschi e di verdi pascoli era divenuto bruno, roccioso e aspro e si ergeva coi suoi aguzzi picchi e fianchi solcati da crepacci minacciosi.

Il Monte Bello si era tramutato nel Monte Disgrazia.

LEGGENDE ITALIANE I laghi di Avigliana

LEGGENDE ITALIANE I laghi di Avigliana – una leggenda del Piemonte per bambini della scuola primaria.

LEGGENDE ITALIANE

I laghi di Avigliana

C’era una volta in Piemonte, là dove ora sorgono i due laghi di Avigliana, un grosso borgo florido e ricco. Disgraziatamente la fortuna e gli agi avevano indurito e inasprito il cuore degli abitanti: essi erano così egoisti, avari e crudeli che non facevano neppure la più piccola elemosina, e vivevano pensando solo a se stessi e al proprio benessere.

Ora avvenne che una sera d’inverno, in cui infuriava una gelida tempesta di neve, un pellegrino vestito di bianco giunse alla borgata. Appariva sfinito dal lungo cammino e si trascinava a stento nella tormenta che gli sferzava il volto pallido ed emaciato, contratto dalla fatica e dalla pena.

Bussò alla porta di una casa, le cui finestre dai vetri appannati rivelavano come nell’interno vi fosse un buon tepore, e chiese per carità un po’ di pane, una ciotola di latte caldo, un ricovero per la notte: era un pellegrino, un fedele di Dio, e Dio avrebbe ricompensato chi lo avesse ospitato.

Ma vane furono le richieste e le preghiere del bianco viandante.

Tutti gli chiusero la porta in faccia con mala grazia, rifiutandogli ogni soccorso.

Ormai egli aveva percorso tutte le vie, picchiato a tutti gli usci. Restava ancora solo una misera casupola sperduta, che sporgeva su una piccola altura, un po’ fuori del paese. Dietro i vetri della minuscola finestrella si scorgeva oscillare una fioca fiammella di candela.

Il pellegrino bussò  anche a quest’ultima porta, con un ultimo barlume di speranza. Una vecchiarella tremula, poveramente vestita, gli aprì e lo invitò premurosamente ad entrare.

Lo fece accomodare accanto al camino ed accese un fuoco di sterpi e di rami secchi, raccolti pazientemente, un po’ alla volta, nei boschi, durante l’autunno. Poi gli scaldò una tazza di brodo e gli diede una fetta di pane nero, tutto ciò che le restava nella madia.

“Poverino, sei tutto fradicio!” gli disse, aiutandolo a togliersi il bianco mantello inzuppato di acqua e di neve.

Gli porse una coperta ed il pellegrino si ravvolse in essa e si stese vicino al focolare, accanto alle braci calde, per dormire. La vecchietta voleva cedergli il suo lettuccio, in una stanzetta al piano superiore, ma egli rifiutò, dicendo che questo non poteva assolutamente accettarlo. Allora la vecchina gli augurò la buona notte e andò di sopra a coricarsi.

La mattina seguente, quando ella scese in cucina, il bianco pellegrino era scomparso.

“Strano…” pensò, “… chissà perchè se ne sarà andato senza salutarmi. Forse aveva fretta di riprendere il cammino interrotto e di arrivare a destinazione…”.

Aprì la porta e si affacciò sulla soglia, per vedere se le riusciva di scorgerlo lungo la strada maestra. La tormenta era passata e splendeva il sole. Guardando il paesaggio all’intorno, la vecchiarella mandò un’esclamazione di stupore…

Il villaggio non c’era più… Nessuna traccia delle case, ai lati della strada… Al loro posto si stendevano due laghi, uno più grande e uno più piccolo, dalle cerule onde increspate dalla brezza e scintillanti nel sole, fra rive bianche di neve.

Solo la casetta della povera vecchia si era salvata dalla distruzione: così il divino viandante dal candido mantello aveva premiato il buon cuore di lei e punito la malvagità dei suoi compaesani.

LEGGENDE ITALIANE Il giovane conte cambiato in lupo

LEGGENDE ITALIANE Il giovane conte cambiato in lupo – una leggenda della Valle d’Aosta per bambini della scuola primaria.

LEGGENDE ITALIANE

Valle d’Aosta

Il giovane conte cambiato in lupo

Era inverno. La neve copriva abbondantemente le falde dei monti. Anche il fondo valle era coperto di neve.

I contadini stavano rintanati nelle stalle, per ripararsi dalle intemperie. Il sepolcrale silenzio del luogo era rotto soltanto dallo scrosciare delle acque del Lys e dal fragore delle valanghe che precipitavano dai monti vicini, con grande fragore.

Paolo, un giovanotto di Lillianes, la sera della festa patronale, il 22 gennaio, si recò presso Geltrude, la sua fidanzata. Voleva avvisarla che per alcuni giorni non l’avrebbe vista, perchè doveva recarsi al villaggio di Moller per cuocervi il pane per l’estate successiva.

Il giorno seguente, prima che il sole sorgesse all’orizzonte, egli aveva già fatto ben due ore di cammino sulla neve immacolata ed era giunto lassù dove la bianca farina di segale lo attendeva per essere trasformata in pane saporito.

Gli annosi abeti della foresta vicina protendevano lunghi rami verso il suolo, stanchi della pesante stretta che dava loro la neve.

Paolo, però, non si fermò a contemplare il quadro che gli si spiegava dinnanzi; e tanto meno sentì il minimo sgomento di trovarsi in un luogo tanto selvaggio. Cominciò a togliere con il badile la neve che ingombrava l’entrata di casa, poi accese il fuoco nel forno e, sempre canterellando allegramente, pulì la madia, preparò la pasta, formò i pani e li mise a cuocere.

Poco dopo dal forno usciva un buon odore di pane e quell’odore appetitoso stuzzicò la fame del giovane montanaro.

Ma quale non fu il suo stupore, quando, voltandosi verso la porta,  vide un grosso lupo che lo stava guardando, con la lingua ciondoloni e il respiro grosso e affannato.

Non avendo alla mano altra arma di difesa, Paolo prese una palata di brace e la scaraventò sulla belva, la quale se ne andò mandando gemiti e ululati spaventosi.

Il giovanotto credette di essersi liberato della bestia importuna, ma così non fu. Il lupo, dopo una ventina di minuti, tornò a presentarsi alla capanna. Scacciato una seconda volta, tornò una terza e poi ancora, finchè a Paolo venne l’idea di gettargli un pane caldo. Allora la belva, quasi non avesse aspettato altro, addentò con avidità il pane e, questa volta, non fece più ritorno.

Quando Paolo discese a valle, raccontò ai familiari ed agli amici la storia del lupo, ma nessuno ci fece gran caso, forse perchè in quei tempi i lupi erano assai comuni nelle nostre vallate alpine.

Nell’estate seguente, Paolo volle realizzare il suo sogno di sposare la bella Geltrude.

Valicati i monti di Carisey e del Mucrone, e salutata di passaggio la Madonna nera del Santuario d’Oropa, si recò a Biella con l’intenzione di comprare l’abito nuziale per sè e per la sposa.

La cittadina era molto movimentata, a motivo della fiera.

Paolo, abituato alla semplicità del suo villaggio natio, si fermava estasiato a contemplare le vetrine dei vari negozi. Ed in mezzo a tanto trambusto era quasi sbalordito.

Ad un tratto sentì che qualcuno gli toccava la spalla. Si voltò e vide un signore alto, distinto ed elegante, che lo guardava con aria amichevole. Paolo rimase perplesso, con gli occhi fissi  in quelli dello sconosciuto.

Poi questi prese le mani del montanaro, gliele strinse con affetto e lo invitò a seguirlo nel suo castello, dove lo trattenne a pranzo.

Il povero montanaro, seduto al posto d’onore, aveva la mente tanto confusa che non osava proferir parola. A un certo punto, con evidente commozione, il padrone di casa gli richiamò alla mente quel tale lupo della montagna di Moller. Poi, dopo una lunga esitazione, aggiunse: “Quel lupo ero io!”

E continuò: “Ero un giovanotto spensierato e mi divertivo a fare escursioni sui nostri monti. Quattro anni fa ero di passaggio al Lago di Mucrone, quando una malvagia strega mi si avvicinò. Mi toccò con una bacchetta incantata e da quel momento fui mutato in lupo famelico e fui condannato a rimanere tale finchè non avessi trovato un’anima pietosa che mi regalasse un pane. Passarono i giorni, passarono i mesi, e quattro tormentose annate… Nella dolorosa attesa morì di dolore una bella castellana di Pont Saint Martin, mia fidanzata, e morì, pure di dolore, la mia povera madre. Quanto a me, per ben quattro anni dovetti percorrere monti e valli, ululando, con la morte nel cuore, aspettando che qualcuno mi ridonasse la felicità perduta”.

Allorchè Paolo ebbe udita la commovente narrazione, si gettò tra le braccia del conte e scoppiò in lacrime.

Grande fu la commozione di entrambi.

Si racconta che il conte biellese non dimenticò mai il suo benefattore.

Paolo e Geltrude, col denaro ricevuto dal conte, qualche anno dopo il loro matrimonio, fecero edificare una bella villa sul poggio che si eleva tra i villaggi Barbià e Salè, sulla strada che da Lillianes conduce a Santa Margherita, e di là  ad Oropa.

Ancora oggi se ne scorgono i ruderi e la località viene chiamata Courtil del Conte.

(C. Vercellin)

Antico Egitto dettati ortografici e letture

Antico Egitto dettati ortografici e letture – una raccolta di brevi testi di autori vari per la classe quarta della scuola primaria.

Gli Egizi

L’Egitto è una terra sulla quale la pioggia cade assai raramente. Il deserto di pietra e di sabbia si stende a perdita d’occhio. L’Egitto è percorso da un grande fiume, il Nilo. Esso, una volta all’anno, nel periodo da maggio a ottobre, straripa, inonda il territorio circostante e vi depone una fanghiglia fertile. Quando le acque si sono di nuovo ritirate, il contadino ara i campi, semina e, in meno di quattro mesi, raccoglie grano in abbondanza.

Seimila anni fa, lungo le sponde del fiume benefico, sorse una grande civiltà: quella degli Egizi. Gli Egizi seppero sfruttare il Nilo; regolarono il corso delle sue acque, le incanalarono, edificarono in altro le loro case per proteggerle dagli allagamenti.

Essi formarono una società bene ordinata, guidata da leggi, governata da un re, detto faraone, venerato come un dio.

Gli Egizi erano molto religiosi: adoravano il Sole, la Luna, e molti animali. Essi credevano che ogni uomo avesse un’anima, la quale durava oltre la morte, fino a quando il corpo si fosse conservato; si preoccupavano, perciò, di imbalsamare le salme, di fasciarle e di porle in sarcofaghi riccamente decorati. I corpi così preparati si dicono mummie e sono ancora oggi intatti. Alcuni faraoni si fecero costruire tombe gigantesche, le piramidi, alte più di cento metri, occupate da corridoi, gallerie e sale.

I personaggi più importati dello Stato erano i sacerdoti e i guerrieri; poi c’era il popolo dei contadini, degli artigiani e dei mercanti; ultimi venivano gli schiavi, trattati al pari delle bestie. I sacerdoti amministravano la religione e la giustizia; istruivano il popolo, erano astronomi, scienziati, ingegneri. I guerrieri erano i nobili; seguivano il re e combattevano in gruppi di fanteria con lance, archi, scuri e pugnali.

Gli Egizi scrivevano su una specie di carta ricavata dalla pianta del papiro. Prima usarono una scrittura a disegni detti geroglifici, poi inventarono un vero e proprio alfabeto.

L’Egitto e il Nilo

L’Egitto deve la sua straordinaria fecondità alle periodiche inondazioni del fiume. D’estate, per effetto delle grandi piogge equatoriali cadute nelle zone del suo alto corso, il Nilo si gonfia tanto che l’acqua trabocca dalle rive ed inonda tutto il paese intorno, deponendo sul terreno un limo fecondatore.

In autunno, quando le acque si ritirano, il suolo riemerge meravigliosamente fertilizzato. A novembre si semina e quattro mesi dopo si miete un abbondantissimo raccolto.

Gli antichi abitanti dell’Egitto, colpiti dal meraviglioso fenomeno, non conoscendone le cause, adorarono il fiume come un dio benefico.

Ma quelle acque, abbandonate a se stesse, potevano essere anche rovinose: perciò fin dai tempi più antichi gli Egizi costruirono canali, argini e laghi artificiali, per disciplinarle a proprio vantaggio. Dono dunque del Nilo, ma anche dell’intelligenza e del lavoro umano, l’Egitto.

Le città

Lungo il Nilo gli Egizi costruirono meravigliose città. Le più belle furono Menfi e Tebe. Quest’ultima aveva cento porte di bronzo e magnifici templi dedicati al dio Sole, buono e generoso come il Nilo.

Le credenze religiose

Gli Egiziani più antichi adoravano gli animali, come il falco, l’avvoltoio, il cane, lo scorpione, convinti che in essi si incarnassero e si manifestassero gli dei.

Con particolare devozione essi adoravano Api, un bue tutto nero con una macchia bianca sulla fronte: volevano così esprimere la loro riconoscenza all’animale che aiuta l’uomo nelle fatiche dei campi.

Adoravano inoltre la Luna, che chiamavano Iside, e che pensavano fosse la moglie del Sole, cioè di Osiride.

Un’altra divinità egiziana era Ibis, l’uccello sacro che portava sulle grandi ali le anime dei morti nel regno delle ombre.

Gli Egiziani credevano che, alla morte di ogni uomo, l’anima, dopo un lungo viaggio sulle ali di Ibis, comparisse davanti ai giudici, in mezzo ai quali sedeva il dio Osiride, cioè il Sole che tutto vede. Osiride pesava le anime su una bilancia e ascoltava le loro confessioni. Le anime leggere, cioè senza colpe, volavano negli incantevoli giardini dove il grano era alto sette braccia. Le anime pesanti, cioè quelle cattive, erano subito punite.

Il culto dei morti

Quando qualcuno moriva, gli Egiziani ne imbalsamavano il corpo e lo fasciavano con lunghe e strette bende intrise di sostanze resinose.

Deponevano il morto così fasciato dentro una custodia di legno a forma umana, sulla quale facevano il disegno del volto e del vestito.

Le salme così preparate si chiamavano mummie.

Sono state ritrovate dopo migliaia e migliaia di anni e ora si trovano nei musei.

Nella tomba, accanto alla mummia, venivano posti gli oggetti appartenenti al morto.

Si credeva che esso dovesse fare un lungo viaggio. Perciò insieme con gli oggetti d’uso, si ponevano nelle tombe anche i cibi necessari per via.

Le grandi piramidi

Le più grandi piramidi furono costruite oltre quattro millenni e mezzo fa. Quella di Cheope supera i 145 metri di altezza, ciascuno dei quattro lati è 230 metri. Plinio dice che vi lavorarono 400.000 uomini per venti anni.

A destra di essa sono le minori piramidi di Chefren e di Micerino.

La sfinge

La sfinge è un monumento egiziano che sorge vicino alle piramidi di Giza. Raffigura un dio egizio con testa di donna e corpo di leone. E’ alta 17 metri ed è lunga 38. Questa statua vuole significare la forza e l’intelligenza dei Faraoni, che erano i padroni di tutte le ricchezze egiziane.

Tutankhamon

La tomba di questo famoso faraone, che regnò in Egitto dal 1358 al 1349 aC, fu scoperta nella Valle dei Re nel 1922. Il corpo mummificato del giovane re, giaceva in una bara d’oro. Attorno furono rinvenute suppellettili funerarie, e, come di consueto nelle tombe egizie, gli oggetti che avevano servito il vivo ed altri che l’affetto dei sudditi offriva perchè il faraone potesse abitare nella nuova casa dell’al di là.

La scrittura.

Gli Egiziani sapevano scrivere ma, poichè la carta non era ancora stata scoperta, essi scrivevano sulle pareti dei templi e nelle tombe, o sui fogli del papiro, un arbusto che nasce lungo il Nilo. Per scrivere sulla pietra usavano scalpelli. Per scrivere sul papiro usavano pennellini intinti nel color rosso.

Essi non usavano le lettere dell’alfabeto, come facciamo noi; disegnavano invece moltissime figurine (circa 3000), ciascuna delle quali aveva un significato. Questi disegni si dicono ideogrammi; le iscrizione composte di molti ideogrammi sono dette iscrizioni a caratteri geroglifici.

Ogni figurina aveva un suo significato. Per dire “Il sole è forte” disegnavano un tondo (che significava il sole) e accanto vi disegnavano un leone (che significava la forza).

Per dire “L’uomo è puro”, disegnavano un uomo e accanto un fiore di loto, che nasceva in riva al Nilo e dava l’idea di purezza.

La terra dei vivi

L’egiziano era un popolo semplice e la sua vita era fatta di piccole cose che per gran parte oggi ci sono rimaste conservate nelle tombe. La casa dell’uomo comune era una piccola capanna a un solo locale con una porta – finestra costruita in mattoni cotti al sole. Il tetto era per lo più di paglia.

Nell’interno c’era un focolare e molte stuoie arrotolate che venivano distese per la notte sulla terra battuta del pavimento. Pochi cibi bastavano per vivere: un po’ di pane, di quello duro che ognuno cuoceva nel proprio focolare; cipolle, minestra di ceci. Fichi freschi e fave completavano il pasto quotidiano.

Vita d’oltretomba

Gli Egiziani pensavano che ci fosse una vita anche dopo la morte. Dopo un periodo di permanenza nella cella funeraria, l’anima poteva emigrare in un’altra terra. L’anima, lasciata la tomba, deve volgere le spalle alla vallata, ed inoltrarsi arditamente nel deserto. Lì incontrerà un albero di sicomoro, detto anche “albero – fata”. Dall’albero uscirà una dea, che offrirà all’anima un piatto pieno di pan e un vaso colmo d’acqua. L’anima che accetta questi doni diviene ospite della dea, e non può più ritornare indietro, senza il permesso della dea stessa.

Paesaggi spaventosi si offrono allora all’anima: dove serpenti e ogni sorta di animali feroci si aggirano indisturbati; dove torrenti di acqua bollente scorrono impetuosi, interrotti da paludi dove scimmie gigantesche prendono i “doppi” con le reti. Di fronte a simili pericoli, molte anime non resistono  e  muoiono; ma quelle che sono fornite di amuleti e di incantesimi proseguono, e arrivano in vista di un gran lago, oltre il quale sono le isole dei beati.

L’uccello sacro, l’ibis, solleva le anime sulle sue ali e le trasporta davanti ad Osiride.

Un tribunale assai strano

In una grande sala sono adunati quarantadue assessori; in mezzo ad essi siede il dio Osiride. L’ibis pesa il cuore delle anime sulla sua bilancia. Da un altro lato, la dea Verità suggerisce alle anime una confessione negativa, che le dichiara innocenti di ogni peccato. Se il tribunale dà parere favorevole, le anime possono entrare nei campi delle fave.

I campi delle fave sono di una fertilità inesauribile: lì la battaglia del grano deve essere stata combattuta con tutte le regole… Pensate che il grano è alto sette braccia, di cui due rappresentano la spiga. I morti coltivano, mietono, ripongono le messi: però, se sono stanchi, c’è chi lavora per loro. Sono i “rispondenti”, cioè certe statuine di smalto che sono state chiuse con loro nella tomba. Si chiamano “rispondenti” proprio perchè rispondono quando il padrone li chiama al lavoro (chi sa a quanti ragazzi farebbe comodo un rispondente quando c’è un compito di grammatica, o un problema difficile…).

Ad eccezione dei lavori dei campi, le anime non fanno altro: o meglio, pensano a divertirsi, con canti, giochi e balli.

Le tre possibilità dell’anima

L’anima che esca dal corpo e dalla tomba alla ricerca di beni ultramondani ha tre possibilità:

1. il soggiorno nei campi di Jaru, dove i defunti ricevono in compenso del loro lavoro il doppio e il triplo di quanto è riservato al coltivatore del paese d’Egitto.

2. il soggiorno nei campi delle offerte, dove ogni sorta di cibi e di vivande è messa a disposizione dei fortunati che riescono a raggiungerlo.

3. il Duat, che il morto deve raggiungere prendendo posto sulla barca del Sole e dove vivono gli dei immortali. (T. Venturi)

L’enigma della scrittura egiziana

Fino a un secolo e mezzo fa la scrittura egiziana rimase indecifrabile; le lunghe iscrizione incise sulle pareti dei templi, delle piramidi, sugli obelischi, e i numerosi papiri erano un mistero.

Nel 1798, durane la spedizione napoleonica in Egitto, un ufficiale francese trovò a Rosetta, sul delta del Nilo, una stele di porfido con un’iscrizione redatta in tre forme di caratteri: egiziano antico, egiziano meno remoto, e greco. Fu quello il punto di partenza. Dal confronto fra i segni greci e i corrispondenti segni egiziani fu possibile desumere il significato di questi. Nel 1822 lo studioso francese Champollion riuscì a sciogliere l’enigma della scrittura egiziana.

Il papiro

L’albero che permise agli uomini di scrivere è il papiro. Il papiro è una grande erba perenne acquatica, con radice sotterranea – strisciante, dura e carnosa. Il fusto esterno, triangolare, si erge diritto da due fino a cinque metri, e termina con chioma a ombrello: una specie di piumino.

Il papiro prosperava già anticamente nell’Egitto, lungo il Nilo, e in Asia sulle rive dell’Eufrate. Secondo lo scrittore Cassiodoro che lasciò parecchi libri di storia, filosofia e scienza, le rive del Nilo si potevano allora scambiare per “un’immensa foresta senza rami, una boscaglia senza foglie”.

Oggi il papiro si trova con  maggiore facilità e diffusione, ma è meno cercato. Lo si trova in Palestina, in Africa, a Malta; ed anche in Sicilia, presso Siracusa, sulle rive dell’Anapo, dove lo trapiantarono gli Arabi.

Gli antichi trassero dalla corteggia del papiro un foglio largo, lungo e sottile, molto pieghevole, su cui poterono scrivere: il suo altro fusto, tagliato in sottili listarelle avvicinate le une alle altre nei due sensi verticale e orizzontale, come si farebbe per i fili di una stoffa, forniva una carta di un colore gialliccio che assomiglia alla buccia delle cipolle. (G. Bitelli).

La prima lettera

Quando gli altri popoli della terra andavano ancora a caccia con la mazza e abitavano nelle caverne, gli Egiziani costruivano le piramidi e irrigavano i terreni.

Fu così che un bel giorno un egiziano, ancora più intelligente degli altri, ebbe un’idea. Doveva mandare a dire una cosa ad un suo amico che abitava nel paese vicino. C’era appunto un tale che doveva recarvisi e l’egiziano pensò di approfittare dell’occasione. Ma se poi quello, strada facendo, si fosse dimenticato il messaggio?

L’egiziano intelligente ebbe allora un’idea: prese un bel foglio di papiro, che era una pianta che cresceva sulle sponde del Nilo, appuntì un ramoscello e si mise a fare dei disegnini sulla scorza molle.

Voleva dire “casa”? E disegnava una casa, o magari solo il tetto, o un rettangolo, qualche cosa insomma che somigliasse a una casa.

Voleva dire “bue”? Ed ecco un bel paio di corna, e l’amico doveva proprio essere tardo se non capiva che quello voleva dire bue.

La “luna” poi era presto fatta, e così il “sole”.

Quando l’egiziano ebbe finito, guardò compiaciuto i suoi disegnini, fece un rotolo del suo papiro e lo consegnò al messaggero con mille raccomandazioni e tanti saluti per l’amico.

Questi, magari, ricevendo il plico non ci avrà capito niente ed avrà pensato che l’altro aveva del tempo da perdere; invece, altro che tempo da perdere!

In quel preciso momento in cui l’egiziano intelligente tracciava i suoi disegnini sopra un pezzo di scorza di papiro, era nata nientemeno che la scrittura e nello  stesso tempo, la prima lettera. (M. Menicucci)

Il passaggio del Faraone

Neris, ragazzo egiziano di quattromila anni fa, viveva in un villaggio di povere case di fango presso il delta del Nilo. Era il maggiore di diversi fratellini e sorelline. Un proverbio dell’antico Egitto diceva: “Famiglia numerosa, grazia degli dei”.

Tutte le mattine la mamma, dopo essere stata al fiume per l’acqua, e aver preparato qualche focaccia di grano tritato, affidava le bestie ai figli: ai maschietti gli asini ed i buoi, alle bimbe le oche. Solo Neris andava col babbo, che si recava sulle sponde del Nilo a tagliare i fusti di papiro.

Ogni tanto un mercante, giunto da lontano, caricava sul suo barcone i fusti e li portava via. Neris sapeva che sarebbero serviti per fabbricare fogli su cui certi uomini sapienti avrebbero scritto. Il mercante gli aveva anche detto che la loro scrittura somigliava ai disegnini che i ragazzi facevano talvolta con uno stecco nel fango del Nilo. Quei sapienti si chiamavano scribi e il mercante soleva ripetere: – Beati loro! Gli scribi possono diventare generali, governatori, architetti, sacerdoti…-

– Ma tu, o mercante –  gli chiedeva Neris, – li hai visti questi personaggi importanti? –

– Sicuro! Li vedo sempre quando vado a Tebe, la città capitale. A Tebe ho veduto più volte anche il Faraone…-

– Davvero? E com’è? –

– Il suo passaggio è meraviglioso. Egli passa alto e rigido sul cocchio, preceduto dai Grandi Sacerdoti vestiti di porpora. Indossa abiti dorati, ha i capelli lunghi e arricciati, ma il viso tutto rasato. Le sue ciglia sono dipinte di verde, le unghie dei piedi e delle mani di rosso. In testa ha una corona sormontata da un serpente d’oro e di smalto con testa d’avorio. E’ un simbolo. Vuol dire che il Faraone ha il diritto di vita e di morte sui cittadini. Il Faraone è il figlio del Sole, un dio! –

Neris, con entusiasmo, esclamò: – Beato te, che hai veduto il Faraone! –

Allora il mercante, godendo di quella infantile sincerità, chiese al babbo di Neris di poter condurre il ragazzo a Tebe. Il babbo restò un poco incerto. Poi acconsentì.

Pochi giorni dopo, Neris saliva sul barcone del mercante. Il babbo, dopo avergli dato l’addio alzò le mani in alto e pregò il Nilo: – Salute a te che esci dalla terra e arrivi per dar vita all’Egitto! Tu che nascondi la tua origine nelle tenebre, tu, che quando straripi fai urlare la terra di gioia, tu che fai da specchio al dio Ra, il Sole, e alla dea Iside, la Luna, accompagna dolcemente il mio figliolo, che va a riverire il figlio del Sole! –

E il viaggio di Neris fu felice. Il ragazzo osservò lungo il Nilo i palazzi dell’antichissima Menfi, vide le belle navi a vela per le cerimonie religiose e quelle che trasportavano le mummie, ammirò la sfinge e le colossali piramidi. Giunto a Tebe, la città dalle cento porte di bronzo, restò meravigliato dei palazzi e dei templi maestosi. Mentre si trovava vicino al tempio di Ammone, una squadra di arcieri a cavallo annunciò il passaggio del Faraone. Il popolo si ritirò tutto da una parte della piazza in religiosa attesa.

Il cuore di Neris battè. Finalmente avrebbe goduto anche lui la vista del figlio del Sole! Ma ecco giungere altri soldati, che gridarono: – Il radioso Faraone oggi non permette lo sguardo del popolo! Giù tutti, col capo chino! Guai a chi solleverà lo sguardo! –

Il popolo si inchinò e piegò il capo. Anche Neris dovette fare altrettanto; anzi il mercante per essere sicuro del ragazzo, gli tenne una mano sul capo. Sapeva bene come fosse pericolosa una disobbedienza al figlio del Sole!

Così passò il corteo reale e il povero ragazzo non vide nulla.

– Non ti dispiacere – gli disse dopo il buon mercante, – se non hai visto il Faraone. Del resto, anch’io non l’ho mai osservato bene! Ed è giusto che sia così, perchè il Faraone è un dio. –

Ma durante il viaggio di ritorno Neris si disperò e pianse. E solo la promessa di un nuovo viaggio che il mercante gli fece, valse a consolarlo un po’. (R. Botticelli)

La famiglia egiziana – Una breve recitina

La comune famiglia dell’antico Egitto viveva poveramente in case di fango. La mattina, mentre l’uomo usciva al lavoro agricolo, la donna accudiva alle faccende e mandava le bestie al pascolo, affidandole ai bambini.

Personaggi: la madre e quattro bambini: Koti, Kamcis, Rames e Neris.

Madre: Figlioli, quando vi vedo attorno a me, sapete a cosa penso?

tutti e quattro i figli: A che cosa, mamma?

madre: al proverbio “famiglia numerosa, grazia degli dei” !

Koti: Bene! Possiamo andare?

madre: Ah no! Tu, Koti, che sei il più grande, porterai gli asini ed i buoi all’abbeveratoio; tu Kamcis accompagnerai le oche; ma non fare a cavalluccio con quelle povere bestie, capito?; tu, Rames, cercherai sterco di animali per fare il combustibile;  e infine tu, piccolo Neris, andrai in cerca di foglie secche e fuscelli

Rames: io lo sterco non lo voglio raccogliere oggi. Perchè sempre io?

madre: e va bene. Ci penserà Kamcis, e tu Rames condurrai le oche…

Koti: le oche a Rames? Non è buono, madre! Gli scapperanno come farfalle!

madre: insomma, mettetevi d’accordo. Tutti dovete lavorare. Non siete figli di uno scriba. Vostro padre lavora la terra che Api rende fertile e io ho tante cose da fare. Chi prepara, ad esempio, il pane che trovate a casa?

tutti: Tu, mamma!

madre: andate, dunque. Gli dei vi proteggano. Se vi metterete d’accordo, dirò a vostro padre che vi racconti come fu che a Tebe vide il Faraone.

(in costruzione…)

Antico Egitto dettati ortografici e letture – Tutte le opere  contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.

Dettati ortografici – LA SCUOLA

Dettati ortografici – LA SCUOLA

Dettati ortografici – LA SCUOLA – una raccolta di dettati ortografici, di autori vari, per bambini della scuola primaria. Difficoltà ortografiche miste.

Una scuola di città
La ghiaia del cortile, le pozzanghere, i muri alti, con tante finestre tutte uguali, ogni finestra una classe, tanti maestri, tante maestre, tanti ragazzi tutti vestiti con lo stesso grembiule, e le stesse parole, gli stessi rimproveri, gli stessi problemi, da anni… Non c’è proprio niente di nuovo… Uno sguardo nel corridoio: come sempre un attaccapanni lunghissimo, tanti cappotti, tante mantelline, sciarpe rosse, duo o tre pelliccette e dentro le tasche, che cosa? Fischietti, bottoni, viti, il coperchio di una scatola di lucido, briciole di dolci mangiati chi sa quanto tempo fa, briciole che diminuiscono perchè ogni tanto, a ricordo di quel sapore, anche una briciola è buona. (G. Mosca)

Una vecchia scuola di villaggio
Il locale aveva tre pareti su quattro, dimezzate dal tetto a punta e due aperture per la luce simili più a feritoie che a finestre. L’una infatti spiava su un vicolo angusto e l’altra guardava le montagne che chiudevano l’orizzonte dalla parte di tramontana. I banchi erano lunghi e di quercia stagionata e portavano i segni ingloriosi delle offese ricevute da cinque generazioni di scolari. Al momento dell’entrata i primi arrivati si annunciavano con il battere dei loro zoccoli sui gradini della ripida scala di legno. (M. Menicucci)

Scuola
Tutti, tutti studiano ora. Pensa agli operai che vanno a scuola la sera, dopo aver faticato tutta la giornata; alle donne, alle ragazze che vanno a scuola la domenica, dopo aver lavorato tutta la settimana. Pensa agli innumerevoli ragazzi che, press’a poco a quell’ora, vanno a scuola in tutti i paesi. Vedili con l’immaginazione, che vanno, vanno per i vicoli dei villaggi quieti, per le strade delle città rumorose, lungo le rive dei mari e dei laghi, dove sotto un sole ardente, dove tra le nebbie, tutti con i libri sotto il braccio. E pensa: se tutto questo movimento cessasse, l’umanità ricadrebbe nella barbarie. (A. De Amicis)

Animo, al lavoro!
Animo, al lavoro! Al lavoro con tutta l’anima e con tutti i nervi! Al lavoro che mi renderà il riposo dolce, i giochi piacevoli, il mangiare allegro; al lavoro che mi renderà il buon sorriso del maestro e quello benedetto di mio padre. A. De Amicis

La cartella
Stamattina ho ripreso in mano la mia cartella per tornare a scuola. E’ la mia cartella dell’anno passato che la mamma ha ben spolverata e lucidata. Mi seguirà ancora per un intero anno scolastico  e sarà partecipe delle mie gioie e dei miei dolori. Come l’anno passato conterrà libri, quaderni, astuccio. Cercherò di conservarla bene.

Ritorno
L’estate è finita. I felici giorni trascorsi sulle spiagge, in campagna, sui monti, rimangono vivi soltanto nel nostro ricordo: si torna al lavoro, le vacanze sono finite. Anche i bambini, a cui il riposo ha ritemprato le forze, tornano volentieri a scuola. Cominciano serenamente il nuovo anno scolastico: è bello lavorare, è bello imparare! (Teresa Stagni)

La scuola
Anche la scuola ha le sue lotte, le sue battaglie; ma lotte pacifiche, battaglie amichevoli, dove la vittoria è comune, comune il premio. Vittoria è sentirsi dopo la battaglia più ricchi di virtù e di sapere; premio è il sentire cresciuta l’amicizia e la stima. Lontano dalla scuola i rancori e le insidie; oh, non arrivino mai questi a turbare l’aria pura e serena della scuola! (F. De Sanctis)

Ritorno
Bentornati, bambini, a scuola. Il tempo del riposo e dello svago è finito ed ora dobbiamo dedicarci allo studio. C’è in noi un certo rincrescimento per aver lasciato il mare, i monti e la campagna, ma c’è anche la gioia di esserci incontrati ancora tutti, per riprendere insieme il nostro lavoro.
La scuola non vi toglierà tutto il vostro tempo, di cui avete bisogno per giocare, ma vi ricorda che prima del gioco  avete un dovere da compiere: studiare.
Amate la scuola, accorrete alle vostre aule puntuali, volenterosi e soprattutto sereni. Ricordatevi che le vacanze estive vengono tutti gli anni e saranno sempre più belle per chi durante l’anno scolastico avrà ben meritato.
Buon lavoro e siate buoni! (G. Spanu)

A scuola
Eccoci di nuovo a scuola. Tu non sei più uno scolaretto timido come nelle classi precedenti, quando eri più piccino. Sai che il tuo dovere è quello di studiare e di imparare tante cose che ti faranno diventare onesto, forte, buono.

I migliori amici
I libri sono nostri amici. Essi ci fanno compagnia nella quiete del nostro studio, ci seguono nella campagna, rallegrano la nostra solitudine, riempiono le ore placide della vita. Ci parlano se interrogati; se li lasciamo non si lamentano; divertono nei tempi quieti e sereni, danno forza e coraggio nelle terribili circostanze, aprono le pagine della storia, ci fanno vivere coi grandi uomini che già furono. (F. Pananti)

Compagni di scuola
Tu vuoi bene, vero, ai tuoi compagni di scuola? Potrai avere una predilezione per il tuo vicino di banco, per il più bravo della classe, per quello che è stato colpito dalla sventura, ma a tutti, vero? A tutti vuoi bene. Al più ricco come al più povero tu doneresti, se venisse a casa tua, un fiore del giardino e tua madre gli chiederebbe della sua mamma, e gli aprirebbe il suo cuore chiamandolo “Figlio mio”. (M. Moretti)

Il maestro

Ogni maestro è come il comandante di una nave pronta a salpare. La scuola è la tua nave e tu sei scolaro e marinaio. A ogni lezione si parte e si arriva. Ed è sempre il maestro che ti dà il segnale, indica i punti da vedere e insegna le cose da imparare. Spesso scrive sulla lavagna lettere e vocali, numeri e parole. E sempre guarda negli occhi e guarda nel cuore di ciascuno come un buon comandante fa coi suoi marinai. Ogni mattina si parte per una tappa nuova. E la nave scuola solca il grande mare del sapere. (N. Salvaneschi)

A scuola

La scuola vi accoglie con un sorriso e vi dice: “Siete ritornati a scuola, come a una festa. Sono passate le vacanze, e ne avete abbastanza di giochi, di corse, di libertà. I vostri occhi brillano di gioia, della gioia di ritrovare i vostri compagni, le vostre compagne, la vostra maestra. Vi ritrovo cresciuti, con un bel colorito: quasi non vi riconosco più. Il vostro viso è sorridente, nei vostri occhi c’è il desiderio di imparare. Al lavoro, bambini, con serenità!” (A. R. Piccinini)

Parla il libro

Io sono soltanto un libro, una cosa che tu potresti strappare con tue mani impazienti, che tu potresti sgorbiare con la tua penna, che tu potresti gualcire in un momento di stizza. Ma ricordati che sono il frutto del lavoro di tanti uomini.
Per farmi così, come mi vedi, una fabbrica ha lavorato per produrre la carta.  Su questa carta gli stampatori hanno impresso i caratteri e le illustrazioni. Ma, prima di questo, lo scrittore ha dovuto scrivere i racconti e il pittore ha disegnato e colorato le figure. Ora sono nella tua cartella e tu puoi leggere su di me tante belle e nuove cose. Se tu vuoi ti insegnerò a diventare più buono e più bravo. In cambio ti chiedo di non sciuparmi e di leggermi, di studiarmi. Non è molto in confronto a tutto quello che ti dono. (M. Menicucci)

I miei compagni
22, sabato.
Ieri, mentre il maestro ci dava notizie del povero Robetti, che dovrà camminare un pezzo con le stampelle, entrò il Direttore con un nuovo iscritto, un ragazzo di viso molto bruno, coi capelli neri, con gli occhi grandi e neri, con le sopracciglia folte e raggiunte sulla fronte; tutto vestito di scuro, con una cintura di marocchino nero intorno alla vita. Il Direttore, dopo aver parlato all’orecchio al maestro, se ne uscì, lasciandogli accanto il ragazzo, che guardava noi con quegli occhioni neri, come spaurito.
Allora il maestro gli prese una mano, e disse: “Voi dovete essere contenti. Oggi entra nella scuola un piccolo italiano nato a Reggio di Calabria, a più di cinquecento miglia da qua. Vogliate bene al vostro fratello venuto di lontano. Egli è nato in una terra gloriosa, che diede all’Italia degli uomini illustri, e le dà dei forti lavoratori e dei bravi soldati; in una delle più belle terre della nostra Patria, dove son grandi montagne, abitate da un popolo pieno di ingegno e di coraggio. Vogliategli bene in maniera che non si accorga di essere lontano dalla città dove è nato; fategli vedere che un ragazzo italiano, in qualunque scuola italiana metta piede, ci trova dei fratelli”.
Detto questo si alzò e segnò sulla carta murale d’Italia il punto dov’è Reggio di Calabria.
Poi chiamò forte: “Ernesto De Rossi!”, quello che ha sempre il primo premio. De Rossi si alzò.
“Vieni qua” disse il maestro.
De Rossi uscì dal banco e s’andò a mettere accanto al tavolino, in faccia al calabrese.
“Come primo della scuola” gli disse, “da’ l’abbraccio del benvenuto in nome di tutta la classe, al nuovo compagno; l’abbraccio del figliolo del Piemonte al figliolo della Calabria”.
De Rossi abbracciò il calabrese, dicendo con la sua voce chiara: “Benvenuto!”, e questi baciò lui sulle due guance, con impeto. Tutti batterono le mani.
“Silenzio!” gridò il maestro, “Non si battono le mani a scuola!”.
Ma si vedeva che era contento. Anche il calabrese era contento.
Il maestro gli assegnò il posto e lo accompagnò al banco. Poi disse ancora: “Ricordatevi bene di quello che vi dico. Perchè questo fatto potesse accadere, che un ragazzo calabrese fosse come in casa sua a Torino, e che un ragazzo di Torino fosse come a casa sua a Reggio Calabria, il nostro Paese lottò per cinquant’anni, e tremila italiani morirono. Voi dovete rispettarvi, amarvi tutti tra voi; ma chi di voi offendesse questo compagno, perchè non è nato nella nostra provincia, si renderebbe indegno di alzare mai più gli occhi da terra quando passa una bandiera tricolore”.
Appena il calabrese fu seduto al posto, i suoi vicini gli regalarono delle penne e una stampa e un altro ragazzo, dall’ultimo banco gli mandò un francobollo di Svezia.

Martedì, 25
Il ragazzo che mandò il francobollo al calabrese è quello che mi piace più di tutti, si chiama Garrone, è il più grande della classe, ha quasi quattordici anni, la testa grossa, le spalle larghe; è buono, si vede quando sorride; ma pare che pensi sempre, come un uomo. Ora conosco già molti dei miei compagni. Un altro mi piace pure, che ha nome Coretti e porta una maglia color cioccolata e un berretto di pelo di gatto; sempre allegro, figliolo di un rivenditore di legna, che è stato soldato nella guerra del ’66, nel quadrato del Principe Umberto, e dicono che ha tre medaglie. C’è il piccolo Nelli, un povero gobbino, gracile e col viso smunto. C’è uno molto ben vestito che sempre si leva i peluzzi dai panini e si chiama Votini.
Nel banco davanti al mio c’è un ragazzo che chiamano il muratorino, perchè suo padre è un muratore; una faccia tonda come una mela, con un naso a pallottola; egli ha un’abilità particolare, sa fare il muso di lepre, e tutti gli fanno fare il muso di lepre, e ridono; porta un piccolo cappello a cencio che tiene appallottolato in una tasca come un fazzoletto. Accanto al muratorino c’è Garoffi, un coso lungo e magro, col naso a becco di civetta e gli occhi piccoli piccoli, che traffica sempre con pennini, immagini e scatole di fiammiferi, e si scrive la lezione sulle unghie per leggerla di nascosto.
C’è poi un signorino, Carlo Nobis, che sembra molto superbo ed è in mezzo a due ragazzi che mi sono simpatici: il figlio di un fabbro ferraio, insaccato in una giacchetta che gli arriva al ginocchio, pallidino che par malato e ha sempre l’aria spaventata e non ride mai; e uno coi capelli rossi che ha un braccio morto, e lo porta appeso al collo: suo padre è andato in America e sua madre va attorno a vendere erbaggi.
E’ anche un tipo curioso il mio vicino di sinistra, Stardi, piccolo e tozzo, senza collo, un grugnone che non parla con nessuno e pare che capisca poco, ma sta attento al maestro senza batter palpebra, con la fronte corrugata e coi denti stretti; e se lo interrogano quando il maestro parla, la prima e la seconda volta non risponde, la terza volta tira un calcio. E ha daccanto una faccia tosta e trista, uno che si chiama Franti, che fu già espulso da un’altra sezione.
Ci sono anche due fratelli, vestiti uguali, che somigliano a pennello, e portano tutti e due un cappello alla calabrese, con una penna di fagiano.
Ma il più bello di tutti, quello che ha più ingegno, che sarà il primo di sicuro anche quest’anno, è De Rossi, e il maestro, che l’ha capito, lo interroga sempre. Io però voglio bene a Precossi, il figlio del fabbro ferraio, quello dalla giacchetta lunga, che pare un malatino; dicono che suo padre lo batte; è molto timido e ogni volta che interroga o tocca qualcuno, dice “Scusami”, e guarda con gli occhi buoni e tristi. Ma Garrone è il più grande e il più buono.
(E. De Amicis)

Dettati ortografici – LA SCUOLA – Tutte le opere  contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.

PULCINI GALLINE E GALLETTI: dettati ortografici e letture

Dettati ortografici PULCINI GALLINE E GALLETTI

Dettati ortografici PULCINI GALLINE E GALLETTI – una raccolta di dettati ortografici, di autori vari, per bambini della scuola primaria. Difficoltà ortografiche miste.

Sono due pulcini usciti ieri dall’uovo. Sono già nel prato a godersi la primavera. Guardano intorno, beccano in terra e si bisticciano. Bisticciano per una crostina di pane trovata fra l’erba. Tira uno, tira l’altro… nessuno vince. Il pulcino più scuro dà una beccata alla crostina; il pulcino più chiaro dà una beccata al compagno; l’altro scappa via contento col boccone. Non è passato che un momento; ecco i pulcini già in pace. Beccano contenti l’uno quasi contro l’ala dell’altro.

(in costruzione)

Dettati ortografici PULCINI GALLINE E GALLETTI – Tutte le opere  contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.

IL RICCIO: dettati ortografici e letture

Dettati ortografici IL RICCIO

Dettati ortografici IL RICCIO – una raccolta di dettati ortografici, di autori vari, per bambini della scuola primaria. Difficoltà ortografiche miste.

Sotto la grande quercia vive tutto un popolo strano: formiche brune, ricci, lumache, una faina. Si lavora continuamente giorno e notte. Ogni tanto la riccia torna a casa con un fascio di foglie sopra la schiena. E’ andata a rotolarsi sotto i castagni e tante foglie le si sono infilzate sul dorso, tante ne porta a casa. E’ stata sveglia, come di solito, tutta la notte e ha ancora molto da fare. Il piccino suo, seduto sopra una radica di quercia, la guarda tutto contento. E’ simile a un minuscolo porcellino da latte, più ignorante di una talpa, e non sa niente, non capisce niente. (F. Tombari)

(in costruzione)

Dettati ortografici IL RICCIO – Tutte le opere  contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.

IL LOMBRICO: dettati ortografici e letture

Dettati ortografici – IL LOMBRICO- una raccolta di dettati ortografici, di autori vari, per bambini della scuola primaria. Difficoltà ortografiche miste.

Il lombrico uscì da un buco della terra e si allungò e si snodò per venire fuori tutto. Stava volentieri sotto terra, perchè era nudo, molle e cieco e i nemici erano tanti: il vomere, la vanga, la zappa del contadino e poi gli uccelli. Essi, alla vista di un lombrico grasso e tenero, si buttano giù a capofitto tutto becco e fame, e il verme, senza accorgersene, passa dal buio della terra, al buio di uno stomaco. Sottoterra, dove lento e tenace, il lombrico si scava la sua strada, esso è sicuro e sta bene. Lo chiamano mangiatore di terra, ma non è vero; per scavare il suo buco il lombrico ingoia la terra, ma poi la restituisce resa più grassa, più fertile dal passaggio del suo corpo. Benedetto il campo dove i lombrichi stanno di casa!

Il lombrico
Nudo, molle, cieco, striscia sul terreno e si infila volentieri nel primo buco che incontra. Si dice che il lombrico mangia la terra. In realtà, quando scava, il lombrico ingoia la terra che scava e poi la restituisce più grassa. Perciò quest’umile verme è di grande vantaggio al contadino, perchè rende la terra più soffice, porosa, fertile.

Il lombrico
E’ un verme simpatico, perchè non soltanto è prezioso per il terreno dove abita, ma se lo ferisci, anzi, se lo tagli addirittura a metà, in due pezzi, in tre pezzi, in quattro, vedrai che ogni pezzo se ne andrà tranquillo per conto suo come se non gli fosse accaduto nulla di male. E invece di un lombrico solo, ne abbiamo due, tre, quattro, ognuno con la sua testa, il suo stomaco, i suoi anelli!

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ANIMALI DELLO STAGNO E DEL FOSSO: dettati ortografici e letture

Dettati ortografici – animali dello stagno e del fosso – una raccolta di dettati ortografici, di autori vari, per bambini della scuola primaria. Difficoltà ortografiche miste.

Nel fosso l’acqua non era profonda, ma limpida e ridente. Vi abitavano molti pesci, spinelli e carpe, che passavano e ripassavano in fila. C’erano anche libellule verdi, azzurre, brune, che non appena si posavano sui vincastri, io afferravo piano piano, dolcemente, o mi sfuggivano, leggere, silenziose, col fremito delle loro ali di velo. C’erano certi insetti bruni dal ventre bianco, che saltellavano sulla superficie dell’acqua, e facevano muovere le loro esili gambe allo stesso modo dei calzolai quando tirano lo spago. E non mancavano le ranocchie che non appena si accorgevano di me, si tuffavano nell’acqua. C’erano poi delle salamandre acquatiche che rovistavano nella mota e dei grossi scarafaggi che si davano un gran da fare nelle pozzanghere. (F. Mistral)

(in costruzione)

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IL LETARGO: dettati ortografici e letture

Dettati ortografici IL LETARGO – una raccolta di dettati ortografici, di autori vari, per bambini della scuola primaria. Difficoltà ortografiche miste.

Il risveglio del tasso

Quatto quatto, ancora un po’ incerto, è uscito dalla tana anche il tasso. Poveraccio, com’è dimagrito! Ne ha guadagnato la linea, è vero, ma sembra il ritratto della fame. Ghiottone com’è, si accorge che è ancor presto per le grandi scorpacciate, la natura offrendogli  ben poco; ma forse è meglio riabituarsi al cibo un po’ alla volta, con moderazione. Data un’occhiata in giro e addentato qualcosa, ritorna guardingo verso la tana; è stanco e una dormitina non gli farà male. D’improvviso si arresta, poi, rassicurato, prosegue: il fischio che aveva sentito l’aveva subito riconosciuto. Toh, s’è svegliata pure la signora marmotta: aperto il cunicolo che immette alla tana, è uscita al richiamo della primavera.
(V. De Marchi)

Lo scoiattolo si risveglia

Lo scoiattolo non riusciva più a dormire. Il sole lo guardava. Si strofinò gli occhietti, afferrò una noce e si pose a sedere. Aveva molta fame, ma era ben provvisto: tutto il nido era foderato di noci, poi ne tirava fuori un’altra di sotto il letto. Così, quando nel pancino non ce ne stettero più, si diede una gran lisciata di baffi e si mise a guardare intorno. Passava da un ramo all’altro a corsettine, senza mai toccar terra. Saltava su un abete, rimbalzava su un pino, gettava pinoli in tesa ai conigli. Riappariva su un nido di gazza per rubarvi le uova. Le uova col sole dentro.
(L. Volpicelli)

Le lucertole

Le lucertole, riscaldate dal sole tiepido, escono dai buchi dove sono state in letargo per tutto l’inverno e si fermano al calduccio, guardando qua e là con gli occhietti vispi. Sono alla caccia di un insetto. Hanno tanto dormito che ora vorrebbero proprio saziarsi di qualche insettuccio incauto che arrivi alla porta della loro lingua. (M. Menicucci)

La lucertolina

Ecco là sul muricciolo la lucertolina che sta a godersi il sole. No, non sta lì a goderselo, sta lì al sole per vera necessità. E’ una lucertolina giovane, uscita da poco da una crepa del muro, dove ha passato l’inverno, e ora aspetta che il caldo la irrobustisca, le dia snellezza per acchiappar mosche e vivere. Ecco dunque chi potrebbe diminuire il gran numero di mosche che minacciano la nostra salute. Ma vi è forse al mondo un’altra bestiola più perseguitata dai ragazzi?
(Reynaudo)

Che cos’è il letargo

Molti animali, per difendersi dai rigori dell’inverno, si rinchiudono nella tana sin dall’autunno e vanno in letargo. Durante questo sonno profondissimo, la temperatura del loro corpo si abbassa e il loro respiro si fa più lento: essi consumano pochissime energie e non hanno bisogno di nutrirsi. E’ il caso del ghiro e della marmotta. Lo scoiattolo, invece, si sveglia di tanto in tanto per mangiare il cibo immagazzinato nella sua tana.

Letargo e ibernazione

Agli inizi dell’inverno milioni di animali, in ogni parte del mondo, cadono in un particolare stato di riposo: il letargo. Il letargo è un mezzo per sopravvivere, offerto dalla natura ad alcune specie di animali che in questa stagione non troverebbero più il cibo adatto.

Molti animali hanno un letargo che consiste semplicemente in un sonno più o meno profondo e prolungato: tra questi vi sono l’orso, il tasso, lo scoiattolo, la talpa.

Alcuni mammiferi, invece, durante il letargo mutano profondamente le condizioni del loro organismo: si dice che ibernano. L’ibernazione non consiste in un semplice sonno: la temperatura del sangue dell’animale si uniforma a quella dell’ambiente (come avviene, in ogni stagione, nei rettili), il cuore dà un battito ogni due o tre minuti, il respiro si fa impercettibile, cessa completamente la necessità di nutrirsi. Sono animali ibernanti la marmotta, il riccio, il ghiro, il pipistrello.

I pesci, i rettili, gli anfibi, durante il riposo invernale limitano anch’essi tutte le funzioni del loro organismo al minimo indispensabile per conservare la vita; questo stato si dice “vita latente”.

Il riccio

Quando giunge l’inverno il riccio comincia a trovarsi nei guai; il suo mantello spinoso è un ottimo strumento di difesa contro le zanne e gli artigli dei nemici, ma è un riparo assai scadente contro gli assalti del freddo. Per combattere la grande dispersione di calore a cui è sottoposto il suo corpo dovrebbe, in inverno, mangiare moltissimo, ma ha la sfortuna di essere un insettivoro e… di insetti in questa stagione, specialmente quando il terreno è gelato, è quasi impossibile trovarne. Per risolvere questa difficile situazione il riccio, appena la temperatura comincia a scendere sotto i 15°, si appallottola nella sua tana e cade in letargo; vi resterà finchè il clima non sia tornato più favorevole alla sua nutrizione. Durante la sua ibernazione il riccio regola continuamente la temperatura del proprio corpo, mantenendola sempre di un grado superiore a quella dell’ambiente. Facciamo un esempio: se la temperatura esterna è a +10° il riccio mantiene il suo corpo  solamente a +11°. E’ questo un ottimo sistema per risparmiare… combustibile, cioè i grassi accumulati nel corpo durante l’estate. Però, se la temperatura esterna si abbassa sotto i +5°, il riccio non si può permettere di seguirla nella sua discesa, perchè finirebbe col diventare congelato; allora il suo organismo comincia automaticamente a consumare una quantità maggiore di grassi, per mantenere nel corpo la temperatura minima sufficiente alla vita. Mentre avviene tutto ciò, il riccio seguita tranquillamente a dormire. Si direbbe che questo animale sia dotato di un perfetto termostato, l’apparecchio che c’è nei nostri frigoriferi, e che riaccende automaticamente il motore se la temperatura non è più al punto voluto.

La marmotta

Il luogo ove le marmotte trascorrono in letargo sei o sette mesi invernali è una vera camerata sotterranea: essa si trova a due o tre metri di profondità ed è larga una decina di metri; vi stanno a dormire una quindicina di marmotte. Durante l’estate questi animali hanno tagliato coi denti  molta erba e l’hanno fatta seccare al sole; poi, con la bocca hanno trasportato il fieno nella caverna, disponendolo ordinatamente a strati. Ora, su questo soffice materasso, dormono un profondissimo sonno: se ne stanno acciambellate col capo stretto fra le zampe posteriori. Nella marmotta, durante il letargo, le funzioni della vita sono ridotte al minimo: l’animale compie 36.000 respirazioni in quindici giorni, tante quante ne compiva in un sol giorno durante l’estate. La temperatura del corpo, che durante la veglia è di 36°, nel letargo si mantiene sui 10° e può eccezionalmente scendere anche a 5°, quando quella esterna si approssima allo zero. Anche per mantenere queste basse temperature occorre però un certo consumo di grassi; le marmotte, infatti, durante il letargo, perdono una buona parte del loro peso.

Il ghiro

I ghiri sono i più famosi dormiglioni del regno animale; tutti conosciamo il detto “dormire come un ghiro”; figuratevi infatti che quando dorme, e se ne sta tutto raggomitolato come una palla, possiamo prenderlo e farlo rotolare per terra senza che neanche si svegli. Alla fine dell’estate i ghiri cominciano a raccogliere in un vasto nido, nel cavo di un albero, una quantità di ghiande, noci, faggiole. Poi si radunano a dormire in parecchi nella stessa tana. Le provviste che hanno raccolto serviranno per la prima colazione nell’aprile dell’anno seguente, quando si ridesteranno.

Il pipistrello

Il pipistrello cade in letargo… ogni giorno. Questo animale esce in cerca di cibo soltanto la notte; di giorno se ne sta nascosto in una caverna, in una soffitta o in una fessura della roccia e cade in uno stato di sonno detto letargo diurno; infatti, in quelle ore, il suo sangue si raffredda, i respiri e i battiti del cuore si fanno più distanziati. Ma quando giunge l’inverno e la temperatura scende al di sotto dei 10°, il sonno si prolunga per settimane e mesi e la vita rallenta ancor più il suo ritmo. Il pipistrello resiste al sonno anche se la temperatura del suo sangue scende a -2°. E’ l’unico mammifero che possa sopportare temperature del corpo inferiori a zero gradi, senza pericolo per la sua vita. Si desta invece facilmente al calore, alla luce, al tatto, al rumore e si riscuote subito, a differenza degli altri animali.  Curioso è il suo modo di dormire, appeso a capo all’ingiù; ma non si stanca? Verrebbe voglia di chiedersi. Niente affatto, perchè le sue zampette si serrano automaticamente  sull’appiglio per azione del peso del corpo che fa contrarre i tendini delle dita.

Animali in letargo

E’ sopraggiunto l’inverno e tutto, intorno, è spoglio, triste, silenzioso. Lucertole, bisce, ghiri, tassi e marmotte dormono profondamente. Consumano il grasso accumulato nella buona stagione e così possono resistere senza mangiare per i lunghi giorni dell’inverno… Anche il loro respiro si è rallentato: è quasi impercettibile e il loro cuore batte pianissimo.

Le signore Grassone a convegno

Le signore Grassone  discutevano in cerchio, attente e serie. Ognuna diceva la sua, con calma e moderazione, ma la Strillona gridava più di tutte e poichè chi grida di più ha sempre ragione, le altre tacquero e la Strillona parlò.
“Bisogna affrettarci!” gridava. “L’acqua sa già di neve. Tra poco la terra sarà tutta gelata, le piante si spoglieranno e non di troverà più un frutto né un seme da mettere sotto i denti. Presto, presto, a scavare le tane per l’inverno, abbastanza grasse per sopportare il lungo digiuno, presto, presto, che il sonno arriva a chiudere gli occhi dei giovani e degli anziani!”.
“Ah, il sonno!” esclamò una marmotta anziana con espressione di grande beatitudine. “Quando penso che fra poco ci scaveremo la tana, profonda, molto profonda, fra i sassi e le rocce, che ne imbottiremo una stanza con fieno tritato e asciutto e che lì potremo rifugiarci con tutta la famiglia, abbracciati e dormire… mi sento felice. Ah, la vita è bella!”
Un sonno lungo, quello delle signore marmotte, che durerà molti mesi e, se potessero sognare… Montagne di frutta secca, colline di semi, pascoli di radici saporite… Una delizia! Purché l’uomo… Un brivido di terrore passa su quelle schiene grasse.
La marmotta anziana ricorda, purtroppo, la gran strage di quell’anno e racconta. Si erano tutte diligentemente purgate, come ogni volta, con acqua purissima di sorgente. E intanto si erano costruite la casa: una casa profonda e sicura, con un corridoio cieco che serviva da deposito di immondizie e una bella camera calda con un letto di fieno profumato.
Avevano chiuso l’ingresso con un muro di fango, di pietre e d’erba secca, un vero calcestruzzo. Si credevano sicure lì dentro e si erano abbandonate alla beatitudine del lunghissimo letargo invernale. Altrimenti, di che cosa si sarebbero potute nutrire le povere marmotte? Durante la brutta stagione non avrebbero trovato né un frutto né un seme, forse nemmeno una radice sepolta dalla neve. La natura provvida aveva loro concesso il gran sonno.
Appena un debole fiato d’aria per tenersi in vita, e così, quasi senza respiro e senza calore, ma con una grossa riserva di grasso sotto la folta pelliccia, le marmotte si erano addormentate profondamente.
Durante il sonno era avvenuto lo scempio. Decine di famiglie non si erano più svegliate. L’uomo era avido della bella pelliccia morbida e anche del grasso che secondo lui, spalmato sulla pelle, guariva ogni male. Scavando nel muro di calcestruzzo, anche alla profondità di otto o nove metri, le aveva raggiunte e catturate senza pietà.
Per questa ragione quell’anno avevano deciso di emigrare. Avrebbero cercato di sfuggire all’insidia degli uomini, recandosi in alto, ai confini delle grandi nevi, al di là del bosco e del torrente.
In quel luogo spirava un vento propizio, Era una zona sicura… L’aveva detto il camoscio, venuto a brucare il finocchio ai margini del bosco. Nemmeno il camoscio era amico dell’uomo e sapeva dove si poteva stare al sicuro da lui.
Le signore grassone, precedute dalla Strillona, che doveva eventualmente dare l’allarme, avanzavano caute, affacciandosi prima ai cigli delle rocce per perlustrare il terreno. Un grande silenzio sulla montagna. Non un colpo d’arma da fuoco, non un colpo di piccone, ma un’aria di pace completa. Solo il lieve stormire delle fronde mosse dal vento. Non c’era traccia d’uomo. Le marmotte durante il cammino, facevano grandi bevute d’acqua di fonte e non mangiavano nulla, non di facevano tentare nemmeno dalle ultime bacche cadute per terra. Dovevano andare verso il gran sonno col corpo purificato.
Finalmente arrivarono. Alzarono verso l’aria le narici umide e vibranti per aspirare gli odori, odori rassicuranti e amici, poi cominciarono a scavare le tane. Dovevano mettersi al sicuro dall’uomo e dal falco, anche lui ghiotto di marmotte.
Finalmente, il lavoro fu compiuto. Le famiglie di radunarono, si riconobbero sfiorandosi i baffi e finalmente giù nel profondo, dove, abbracciate in una tenera stretta, avrebbero aspettato il tepore della primavera che le avrebbe svegliate.
(Mimì Menicucci)

Gli scoiattoli

Gli scoiattoli, durante l’inverno, non dormono continuamente. Quasi ogni mattino escono dal loro nido, posto sulla sommità di un albero, per sgranchirsi un poco le gambe, inseguendosi e correndo a spirale lungo il tronco ed i rami. Vanno anche a prelevare un poco del cibo che durante l’estate avevano accumulato in piccoli magazzini nascosti nelle cavità dei tronchi. Nelle altre ore del giorno se ne stanno ben tappati nel loro nido ove alternano mangiatine a lunghe dormite.

Le vipere

Le vipere, quando avvertono i primi freddi, si radunano in gruppi numerosi (talvolta anche di venti o trenta) in una sola tana, fra le radici di un albero, o sotto una pietra. Così. aggrovigliate assieme, cadono in letargo.

La lucertola

Si nasconde in qualche buchetto, per cadere in letargo, soltanto nelle zone in cui l’inverno è rigido.

Le rane

Nelle zone dove l’inverno è rigido, si sprofondano nel fango del loro stagno e vi rimangono inerti fino alla primavera seguente.

La tinca

Quando le acque si raffreddano, si immerge nel fango del fondo e vi rimane a lungo immobile.

La chiocciola

Durante l’inverno,  si nasconde fra le pietre, chiude con una membrana l’apertura del suo guscio e s’addormenta.

E’ finito il letargo

La primavera è la stagione in cui la natura si sveglia.
I fiumi, che il ghiaccio ha resi prigionieri durante l’inverno, riprendono liberi il loro corso, gorgogliando e chioccolando. Negli alberi rifluisce la linfa. Essa risveglia i germogli addormentati, che si aprono, rivelando le foglie. I fiori incominciano a sbocciare. Su dall’arida terra morta spuntano i fili della verde erba. Il mondo, che pareva diventato inerte, ricomincia a mostrare i primi segni di vita.
Gli animali, che durante l’inverno hanno dormito, si destano. Gli uccelli ritornano dal Sud. I lavori dell’anno stanno per riprendere. Tutti sono affaccendati.
Per il castoro la primavera è la stagione in cui bisogna ricominciare a lavorare. Mamma castoro vuole un bel letto per i suoi piccoli. Il padre può dormire sulla nuda terra, ma i bambini devono avere un giaciglio più soffice; perciò babbo castoro deve preparare per loro un materasso di ramoscelli teneri e di fili d’erba.
Presto vi saranno le inondazioni primaverili. I ruscelli mormoranti si trasformeranno in torrenti impetuosi. Il castoro deve, presto presto, riassettare la sua diga, se non vuole che le acque tumultuose gliela spazzino via. Deve rafforzarla con rami e pietre; deve aggiungere tronchi e grossi sassi che tengano a posto i tronchi; deve ammucchiare rami e sterpi e zolle di terra che leghino insieme ogni cosa. Deve far sì che la sua diga diventi ogni anno più grossa e più bella.
A volte le dighe dei castori diventano talmente alte e forti, che anche i cavalli ci possono camminare sopra.
Spesso papà castoro non riesce, da solo, a far tanto lavoro. Invita allora i parenti ad aiutarlo. Fa un fischio ai suoi fratelli, agli zii, alle zie, i quali arrivano al chiaro di luna e lo aiutano finchè il lavoro è terminato. A sua volta esso aiuta i parenti quando hanno bisogno di lui.
A primavera anche la marmotta si sveglia: è magra, affamata e sola. Quando era andata a rintanarsi per l’inverno era coperta di spessi strati di grasso. Sotto la sua pelliccia non ce ne sarebbe stato un pezzettino di più. Non poteva neppure correre! Perciò tutti la chiamavano “grassona”.
Quando era caduta in letargo, era un animaletto incredibilmente assonnato, e sino a primavera aveva continuato a dormire senza mai svegliarsi, neppure per mangiare.
Ed ecco che adesso, all’arrivo della primavera, la marmotta è magra, affamata e sola. Annusa nervosamente le gallerie che la circondano: alcune sono state scavate da lei stessa; altre sono state scavate dai suoi fratelli, dalle sorelle e da altri parenti.
Poi la marmotta si mette in viaggio, di galleria in galleria, in cerca dei vecchi amici. A volte, entrando in una galleria, si imbatte in un opossum che vi si è insediato, oppure in un coniglio o in una moffetta. Allora scappa in un’altra galleria.
Nel suo giro di ricerca incontra molti animali, i quali, vedendo che la marmotta si è svegliata, capiscono che è primavera. (A. Webb)

Lo scoiattolo

Lo scoiattolino non riusciva più a dormire. Nella brezza del mattino che continuava a cullarlo, lassù sul cavo più alto del faggio, sotto il cumulo delle foglie, si sentiva pungere gli occhi da uno spino d’oro, che invano cercava di togliere con la zampina. Schiuse le palpebre, fece capolino di sotto la gran coda in cui era avvolto, sbirciò da uno spiraglio del tettuccio.
Il sole lo guardava.
Presto presto si strofinò gli occhietti, diede una scrollatina al pelliccione,  arruffò il letto, afferrò una noce e si pose a sedere.
Aveva molta fame, ma era anche ben provvisto: tutto il nido era foderato di noci. Ne vuotava una, gettava via il guscio e ne tirava fuori un’altra di sotto il letto.
Quando nel pancino non ce ne stettero più, si diede una gran lisciata di baffi e si mise a considerare l’inverno.
L’aria odorosa di resina scintillava fresca e pungente perchè c’era ancora un poco di neve all’ombra degli alberi e sulla montagna; ma il lago era sgelato.
Lo scoiattolino si agitò tutto per la gran festa.
(F. Tombari)

Animali in letargo…
Lo sapevate che se gli uomini potessero cadere in letargo vivrebbero fino a 2162 anni? Infatti durante il letargo i battiti del nostro cuore subirebbero un rallentamento, e ciò prolungherebbe di molto la nostra vita.
Che cos’è l’ibernazione? E’ un periodo felice che gli animali trascorrono in luoghi diversi (tronchi, buche, tane) durante il quale la loro temperatura diminuisce. E’ inesatto dire che certi animali, come rane, rettili o pesci hanno il sangue freddo: la loro temperatura dipende unicamente dall’ambiente in cui si trovano. Per esempio una serpe, sui sassi al sole, avrà sangue caldo, ma se la troverete sotto una pietra, toccandola la sentirete gelida.
I mammiferi e gli uccelli in generale hanno temperatura costante: sia che voi andiate a spasso con un gran freddo, sia che ve ne stiate ad arrostire sulla spiaggia, la vostra temperatura interna sarà sempre di 37 gradi. Tra gli animali che vanno in letargo, o ibernanti, ce ne sono di quelli che hanno temperatura variabile e di quelli che hanno temperatura costante; comunque sia, la temperatura di questi animali diminuisce d’inverno.
E fra questi mammiferi ci possono essere i roditori, gli insettivori, ed anche i carnivori che hanno la proprietà di diminuire moltissimo la temperatura.
Ci sono poi dei falsi ibernanti, come l’orso, che pur andando in letargo non subisce una diminuzione della temperatura.
La marmotta è un esempio tipico di roditori ibernanti. Quando il termometro scende dotto i 15 gradi, dolcemente il piccolo animale si addormenta e sembra cadere in letargo: ma ogni due o tre settimane la marmotta si risveglia per eliminare dalla sua tana tutta la sporcizia.
Un abbassamento troppo rapido della temperatura la ridesta ugualmente dal letargo: occorre perciò che essa si riscaldi per non morire di freddo. Si agiterà allora in tutti i modi e farà delle vere e proprie acrobazie. Durante il letargo la marmotta non mangia più e consuma le sue riserve di grasso.
Gli invertebrati dormono proprio tutto l’inverno; gli insetti trascorrono questa stagione sia come larve, sia come crisalidi. Mi è capitato una volta di osservare una farfalla attaccata a un muro alla fine dell’estate e di averla vista immobile ancora nella stessa posizione duasi alla fine dell’inverno.
(U. Gozzano)

Dettati ortografici IL LETARGO – Tutte le opere  contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. 

DETTATI ORTOGRAFICI l’albero in primavera

Dettati ortografici l’albero in primavera – Una collezione di dettati ortografici di vari autori sull’albero in primavera, per la scuola primaria, adatti alle classi dalla prima alla quinta.

Dettati ortografici l’albero in primavera

L’albero si sveglia e sgranchisce i rami; già è l’ora! Che sonno! Il primo sole di primavera ha destato il pigrone, col suo teporino. Ora scuote i rami e mette qualche gemma: così, tanto per cominciare. Oh, qualche gemma piccola, gommosa, fatta di tante foglioline serrate e di tessuti giovani: un abbozzo, insomma, dei nuovi rami e delle foglie. Non vede l’ora di averle, tutte verdi, tenere. (R. Tommaselli)

L’albero si risveglia e sgranchisce i rami a primavera. Ecco apparire qualche gemmetta piccola, gommosa, fatta di tante foglioline serrate disposte come le tegole dei tetti. In ogni gemma, c’è l’abbozzo dei nuovi rami, delle foglie, dei fiori. Ecco le gemme poste sui rami più alti divenire più grosse: hanno cominciato a godere, più delle sorelle, i primi raggi del sole. La vernice vischiosa trasuda dalle squame rosse. Finito il loro compito di impermeabili protettrici del cuore delle gemme, si trasformano, diventano sempre più tenere e verdastre. Incominciano ad allargarsi e lasciano intravvedere selle punte grigiastre: sono i sepali, mani amorose, trepide che difendono i bocci floreali. In seguito si curveranno all’esterno per lasciare liberi i fiori di crescere, distendersi e ricevere tanta luce. In seguito, da altre gemme, si libereranno le nuove foglie, dapprima timide e delicate e poi robuste e vivaci. Dalle gemme apicali, quelle poste sulle punte, spunteranno i nuovi rami che provvederanno a donare all’albero una chioma più abbondante. (A. Martinelli)

 Osserviamo le gemme del castagno: al centro, la bambagia avvolge le sue tenere foglioline; all’esterno una solida corazza di scaglie disposte come le tegole di un tetto, la chiude strettamente. Le parti dell’armatura scagliosa sono incatramate con un mastice che diventa molle, in primavera, per permettere alla gemma di schiudersi. Le scaglie, non più incollate fra loro, si allargano vischiose, e le prime foglie si spiegano al centro della loro culla socchiusa. (H. Fabre)

Il ciliegio fino a ieri era nudo. Cosa sarà accaduto perchè stamattina io abbia visto, invece dell’albero, una nube bianca, fatta tutta di fiori, non saprei dirvi. Mi avvicino al miracolo e vedo che la nube ha fremiti sulla superficie continua dei suoi piccoli fiori aperti, ed ascolto un ronzio di insetti alati che passano rapidamente da un fiore all’altro e mi colpisce il volo di farfalle bianche le cui ali sembrano petali che si siano distaccati dai fiori stessi. L’aria attorno alla nube è più chiara e vibra come uno strumento musicale con melodie di suoni che sono diventate melodie di profumi. (A. Anile)

Dettati ortografici l’albero in primavera – Tutte le opere contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.

62. Erosione del suolo – Esperimenti scientifici – L’importanza del verde

Erosione del suolo – Esperimenti scientifici – L’importanza del verde

Erosione del suolo – Questo esperimento sull’erosione del suolo, che ha un impatto visivo formidabile anche per la sua semplicità, serve a dimostrare la relazione esistente tra precipitazioni, erosione del suolo, tutela dei corsi d’acqua e vegetazione.

Un esperimento estremamente semplice che sottolinea quanto sia importante la copertura vegetale del terreno.

Si può proporre in tre varianti:
– predisponendo la semina di piantine
– utilizzando piante pronte da  trapiantare
– utilizzando campioni di suolo.

Erosione del suolo – Esperimento – Prima variante

Prepariamo tre bottiglie di plastica uguali, ritagliamole come mostrato nelle foto e posizioniamole su una superficie piana (io le ho incollate con la colla a caldo su una tavoletta di compensato):

l’imboccatura delle tre bottiglie deve sporgere un po’ fuori dal piano d’appoggio. In ogni bottiglia distribuiamo la stessa terra, in pari quantità, premendola bene per compattarla quanto più possibile. La terra deve essere al di sotto del livello dell’apertura della bottiglia:

Tagliamo il fondo di altre tre bottiglie di plastica trasparente, e pratichiamo due fori per inserire la cordicella. Queste coppette hanno la funzione di raccogliere, durante l’esperimento vero e proprio, l’acqua in eccesso delle innaffiature che riproduce l’acqua piovana:

Poi rimettiamo il tappo alla prima bottiglia, dove semineremo:

e mettiamo nella seconda bottiglia un letto di residui vegetali morti (rametti, cortecce, foglie secche, radici morte).

Nella terza bottiglia lasceremo solo la terra.

Spargiamo i semi nella prima bottiglia (io ho scelto crescione, basilico ed erba cipollina), copriamo con un velo di terra e premiamo un po’, poi innaffiamo.

Possiamo utilizzare la parte di bottiglia tagliata per creare una serra che aiuterà i semi a germogliare più velocemente:

Esponiamo alla luce del sole, e prendiamoci cura della nostra semina finchè le pantine non si saranno ben sviluppate. L’esperimento vero e proprio si potrà fare solo allora…

Questa variante  è particolarmente adatta ad essere proposta ai bambini più piccoli, perchè genera curiosità ed aspettative, invita a prendersi cura nel tempo del terreno di semina e stimola l’osservazione del processo di sviluppo della pianta a partire dal seme.

Un processo completo come questo, insegna ai bambini piccoli tantissimi concetti che possono apparire “troppo complicati”, e crea un legame col mondo reale: la pianta viene dal seme (e non dal supermercato o dal fiorista). Quando poi, dopo tanta attesa e tante cure, avremo le piantine nella prima bottiglia, e dopo che chissà quante volte i bambini avranno guardato le altre due e quelle strane coppette facendosi tutte le loro domande, sarà indimenticabile quello che vedranno…

Senza dover dare particolari “spiegazioni” verbali (i piccoli possono apprendere concetti astratti attraverso la loro esperienza e non dalle nostre parole astratte), anche se forse solo i più grandi potranno arrivare all’idea di erosione del suolo, sicuramente tutti avranno chiaro il legame verde=pulito.

Facendo invece l’esperimento con bambini della scuola primaria, che già hanno affrontato i temi dell’ecologia, dell’impoverimento del suolo, della franabilità del terreno legata al diboscamento, della tutela dei corsi d’acqua, tutti questi concetti si chiariranno davvero “in un colpo d’occhio”.

Una volta che le nostre piantine si saranno sviluppate, potremo osservare acqua limpida uscire dalla prima bottiglia, ed acqua progressivamente più sporca dalla seconda e dalla terza; ecco le immagini scattate un paio di settimane dopo la semina:

Erosione del suolo – Esperimento – Variante due

Acceleriamo il processo sostituendo alla semina il trapianto di piantine già sviluppate (io avevo dei gerani):

e naturalmente in questo caso togliamo il tappo anche dalla prima bottiglia:

Ora versiamo la stessa quantità di acqua in ogni bottiglia. Perchè la cosa sia più chiara possibile,  e ogni concetto passi attraverso l’esperienza diretta, possiamo fare un segno all’interno dell’innaffiatoio :

Versiamo dunque l’acqua in tutte e tre le bottiglie, in tutte e tre nello stesso punto (l’estremità opposta all’apertura)

e osserviamo:

Le immagini sono scattate in sequenza.

Utilizzando piantine da trapianto, come vedete, l’acqua del primo contenitore al termine non è perfettamente limpida (inevitabilmente attorno all’apparato radicale ci sarà del terriccio aggiunto di fresco che sporca un po’ l’esperimento), ma l’acqua nella ciotola risulta comunque pulita rispetto a quella contenuta nelle altre due.

Erosione del suolo – Esperimento – Terza variante

Questa variante è adatta a bambini della scuola primaria e oltre: aggiunge infatti all’esperimento la scientificità e la serietà del “prelevare campioni di suolo”, cosa che per i bambini piccoli, invece, può generare un’impressione non proprio positiva.

E con questo arriviamo a poter citare gli ispiratori dell’esperimento:

Come vedete, qui sono state utilizzate bottiglie più grandi per i campioni, e per l’innaffiatura si è utilizzato un tubo con tre rubinetti (per questo è evidente il foro nel terzo campione).

Si tratta di andare all’aperto e prelevare tre zolle differenti di terreno: una di erba viva, una di terra coperta di residui vegetali morti, una priva di qualsiasi altro elemento.

Si aprono i rubinetti, ma pochissimo, in modo che l’acqua goccioli lentamente in ognuna delle bottiglie, si attende e si osserva. Si può anche versare l’acqua senza usare rubinetti, purchè ogni bottiglia ne riceva, come già detto, la stessa quantità.

Visitando il blog (anche se in portoghese) potrete trovare altri interessanti esperimenti e molto materiale sul tema dell’erosione.

Science experiment on soil erosion – This experiment, which has a tremendous visual impact due to its simplicity, it will demonstrate the relationship between precipitation, soil erosion, protection of watercourses and vegetation.

A very simple experiment that stresses the importance of the vegetation cover of the soil. You can propose in three versions: – Preparing the planting of seedlings – Using plants ready to be transplanted – Using soil samples.

Science experiment on soil erosion – First version

Prepare three identical plastic bottles, cut as shown in the pictures and put them on a flat surface (I’ve stuck with the hot glue on a tablet of plywood):

the opening of the three bottles should protrude a little out of the surface. Put in each bottle the same amount of ground and press hard to pack as much as possible. The ground must be below the level of the opening of the bottle:

Cut the bottom of other three bottles of transparent plastic, and make two holes for the string. These cups will serve to collect, during the experiment, the water in excess, which reproduces the rainwater:

Then put the cap on the first bottle in which to plant the seeds:

put inside the second bottle some dead vegetal wastes (twigs, bark, leaves, dead roots). In the third bottle just leave ground.

Spread the seeds in the first bottle (I chose watercress, basil and chives), cover with a layer of ground and press a little, then watering; you can use the piece of plastic cut from the bottle to cover the soil seed like a greenhouse, which will help the seeds to germinate faster:

Expose to sunlight, and take care of planting until the plants are well developed. The actual experiment can be done only then …

This version is particularly suitable to be offered to younger children, because it generates curiosity and expectations, invites you to take care of sowing and stimulates the observation of the process of development of the plant from seed.

A process as complete teaches children many concepts that may appear “too complicated”, and creates a link with the real world: the plant is from seed (and not from the supermarket or florist). When, after a long wait and a lot of care, we have the plants in the first bottle, and after the children have watched day after day the other two bottles and cups, making all their questions, what they see will be unforgettable …

Without having to give specific verbal explanations (little ones can learn abstract concepts through their experience and not by our words), though perhaps only the older children come to the idea of soil erosion, surely everyone will clear the link green = clean .

If you do this experiment with primary school children, who have already studied about ecology, land degradation, landslides, deforestation, protection of watercourses, etc … all of these concepts will become experience.

When the plants will be developed, we can see clear water out of the first bottle, and water progressively dirtier out of the second and third.
Here are the pictures taken two weeks after sowing:


Science experiment on soil erosion – Second Version

Speed up the process and replace the sowing with the transfer of plants already developed (I had geraniums):

of course, in this case, remove the cap also from the first bottle:

Pour the same amount of water in each bottle. To make it as clear as possible, and to learn each concept through direct experience, make a mark inside the watering can:


Pour the water into all three bottles, in all three at the same point (the end opposite the opening) and observe:


The images are taken in sequence.

Using plants already developed, as you can see, the water from the first container at the end of the experiment, it is not perfectly clear (inevitably, there will be some fresh soil around the root), but the water in the first bowl will always be clean compared to the water contained in the other two bowls.

Science experiment on soil erosion – Third version

This version of the experiment on soil erosion is suitable for children of primary school and beyond: it adds the seriousness of “taking samples of the soil.” With younger children, however, take samples of soil (especially living plants) can generate a negative impression. And so I can quote the inspirers of this experiment:

Solo na escola – ESALQ solonaescola.blogspot.it

As you see, here were used larger bottles for the samples, and it is used for watering a tube with three taps (for this reason it is so evident the hole in the third sample).
It is to go outside and take three different clods of soil: a patch of grass alive, a ground covered with dead plant residues, a clod without any other element.
Open taps, but very little, so that the water drips slowly in each of the bottles, wait and observe.
It can also pour water without using taps, provided that each bottle receives, as already said, the same amount of water.

Visiting the blog (although in Portuguese) you can find other very interesting experiments and educational materials on the topic of soil erosion.

Lavoretti per San Martino QUADRO TRASPARENTE

Lavoretti per San Martino QUADRO TRASPARENTE – un lavoretto classico per la festa di San Martino, adatto a bambini della scuola primaria, a partire dalla terza classe.

Lavoretti per San Martino QUADRO TRASPARENTE – Materiale occorrente
avanzi di carta velina colorata
colla per carta
taglierino
cartamodello stampato:

che puoi scaricare o stampare qui:

Lavoretti per San Martino QUADRO TRASPARENTE – Come si fa

Stampa il modello su un normale foglio bianco A4 (se hai a disposizione carta un po’ più spessa di quella solita è meglio per la maggiore resistenza, ad esempio andrebbe benissimo la carta fotografica opaca o anche lucida usata a rovescio; comunque io ho usato carta normale ed è assolutamente fattibile):

I bambini ritagliano tutti i contorni con il taglierino (eventuali piccoli strappi sono del tutto  sistemabili poi con la carta veline… non scoraggiateli, strappano anche le maestre 🙂 )

Le imperfezioni nel ritaglio possono essere corrette ripassando il tutto col pennarello scuro:

Poi si gira il quadro sul rovescio:

E si incolla la carta velina colorata, così:

Questo è il quadretto ultimato, sul rovescio:

E questo è il quadretto come appare applicato su una finestra:

E’ un lavoretto che richiede più giorni di lavoro, ma che proprio per questo dà ai bambini molta soddisfazione.

Questo articolo fa parte dell’Album di Vita pratica:

Tutti gli album

Dettati ortografici sugli ANIMALI

Dettati ortografici sugli ANIMALI – Una raccolta di dettati ortografici e letture per la scuola primaria sugli animali:  i mammiferi, i ruminanti, i mammiferi marini, ecc..

Dettati ortografici sugli ANIMALI
I mammiferi

Si chiamano mammiferi gli animali vertebrati che da piccoli si nutrono con il latte materno. Il loro corpo è generalmente ricoperto di peli, il loro sangue è rosso e caldo; respirano con i polmoni. La grande classe dei mammiferi comprende animali che vivono sulla terra, nell’aria e nell’acqua. Sono mammiferi i cani, i gatti, i topi, i cavalli, i buoi, le mucche, le pecore, le capre, i maiali, le volpi, i lupi, i leoni, le tigri, i leopardi, gli elefanti, le zebre, le giraffe, i conigli, le lepri, i canguri, gli scoiattoli, le scimmie, le balene, i delfini, i pipistrelli e tanti altri animali.

Dettati ortografici sugli ANIMALI
I suini

Fra gli animali che l’uomo ha tolto dallo stato di selvatichezza per servirsene, magari trasformato in salsicce, è il maiale. Della stessa famiglia è il cinghiale, che preferisce la vita libera della macchia alle grasse brodaglie con cui l’uomo nutre il maiale. Ai suini appartiene anche l’ippopotamo, che non si trova nei nostri paesi e che noi ci accontentiamo di ammirare allo zoo.

Dettati ortografici sugli ANIMALI
I ruminanti

Gli animali ruminanti hanno uno stomaco diviso in quattro sacche che si chiamano rumine, reticolo, omaso ed abomaso. L’erba, inghiottita senza essere stata masticata, va dapprima nel rumine, poi, quando l’animale è in riposo, il reticolo la rimanda in bocca; da qui, dopo che i denti l’hanno ben masticata, l’erba scende nell’omaso e nell’abomaso, dove è digerita. Oltre ai bovini, sono animali ruminanti: la pecora, la capra, il bisonte, il cammello, il dromedario, il cervo, il camoscio, lo stambecco, il caribù, la renna, l’antilope, e tanti altri.

Dettati ortografici sugli ANIMALI
I roditori

E’ roditore il topo, il vispo topolino a cui piace moltissimo il formaggio chiuso nella nostra credenza; e, con lui, sono roditori i numerosi esemplari di topi che tanto danno possono recare all’agricoltura e quindi all’uomo.
Roditori sono anche il coniglio, la lepre, lo scoiattolo, l’istrice, il criceto. A tutti sarà capitato di sentire rosicchiare uno di questi animali, e se qualcuno avesse pensato che, a forza di rosicchiare, gli si sarebbero consumati i denti, ha pensato giusto. Infatti, i denti dei roditori si consumano, ma ricrescono sempre, così per questi animali rodere è anche una necessità per mantenere la dentatura in perfetta efficienza.
A causa di questi denti, i roditori non sono affatto graditi all’uomo, il quale cerca di rifarsi come può, utilizzando di alcuni la carne e la pelliccia, distruggendo gli altri.

Dettati ortografici sugli ANIMALI
Gli equini

Fra i migliori amici dell’uomo, sono il cavallo, l’asino e il mulo. Essi lo aiutano nel suo lavoro e si lasciano cavalcare.
Hanno lo zoccolo formato di un solo pezzo e l’uomo vi applica un ferro per renderlo più robusto.
Agli equini appartiene anche la zebra, che vive allo stato selvaggio.
Sono tutti erbivori.

Dettati ortografici sugli ANIMALI
Mammiferi in libertà

Numerosi mammiferi vivono allo stato selvatico. Tra essi sono le scimmie, animali che, più degli altri, assomigliano all’uomo; alcuni insettivori come la talpa e il riccio, che si nutrono di insetti e che, quindi, noi dovremmo tenere molto cari. Ci sono gli elefanti, gli orsi, i canguri; questi ultimi hanno sul ventre una tasca dove tengono i piccoli finché questi non sono in grado di badare a sé stessi, e ci sono perfino animali che l’uomo ha faticato a classificare, perchè volano come gli uccelli e non sono uccelli, allattano i piccoli e sono ricoperti di peli. Vogliamo alludere ai pipistrelli, anch’essi mammiferi, che, anche se poco piacevoli a vedersi, sono utili all’uomo perchè si nutrono di insetti.

Dettati ortografici sugli ANIMALI
Mammiferi che non sembrano mammiferi

Sono grossi animali che vivono nell’acqua come i pesci, ma non sono pesci. Sono la balena, il delfino, il capodoglio, cioè i cetacei. Sono la foca, il tricheco e cioè i pinnipedi. Anche questi depongono piccoli vivi che allattano e hanno i polmoni per respirare. Se non potessero venire ogni tanto alla superficie per fare provvista d’aria, morirebbero asfissiati proprio in quell’acqua dove sembrano trovarsi perfettamente a loro agio.
La balena è il più grande degli esseri viventi.

Mammiferi marini

La balena è il più grosso dei mammiferi. Vive nei mari polari, ove è cacciata per la carne, il grasso e i fanoni. Il delfino è un cetaceo molto comune nei mari temperati: è mammifero e carnivoro. La foca è un mammifero marino delle zone glaciali. Si ciba di pesci.  Il tricheco è un mammifero che vive nei mari freddi.

Animali insettivori

Essi si dividono il campo di caccia; chi va nei prati, chi nei giardini, altri nei boschi e negli orti. Fanno una guerra continua ai bruchi che distruggerebbero i nostri raccolti. Essi sono più abili di noi, di vista più acuta, più pazienti e senza alta occupazione che quella. Fanno un lavoro che per noi sarebbe assolutamente impossibile.
(Fabre)

I pinnipedi

Si chiamano così certi grossi animali che passano la vita sulle spiagge e nel mare. Essendo carnivori hanno, anch’essi, una buona dentatura, ma non hanno il dente ferino come i carnivori terrestri. Il loro corpo, che ha la forma di un fuso, è ricoperto di un pelo corto, fittissimo ed è quindi adatto alla vita acquatica. Gli arti sono ridotti a guisa di pinne atte al nuoto, con le dita unite da una membrana.

Dettati ortografici sugli ANIMALI
Gli animali e l’uomo

Fin dalla più remota antichità, l’uomo cercò di sottomettere gli animali per farsi aiutare nel suo lavoro ed avere carni ed abiti. Sembra che il primo animale ad essere addomesticato sia stato il cane. L’uomo viveva ancora nelle caverne, aveva intanto scoperto la maniera di procurarsi il fuoco.

Non si sa precisamente quale sia stato l’antico progenitore di questo fedele amico dell’uomo. Data la diversità di razze esistenti, così profondamente differenziate le une dalle altre, si può dedurre che il cane provenga da animali diversi. Tra questi è certamente lo sciacallo che rassomiglia al tipo più comune di cane. Lo sciacallo ulula lugubremente di notte e anche la voce primitiva del cane è l’ululato. E’ soltanto nella dimestichezza che egli ha imparato ad abbaiare, cosa che dimentica se ritorna allo stato selvatico.

Naturalmente, oggi il cane ha perso diversi caratteri della sua antica origine; i tipi da noi conosciuti sono il risultato di una lunga successione di generazioni, tutte sottomesse dall’uomo ed educate da lui.
Quando il cibo carneo cominciò a scarseggiare, sia per la mancanza di selvaggina sia per il sopravvenire dei grandi freddi, l’uomo primitivo soffrì la fame e, allora, pensò di allevare degli animali. Si ebbero così gli armenti di pecore e di capre. L’uomo ebbe la carne e il latte e in seguito imparò anche a filare e a tessere il vello di cui questi animali erano forniti. Successivamente, alcune popolazioni si dedicarono esclusivamente all’allevamento. Ed ecco l’uomo pastore. Egli è, però, ancora nomade. Spinge davanti a sé i suoi greggi alla ricerca di nuovi pascoli; conosce così nuove contrade dove porta quel poco di civiltà che è venuto conquistando, seguito da quegli animali che si sono ormai definitivamente sottomessi.

Prima di conseguire la domesticità attuale, pecore e capre erano ben diverse dal tipo che oggi conosciamo. Forse, erano anche in grado di difendersi. La pecora, oggi così mansueta paurosa e assolutamente incapace di una vita indipendente, doveva possedere mezzi di difesa, altrimenti sarebbe scomparsa dalla terra prima che l’uomo avesse potuto addomesticarla. Era, per lo meno, in grado di salvarsi con la fuga, così come facevano tutti i ruminanti e come fanno ancor oggi quelli rimasti allo stato selvatico.

L’uomo conosceva una varietà di spiga di cui mangiava i granelli che, abbrustoliti e ridotti in farina, intrideva con l’acqua e cuoceva fra due pietre arroventate. Questa focaccia gli piaceva e egli la mangiava insieme alla carne della selvaggina di cui temperava il gusto e il forte sapore. Fu così che l’uomo imparò a coltivare egli stesso questa spiga e fu lieto quando vide biondeggiare il campo di messi, seminate e coltivate da lui. Divenne agricoltore, ma rimase nomade perchè quando il campo, ormai sfruttato, non dava che un raccolto misero e scarso, egli si trovava costretto a cercare terreni più fertili e pingui.

Ma il lavoro della terra era faticoso: quella specie di aratro che egli si era fabbricato con un tronco appuntito, era duro a trascinarsi sul terreno dove a stento riusciva ad aprire un solco superficiale.
Fu così che l’uomo cercò di domare un animale forte e robusto che lo aiutasse nel lavoro dei campi.
L’animale forte e robusto fu il toro e il sottometterlo non fu facile nè privo di pericoli.

La storia non ci dice nulla dei primi domatori di tori, ma questa conquista fu così preziosa che l’Oriente ne serbò memoria per lungo tempo,  e ne fanno prova gli onori che l’antico Egitto attribuiva al bue Api, considerato un dio e al quale si offrivano sacrifici e si dedicavano templi. Anche ai nostri giorni, in India, la vacca è considerata sacra e perfino nei nostri paesi i buoni vengono ornati con fiocchi e nappe. Naturalmente, molto cammino si è fatto dal bestione furioso e ribelle dei tempi preistorici al docile e mansueto bue dei nostri giorni.

L’uomo è dunque diventato pastore ed agricoltore. Ormai sono molti gli animali che ha addomesticato e di cui si serve: il cane, che gli è diventato fedele compagno nella caccia e che custodisce il suoi armenti; la pecora, che gli fornisce cibo e vesti; il bue che lo aiuta nel lavoro dei campi.

Ma egli ha ormai bisogno di spostarsi velocemente da un luogo all’altro, le sue esigenze sono aumentate, lo spinge la curiosità invincibile che lo porta ad esplorare regioni lontane e ancora sconosciute. E’ spesso in guerra con gli altri uomini che gli insidiano il gregge e i raccolti. La guerra! Un fattore decisivo nella storia della civiltà umana. L’uomo deve utilizzare un animale veloce che gli permetta non solo di spostarsi rapidamente da una regione all’altra, ma che sia anche un animale coraggioso, capace di sostenerlo e di aiutarlo nel combattimento. E’ così che l’uomo utilizza il cavallo che poi avrebbe addomesticato ed allevato come animale da tiro e da carne. Lo chiamò pittorescamente il “figlio del vento”, e questa fu certo  la più nobile conquista che egli abbia fatto nei tempi dei tempi.

Pare che questo animale provenga dalle pianure della Mongolia, dove esistono ancora branchi di cavalli selvatici. Anche in America si trovano branchi che vivono in libertà, allo stato brado, nelle sterminate pianure erbose, ma essi sono soltanto i discendenti rinselvatichiti dei cavalli domestici.

Per catturarli, gli uomini usano il lazo, una specie di correggia terminante con palle,  la quale si attorciglia al collo e alle zampe del cavallo e lo atterra. Forse, non molto dissimile fu la cattura del cavallo nell’antichità. Non fu facile domare questo fiero animale, ma quando l’uomo vi riuscì, il cavallo gli fu prezioso in pace e in guerra.

Il mite e paziente asinello non è un cavallo degenerato come alcuni vorrebbero: anch’esso vanta le sue antiche origini e anzi, l’asino sembra aver preceduto il cavallo nella domesticità. L’uomo nomade che trasmigrava con tutti i suoi armenti, aveva bisogno di un animale da poter caricare con le masserizie e gli strumenti di lavoro. L’asino gli fu utilissimo perchè era forte, paziente, di poche esigenze e resistente ai disagi. Oggi, gli asinelli delle razze montane hanno un aspetto dimesso perchè vengono anche trattati male, ma in Oriente, dove questa cavalcatura è tenuta molto in onore, l’asino è un animale dall’aspetto robusto, che trotterella vivacemente.

Gli animali domestici crescevano di numero e l’uomo ne traeva cibo e aiuto per il suo lavoro, ma la serie non doveva finire tanto presto. Ecco il gatto, che l’uomo forse in principio tollerò, quando attratto dall’odore dei cibi e dell’abbondanza di piccoli animali, questo felino grazioso ed agile si avvicinò alla sua capanna. Pare che il gatto domestico derivi dal gatto selvatico che ancora vive in Abissinia e che gli assomiglia molto. Infatti, per quanto il nostro gatto sia pieno di smorfiette e di grazie, esso rivela la sua origine felina nelle improvvise rivalse fatte con denti e unghie. Il gatto fu ospite dell’uomo fin dalla più remota antichità. L’Oriente, dal quale l’abbiano ricevuto, lo possiede da tempo immemorabile. In Egitto, il gatto era ritenuto sacro e gli venivano attribuiti onori divini.

Fra gli animali addomesticati ed allevati soprattutto per le loro carni, vi fu il maiale, derivato certamente anche dall’irsuto e selvatico cinghiale, che ancora popola le nostre macchie. Ed ecco, infine, le numerose varietà di polli che oggi schiamazzano nei nostri cortili e che l’uomo, attraverso selezioni lunghe e pazienti, ha modificato a suo vantaggio: galline grasse e feconde, galli pettoruti e arditi, tacchini e palmipedi. Mentre il gallo e la gallina ci sono pervenuti dall’Asia, il tacchino proviene dall’America del Nord. Per tale ragione viene chiamato anche dindo, cioè proveniente dalle Indie (occidentali).
L’oca e l’anatra esistono ancora allo stato selvatico, e sono note le lunghissime migrazioni che esse compiono da un capo all’altro del mondo per andare a deporre le uova nei paesi d’origine, situati entro il Circolo Polare.
Altri pennuti preziosi sono i piccioni, allevati in domesticità anche se numerose specie vivono ancora libere nei buchi delle vecchie torri o sui tetti.
(Mimì Menicucci)

Dettati ortografici sugli ANIMALI
L’uomo e gli animali nella preistoria

I nostri lontanissimi antenati ben presto dovettero osservare tutto ciò che li circondava e in modo speciale gli altri viventi, soprattutto gli animali, alcuni dei quali rappresentavano un pericolo da evitare e altri una fonte di vita di cui occorreva impadronirsi. Il risultato di queste osservazioni è giunto fino a noi negli stupendi disegni graffiti sulle pareti delle caverne dove l’uomo, allora, abitava.

Dettati ortografici sugli ANIMALI
Tanti animali, tanti record!

Lo sapevate che, in una giornata, un topolino mangia la stessa quantità di cibo che mangiate voi? Lo sapevate che se nel salto in alto fossimo bravi come la pulce, potremmo superare d’un balzo una collina? Vi diciamo quali sono gli straordinari primati sportivi di animali piccoli e grandi.

E la forza? Voi penserete subito all’elefante, immagino, che può trainare un intero treno merci. Ciò può anche non stupirci troppo, se pensiamo alle dimensioni del bestione. Assai più eccezionale è una simile forza, fatte le debite proporzioni, in una bestiolina come lo scarabeo stercorario, uno dei nostri più comuni coleotteri, che può sostenere e trainare un peso 850 volte superiore a quello del suo corpo. Ma c’è dell’altro! Una formica riesce a trascinare dietro di sé il corpo di un’ape, su una distanza che, rapportata alla misura umana, è superiore a molte decine di chilometri. Forse queste eccezionali qualità degli insetti dipendono dal fatto che essendo dotati di vita assai breve, riescono a concentrare in uno spazio di tempo ristretto tutta l’energia che un uomo sviluppa in una durata di circa settant’anni. Ci sono poi gli animali golosi, o più semplicemente mangioni. Il primatista in questo senso è senz’altro il topo, che in un giorno riesce a mandar giù tanto cibo quanto un ragazzo di dieci anni! C’è poi un caso di golosità che torna assai utile nell’agricoltura. E’ il caso della civetta che, per nutrire la sua nidiata, sacrifica fino a 6.000 topi campagnoli in un anno, salvando così i nostri raccolti.

Gli animali non finiscono mai di stupirci: incredibile è ancora la potenza dei loro sensi. Si dice occhio di lince per indicare la vista acuta per eccellenza, ma è una fama un pochino usurpata. La civetta ci vede assai meglio. Gli occhi della civetta, infatti, sono dotati di cellule che distinguono non i colori ma la luce, e contengono una sostanza che permette al rapace di percepire anche la luce più tenue, e di trasformarla in una vera e propria impressione visiva, là dove noi non scorgeremmo probabilmente un bel nulla. Così la civetta anche nella notte più fonda può andare a caccia di topolini e scorgerli tra le erbe.

Questi occhi peraltro eccezionali hanno un difetto: sono fissi come i fari di un’auto. Ma neanche a farlo apposta, questo difetto dà all’uccello la possibilità di conquistare un altro record: quello della mobilità della testa. Infatti la civetta riesce quasi a far ruotare la testa intorno al collo, senza cambiare di posizione e senza perdere di vista quel che le interessa. Non è certo un caso unico di vista eccezionale, la civetta: c’è un pesce tropicale che, navigando in superficie, riesce a vedere nello stesso tempo il pelo dell’acqua e le profondità del mare, e può captare e distinguere due immagini alla volta. Numerosi insetti, inoltre, grazie ai loro enormi globi oculari, hanno una vista che copre un’angolazione assai maggiore della nostra.

E per finire vi parleremo di una… lingua, che detiene il primato della stranezza. E’ la lingua della lumaca: una lingua con i denti. Sulla sua superficie di sono qualcosa come quattromila piccolissimi denti con cui la lumaca riesce ad attaccare le piante di ogni tipo e più tranquillamente rosicchiarle. Sulle foglie, nelle verdure degli orti avrete di certo notato il suo passaggio.

Se facciamo un confronto fra le possibilità fisiche nostre e quelle degli animali, non siamo certo noi a fare… la parte del leone. Pensate: un uomo può correre solo per alcuni secondi alla velocità di 36 chilometri all’ora, ma ci sono delle antilopi che toccano tranquillamente i cento chilometri all’ora, e il ghepardo supera addirittura i 110! C’è poi una specie di rondine asiatica che, dicono, vola addirittura a 320 km/h! La gazzella del deserto è il canguro superano con un salto addirittura i dieci metri.

Ma le vere primatiste di salto sono la rana e la pulce! Pensate: se un uomo fosse tanto bravo come la pulce, riuscirebbe a saltare trecento metri a piedi giunti, un salto pari alla torre Eiffel, insomma! Il topo del deserto, dal canto suo, che è lungo poco più di due centimetri, salta in lunghezza oltre quattro metri: in proporzione voi dovreste saltare 100 metri!

Lo sapevate che esistono alberi con più di duemila anni, che hanno visto tutta la storia dai tempi antichi ad oggi? In Francia c’è un’enorme quercia, il cui tronco a stento tre uomini potrebbero abbracciare, e che nel nel XVI secolo era il centro di riunione dei cospiratori contro gli spagnoli del Duca d’Alba.

Nel mondo degli animali non esistono casi così clamorosi di longevità. Si parlò un tempo di piovre vissute per secoli, il che spiegava la loro enorme mole dovuta a una lentissima crescita. E si è anche detto che il pappagallo e il corvo raggiungono la rispettabile età di 200 anni! La verità è però assai diversa: difficilmente un grosso corvo supera i sessanta anni. Non si sa molto sulla longevità dei pesci, ma si ricordano pesci rossi vissuti  oltre dieci anni nel loro acquario, senza peraltro aumentare molto di dimensioni. Una carpa può vivere circa 25 anni. Una grande tartaruga vive circa 200 anni. Un coccodrillo vive a lungo anche lui: la vipera invece non vive più di sette o otto anni. E direi che è anche troppo per un animale così. Vita relativamente breve hanno i nostri più cari amici, il cane e il gatto. E’ un vero peccato che queste bestiole non possano accompagnare per tutta la vita il loro

(da “Il Corriere dei Piccoli”)

Dettati ortografici sugli ANIMALI
Animali che giocano

I loro giochi non sono molto complicati. Le lontre, per esempio, si divertono con una specie di toboga. Cercano la riva liscia e bene in pendio di un fiume, la puliscono dagli arbusti e dai sassi, e quando l’hanno resa sdrucciolevole si lasciano scivolare in basso, fino a piombare nell’acqua, ventre a terra e muso in alto.

Qualcosa di simile fanno i camosci sulle Alpi. Nell’estate saltano di cima in cima tra le solitudini dell’alta montagna, inseguendosi in una giostra vorticosamente pericolosa. Ma anche per i camosci il toboga è lo svago maggiore: scelgono alcuni declivi coperti di neve, si acquattano, poi agitando le zampe come se remassero, si lasciano sdrucciolare e scendono a precipizio anche per centinaia di metri. E’ uno spettacolo. Tanto che i camosci anziani fanno da spettatori.
Ed è gioco, proprio gioco.
Infatti l’esercizio si ripete continuamente, per due o tre volte, dallo stesso soggetto, escludendo così possa trattarsi di un mezzo di locomozione rapida per superare le distanze.
Anche i più grossi animali, come gli elefanti e i rinoceronti, amano, in giovinezza, i giochi.
I tassi hanno un loro gioco speciale: fanno le capriole e i salti mortali. Gli orsi, invece, ballano: e non solo gli orsacchiotti ma anche gli adulti.

Dettati ortografici sugli ANIMALI
Cominciamo a distinguere

C’è differenza tra il leone e la viscida lumaca? C’è differenza tra l’uccello e il ragno? Ci sono tante differenze che, a volerle trovare tutte, si impiegherebbe moltissimo tempo.
Ma cominciamo da una differenza fondamentale: il leone ha lo scheletro, cioè una solida impalcatura che ne sostiene il corpo, la lumaca invece non lo possiede. Anche l’uccello ha lo scheletro e il ragno no.
Gli animali quindi, si possono dividere in due grandi gruppi: quelli che hanno lo scheletro e quelli che non lo hanno. E poichè lo scheletro si regge soprattutto sulla colonna vertebrale, cono stati chiamati, i primi, animali vertebrati, i secondi animali invertebrati.
(Mimì Menicucci)

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Animali vertebrati

Anche fra gli animali vertebrati ci sono grandi e profonde differenze. Ed ecco l’uomo procedere ancora nella distinzione. Volle distinguere, innanzitutto, gli animali che mettevano al mondo i figlioletti vivi e li nutrivano col loro latte. Li chiamò mammiferi. Erano animali che respiravano per mezzo di polmoni e avevano sangue sempre alla stessa temperatura, indipendente dalla temperatura esterna. Erano cani, bovini, ovini, leoni, tigri, ecc.
Chiamò uccelli quegli i cui piccoli nascevano da uova e che avevano ali fornite di penne che permettevano loro di alzarsi a volo nell’aria. Erano rondini, aquile, galline e passerotti.
Molto diversi dai mammiferi e dagli uccelli, alcuni animali non solo non volavano, ma non avevano nemmeno le zampe o, se queste c’erano, erano corte. Fra essi, i coccodrilli, i serpenti, le lucertole, le tartarughe. Il loro sangue non aveva sempre la stessa temperatura, ma assumeva quella dell’ambiente: caldo se faceva caldo, freddo se faceva freddo. Furono chiamati rettili.
Anche le rane, i rospi, le salamandre, avevano il sangue alla temperatura ambientale, ma l’uomo non potè collocare questi animali tra i rettili perchè essi potevano vivere tanto nell’aria che nell’acqua ed avevano bizzarre caratteristiche. Quando nascevano, per esempio, non rassomigliavano affatto ai loro genitori. La rana non avrebbe certo riconosciuto come suoi figlioli, i girini che sembravano pesciolini e potevano vivere solo nell’acqua. Soltanto in seguito, subita una metamorfosi completa, i girini si sarebbero trasformati in rane.
L’uomo chiamò gli animali aventi queste caratteristiche anfibi, che vuol dire aventi due vite.
Non li confuse, certo, con i pesci che, se vivevano anch’essi nell’acqua, non potevano però respirare nell’aria. Infatti, non avevano polmoni, bensì branchie. Erano tonni, sardine, merluzzi e sogliole.
Studiando la vita e le abitudini dei pesci, l’uomo si accorse che non tutti gli esseri che vivevano nell’acqua potevano essere considerati soltanto pesci. Certi bestioni giganti, balene, capodogli, delfini, foche, respiravano l’ossigeno dell’aria, avevano sangue caldo e mettevano al mondo i loro piccoli vivi. Erano mammiferi, anche se avevano abitudini differenti da quelle degli altri mammiferi. Li chiamò cetacei.
(Mimì Menicucci)

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Animali invertebrati

Anche tra gli animali invertebrati l’uomo trovò profonde differenze.
Chiamò molluschi quegli animali che avevano il corpo molle come la chiocciola, la lumaca che strisciavano sul terreno; la seppia, il calamaro, il polpo, le ostriche che vivevano nell’acqua di mare.
Classificò poi insetti tutti gli animaletti che avevano sei zampe e il corpo diviso in tre parti distinte: capo, torace, addome. Nella più parte della specie, i figli non rassomigliano, appena nati, ai genitori. In genere, si trattava di piccoli bruchi, di larve, che soltanto dopo aver subito una metamorfosi, diventavano insetti perfetti.
E i ragni? Non si potevano mettere insieme agli insetti anche se avevano, con questi, una vaga rassomiglianza. C’era una differenza importante: avevano otto zampe, non sei come gli insetti, e l’uomo classificò i ragni insieme agli scorpioni, alle tarantole e li chiamò, tutti, aracnidi. Non fu un nome dato a caso. Aracne era una bella fanciulla greca che sapeva tessere meravigliosamente. Minerva, la dea della sapienza, gelosa della sua abilità, la sfidò a fabbricare la tela più bella. Aracne vinse la gara, ma non potè rallegrarsene perchè la dea, indignatissima, la trasformò in un ragno. Anche così trasformata, la fanciulla continuò a tessere ma ahimè, la sua fu una tela che, pur tessuta mirabilmente, non serviva più a nulla: la ragnatela.
Nell’acqua, oltre i pesci, i molluschi e i cetacei, (i grossi mammiferi di cui abbiamo parlato), vivevano altri animali che non potevano essere classificati né con gli uni né con gli altri. Erano aragoste, erano gamberi, erano granchi… L’uomo li chiamò crostacei forse a motivo della loro corazza resistente che li ricopriva.
Con questo, credette di aver finito nelle sue classificazioni, ma si accorse ben presto che qualcosa, o meglio, qualcuno, era sfuggito. Si trattava di umili esseri che non camminavano, non volavano, non nuotavano. Si contentavano di strisciare, modesti, tranquilli; spesso non si riusciva a distinguere dove avessero la testa. Si trattava di lombrichi, rosei, snodati, molli, di sanguisughe, che si attaccavano voracemente alle gambe di chi si immergeva nell’acqua degli stagni e persino di alcuni disgustosi individui che l’uomo si accorse di ospitare nel suo intestino: la tenia e l’ascaride. Furono chiamati vermi.
Soltanto allora l’uomo pensò di aver finito le sue classificazioni del mondo animale, per lo meno di quelle fondamentali e si sentì soddisfatto. Non per nulla se ne considerava il re.
(Mimì Menicucci)

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Decalogo zoofilo

  1. Rispetta ogni essere vivente.
  2. Ricorda che gli animali sono esseri viventi, sensibili al piacere e al dolore. Comprendili ed evita loro, per quanto ti è possibile, fastidi e sofferenze.
  3. Non usare gli animali per il tuo diletto, non produrre strazio o danno alla loro salute, non far soffrire loro la fame o la sete.
  4. Non devastare le tane degli animali; non depredare i nidi degli uccelli, armoniose creature dell’aria.
  5. Non tormentare rospi, lucertole, insetti, talvolta utilissimi all’agricoltura.
  6. Rifuggi da spettacoli barbari e ripugnanti, vittime dei quali sono innocenti animali: impediscili, se puoi.
  7. Pensa agli svariatissimi vantaggi che l’uomo trae dagli animali e dimostra verso di essi la tua simpatia con il rispetto e la benevolenza.
  8. Ricordati che mostrarsi generoso con gli animali e rispettarli è indizio di anime nobile e gentile.
  9. Ogni animale è una creatura sensibile: non tiranneggiarla, ma accoglila sempre con tenerezza, proteggila, amala.
  10. Ricordati che dai sentimenti di giustizia e di carità scaturiscono tutte le virtù e che se le colpe talvolta vengono perdonate, la crudeltà non lo sarà mai.

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Amici e nemici

Tra tutti gli animali che popolano la terra l’uomo ha scoperto che alcuni gli sono nemici, come le bestie feroci, i serpenti e alcuni insetti; altri vivono lontano da lui  senza fargli né bene né male, come tutti gli animali selvatici in generale; altri infine, gli diventano facilmente amici, vivono volentieri nella sua casa o nel suo cortile, lo aiutano nei viaggi trasportandolo rapidamente, nella caccia, nei lavori dei campi; gli danno il latte, le uova, il pelo, la pelle, la carne; questi sono gli amici domestici i quali, fin dai tempi antichissimi hanno accettato il dominio dell’uomo.
(C. Lorett)

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Gli animali

Gli animali possono vivere senza l’uomo, mentre è difficile pensare che l’uomo avrebbe potuto sopravvivere senza gli animali. Per necessità, ma talvolta anche senza necessità, l’uomo ha turbato profondamente l’esistenza degli animali; talune specie per opera dell’uomo sono state cancellate dalla Terra, altre ridotte a pochissimi esemplari, alcune non esistono più allo stato selvatico, ma solo domestico. Soltanto in tempi recenti l’uomo saggiamente protegge quello che nei secoli passati è sfuggito alla totale distruzione.

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Guardatevi intorno

Guardatevi intorno: vedrete piccoli insetti, quali alati, quali striscianti, quali saltellanti, muoversi incessantemente in mezzo alle piante. Vedrete, nelle limpide acque del lago, guizzare rapidi pesci argentei; noterete le grosse anguille verdastre, i gamberi nei fossati. Udrete il gracidare delle rane vicino agli stagni, vedrete i granchietti, le arselle attaccate agli scogli marini e quei pesciolini minutissimi che nuotano dove l’acqua è bassa.

Dettati ortografici sugli ANIMALI
Un grande albero

Il regno animale si può paragonare a un grande albero, da cui si dipartono parecchi rami. In basso, sulle radici, vi sarebbero gli animali più semplici; in alto, sulla vetta estrema, che non può essere superata da nessun altro ramo, starebbe l’uomo. In mezzo, fra le radici e il vertice dell’albero, stanno gli animali che collegano l’uomo alle forme più semplici degli esseri viventi.

Dettati ortografici sugli ANIMALI
Ricerche e relazioni sugli animali:
– Scrivi il nome di alcuni animali e distingui quelli che appartengono al tipo dei vertebrati.
– Fai lo stesso per gli invertebrati.
– Ricopia i seguenti nomi, facendo due colonnine, una per gli animali vertebrati, una per gli invertebrati: ragno, lumaca, vipera, toro, seppia, ostrica, scorpione, gatto, sogliola, cavallo, zanzara, sardina, passero, asino, lombrico, coccodrillo, leone, chiocciola, tonno, balena, tenia, foca, vitello, moscerino, cane.
– Ricopia i seguenti nomi raggruppandoli a seconda che si tratti di mammiferi, uccelli, rettili, anfibi, pesci: pulcino, pipistrello, rana, salamandra, passero, gatto, coccodrillo, sogliola, triglia, rospo, canarino, cane, tigre, vipera, balena, squalo, biscia, delfino, usignolo, foca, merluzzo, lucertola, raganella, carpa, ippopotamo, rinoceronte, cavallo.
– Ricopia i seguenti nomi raggruppandoli a seconda che si tratti di crostacei, molluschi, insetti, aracnidi, vermi: gambero, chiocciola, mosca, zanzara, sanguisuga, lombrico, bruco, granchio, ascaride, seppia, ragno.
– Scrivi il nome di alcuni animali vertebrati e scrivi accanto a ciascun nome se si tratta di un mammifero, o di un uccello, di un rettile, di un anfibio, di un pesce.
– Scrivi il nome di alcuni animali invertebrati e scrivi accanto a ciascun nome se si tratta di un crostaceo o di un mollusco, di un insetto, di un aracnide o di un verme.

Amici e nemici
Tra tutti gli animali che popolano la terra l’uomo ha scoperto che alcuni gli sono nemici, come le bestie feroci, i serpenti e alcuni insetti; altri vivono lontano da lui senza fargli né bene né male, come tutti gli animali selvatici in generale; altri infine, gli diventano facilmente amici, vivono volentieri nella sua casa o nel suo cortile, lo aiutano nei viaggi trasportandolo rapidamente, nella caccia, nei lavori dei campi; gli danno il latte, le uova, il pelo, la pelle, la carne; questi sono gli amici domestici i quali, fin dai tempi antichissimi hanno accettato il dominio dell’uomo.
(C. Lorett)

Dettati ortografici sugli animali – Tutte le opere contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. 

Dettati ortografici sugli ANIMALI

Dettati ortografici sul sistema solare

Dettati ortografici sul sistema solare : una collezione di dettati ortografici per la scuola primaria, di autori vari, sul sistema solare. Difficoltà ortografiche varie.

Il sistema solare

Il cielo, di notte, offre ai nostri occhi uno spettacolo meraviglioso. Chi non si è fermato ad ammirare le migliaia di luci che brillano nel buio? Sono mondi come il nostro, quasi tutti immensamente più grandi.

Essi sono ordinati in famiglie: la famiglia delle stelle, caldissime e luminose; la famiglia dei pianeti e dei satelliti.

I Pianeti sono corpi celesti freddi, perciò oscuri, che non hanno luce propria, ma la ricevono da una stella attorno alla quale girano.

Anche il Sole è una stella. Attorno ad essa girano nove pianeti: Mercurio, Venere, Terra, Marte, Giove, Saturno, Urano, Nettuno, Plutone; tutti ricevono luce e calore dal Sole.

Naturalmente, più ne sono lontani meno intensi giungono loro i raggi solari. Anche i satelliti ricevono luce e calore da una stella attorno alla quale girano.  Essi però devono girare anche attorno ad un pianeta. La Luna è il satellite della Terra.

Tutti i pianeti ed i satelliti formano la grande famiglia del Sistema Solare di cui fanno parte anche le comete ed i bolidi che qualche volta vediamo comparire fugacemente nel firmamento con una scia luminosa.

Ognuno di questi mondi compie sempre lo stesso percorso, alla stessa velocità e trova nell’immensità (Universo) la sua strada, senza urtare altri mondi.

Essi ci appaiono molto piccoli; ci sembra di poterne raccogliere a decine in una mano. Tutt’altro: sono enormi, talvolta assai più grandi del Sole, ma sono lontanissimi.

Immaginiamo che sia possibile viaggiare in treno dalla Terra agli altri mondi. In 260 giorni giungeremmo sulla Luna; in 300 anni toccheremmo il Sole; per arrivare al pianeta Nettuno impiegheremmo 8.300 anni. E questo è niente! Scenderemmo sulla Stella Polare dopo 700 milioni di anni!

Il sistema solare

Per l’uomo dei tempi antichi la Terra era il centro dell’universo: attorno ad essa, ferma, ruotavano tutti i mondi celesti; per l’uomo moderno il nostro pianeta non è che uno degli innumerevoli pianeti che si muovono nello spazio secondo leggi ferree ed immutabili. Noi oggi sappiamo che anche il Sole non è che una delle tante stelle, e non certo il maggiore, sebbene per noi la più importante. Esso è il centro del sistema solare formato dal Sole e dalla Terra, dagli altri pianeti e dai loro satelliti, dalle comete, tutti gravitanti attorno al grande astro fulgente. Ogni pianeta ruota attorno al Sole seguendo un cammino definito a forma più o meno allungata detto orbita. La forza che impedisce ai pianeti di cadere l’uno sull’altro, reggendosi in mirabile equilibrio, è la forza di gravità, che fu scoperta dal grande fisico inglese Newton, verso la fine del 1600.

La legge dell’universo

Un giorno, circa trecento anni fa, mentre lo scienziato inglese Newton se ne stava tranquillo seduto sotto un melo del suo giardino, gli cadde accanto un frutto maturo. Acuto osservatore qual era, pensò: “La mela è caduta; se l’albero fosse stato più alto, di mille metri, di mille chilometri, sarebbe caduta ugualmente. Come mai allora la Luna non cade e così le stelle?”

Rifletti e rifletti, Newton scoprì che gli astri non cadono perchè si attraggono l’un l’altro. La forza di attrazione, combinata con quella che li avrebbe fatti andare dritti, li obbliga a percorrere una linea curva e chiusa chiamata orbita, sempre uguale.

Il Sole

Il Sole è la stella più vicina alla Terra: per questo ci appare tanto più grande e luminoso di tutte le altre. Fra le stelle che vediamo nella notte scintillare nella volta celeste, ve ne sono molte anche più grandi del Sole, ma sono così lontane…

La Terra ha anch’essa la forma di un globo, ma è molto meno grande del Sole e mentre questo è formato di materia incandescente, la crosta della Terra è fredda e compatta e riceve luce e calore dal Sole. Al Sole devono la vita le piante e gli animali che popolano la Terra.

Il sole è grandissimo. Se un uomo potesse farne il giro, percorrendo 4 Km all’ora e camminando 10 ore al giorno, impiegherebbe più di trecento anni.

Se un bambino si mettesse in mente di fare il giro della Terra e camminasse otto o dieci ore al giorno, arriverebbe al punto di partenza otto anni dopo. Un uomo impiegherebbe circa 3 anni; un ciclista capace potrebbe cavarsela in sei mesi; per circondare il mondo con le braccia ci vorrebbe un girotondo di quaranta milioni di bambini!

La Luna

La Luna è l’unico satellite della Terra. Essa non risplende di luce propria, ma, come uno specchio, ci riflette la luce del Sole, così come la parete bianca della casa di fronte, illuminata dal Sole, rischiara la nostra stanzetta che è nell’ombra. Naturalmente se noi fossimo sulla Luna vedremmo, per la medesima ragione, la Terra illuminata. La luna ha la forma rotonda come la Terra. E’ l’astro più vicino a noi, che noi conosciamo meglio. E’ quarantanove volte più piccola della Terra. La Luna è un astro morto, cioè non possiede nè aria nè acqua; non vi possono quindi vivere nè le piante, nè gli animali, nè gli uomini.

Come sappiamo, i satelliti girano attorno ad un pianeta. La Luna gira infatti attorno al nostro pianeta, la Terra, impiegando circa 30 giorni, cioè un mese.

Il movimento di rotazione della Terra

Il Sole, al mattino, illumina le case, le strade, la campagna; è il momento del risveglio. Trascorrono le ore, fino a quando si stendono le ombre della sera e il Sole sembra scomparire. Poi si fa buio e, in cielo, rivediamo le stelle. Nello spazio di un giorno, passano ore di luce e ore di buio. Questo accade perchè la Terra, illuminata dal Sole, non gli presenta sempre la stessa faccia,  ma gira su se stessa (movimento di rotazione) e si fa, a poco a poco, rischiarare. Una faccia, quella rivolta al Sole, è chiara; l’altra faccia, quella che non riceve i suoi raggi, è oscura. Il movimento di rotazione si compie in 24 ore circa; dura cioè un giorno. Il giorno si divide in sue parti: le ore chiare formano il giorno; le ore buie formano la notte.

Per capire meglio infiliamo un ferro da calza in un’arancia. Poniamola davanti ad una candela accesa ed immaginiamo che l’arancia rappresenti la Terra, e la candela il Sole. Vedremo il frutto rischiarato a metà dalla piccola fiamma, mentre l’altra metà rimane in ombra. Facendo ruotare l’arancia come ruota la Terra, tutta la sua buccia passerà, a poco a poco, dalla luce all’ombra e dall’ombra alla luce.

Il movimento di rivoluzione della Terra

Ricordiamo con nostalgia i giorni dell’estate, quando si poteva giocare all’aperto nei lunghi pomeriggi e il sole rimaneva alto fino a tardi e l’aria era calda attorno a noi. Ci viene da pensare che le ore chiare e le ore buie non sono sempre uguali nei giorni dell’anno. In inverno il giorno è breve, la notte lunga, l’aria fredda. In estate il giorno è lungo, a notte breve, l’aria calda.

Questo avviene perchè la Terra compie un largo giro intorno al Sole (movimento di rivoluzione) mantenendosi inclinata rispetto al fascio di raggi che il Sole li invia. Quindi, i raggi del sole, arrivano, durante l’anno, più o meno inclinati, riscaldando di meno e il Sole appare basso sull’orizzonte (giorni brevi). Per questo giro della Terra intorno al sole e per questa sua inclinazione si ha l’alternarsi delle quattro stagioni: inverno, primavera, estate, autunno.

Per capire meglio facciamo l’esperimento della lampada. I raggi solari scaldano più o meno la Terra secondo che siano dritti o inclinati. Ciò si può dimostrare con l’esperimento della lampada. Appoggia sul tavolo una lampada con paralume mobile e dà al paralume inclinazioni diverse. Quando esso è diritto rispetto al piano del tavolo, illumina un cerchio stretto e i raggi della lampada scaldano di più la piccola zona. Quando esso è inclinato, illumina un cerchio più ampio e i raggi della lampada scaldano di meno la zona larga.

Dettati ortografici sul sistema solare – Tutte le opere contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.

I punti cardinali – dettati ortografici

I punti cardinali – dettati ortografici: una raccolta di dettati ortografici sui punti cardinali e l’orientamento, di autori vari, per la scuola primaria.

I punti cardinali 

All’alba, in un punto dell’orizzonte, sempre dalla stessa parte, vedi apparire il sole, che da prima sale lentamente nel cielo, raggiunge a mezzogiorno la massima altezza e subito dopo comincia lentamente a scendere, finchè al tramonto scompare dietro l’orizzonte, nella parte opposta a quella da cui era sorto.

La parte dove sorge il sole si chiama Levante, Est oppure Oriente; dalla parte opposta troviamo il punto chiamato Occidente oppure Ovest. Se ci mettiamo col braccio destro teso verso Est e il sinistro verso Ovest, avremo davanti a noi un terzo punto chiamato Nord, Tramontana o Mezzanotte e alle nostre spalle un quarto punto, che è chiamato Sud, Meridione o Mezzogiorno. Questi quattro punti dell’orizzonte si chiamano punti cardinali ed è bene che tu sappia riconoscerli sul tuo orizzonte.

Sapersi orientare

Come facciamo a camminare senza smarrirci, quando siamo in mezzo a un bosco? Per trovare la via del ritorno, cerchiamo di vedere fra gli alberi qualcosa che ci serva da punto di riferimento per dirigerci: una fonte, una capanna di boscaioli, la forma di un monte lontano. Possiamo trovare il Nord guardando la corteccia degli alberi; dalla parte del Nord il sole non batte mai e perciò la corteccia è più umida, più scura, e spesso coperta di muschio.

Ma supponiamo di trovarci in una pianura vasta, senza alberi, senza capanne, senza montagne visibili all’orizzonte, senza quindi alcun punto di riferimento: allora dobbiamo ricorrere a qualche altro mezzo per orientarci, cioè per trovare la direzione giusta. I popoli antichi, che viaggiavano fra i monti e attraverso boschi e deserti e che solcavano il mare con le navi, sapevano in che direzione andare  perchè sapevano orientarsi guardando il cielo. Essi avevano appunto notato che al mattino il sole sorge sempre dalla stessa parte dell’orizzonte: a oriente.

La parola orientarsi significa riconoscere l’oriente, cioè la parte dalla quale vediamo sorgere il sole al mattino. In pratica, però, per orientarsi basta trovare uno qualsiasi dei punti cardinali. Infatti, stabilita la posizione di uno, si può facilmente stabilire la posizione degli altri.

Di notte il sole non c’è, ma guardando le stelle i viaggiatori antichi si accorsero che una di esse, la stella polare, si trova sempre nello stesso punto del cielo, a Nord.

I punti cardinali – L’orientamento

Il sole sorge da Est: io mi volgo, faccia al sole nascente. Di fronte ho l’Est, alle spalle l’Ovest, alla mia destra il Sud, alla sinistra il Nord.

Mi rivolgo, faccia al Sole calante: di fronte avrò l’Ovest, alle spalle l’Est, alla mia destra il Nord, alla sinistra il Sud.

Ho osservato il punto verso cui volgono le ombre all’ora di mezzogiorno. Mi volgo verso quel punto: di fronte avrò il Nord, alle spalle il Sud, a destra l’Est, a sinistra l’Ovest.

Ho osservato il punto in cui si trova il sole a mezzogiorno. Mi volgo verso quel punto: di fronte avrò il Sud, alle spalle il Nord, a destra l’Ovest, a sinistra l’Est.

Come orientarsi di notte

Di notte ci si orienta con la Stella Polare, che indica sempre il Nord. Ma come riconoscerla? Vi sono nel cielo due costellazioni, che hanno quattro stelle disposte come le ruote di un carro e altre tre come un timone. La costellazione più grande si chiama Orsa Maggiore, l’altra Orsa Minore; l’ultima stella del timone dell’Orsa Minore è la Stella Polare.

La bussola

La bussola è come un piccolo orologio, ma sul quadrante invece delle ore sono segnati i quattro punti cardinali e quelli intermedi. Al centro su un perno c’è l’ago calamitato, libero di girare. Orbene, quest’ago ha la proprietà di volgere la sua punta calamitata sempre verso Nord.

La bussola è stata inventata dai Cinesi molti e molti secoli or sono. E’ stata poi perfezionata da Flavio Gioia, un geniale navigatore di Amalfi.

La bussola è uno strumento indispensabile non solo per chi sfida il mare, ma anche per chi deve pilotare un aereo o per chi deve affrontare viaggi in regioni desertiche.

La rosa dei venti

Ogni vento ha un nome ben preciso, secondo la direzione in cui spira. Si tratta di nomi antichissimi, quasi tutti di origine marinara.

I più importanti sono: Tramontana, vento freddo e secco che soffia da Nord; Greco o Grecale, da Nord-Est; Levante da Est; Scirocco, piuttosto umido e tiepido, che spira da Sud-Est; Mezzogiorno, da sud; Libeccio, spesso violento, da Sud-Ovest; Ponente, da Ovest (detto Ponentino quando è debole); Maestro o Maestrale, da Nord-Ovest.

Il movimento del cielo stellato è solo apparente: mentre noi vediamo girare il cielo da oriente ad occidente, siamo invece noi a girare da occidente ad oriente. Ma questo movimento apparente ci ha dato modo di fissare vari punti: EST dove il sole sembra levarsi, OVEST dove tramonta.

Se ci volgiamo verso est e apriamo il braccio destro di ha il punto dove il sole, che è ormai a metà cammino, batterà i suoi raggi a picco sulla terra (mezzogiorno, sud, austro). La parte opposta è il nord (settentrione, tramontana).

I punti sud e nord possono essere determinati tutti i giorni esattamente con la luce del sole. Ciò non avviene per est ed ovest, se non negli equinozi, cioè il 23 settembre e il 21 marzo. Solo agli equinozi il sole segnerà esattamente est ed ovest, spostandosi poi verso nord o verso sud, a seconda delle stagioni.

Fra i 4 punti cardinali, a metà distanza da ciascuno di essi, si segnano altri quattro punti secondari:

– greco, o nordest

– scirocco, o sudest

– libeccio, o sudovest

– maestro, o nordovest.

Ogni vento ha un nome ben preciso, secondo la direzione in cui spira. Si tratta di nomi antichissimi, quasi tutti di origine marinara. I più importanti sono:

– tramontana: vento freddo e secco che soffia da nord

– greco o grecale: da nordest

– levante: da est

– scirocco: piuttosto umido e tiepido, che spira da sudest

– mezzogiorno, da sud

– libeccio: spesso violento, da sudovest

– ponente: da ovest, detto ponentino quando è debole

– maestro o maestrale: da nordovest.

Dettati ortografici I punti cardinali

Dettati ortografici I punti cardinali – una raccolta di dettati ortografici, di autori vari, per bambini della scuola primaria. Difficoltà ortografiche miste.

Sono due pulcini usciti ieri dall’uovo. Sono già nel prato a godersi la primavera. Guardano intorno, beccano in terra e si bisticciano. Bisticciano per una crostina di pane trovata fra l’erba. Tira uno, tira l’altro… nessuno vince. Il pulcino più scuro dà una beccata alla crostina; il pulcino più chiaro dà una beccata al compagno; l’altro scappa via contento col boccone. Non è passato che un momento; ecco i pulcini già in pace. Beccano contenti l’uno quasi contro l’ala dell’altro.

Dettati ortografici I punti cardinali – Tutte le opere  contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.

Fare in casa vernici lavagna – ricette dal web

Fare in casa vernici lavagna – ricette dal web. Preparare in casa la pittura (vernice, colore, o il termine che più preferite) ad effetto lavagna, cioè scrivibile coi gessi e lavabile, è semplice ed economico. Di seguito un po’ di ricette, tutte tratte da siti e blog esterni e molto più autorevoli della mia modestissima “Lapappadolce”; ricette alcune adatte ad essere usate sul muro, altre per piccoli progetti. Le lavagne possono essere realizzate non solo in nero, ma in qualsiasi altro colore, e c’è anche la variante “magnetica”…

… tutte le ricette proposte provengono dal web, con precisa indicazione, per ogni ricetta, della fonte cui fare riferimento. La precisazione è noiosa e me ne rendo conto, ma doverosa…

Le foto non corredate da link sono proprio di casa mia; volevamo, le ragazze ed io,  una parete lavagna e una magnetica, e abbiamo usato queste ricette. Nei commenti a questa raccolta di links troverete le altre esperienze di lettori e blogger che si sono cimentati.

Prima ricetta (per vernici lavagna di qualsiasi colore):

– 3 cucchiaini di colore acrilico all’acqua (colore a scelta)  – 1 cucchiaino e mezzo di vetrificante all’acqua  – mezzo cucchiaino di polvere di stucco per le fughe delle piastrelle non granuloso.

Mescolare rispettando le proporzioni indicate, a secondo della quantità che ci serve ed applicare possibilmente immediatamente. Questo preparato non è adatto ad essere conservato in barattolo perchè lo stucco per fughe indurisce molto velocemente. La ricetta è ottima per piccoli progetti.

Per i perfezionisti applicare la prima mano, lasciare asciugare, levigare con carta vetrata a grana finissima, applicare una seconda mano e ripetere così per due o tre volte.

Il vetrificante all’acqua è un prodotto che si trova facilmente nei negozi di bricolage, anche in barattoli piccoli,  e viene usato di solito come finitura per mobili in legno e parquet, oppure per lavori di decoupage. Nel web, ad esempio, qui:

http://www.mondofaidate.it (vetrificante per decoupage) http://www.maxmeyerfaidate.it (vetrificante per parquet) http://www.covemavernici.com (vetrificante per usi vari) Lo stucco per le fughe delle piastrelle è facilmente reperibile ovunque. Una volta asciutta, prima di utilizzarla strofinare su tutta la superficie un pezzo di gesso, quindi eliminare con una spugna appena umida. Ricetta di http://craftathome.com

Seconda ricetta (per vernice lavagna di qualsiasi colore):

– una tazza di pittura murale lavabile acrilica all’acqua per interni (di qualsiasi colore)

– due cucchiai di stucco per le fughe delle piastrelle non granuloso

Applicare, lasciare asciugare la prima mano, carteggiare con carta vetrata finissima, eliminare la polvere e passare alle mani successive.

Una volta asciutta, prima di utilizzarla strofinare su tutta la superficie un pezzo di gesso, quindi eliminare con una spugna appena umida.

Per la pittura murale, ad esempio questa http://www.maxmeyer.it

Ricetta di http://go.tipjunkie.com

Terza ricetta (per vernice lavagna di qualsiasi colore):

– mezza tazza di colore acrilico all’acqua

– un cucchiaio di stucco per fughe di piastrelle non granuloso

Una volta asciutta, prima di utilizzarla strofinare su tutta la superficie un pezzo di gesso, quindi eliminare con una spugna appena umida.

Ricetta di http://abeautifulmess.typepad.com

ricette simili:

1 cucchiaio e mezzo di polvere per fughe di piastrelle non granulosa

mezza tazza circa di pittura acrilica per hobby (per il rosa del progetto 1\4 di tazza di magenta, un cucchiaio e mezzo di bianco e una puntina di nero)

(ricetta di http://www.attemptingaloha.com)

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1 tazza di colore di qualsiasi tipo e colore

2 cucchiai di stucco per piastrelle

(ricetta di http://www.theidearoom.net)

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1 tazza di colore acrilico o di pittura murale lavabile acrilica per interni

1 cucchiaio di stucco per piastrelle non granuloso

(ricetta di http://salttree.blogspot.com)

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In versione magnetica:

aggiungere alla ricetta scelta:

ossido di ferro in polvere, ad esempio http://bricoutensili.comhttp://www.bellearti.it;

o polvere di ferro, ad esempio qui http://www.calamite.org.

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Qualche idea di utilizzo dal web:

Questo articolo fa parte dell’Album di Vita pratica:

Tutti gli album

DIY Chalkboard paint. Prepare at home the Chalkboard paint, that is writable with chalk and washable, is simple and cheap. Below some recipes, all taken from external sites and blogs; some recipes suitable to be used on the wall, other for small projects. The boards can be realized not only in black, but in any other color, and there is also the variant “magnetic”…

Almost all the recipes that I found require the use of powder tile grout not sanded:

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DIY Chalkboard paint

First recipe (Chalkboard paint of any color):

3 teaspoons acrylic paint
1 1/2 teaspoons glazing medium water based
1/2 teaspoon powder tile grout not sanded

Stir respecting the proportions indicated, depending on the amount we need and possibly apply immediately. This preparation is not suitable to be stored in a jar because the grout grout hardens very quickly. The recipe is great for small projects. For perfectionists apply the first coat, let dry, sand with fine sandpaper, apply a second layer and repeat it two or three times. Once dry, before use rub over the entire surface a piece of chalk, and then removed with a sponge just moist.

Recipe by http://craftathome.com

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DIY Chalkboard paint

Second recipe (blackboard paint of any color)

– A cup of washable acrylic water-based wall paint for interiors
– Two tablespoons of powder tile grout not sanded

Apply, let dry the first coat, sand with fine sandpaper, remove dust and move on to subsequent coats. Once dry, before use rub over the entire surface a piece of chalk, and then removed with a sponge just moist.

Recipe by http://go.tipjunkie.com

DIY Chalkboard paint

Third recipe ( recipe (blackboard paint of any color)

– 1/2 cup acrylic paint
– 1 tablespoon unsanded grout

Once dry, before use, rub over the entire surface a piece of chalk, and then removed with a sponge just moist.

Recipe by http://abeautifulmess.typepad.com

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DIY Chalkboard paint

Other similar recipes 

– 1.5 teaspoons  non-sanded grout

– 1/4 cup acrylic craft paint (color in your choice)

– 1.5 teaspoons white acrylic craft paint

– 1/8 teaspoon black acrylic craft paint.

(Recipe by http://www.attemptingaloha.com)

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– 1 cup of paint of any color or type

– 2 tablespoons of Non-Sanded Tile Grout.

(Recipe by http://www.theidearoom.net)

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– 1 cup of latex house paint or acrylic craft paint

– 1 Tablespoon of Non-Sanded Tile Grout.

(Recipe by http://salttree.blogspot.com)

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DIY Chalkboard paint

In magnetic version

add to the selected recipe:

iron oxide powder,

or iron powder.

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DIY Chalkboard paint

Some ideas of using from the web

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Un metodo grafico per la moltiplicazione

…un gioco grafico per eseguire le moltiplicazioni tra numeri a due o a tre cifre, noto come moltiplicazione vedica…

I bambini trovano questo gioco grafico molto interessante, e presenta notevoli vantaggi. Lo consiglio perchè:

– può essere proposto ai bambini a partire dalla seconda o terza di scuola primaria, anche se non sanno ancora moltiplicare con grandi numeri, perchè consente di esercitare l’addizione e le tabelline , e anche il contare, il tutto con la possibilità di autocontrollo dell’errore (basta confrontare il risultato con quello una calcolatrice 🙂 )

– naturalmente può essere proposto poi ai bambini e ai ragazzi della scuola secondaria, come variante del procedimento classico di moltiplicazione, o anche come “prova”

– è un esercizio che migliora le capacità di orientamento spaziale e l’ordine

– è molto gratificante anche in termini estetici

– fa sentire molto bravi in matematica, trovandosi in grado di lavorare anche con grandi numeri.

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Cominciamo con l’esempio più semplice, e moltiplichiamo 12 x 32 =

Per il 12 tracciamo una riga orizzontale in alto (corrispondente alla prima cifra 1)

e due righe orizzontali in basso corrispondenti alla cifra 2:

Poi  tre linee verticali corrispondenti alla cifra 3 del 32:

e, più a destra, due linee verticali corrispondenti alla cifra 2 del 32:

Ora delimitiamo alcune specifiche zone del nostro bel disegno isolando due angoli, così:

e contiamo disegnando un puntino in corrispondenza dei punti di intersezione delle linee, per ognuna delle tre zone delimitate (i due angoli e la zona centrale):

Controlliamo con la calcolatrice, e sì: 12 x 32 fa proprio 384 !

Questo esempio è scelto appositamente perchè contiene solo le cifre 1 2 e 3, ma il gioco grafico funziona con qualsiasi cifra… se il conteggio dei puntini dà risultati a due cifre, però, occorre aggiungere un ulteriore passo alla procedura.

Moltiplichiamo ora 46 x 53

Per prima cosa tracciamo le linee orizzontali corrispondenti al 46, e quelle verticali corrispondenti al 53, come spiegato sopra:

Poi delimitiamo le tre aree del disegno:

e contiamo i puntini in corrispondenza di ogni punto di intersezione delle linee, divisi per area:

Abbiamo 20, 42 e 18. Come possiamo fare?

Partiamo dal 18, lasciamo l’8 al suo posto,  togliamo l’1 e lo spostiamo avanti, verso il 42. 42 +1=43

Del 43 lasciamo il 3 al suo posto e spostiamo avanti il quatto, verso il 20.

20+4 = 24

e 46 x 53 = 2.438

Giochiamo ora con cifre ancora più grandi, il primo esempio è 312 x 131 =

In questi casi, dovendo moltiplicare tra loro due numeri di tre cifre, le aree vanno divise così:

Contiamo, i punti di intersezione presenti in ogni areea, e scriviamo a lato il numero corrispondente:

Come spiegato sopra le cifre che compongono il 10 vanno separate: lo 0 resta al suo posto, l’1 va ad aggiungersi al 3, che diventerà 4:

E il risultato sarà 40.872

Utilizzando cifre più alte, il bambino sarà stimolato a mettere in atto strategie diverse per contare i puntini, e senza dover dire nulla in proposito, presto deciderà da solo di utilizzare le tabelline, ad esempio così:

Per ottenere il risultato, dovrà spostare, a partire dal 18, ogni prima cifra ed aggiungerla al numero che sta davanti, così:

ottenendo il risultato corretto di 357.588

Ho usato spesso a scuola questo semplice gioco grafico per eseguire le moltiplicazioni, esercitare il calcolo orale, l’addizione e stimolare la memorizzazione delle tabelline, ma non sapevo si trattasse della “moltiplicazione vedica“, in questo video chiamata “moltiplicazione cinese“:

Nel web ne parlano, tra gli altri:

http://www.lanostra-matematica.org/

http://areeweb.polito.it/

http://www.softwaredidatticofree.it/

http://spicchidilimone.blogspot.it

visitando questi link troverete informazioni storiche su questo procedimento, varie curiosità, e anche un software…


The vedic

The vedic multiplication. Children find this graphic game very interesting. It has considerable advantages. I recommend it because:
– May be brought to the children in the second or third of primary school, although not yet know with multiply large numbers, because it allows you to exercise the addition and multiplication tables, and even the count,
all with the possibility of self-control error (simply compare the result with a calculator 🙂
– Of course it can be proposed then the older kids, as a variant of the traditional process of multiplication, or even as “proof”
– Is an exercise that improves the ability of spatial orientation and order
– It is also very rewarding in terms of aesthetics
– It makes you feel very good at math, being able to work well with large numbers.

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The vedic multiplication
Let’s start with the simplest example, and we multiply 12 x 32 =

For 12 we draw a horizontal line at the top (corresponding to the first number 1):

and two horizontal lines at the bottom corresponding to number 2:

Then three vertical lines corresponding at the number 3 of 32:

and, more to the right, two vertical lines corresponding at the number 2 of 32:

Now we delimit some specific areas of our beautiful design by isolating two angles:

and we count plotting a point at the points of intersection of the lines, for each of the three zones demarcated (the two corners and the central area):

We check with the calculator, and yes: 12 x 32 does just 384!

This example was chosen specifically because it only contains the numbers 1, 2 and 3, but the graphic game works with any number … if the count of dots gives results in two numbers, however, we must add another step to the procedure.

The vedic multiplication

Now multiply 46 x 53

First we draw the horizontal lines corresponding to the 46, and the vertical corresponding to 53, as explained above:

Then we delimit the three areas of drawing:

and we count the dots in correspondence to each point of intersection of the lines, divided by area:

We have 20, 42 and 18. How can we do?

We start from the 18,
8 to leave the place,
we remove the 1 and we move it forward, towards 42.
42 + 1 = 43

43:
leave 3 in place
and move forward the four, towards 20.
20 + 4 = 24

and 46 x 53 = 2,438

The vedic multiplicationThe vedic multiplication
Let’s play now with even bigger numbers, the first example is 312 x 131 =

In these cases, having to multiply together two three-digit numbers, the areas should be divided so:

We count, the intersection points in each areea, and we write the number corresponding to the side:

As explained above, the numbers that make up the 10 should be separated: 0 stays in place, the 1 to be added to the 3, which will become 4:

And the result will be 40,872

Using higher figures, the child will be encouraged to implement different strategies to count the dots, and without having to say anything about it, soon will decide on its own to use multiplication tables, such as:

To get the result, you will have to move, starting from 18, each first number and add it to the number that is in front, as well:

getting the correct result of 357 588

Dettati ortografici ESTATE

Dettati ortografici sull’estate: una raccolta di dettati ortografici, di autori vari, per la scuola primaria.

L’estate è la stagione più calda dell’anno. Il sole ardente fa maturare nei campi il grano; le spighe piene e mature sembrano d’oro. Il contadino le guarda e, vicino al raccolto, dimentica le fatiche passate. E’ la stagione dei temporali,degli acquazzoni, delle grandinate. Spesso le grandinate distruggono in pochi minuti, coi raccolti, le fatiche di molti mesi. Il contadino le teme come il peggiore flagello. (Bianchi e Giaroli)

Di giorno le cicale cantano sugli alberi, e i grilli, a sera, cantano fra l’erba del prato. I contadini mietono il buon grano, che darà il pane per tutta l’annata. Le rondini stridono nel cielo e, quando scendono le prime ombre della sera, rientrano nei nidi, sotto le gronde. I pastori lasciano la pianura e salgono col gregge ai pascoli montani. I giorni sono lunghi, le notti sono corte. S’incomincia a pensare alla villeggiatura. Giunge l’estate, la bella stagione della quiete e del riposo.

D’estate le giornate sono lunghe e abbaglianti di sole, il cielo è di un colore azzurro intenso, le notti sono brevi, luminose, stellate. Corrono le lucertole lungo i muri, nei prati cantano i grilli, sulle siepi stridono le cicale, le rane e le raganelle gracidano nei fossati: volano le farfalle, le lucciole. Mille insetti palpitano fra la vegetazione rigogliosa della terra.

E’ estate. Sui monti le ultime nevi si sciolgono. Nel piano gli alberi sono in pieno rigoglio. La campagna è tutta verde. Sciami d’api ronzano tra le corolle dei fiori, gli uccelli scendono sui campi a beccare i chicchi, a scegliere insetto da insetto; risalgono nel più alto dei cieli con magnifico volo. Lo stagno rispecchia le nubi e l’azzurro del cielo; il ruscello gorgoglia e bagna le sponde fiorite.

D’estate certe notti di luna sono così chiare che le farfalle, ingannate da quest’ambiguo albore di eclissi, continuano a volare come se fosse ancora giorno; e il palpito dei loro voli insonni, che si intravede nella perlacea nebbiolina notturna, dà l’impressione che i prati siano popolati di fantasmi d’ali, evocati dal plenilunio. (P. Calamandrei)

Attorno a me il sole occhieggiava sull’erba, e faceva brillare qualche filo di ragno ancora coperto di rugiada. Un venticello tenerissimo piegava con grazia i sottili arbusti del boschetto di nocciole, e qualche foglia giungeva ad accarezzarmi la fronte. (G. Titta Rosa)

Com’è bella nella sua vestina bianca con sfrangiature verdi e marroni sulle punte, con il corpicino elegante. Ma il povero cavolo come la teme! Questa farfalla, la pieride cavolaia maggiore, si posa sulla pagina inferiore delle sue grandi foglie. Qui depone tante uova ben nascoste. Dopo pochi giorni, dalle uova nascono i bruchi. E che cosa fanno? Brucano la foglia, passano sulla pagina superiore e si mettono a divorare. In breve della bella foglia non restano che le nervature.

Cre… cre… cre… cre… Come sono noiose queste raganelle! Non tacciono un minuto. Sono là sulle rive del fosso. Saltano dall’acqua all’erba della riva, e dall’erba ai cespugli… E tutto il giorno si sente la loro voce. Gri… gri… gri… gri… Appena l’aria si fa bruna, ecco il sottile canto dei grilli. Di giorno sono nascosti nei buchetti sotto terra; di sera, escono, stanno tra l’erba fresca, trillano. Cantano alle stelle, alla luna, alla notte serena e silenziosa. (E. Graziani Camillucci)

I raggi del sole non hanno la stessa efficacia secondo che ci giungono a piombo o in modo obliquo. Essi riscaldano fortemente le regioni che li ricevono a piombo, e poco quelle che li ricevono obliquamente. Per capirlo basta aver osservato che, per godere in pieno il calore di un focolare, bisogna collocarvisi in faccia e che, tenendosi in disparte, si riceve assai meno calore. Nel primo caso, il calore cade dritto su di noi e produce più effetto; nel secondo ci arriva di traverso e rimane indebolito. Così, posta innanzi al focolare del sole, la terra non riceve in tutta la sua superficie la stessa quantità di calore, perchè per certe regioni i raggi dell’astro arrivano a piombo, e per altre in modo più o meno obliquo. Inoltre, al guadagno in calore durante il giorno sotto l’irradiazione solare succede la dispersione della notte, il raffreddamento notturno. Più la giornata sarà lunga e corta la notte, più elevata sarà la temperatura, perchè il guadagno eccederà di molto la perdita. Per queste due cause riunite in una stessa epoca dell’anno la temperatura è lungi dall’essere la stessa dappertutto. Fa caldo in certi punti, più o meno verticalmente assolati con giorni lunghi e notti brevi; fa freddo in altri a insolazione obliqua, dalle giornate corte e notti lunghe. Qua è l’inverno, là è l’estate. (J. H. Fabre)

Tutto brilla nella natura all’istante del meriggio. L’agricoltore che prende cibo e riposo; i buoi sdraiati e coperti di insetti volanti, che, flagellandosi con le code per cacciarli, chinano di tratto in tratto il muso, sopra cui risplendono spesse stille di sudore, e abboccano negligentemente e con pausa il cibo sparso innanzi ad essi; il gregge assetato che col capo basso si affolla e si rannicchia sotto l’ombra; la lucertola che corre timida  a rimbucarsi, strisciando rapidamente e per intervalli lungo la siepe; la cicala che riempie l’aria di uno stridore continuo e monotono; la zanzara che passa ronzando vicino all’orecchio; l’ape che vola incerta, e si ferma su di un fiore, e parte, e torna al luogo donde è partita: tutto è bello, tutto è delicato e toccante. (G. Leopardi)

Era l’ora del caldo e del riposo. La terra si ampliava nella distesa del sole. Il cielo era chiuso e grave. Neanche una vela sul mare. Tacevano le vespe e i  bombi. Un frutto tonfava giù da un ramo. Era il grande silenzio infuocato, quando gli occhi dei colombi stanno chiusi sotto l’ala e il bue rumina accosciato corpulento sulla paglia fresca. (D. Slataper)

Passeggiammo per le vie desolate tagliando qua e là alla ricerca dell’avara ombra lungo i muri… Decidemmo di sederci a un caffè vicino a una fontana, lo scroscio dell’acqua violento e monotono. A un tavolo poco lontano ragazzi strepitavano a gran gesti in un’accanita discussione di calcio. Nomi di giocatori e insulti giostravano pesanti nel vuoto per liquefarsi in pausa di greve silenzio. Le forme delle motociclette appostate lungo il marciapiede scintillavano. Dagli ombrelloni cadevano magri cerchi d’ombra. Sentivo il piano del tavolo caldissimo sotto le dita. Intorno botteghe chiuse, targhe stinte sui muri. Qualcuno  spiava dalla fessura d’una persiana. (G. Arpino)

E’ l’ora in cui la luce si smorza, in cui mi rimane qualche minuto per andare un po’ in giardino. Si apre la porta, ed ecco la cavità del giardino, con l’ampio cielo al di sopra. Una sottile mezzaluna nel verde della distesa, pere che pendono, afferrando un raggio col ventre rotondo e riflettendolo come una lampada. I grappoli d’uva bianca si dorano sulla spalliera. Un uccello saltella ancora nel cespuglio di noccioli. Il mio giardino si addormenta su cuscini di fiori e di verdure; ecco le rudbekie gialle, gli astri color d’ametista, le dalie a rosoni di carta pieghettata, gli ultimi fagioli che intrecciano i loro pendagli, i porri dalle larghe chiome aperte come quelle dei palmizi, i cavoli azzurrastri e rotondi. Il mio giardino si addormenta coi piedi al fresco nel rivoletto di metallo bianco che brilla, allungandosi tra le sue rive e va, verso il gran fiume, laggiù… Ecco che a poco a poco tutto si immerge nell’ombra e tace. Non distinguo più il volto dei pomodori impolverati di solfato di rame, nè la sfinge alla ricerca di nettare sulle ultime bocche di leone, nè i pipistrelli che scrivono non so cosa nell’aria oscura. (M. Roland)

Fra i piccoli trifogli l’ape ebbra e rumorosa svolazza e raccoglie l’impercettibile nettare. Il merlo sommessamente modula una sua frase che sembra significare assentimento alla pace che qui regna uguale anche tra gli spini dalle punte violette dei cardi o per le caselle delle stipule percorse da piccolissime farfalle color lillà. La bianca cavolaia barcolla ebbra fra i cespugli delle felci. E quale immagine più cara di quella del fragile rosolaccio rosso scarlatto: come un tenero fuoco che ravviva le blandizie d’una breve radura? (L. Bartolini)

Cominciava il caldo, un duro caldo che pesava nell’aria e continuava a pesare imperturbato sino alla sino alla fine di settembre. Come i pesci di un’acqua, sotto il cui recipiente sia stato acceso il fuoco, e che mandi già le prime bollicine, gli uomini rallentavano ancor più la loro andatura, mentre sugli occhi portavano, come una palpebra sottile e perennemente abbassata, la stanchezza e il desiderio di non veder nulla. Altri, che passeggiavano verso le sei di pomeriggio, non richiamavano i pesci alla memoria, ma le beccacce, allorchè, morte, vanno penzolando dal pugno del cacciatore. (V. Brancati)

L’estate è la stagione più calda dell’anno. Comincia il 21 giugno e termina il 23 settembre. Il sole spunta molto presto (prima delle cinque) e tramonta molto tardi (verso le venti). Le giornate sono lunghissime e il caldo diventa insopportabile ogni giorno di più. Di tanto in tanto improvvisi temporali rinfrescano l’atmosfera. Non è raro il caso che campi e frutteti vengano devastati dalla grandine, molto temuta dai contadini. Per fuggire il caldo soffocante, la gente va al mare o in montagna. Ma non tutti si possono concedere un meritato riposo in vacanza. Per gli agricoltori, l’estate è una stagione di intensa attività. Infatti ci sono molti lavori da compiere e non bisogna perdere tempo. Il grano deve essere mietuto.

Un tempo si mieteva a mano, oggi invece ci sono macchine meravigliose che avanzano nei campi di grano, lasciando dietro di sè i sacchi pieni di chicchi puliti, la pula e le balle di paglia. Poi c’è il granoturco da sarchiare; l’erba da falciare; le viti e gli alberi da frutta da irrorare con le sostanze antiparassitarie che disinfestano cioè liberano le piante dai parassiti.

D’estate i giardini sono un incanto. Fioriscono i gerani, i gigli, le rose variopinte, i garofani, le dalie. Maturano i cocomeri, i meloni, le albicocche, le prugne, le ciliegie e le pesche. Un’infinità di insetti e di animaletti vari animano come in primavera i prati, i giardini e i boschi: api, farfalle, formiche, grilli, cicale, zanzare, libellule, calabroni… Però i loro canti, i loro voli,  i loro bisbigli e ronzii sono diventati più intensi, chiassosi: sembra che vogliano rendere omaggio alla più bella stagione dell’anno.

Sul calar della sera compaiono i pipistrelli, che svolazzano qua e là a caccia di insetti. Questi animaletti non sono uccelli, ma mammiferi: gli unici che sanno volare. Nel cuore della notte si odono i gorgheggi dell’usignolo, il verso del gufo e il grido della civetta.

Arriva l’estate. E’ incoronata di spighe mature e tutta vestita d’oro; i suoi grandi occhi color del fiordaliso sfavillano. Diffonde intorno a sè lo splendore e l’allegria del sole. Davanti a lei tutti si presentano con fiducia, e i poveri specialmente la tengono per loro grande amica: il buon caldo allora non costa nulla! Quando arriva nell’aia, l’estate si siede su un mucchio di grano falciato e canta. Gli uomini la guardano e le dicono: “Benedetta, tu ci porti il pane!” (G. Fanciulli)

In questi giorni il sole la fa da padrone. E le notti sono calde. Alla mutevolezza della stagione sopravviene l’estate vampante. Anche l’usignolo, che ha i piccoli, ha smesso di verseggiare alle stelle. Rimane vicino al nido, svolazzando nei boschetti. Sotto la mia finestra c’è un ranocchione vecchio. Il suo gracidare sembra un ammonimento. Vive presso una pozza d’acqua che una polla mantiene viva tutta l’estate, nascosto tra un ciuffo di selci. Sta di casa sotto un embrice che le donne hanno appoggiato alla sponda per lavare i panni. Se si muove l’embrice, poi riaffiorano i suoi occhioni, come bolle nel mezzo della pozza, e spariscono di nuovo risucchiati. (B. Samminiatelli)

E’ l’estate. Il sole arroventa l’aria , ci fa sudare e ci abbrunisce la pelle. E’ in questa stagione che si falcia il fieno, si miete il grano e matura la frutta. In questi giorni, il mietitore, curvo sul mareggiare d’oro delle spighe, lavora e suda; è felice perchè raccoglie il frumento, che è il frutto del suo lavoro. Anche tu, ragazzo, se hai studiato con amore, riceverai il premio delle tue fatiche, sarai promosso e potrai godere le vacanze. (G. Fanelli)

Il campo ondeggia come un mare, il grano verde si fa biondo. Sulla proda sono cresciuti alcuni steli di grano meno alti di quelli del campo. In mezzo ad essi un papavero spiega la sua larga corolla che pare di seta rossa; due fiordalisi, accanto ad esso, sono come due occhi azzurri che lo guardano stupiti. Una farfalla, con le ali color arancione, vola dallo stelo di grano al papavero e da questo ai fiordalisi e sembra un bellissimo fiore vivo.

Nei campi fino a qualche mese fa era quasi impossibile distinguere un prato da un campo di grano. Ora quelle piante sono cresciute ed hanno generato una spiga che il sole ha indorato. L’erba è diventata molto alta, in alcuni punti è stata già falciata e si essicca al sole. E’ proprio tra l’erba alta che si aggira una moltitudine di insetti e di piccoli animali tutti intenti nel loro lavoro. Alcuni, come le api e i calabroni, si inebriano di nettare, altri tagliano e incidono ogni filo d’erba come le cavallette. (G. Piovene)

Il grano è maturo. Le bionde distese di pianticelle ondeggiano ancora per pochi giorni. Già si sente nei campi lo scoppiettio sonoro delle mietitrebbie, le moderne macchine capaci di tagliare il frumento e di liberarlo contemporaneamente dalla paglia e dalla pula. Sui campi d’oro e sulle verdi distese coltivate si leva intanto il monotono frinire delle cicale. E’ il canto dell’estate, un inno al sole intenso di questi giorni, che dà luce, vita, gioia. Ridono, rosse e fresche nel banco del fruttivendolo, le prime fette di popone. Le fontane invitano a dissetarsi. I giardini sono tutti una festa di fiori e di colori.

Le giornate sono lunghe e i bambini possono stare tante ore a giocare nel cortile e nei prati. Il caldo piace, e con i vestiti leggeri si muovono meglio. Ma non devono andare scalzi. Per terra ci possono essere vetri, cocci, spini, chiodi. Se entrano nel piede fanno tanto male. (P. Boranga)

Alcuni pipistrelli svolazzano attorno alla casa con un piccolo grido lieve. Dal seno delle erbe in fiore si alza il monotono concerto dei grilli; un rospo solitario, collocato al fresco sotto una pietre, emette di tanto in tanto la sua nota flautata, mentre le rane riempiono i fossati delle praterie vicine dei loro rauchi gracidamenti. Le civette alternano le loro dolci voci di richiamo; la capinera, infine, dà l’addio della sera alla chioccia, già sonnecchiante sulle sue uova.  (E. Fabre)

M’ero fermato su un ponticello in pineta a guardare la fretta dei contadini che raccoglievano il fieno falciato e seccato. Nel pomeriggio sciroccale l’afoso vento nero adunava nuvole di pioggia, e le rondini volavano basse. Tre erano armati di forcone: uno, uomo; l’altro, ragazzotto; il terzo, poco più che bambino. Levavano i fastelli di legno sulle lucide e temibili branche, e facevano il cumulo. Finchè restava basso ed informe, concorrevano promiscui al mucchio, ma quando saliva a spalla d’uomo ed era quindi al punto di ricevere sesto e misura e garbo a spiovente di cupola appuntita, allora il minore dei tre si faceva da parte a cominciarne un altro. Il maggiore sul suo forcone non si trovava mai nè più nè meno di quel che gli occorresse a riempire un vuoto, a rincalzare uno sdrucio nella compagine, a rialzare una curva. Pettinava, toglieva, rimetteva e aggiungeva: in poco d’ora il cumulo era fatto e assettato. R. Bacchelli

Partite, ragazzi, senza libri, e portate con voi solo reticelle per farfalle, palle di gomma, bambole, secchielli, palette per scavare la sabbia e innalzare castelli sulla riva del mare. E per un  mese almeno non pensate ad altro che a giocare, e la sera, poichè le sere del mese di giugno sono piene di lucciole, raccoglietene molte in scatoline trasparenti, e andate con esse in giro per i prati come portaste una lampada, la lampada più bella che si possa immaginare, una lampada viva. Finiti i vostri giochi, prima di andare a letto, aprite la scatolina e liberate le piccole stelle che vi sono dentro. La sera dopo, ritorneranno spontaneamente nella scatola e torneranno a formare la lampada che illumina i vostri giochi. Dopo un mese di vita senza pensieri, fatta di castelli di sabbia, di aquiloni e di lampade vive, pregate il vostro papà di regalarvi qualche libro. Ma non libri di scuola. Libri di racconti e di favole. E ogni tanto leggetene qualche pagina. Ma, sempre, il maggior tempo passatelo a giocare. E, di tanto in tanto, sapete, per non perder l’esercizio dello scrivere, che cosa dovete fare? Mettete sulla carta il racconto di una bella giornata trascorsa, d’una gita, di un gioco, di un’avventura. G. Mosca

Dopo un intero anno di lavoro la scuola si chiude. I nostri cuori già pregustano i lieti ozi delle giornate estive, in cui sola cura sarà il trovare nuovi giochi e nuovi svaghi. Pure qualche volta il nostro pensiero tornerà alla scuola: rivedremo il nostro maestro alla cattedra, i compagni nei banchi, le pareti ornate dei nostri disegni. Forse sentiremo un po’ di nostalgia e vedremo con gioia avvicinarsi il giorno in cui torneremo tutti insieme qui.

In una settimana il fieno fu tutto falciato; e allora con le forche andavano a rivoltarlo, prima di fare i mucchi, perchè si seccasse bene di sotto e il sole entrasse anche dentro. La caldura aveva bruciato ogni cosa, e anche il grano  pigliava un colore bianco che diventava più giallo o anche di notte si vedeva bene. Il terreno era così arroventato che senza gli zoccoli bruciava i piedi, e le passere che varcavano le vallate da poggio a poggio, pareva che cadessero giù a strapiombo. F. Tozzi

L’abbeveratoio era in fondo al gran prato. La fila delle bestie sciolte si avviava lentamente,a testa bassa; e il sole sfiorava con un raggio tenero le schiene, bianche, per la più parte. Immergevano nell’acqua il muso fino alle froge e si riavviavano alla stalla, sempre da sole, pacifiche e senza ruzzare, mansuete e sazie. Il cane di casa, abbaiando, fingeva per gioco di assalire questa o quella. Rientrarono ad una ad una nella stalla le bestie. Era il tramonto del sole. R. Bacchelli

Era mezzogiorno e splendeva un sole ardentissimo. Non stridore di cicala, non canto d’uccello, non volo di farfalle, non voce, non moto nè vicino nè lontano; ogni cosa quieta, pareva che la natura dormisse. Allora la campagna s’anima di una vita fantastica, come di notte. Si sentono suoni indefiniti, come di lunghe grida lontane.; soffi, fruscii, ora a molta distanza, ora all’orecchio, qui, là, non si sa dove, da ogni parte; pare che nell’aria ci sia qualcuno o qualcosa che fluttua e che si agita; s’avvicina, si scosta, ritorna, ci rasenta, s’allontana; si direbbe ch e vi sono degli esseri invisibili che stanno macchinando qualcosa.  A un tratto si sente un acuto ronzio di insetto; passa e silenzio. S’ha una scossa, ci si volta: è caduta una foglia. Sbuca una lucertola, si ferma, par che stia a sentire, e, come impaurita da quel silenzio, via. La campagna ha qualcosa di solenne e di triste come un mare solitario; la testa si abbassa come per forza e l’occhio socchiuso vaga per le valli oscure e per i cupi recessi che la fantasia languida finge tra i fili d’erba e i granelli della terra. E. De Amicis

Tutte le opere contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.

Dettati ortografici: temporali estivi e grandine

Dettati ortografici sul tema temporali estivi e grandine e l’arcobaleno.

Il lampo che illumina il cielo finisce in uno schianto sul tronco di un cipresso, e fortissimo rintrona. La grandine precipita fitta: sui tetti e sulle piazze danzano granelli e perle gelate. E il vento volteggia e rigira nell’aria bruna e fosca le povere foglie strappate dai rami. Quando la bufera si quieta le anatre corrono sull’aia e guazzano nelle pozze d’acqua, ove si mescolano granelli pallidi e foglie tritate. La pace ritorna: gli usci e le finestre si schiudono e la lucertolina si stende sulla pietra a prendere il sole che, rosso di vergogna, volge al tramonto. (A. Paluschi)

Nell’aria pende la tempesta; osservate il paesaggio vegetale in quei momenti di calma minacciosa che ne precedono lo scoppio. Dalle zolle erbose su per i cespugli degli alberi, in largo giro, sta come se fosse scolpito: ciascuna forma vegetale nell’imminenza della lotta, si fa quasi pensosa restando protesa verso la luce residua. Il vento irrompe: le erbe hanno un largo brivido, gli steli si piegano in moto ondoso, i cespugli si convellono, le foglie tremano, svolazzano, frullano sui piccioli tesi, volgendosi di tratto in tratto in un unico verso che ci dà l’immagine della superficie vibrante dell’acqua al colpo del maestrale; i rami bassi degli alberi si piegano verso terra, i sovrapposti sussultano, ed il fusto solenne oscilla. Il vento ha una pausa: dalle erbe ai culmi, ai fusti è una pronta riconquista degli atteggiamenti di quiete… Se sopraggiunge un imperversare di pioggia, l’urto delle gocce crea per ciascuna apparenza vegetale nuovi rapidi moti di difesa. Al cessare della tempesta si scoprono qua e là, per terra, sparse foglie strappate dal vento, battute dalla pioggia e qualche divelto fusticino di pianta erbacea; ma il paesaggio vegetale appare ricomposto nelle sue linee e con una rinnovata, gemmante veste di bellezza. (A. Anile)

Subito dopo la grandine biancheggiò saltellante per terra, risuonando come sassi sulle tegole, tambureggiando le foglie, formando strati sull’erba, sul cortile. Tutti gli alberi, le viti,  le piante dell’orto, le acacie della strada si tenevano fermi, spauriti, oppressi dalla martellante caduta. I contadini guardavano e non fiatavano, gli occhi dilatati, inebetiti, stringendosi le braccia con le mani, guardavano e sembrava non volessero credere. Le viti si scarnivano di foglie sotto i loro occhi, lo strato bianco cresceva; passò una decina di minuti e poi la pioggia prese a mischiarsi alla grandine e questa a scemare. Più tardi, quando fu possibile uscire a camminare verso i campi, subito si intese un odore di foglie cadute come per un prematuro autunno. (G. Comisso)

Le nuvole grige e nere si urtano, si pigiano spinte del vento, nascondono il sole, oscurano il cielo. Ci son ancora, qua e là, lembi d’azzurro, ma vanno facendosi sempre più piccoli, sempre più radi. Ecco un lampo: guizza, abbaglia, sembra incendi il cielo. Poi scoppia il tuono. Un tonfo forte, un brontolio lungo. I passeri si rifugiano sotto i tegoli, le rondini volano basse, senza stridi. Cadono le prime gocce d’acqua, si fanno fitte, sembrano grossi aghi lucenti. Poi la pioggia scroscia impetuosa.

Poco dopo mezzogiorno il sole cominciò ad essere meno limpido. Non c’erano nuvole ancora; ma proprio nel mezzo del cielo, il turchino cominciò a diventare sempre più smorto; fin che all’improvviso vi nacque una nuvola grigia che si faceva sempre più scura. Poi altre nuvole, dello stesso colore e più bianche, si accostarono, insieme. Quando tutte furono chiuse l’una con l’altra, un lampo abbagliò gli occhi e fece luccicare le ruote del carro, gli aratri e tutti gli strumenti di ferro sull’aia. Allora i tuoni cominciarono, come se avessero dovuto schiantare anche le case, e le prime gocciole, quasi bollenti, si sentirono picchiettare sulle tegole e sui mattoni. Dopo un poco l’acqua venne giù sempre più grossa, e il temporale durò quasi tre ore. (F. Tozzi)

Dopo il temporale il sole era tornato, e i pioppi parevano più verdi: avevano sentito quella rinfrescata e ne godevano. Lungo qualche filare erano nati i girasoli, grandi e gialli, che tentennavano  un poco quando passava il vento. Tra i grani, dove era più umido, erano nati il ciano coi fiori azzurri; le campanelle bianche, venate di rosso chiaro, che s’attorcigliavano fin sulle spighe, e la borrana con le stelline celesti. I ragni avevano teso tanti fili, che quando brillavano parevano un’altra messe. (F. Tozzi)

Dopo la grandinata, quando fu possibile riuscire a camminare verso i campi, subito si intese un odor di foglie cadute come per un prematuro autunno. I contadini prima ancora di vedere realmente i danni causati ripetevano sommessi: “Siamo rovinati”. E veramente la campagna aveva un aspetto lugubre: il verde prima traboccante non esisteva più. Il granoturco abbattuto, stracciato nelle sue larghe foglie, i campi di foraggio calpestati, come da una torma di cavalli, le pesche rosee mordicchiate, l’uva scoppiata nei suoi grani, e foglie e piante, per terra, mischiate al fango. (G. Comisso)

Venne un temporale che flagellò la campagna e rose le strade, per fortuna senza grandine. Lo passammo in casa, da una finestra all’altra, fra donne e bambine che correvano e gemevano sotto i lampi. Il crepitio dei sarmenti nel camino  sbatteva in cucina una luce rossastra, che dava riflessi fantastici ai festoni di carta colorata, sulla batteria di rame, alle stampe della Madonna, e al ramulivo appeso al muro. Tremavano i vetri. Qualcuno, di sopra, urlava di fermare le finestre… Venne un momento di strana solitudine, quasi di pace e di silenzio, nel diluvio. Mi fermai sotto la scala dove dal lucernario accecato volavano gocciole e odor d’acqua. Si sentiva la massa dell’acqua, quasi solida, cadere e muggire… Finì com’era cominciato, d’un tratto. Quando uscimmo sul terrazzo, dappertutto in paese si sentiva vociare, il cemento seminato di foglie aveva già chiazze d’asciutto. Tirava un vento di vallata, schiumoso, e le nuvole galoppavano… M’investì un sentore folle di fradicio, di frasche, di fiori schiacciati, un odore acre, quasi salso, di fulmine e di radici. (C. Pavese)

A nord i cavalloni del cielo, avanzando a ondate, già chiudevano la valle. Quando qualche raro soffio giungeva, le bocche aperte a respirarlo bevevano dell’aria calda e soffocante che faceva desiderare l’acquazzone vicino. Sulle fronde immote gli uccelli tacevano, ed un volo di colombi che passò in alto e si disperse nel grigio diffuso, sembrava aprirsi a fatica la via con i colpi rari dell’ale nell’aria densa. Poi, sotto il nembo nero e compatto, altre nubi leggere corsero, spinte da un vento che non toccava terra. Adesso tutta la valle era chiusa in alto dalla nuvolaglia come da un gigantesco coperchio, e un breve chiarore, che brillava oltre la montagna, si spense sotto l’incalzante minaccia. (A. Bonsanti)

Il tempo accennava a rimettersi. In alto, un vento fortissimo assaliva le nubi, le divideva, apriva vasti spiragli attraverso i quali si vedeva un cielo incredibilmente tranquillo. Il sole inondava i poggi e le colline su cui apparivano come di notte sotto i raggi di un riflettore ville e case di contadini. Le finestre luccicavano come specchi. Soltanto lungo il fiume, la bruma pareva stagnare fra gli alti pioppi; ma finalmente anche questa zona di campagna fu illuminata. S’era aperta definitivamente la matassa delle nebbie: apparì un ponte che luccicava d’umidità; anche gli steli delle erbe e la terra, dov’era ferma l’acqua delle piogge recenti, rilucevano. (A. Benedetti)

Il temporale rovesciava ancora brevi scariche di acqua ma fulmini e tuoni andavano allontanandosi. Dalla finestra dell’albergo vidi un guardamacchine attraversare di corsa, curvo nella sua improvvisata mantella di cellophane. S’acquattò in un portone di dove già apparivano gambe e scarpe di gente assiepata al riparo. Ogni tanto un volto di ragazza si sporgeva a spiare, a ridere. I muri gialli mostravano larghe chiazze di pioggia; il selciato e un’asimmetrica fila di tetti erano percorsi da brividi di serpentino argento, gore vive di viola. Un ombrellone colorato dondolò lentamente su una terrazza, un’ultima ventata lo capovolse. (G. Arpino)

All’improvviso il cielo diventò scuro, si levò un vento fortissimo, lampeggiò, tuonò, poi cominciarono a cadere grossi goccioloni. La terra secca, bruciata dal sole, bevve a larghi sorsi l’acqua ristoratrice. Caddero alcuni chicchi di grandine. Con colpi secchi batterono sui tetti e sui davanzali delle finestre, ma non fecero danni.
L’aria divenne fredda. Piovve a lungo, prima a dirotto, poi piano piano. I lampi e i brontolii del tuono si fecero radi radi.
La pioggia cessò. Le nubi scomparvero.
Il cielo tornò sereno e splendette l’arcobaleno. (Scotti – Davanzo)

Il temporale

Guizzi di lampi serpentini serpeggiano nell’oceano oscuro delle nuvole, come saette di fuoco. Gocciole rade e grosse di pioggia cadono col rumore delle pietre sulla terra assetata, che la beve avidamente. E poi le gocciole si addensano in pioggia rumorosa, che martella foglie, pietre e animali e case.
Fuggono le rondini turbinando per l’aria; geme il vento per le case e per gli alberi; le strade diventano fiumi di fango, le piazze laghi di fango, e poi fango e fiumi scompaiono bevuti dalla terra e dalle cloache e la faccia del pianeta si lava in un lavacro universale.
Lampi e tuoni  si vanno allontanando, come se l’esercito vittorioso inseguisse il nemico in fuga, e anche le nubi corrono, corrono verso regioni ignote, aprendo qua e là oasi di azzurro. (P. Mantegazza)

Temporale

A ogni attimo un lampo violetto o verdastro palpita; è seguito immediatamente da un tuono formidabile che fa rintonare i vetri della mia finestra. L’acqua cade rabbiosamente, fa le funi; il vento la spinge di traverso e i suoi fili sono come frecce di vetro. Gli alberi si divincolano sotto il turbine; le frasche paiono povere bestie legate a catena o mezzo sepolte nella terra e che si sforzino di liberarsi e fuggire. La pioggia intanto le percuote, le lava e ne fa lustrare le foglie. L’orizzonte dei campi si perde in una nebbia folta, cieca. (A. Soffici)

Si avvicina il temporale

La nebbia s’era a poco a poco addensata e accavallata in nuvoloni che, rabbuiandosi sempre più, davano l’idea di un annottar tempestoso; se non che, verso il mezzo di quel cielo cupo e abbassato, traspariva, come da un fitto velo, la sfera del sole, pallida, che spargeva intorno a sè un barlume fioco  e sfumato, e pioveva un colore smorto e pesante. (A. Manzoni)

Il temporale
Il cielo p diventato nero nero. E’ tutto carico di nuvole. Il vento soffia impetuoso e porta innanzi polvere e foglie secche. Poi un lampo passa tra le nuvole e il tuono brontola in lontananza. Ecco, cadono le prime gocce di pioggia: sono grosse e pesanti. Le gocce si fanno sempre più fitte; piove a scroscio. (G. Fanciulli)

L’acquazzone
Da oriente vennero galoppando grandi nuvole bianche che poi si fecero bigie e pesanti. L’azzurro sparì, ingoiato da quella nuvolaglia spessa. Scoccò un lampo abbagliante, seguito, da lontano, da un tuono profondo. Qualche goccia cominciò a cadere, rada.
Poi, la pioggia si infittì, precipitò, scrosciò violenta. Le strade subito ruscellarono, le foglie degli alberi stormirono sotto la sferza, la terra giacque ristorata sotto l’acqua dirotta. (F. Herczeg)

Tempesta nel bosco
Tutta la notte il vento soffiò. Andava e veniva. Era una ninna nanna. Si udiva lo sgocciolio dei rami. Poi, di lontano, attraverso gli alberi, giungeva la nuova raffica e sembra di vedere gli animali della foresta anch’essi in attesa e in ascolto nelle loro tane. Quando la raffica si abbatteva vicino, si udivano i grossi tronchi curvarsi come canne e i rami stroncarsi, con un colpo secco come una fucilata. Il vento passava sulle cime degli alberi, sui rami, poi scendeva fino a terra, frusciando tra le foglie. (Richter)

L’arcobaleno
Il cielo si schiariva. Sull’ampio scenario turchino come un mare sconvolto, si illuminava un arcobaleno vivissimo, iridescente, che ne accendeva subito un altro di fuori, più grande, ma incompleto. Dall’altra parte il sole riappariva tra gli strappi delle nuvole e tagliava nettamente in due l’orizzonte, dividendo luce e ombra, come per un invisibile immenso diaframma. (J. S. Meyer)

L’arcobaleno

Talvolta, dopo un violento temporale, il sole fa capolino tra le nuvole che si allontanano mentre la pioggia continua ancora a cadere, e allora, dalla parte del cielo opposta al sole, si ammira uno degli spettacoli più belli della natura: l’arcobaleno. E’ come se un grande arco fosse stato dipinto attraverso il cielo coi più vivi e luminosi colori della tavolozza di un pittore. C’è il rosso, l’arancione, il giallo, il verde, il celeste, l’indaco e il violetto, tutti armoniosamente fusi. (J. S. Meyer)

La grandine
Il caldo era soffocante, ma il cielo era tutto azzurro. Solo una nuvola nera era ferma all’orizzonte. In breve, la nuvola divenne un nuvolone e non fu più ferma all’orizzonte, ma coprì tutto il cielo. Gli uccellini tacquero, tutto sembrò immobile e silenzioso sotto la minaccia di quella nuvola. Ad un tratto, un tuono rimbombò cupo; nel cielo si susseguirono i lampi, fitti ed abbaglianti. Ad un tuono più forte sembrò quasi che il cielo si aprisse. Venne giù prima un acquazzone dirotto, e poi la grandine. Una grandine fitta, scrosciante, martellante, che batteva forte sui tegoli, sulla strada; bianca, gelida, rovinosa.

Tutte le opere contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.

Dettati ortografici IL GRANO

Dettati ortografici IL GRANO, di autori vari, per bambini della scuola primaria. Difficoltà ortografiche miste.

Il campo, di lontano, appare come una distesa di pallido verde. Ci avviciniamo, raggiungiamo la proda; vi crescono ciuffi di erbe nuove, che si fanno strada fra i fuscelli secchi, rimasti per tutto l’inverno sul terreno. Il campo è vasto: in righe dritte, ben allineati, si levano gli steli, di un color verde ancora un po’ tenero, ma già vigorosi. Si direbbero, ora, steli d’erba senza nome, ma noi sappiamo quanto invece siano preziosi. Non si calpesti nemmeno uno di quegli steli. Essi cresceranno, metteranno spighe; al sole di giugno offriranno la messe del bel frumento dorato. E, più tardi, diventeranno pane, saranno il dono quotidiano che pare benedizione alle mense frugali.

Un mattino di primavera, un germoglio verde mise la testina fuori della terra umida. Il sole splendeva così caldo che la terra fumava.  E su in alto nell’azzurro cielo, un immenso stuolo di allodole cantava. Il chicco di grano si guardò intorno inebriato. Era proprio tornato in vita, rivedeva il sole e sentiva cantare le allodole. Ricominciava a vivere. E non era solo, perchè intorno a lui, nel campo, vedeva altri verdi germogli, un esercito intero, e in esse riconobbe i suoi fratelli. Allora la giovane pianticella si sentì invasa dalla gioia di esistere e le parve di dovere, in atto di pura riconoscenza, alzarsi fino al cielo e accarezzarlo con le sue foglie. (G. Joergensen)

Il grano è alto. La spiga è fatta e ondeggia al vento con le sue lunghe ariste e i chicchi bene allineati. Fra poco sarà pesante, piegherà il capo, diverrà tutta bionda e turgida. Allora la falce verrà a mieterla per il pane di domani. (B. Ardesi)

Un’estate senza le spighe che dondolano sotto la spinta del vento, non è un’estate. Proprio così: la messe bionda è il simbolo di questa stagione dalle lunghe giornate dilatate dal sole abbagliante. Otto mesi fa, i solchi erano aperti a ricevere il seme, oggi gli uomini si recano a raccogliere i frutti della terra generosa. (N. Nason)

Guarda com’è bella! Il sole l’ha dorata. I suoi chicchi sono disposti con ordine e ciascuno è coperto di leggere squame. Tutti hanno un ago sottile. Si chiama arista ed è il pugnale che li difende dagli uccelli troppo golosi. I suoi chicchi sono numerosi e vengono tutti da quell’unico che fu seminato nell’autunno. Ricordi? (D. Scotti)

La giovane sposa, col cesto sul capo, si affretta a portare la cena ai lavoratori. Stende la tovaglia sopra la terra; leva dal cesto il grande piatto della lattuga con le cipolle fresche; e intorno dispone le forcine, e i grossi pani e i fiaschi del vino acidetto. Riposano gli uomini, riposa la terra. (A. Panzini)

Ritto in mezzo al campo, stava lo spaventapasseri. Portava un cappello vecchio, una camicia, che un tempo doveva essere stata bianca, un paio di calzoni rattoppati e un fazzoletto rosso intorno al collo. Era solo lo spaventapasseri. (G. Ajmone)

Il campo di grano ondeggia al passare del vento; sembra un mare d’oro. Il contadino guarda le messi e sorride. Ancora pochi giorni, e raccoglierà il frutto delle sue fatiche. Ancora pochi giorni, ed anch’io spero di ricevere il compenso del mio lavoro: la promozione e la felicità delle vacanze. (M. Frati)

Sembra che le cicale nascoste fra gli alberi invochino il sole, perchè non le bruci vive. Non si muove una foglia; in lontananza le case della campagna tremolano nella gran luce. In quest’ora nessuno si azzarda a lasciare il fresco rifugio delle stanze. Soltanto un carro, laggiù, rotola all’ombra dei pioppi, lungo il canale. Il rumore delle ruote riempie tutta la campagna insieme con il frinire pazzo delle cicale ed al cinguettio continuo dei passeri. Poi, una mattina all’alba, sono cominciati i lavori della trebbiatura: sull’aia il gran polverone glorioso nel quale si muovono le figure brune dei contadini. Il canto delle cicale, sui pioppi del torrente, è soverchiato dall’iroso frastuono della trebbiatrice. Attorno al motore caldissimo, puzzolente d’olio e di nafta, si aggira il meccanico, asciugandosi ogni tanto i rivoli di sudore che gli scendono per la nuca e sul viso. Il sole si arrampica su per l’arco del cielo e l’afa comincia  a gravare sui campi. Verso mezzogiorno i contadini si rifugeranno all’ombra del portico, per ristorarsi un poco. (A. Lugli)

Il frumento, questa pianta benedetta che di dà il pane, porta la sua pesante spiga in cima a un fusto abbastanza lungo per allontanare i chicchi dalla polvere del terreno, abbastanza sottile per crescere in ciuffi folti senza dar noia ai vicini, abbastanza robusto per sostenere il peso dei semi, abbastanza elastico per piegarsi al vento senza rompersi. Questo insieme di qualità preziose è dato dalla forma speciale della paglia. Invece di farsi un fusto pieno, il frumento se lo fa vuoto. (E. Fabre)

il grano, con un impeto di forza, si affretta a compiere il ciclo della sua breve vita, finchè nei giorni di giugno le spighe si piegheranno. La rondine pare ripetere col suo grido stridente all’uomo: “Lavora, lavora il tuo grano, rincalza il crespo, strappa le erbacce”. La lucciola risplende di prima sera, volando silenziosa per tutta la distesa del grano; e la cicala, poi, canta nei grandi pomeriggi estivi sopra le spighe fiorenti. La rondine, la lucciola, la cicala accompagnano la vita del grano. E così tre fiori fanno al granaio ghirlanda: il giglio dei campi, i fiordalisi e i papaveri di fiamma. (A. Panzini)

Guardate la spiga di grano: ha in capo una corona di cento punte. E’ davvero la regina dei campi. Tutte le altre biade, tutti gli altri frutti sono meno belli di lei. E’ la piuma d’oro della terra. Essa è la prediletta del contadino che le presta le sue fatiche più dure. Ara con il pesante aratro per fare al seme un letto soffice e profondo, per difenderlo dal gelo. L’aiuta a crescere rompendo con la zappa la crosta della terra, che l’inverno ha indurito. Le dà il nutrimento di concime, perchè venga su robusta. E quando è fatta adulta, trema per lei se vede passare nel cielo una nuvola nera. Matura e dorata, egli va a raccoglierla e per tagliarla l’abbraccia e si china un poco come per dirle: “Perdonami se ti faccio male. Lo sai che ti voglio bene”. (R. Pezzani)

I papaveri hanno invaso il campo di grano. Sono un esercito. I soldatini indossano la camicia rossa e non fanno male a nessuno: la loro spada è una spiga. Il vento li agita: i soldatini sembrano correre nel campo conquistato. Quando poi il vento tace, ogni papavero si attarda al margine del solco col fiordaliso, suo compaesano, che indossa la tuta azzurra dell’operaio. (N. Salvaneschi)

Mi ricordo di aver passeggiato, quando è vicino il raccolto, per le campagne piene di frumento già maturo e bronzino. Sentivo nell’aria un odore di pane fresco e il contadino mi diceva, con l’aria di chi possiede un gran segreto, che anche per quell’anno non si sarebbe morti di fame. Infatti bastava guardar giù per vedere un mare di spighe, fra le quali frusciava l’alito caldo del mezzogiorno, piegarsi, incresparsi, prendere a vicenda il colore dell’oro, dell’argento e mandare scintillamenti, come vi fossero in mezzo delle lucciole. Fra gambo e gambo, cresce il papavero scarlatto, e sugli orli, la viola azzurra e la margherita; ronzano i mosconi, si alzano dalla strada nuvoli di polvere e schiamazzano centomila cicale o più, al chiasso che fanno. (E. De Marchi)

Si avvicinano i giorni della mietitura: essi hanno una solennità di attesa. Per le campagne non si parla d’altro. Un gran rito si compie. Fluttuano ancora per i campi le spighe con lieve fruscio di seta e un balenare di verde. Il granello, levato del suo involucro e spremuto tra le dita, è ancora un umore bianco. (A. Panzini)

Dice il proverbio: “Giugno, la falce in pugno”. Per fare cosa? Per mietere il grano, che ormai è maturo. Quanta fatica è costato! Il contadino ha arato il campo, lo ha seminato, concimato, ripulito dalle erbacce. Ma ora è ripagato con tanto oro. Il grano maturo sembra proprio oro. E’ più prezioso dell’oro. L’oro non si mangia, ma col grano si fa il pane, che è il nutrimento di tutti. (P. Bargellini)

Di fronte a me la collina tocca la curva linea del cielo, le piccole basse nubi, l’ampio glorioso sereno. Tre falciatori la vanno a gran forza tosando. Calzonacci di fustagno, andanti. Fusciacca, rossa come il sangue, intorno alla vita. Camicia aperta sul collo e sul petto, gonfia d’aria tremante. Maniche rimboccate su, oltre il gomito. Braccia come stanghe di vecchio rame. Come le larghe mani abbrancano la lunghissima falce! Come l’avventano, ampia, impetuosa, balenante nell’erba, con una mano afferra la lama luccicante, con l’altra attentamente e fortemente, or dall’alto, or dal basso, l’affila. (G. Zoppi)

Rocco mieteva, mieteva. Passava la falce al piede del grano alto, con una frequenza uguale di colpi come se la stanchezza non gli vincesse il braccio mai. La terra ardeva sotto; le messi mandavano vampate soffocanti. Ed egli mieteva, con gli occhi abbarbagliati dal lampeggiare continuo della falce, con le mani che gli pareva volessero scoppiare. Non finiva mai quel campo: le spighe ricrescevano appena tagliate. Gli altri mietitori, qua e là si trascinavano innanzi taciturni, senza un canto, senza una parola. (G. D’Annunzio)

La raccolta del grano era nel suo massimo ardore. Il campo sconfinato d’un giallo luccicante era limitato, solo da una parte, dall’alta, azzurreggiante foresta. Tutto il campo era coperto di covoni e di gente. Nell’alto, folto grano si vedeva qua e là, sul campo mietuto, la schiena curva di una mietitrice, lo sbatter delle spighe, quando essa le prendeva tra le dita; una donna all’ombra e i covoni dispersi qua e là per la seminagione. Dall’altra parte contadini ritti sui carri affastellavano i covoni e sollevavano polvere sul campo arso, rovente. (L. Tolstoj)

Il grano è una distesa d’oro fra strada e argine. Appena si muove, a quel venticello che porta l’alba, la peluria delle ariste trema e fa un suono leggero. A mezzogiorno, invece, pare che dica al contadino: “taglia, taglia”. E il contadino, sentendo questa voce, se, come accade, s’è posato all’ombra di un ulivo, col cappello sulla faccia, dopo sette ore di fatica, riapre gli occhi, gli par passato chissà quanto tempo e ripiglia la falce. (G. T. Rosa)

Il macchinista ha fatto ben presto ad avviare il motore, la cinghia è stata subito innestata, sotto alla trebbiatrice che già palpitava han disteso un ruvido panno a raccogliere quel poco che la macchina avrebbe lasciato perdere dagli ingranaggi; e l’uomo è subito montato su. Il contadino porgeva un covone dopo l’altro, accanto alla tramoggia; con un falcetto un altro tagliava un legaccio, e il primo infilava il covone per il capo, nella bocca della tramoggia… Solo il macchinista se ne stava imperioso, una gamba appoggiata al suo sussultante motore. (G. Titta Rosa)

L’estate è la stagione dei raccolti. Sotto il sole d’oro tutto diventa d’oro. Il grano biondeggia nei campi. L’erba falciata forma cumuli profumati. SI raccolgono i frutti dell’anno. Perciò  tutti sono contenti. Anche i bambini mietono dopo la loro fatica. Ognuno può dire: “Ho arato lungo le pagine dei quaderni. Anch’io ho seminato fra le righe.” Ed ecco che su quei solchi sono sbocciati e maturati buoni frutti. (P. Bargellini)

I seminati erano già alti, pallidi di un sentore di grano e illuminati sfarzosamente da papaveri d’ogni grandezza, il cui calice traboccava luce rossa nell’aria, tra le spighe e addirittura nell’interno del solco. Impolverati d’argento, a intervalli regolari, gli ulivi avevano l’aria di persone che si fossero fermate al richiamo di qualcuno rimasto indietro, per aspettarlo; il viale saliva verso un poggio su cui sorgeva una casina gialla dalle persiane verdi con accanto una fattoria dal muro biancastro crivellato di porte e finestre nere; a destra del viale, verdissimi, lucidi, rinfrescanti l’aria col loro alito di fontana si stendevano i giardini di limoni su su fino al poggio… V. Brancati

 La messe

Tutto il grande campo di grano color verderame era zeppo di spighe diritte; lassù, nel cielo azzurro, c’era il sole raggiante e tutte le allodole cantavano dallo spuntare dell’alba fino a sera. Dopo il tramonto, la rugiada cadeva dolce come un’onda rinfrescante sul grano infiammato dal sole e la grande luna d’oro splendeva mitemente sui campi che maturavano. (C. Joergensen)

 La semina del grano

Il grano, involandosi dal pugno, brillava come faville d’oro e cadeva sulle porche umide, ugualmente ripartito. Il seminatore avanzava con lentezza, affondando i piedi umidi nella terra cedevole, levando il capo nella santità della luce. Il suo gesto era largo, sapiente; tutta la sua persona era semplice, sacra, grandiosa. (G. D’Annunzio)

Il grano

Quasi certamente la prima pianta coltivata fu il grano. L’uomo era ancora rivestito di pelli e di corteccia d’albero quando scoprì che i granelli di una spiga che egli aveva lasciato cadere nel terreno, erano germogliati e avevano dato origine ad altre spighe uguali. Da quel giorno sono passati migliaia e migliaia di anni, ma da allora il pane fu il perno intorno a cui si sviluppò la civiltà mediterranea.

Il grano

Il chicco di grano  è caduto nel solco e fra poco germoglierà. Da quel piccolo chicco nascerà una piantina che a maggio metterà la spiga. Il vento trasporterà il polline da un chicco all’altro e la spiga allora sarà granita. Il sole la dorerà e la farà maturare. Il bel grano d’oro sarà mietuto e trebbiato. Con la farina che l’uomo saprà ricavarne si farà il buon pane quotidiano.

Grano maturo

Si vedeva un mare di spighe fra le quali frusciava l’alito caldo del mezzodì; piegarsi, incresparsi, prendere a vicenda il colore dell’oro, dell’argento e persino del latte, e mandare scintillamenti come se vi fossero in mezzo delle lucciole. Fra gambo e gambo cresceva il papavero scarlatto, e sugli orli, la viola azzurra e la margherita. (E. De Marchi)

Le speranze del contadino

Il contadino spera quando semina il grano, spera quando vede il primo biondeggiare delle spighe, spera quando i primi fiori della vite spandono il loro profumo e attraverso una fiorita corona di speranza, porta al granaio le messi, alla botte il mosto, alla cucina i legumi dell’orto. (P. Mantegazza)

Il grano

Gli uomini trovarono un’erba dal lungo stelo, che da un seme solo fa tante spighe ed ogni spiga tanti chicchi, i quali macinati, danno una polvere così bianca, così molle e queste, intrisa e rimenata e cotta, dà un cibo così soave, così forte! Quell’erba è la divina vivanda che di fa vivere: il pane! (G. Pascoli)

Il grano

Il grano è una delle piante più coltivate fin dai tempi antichi. Quando l’uomo decise di coltivare la terra forse furono semi di grano che egli gettò nel terreno. Da quel giorno lontano, i nostri campi ogni anno si coprono della preziosa messe che dà all’uomo il nutrimento necessario.

Il fiore del grano

La pianta benedetta, che ci dà il pane, ha fiori modesti. Facilmente potete scorgere tre stami pendenti, con l’antera, doppio sacchetto, ripiena di polline. La parte principale del fiore è l’ovario panciuto che, maturato, diventa un chicco di grano. E’ tale il piccolo, modesto fiore che ci fa vivere. (Fabre)

Il frumento

Seminato in ottobre – novembre, dopo il lavorio sotterraneo che ha sviluppato le radici, più tardi il grano spunterà fuori dal terreno in tanti fili teneri e versi. Da queste piantine si svilupperà la spiga che, in maggio – giugno diverrà tutta dorata. E ai primi di giugno, quando le cicale cominceranno a far sentire il loro canto monotono e assordante, le spighe cadranno sotto la falce dei  dei  mietitori. Il buon pane è assicurato.

Il grano

In autunno si semina, a primavera germoglierà. Al principio dell’estate quando il sole è tutto d’oro, il grano è maturo. Pare un mare dorato che il vento fa ondeggiare. Le bionde spighe cadranno sotto il falcetto del mietitore.

Esercizi di vocabolario
Grano: granaio, granaiolo, granaglie, granito, granire, granagione, granone, granuloso, sgranare, raggranellare, granivoro, …
Il grano può essere: seminato, spuntato, germogliato, spigato, maturo, mietuto, trebbiato, conciato, macinato, …
Il grano nasce, spunta, verzica, accestisce, fa lo stocco, fa la spiga, fiorisce, granisce, è in latte, biondeggia, si miete, si trebbia, si macina, si schiccola, si sgrana, si concia, si spigola, si vaglia, si monda, …
Spiga, mannello, covone, bica o barca, pula o loppa, paglia, stoppia, …
Falciatrice, mietitrice, trebbiatrice, spulatrice, vaglio, mulino, setaccio, …
Modi di dire: non avere un grano di giudizio; un granello di sabbia; un grano d’oro; un grano di pazzia; chi ha il grano non ha la sacca; mangiare il proprio grano in erba.

Il grano
Dio aveva già detto all’uomo scacciato dal paradiso terrestre: “Tu guadagnerai il pane col sudore della fronte”. Guadagnare il pane significò, per l’uomo, conquistarsi la possibilità di vivere.
L’uomo preistorico era frugivoro, cioè si nutriva di frutti. Grosso, irsuto, pesante, si esprimeva a mugolii con i suoi simili, scambiando con loro le notizie che lo interessavano: dove trovare, cioè, i frutti che gli piacevano tanto.
Poi, qualche volta, i frutti gli mancarono. Forse l’inverno era stato più rigido, forse il terreno dove in quel momento si trovava, era arido e sabbioso. In queste condizioni l’uomo subì un brutto periodo di carestia. Divenne magro e famelico. E poichè la fame è uno sprone, forse tra i più potenti, l’uomo imparò dagli animali ad aggredire altri esseri viventi che, con le loro carni, potevano sfamarlo. Il sapore della carne non dovette piacergli, abituato com’era a quello dolce e succoso dei frutti, ma vi si adattò. In seguito, seppe scegliere, fra gli animali, quelli che avevano la carne più tenera e saporita. L’uomo divenne cacciatore. Divorava la sua preda così come la trovava, ancora sanguinante e cruda, naturalmente. Non aveva ancora scoperto il fuoco.
La carne era un nutrimento forte, adatto ormai a quell’essere che aveva tante abitudini in comune con gli animali, ma spesso l’uomo aveva bisogno di alternare quel forte sapore non soltanto con la polpa succosa e fresca e soave dei frutti, ma con qualcosa di farinoso, di gentile, che temperasse piacevolmente il sapore della carne: il granello di una spiga che cresceva spontaneamente nei campi, prima verde, poi dorata, ma sempre tale da soddisfare il suo gusto.
Quei granelli gli piacquero tanto che egli li raccolse e li ammucchiò nella grotta che gli serviva da abitazione. Aveva imparato che non in tutte le stagioni gli era possibile trovarne.
Ma quella grotta dove il vento aveva portato un po’ di terra, era umida. Un giorno, l’uomo si accorse che quei granelli avevano germogliato. Li gettò via, irritato che la sua provvista di fosse guastata.
Tornò sul luogo dopo qualche mese. Accanto alla grotta, crescevano, alte, le spighe che l’uomo riconobbe. Non solo, si ricordò che in quel punto erano caduti i granelli germogliati…
La mente dell’uomo lavorava, lavorava… L’uomo raccolse i granelli di quelle spighe e li lasciò di nuovo cadere nel terreno. Questa volta non si mosse da quel luogo. Sorvegliò per vedere che cosa succedeva. Vide spuntare le piantine verdi e tenere e le difese dagli animali che ne erano ghiotti.. Le piantine divennero alte, misero la spiga. L’uomo resistette alla tentazione di mangiarne i granelli. E le spighe divennero d’oro. I granelli erano ormai maturi, l’uomo li raccolse nel palmo della mano e li osservò: erano identici a quelli che aveva seminato in un giorno lontano. Li mostrò alla sua donna e ai figlioletti, li assaggiò, poi indicò la terra e la donna capì. Non sarebbero morti di fame; non avrebbero dovuto vagare continuamente alla ricerca dei frutti, non sarebbero stati obbligati, per saziarsi,  a uccidere l’animale che fuggiva davanti a loro. Con quei granelli avevano in pugno il destino. Erano pochi granelli dorati che facevano, però, di un essere selvatico quasi come le bestie, un uomo che in quel momento muoveva il primo passo sul cammino della civiltà.
L’uomo divenne agricoltore, pur restando ancora nomade. Seminava i campi, aspettava che le messi maturassero e, per far ciò, aveva imparato a costruire alcune capanne di frasche, dato che le caverne, nei campi, non sempre si trovavano. L’uomo ebbe una casa sua, fatta con le sue mani. Ma quando i campi, ormai stremati dai successivi raccolti dettero un prodotto insufficiente, l’uomo li abbandonò per andare a cercarne altri non ancora sfruttati. Si portava dietro i greggi perchè aveva imparato ad allevare gli animali che lo dovevano nutrire.
Non mangiava più i granelli, così come la spiga glieli dava. Aveva ormai scoperto il fuoco e imparato a cuocervi sopra la carne dei capretti e delle lepri uccise a caccia. Ora stritolava i granelli fra due sassi e ne ricavava una farina bianca. Con questa farina, la donna impastava una rozza focaccia che, anche così bruciacchiata e nera, aveva un ottimo sapore.
Infine, l’uomo non fu più nomade. Costruì i suoi villaggi e coltivò i campi che li circondavano.
Il compito di seminare il grano era affidato alla donna che imparò a servirsi di un pezzo di legno con cui scavava un buco nel terreno per lasciarvi cadere il seme: un lavoro faticoso e lento. Per renderlo più facile, la donna chiese all’uomo di legare due pezzi di legno insieme: quasi una croce. Premendovi sopra col corpo, la donna riusciva a tracciare un solco nel quale, poi, avrebbe gettato il seme.
L’uomo, vedendo quel lavoro, si spaventò. Temeva di ferire la terra che egli considerava sua madre e che aveva paura di offendere. Ma la donna lo convinse del contrario. La terra gradiva quel trattamento. Infatti, dava maggior copia di spighe.
L’uomo si lasciò convincere, pur continuando ad offrire sacrifici alla buona terra che gli si mostrava così benigna.
Infine attaccò, a quell’arnese primitivo, un animale. Fu un bestione che egli aveva domato con molta fatica; un animale robusto che ancora mal si assoggettava alla schiavitù: il toro.
La civiltà avanzava. Ogni villaggio aveva ormai il suo mulino. Questo era formato da una grande pietra fissa sulla quale girava un’altra pietra, grossa e pesante: mulini che ancor oggi si trovano in qualche paese meno progredito. Li usarono anche i Romani, i quali vi attaccavano gli asini e i cavalli che bendavano per costringerli a girare. E qualche volta, vi attaccavano anche i prigionieri di guerra e gli schiavi.
Poi i Romani inventarono i mulini ad acqua. La macina era collegata a una ruota mossa dalla forza di un torrente o di un fiume.
Nel Medioevo si diffuse l’uso dei mulini con grande ruote munite di tele che utilizzavano la forza del vento; sono ancora in uso in alcuni paesi.
Oggi, i mulini sono complicati e perfetti, azionati dalla forza elettrica, attrezzati in modo tale che non solo procedono alla macinatura, ma anche alla selezione dei semi e alla setacciatura della farina.
Anche il pane, dalla rozza focaccia cotta tra due pietre, ha fatto una lunga strada. E’ diventato leggero, profumato, bianco, ha preso le forme più varie e invitanti.
Ma resta sempre il pane: il nutrimento fondamentale dell’uomo.

Il chicco di grano
Il seminatore procedeva nel campo, spargendo i semi di grano nella terra lavorata. Ci fu un chicco di grano che si trovò solo, tra due zolle di terra nera e umidiccia; divenne triste, molto triste! Ripensò al tempo in cui si ergeva in una spiga svelta, baciata dal sole, cullata dal vento, quando si sentiva beato come un bimbo in braccio alla mamma. Tutto il grande campo di grano color verderame era zeppo di spighe diritte; e lassù, nel cielo azzurro, c’era il sole raggiante, e tutte le allodole cantavano, dallo spuntar dell’alba fino a sera. E quando il sole tramontava non faceva freddo, non era umido come in quel momento; ma la rugiada cadeva dolce come un’onda rinfrescante sul grano infiammato dal sole, e la grande luna d’oro splendeva mite sui campi che maturavano. (Joergensen)

Il seme nella zolla
Quale avvenimento emozionante fu per me un mattino la scoperta, in quella zolla di terra, d’un chicco di grano in germoglio. In principio temei che il seme fosse già morto; ma, dopo aver spostato, per mezzo d’una festuca di paglia, con lentissime precauzioni il terriccio che l’attorniava, scoprii una linguetta viva, tenerissima, della forma e grandezza di un minuscolo filo d’erba.
Ah, tutto il mio essere, tutta la mia anima si raccolse ad un tratto attorno a quel piccolo seme. Quanto mi disperai allora di non sapere esattamente che cosa convenisse fare per aiutarlo meglio a vivere. Per ripararlo dal gelo vi aggiunsi sopra una manata di terra; ogni mattino facevo sciogliere su di esso un po’ di neve allo scopo di fornirgli l’umidità necessaria; e affinchè non gli mancasse il calore spesso vi alitavo sopra.
Quella zolla di terra, con quel piccolo debole tesoro nascosto, minacciato da tanti pericoli eppure vivente, finì per acquistare ai miei occhi il mistero, la familiarità, la santità di un seno materno. (I. Silone)

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Dettati ortografici – Giugno

Dettati ortografici sul mese d giugno

Il sole si affaccia all’orizzonte e spande la sua luce sulla terra e nel cielo. Illumina le cime dei monti, le punte dei campanili, i tetti delle case. Getta un tappeto d’oro sui campi e mille scintille sulle acque del mare, dei laghi, dei fiumi. I galli annunciano il nuovo giorno e le campane squillano. Il contadino, di buon’ora, si avvia nel campo, ove l’attende il suo lavoro. L’aria, già calda al mattino, annuncia una giornata afosa.  Le cicale iniziano presto il loro grido insistente e, quando i bambini si svegliano, il sole, già alto nel cielo, entra nelle case a portare luce, salute, allegria. (M. Menicucci)

Carlo è felce quando può correre per i prati col suo cane. Mentre Bobi scappa avanti, Carlo si butta a terra, fra l’erba alta. Il cane si ferma e si gira di scatto: alza il muso, drizza le orecchie e poi, via! Con un balzo è sopra al suo padroncino e tutti e due rotolano insieme. Il bambino strilla e ride: il cane uggiola di gioia.

I contadini sotto il sole di giugno raccolgono i covoni di grano. Il loro viso scuro riluce di gocce di sudore, ma instancabili continuano il lavoro.  Un uccellino, in un prato accanto, si ferma un momento a guardare, poi continua, in un lieto cinguettio, a insegnare ai suoi piccoli a volare.

E’ arrivato giugno col sole caldo, con i temporali estivi e con i primi frutti succosi. Nelle belle giornate il sole si leva prestissimo e risplende per ore ed ore. Ai bambini piace attardarsi all’aperto fino al suo tramonto e salutare l’arrivo della sera con giochi e grida festose.

I prati sono verdi e nei campi biondeggia il grano. Di sera si vedono piccoli lumini vagare piano piano qua e là: sono le lucciole, che i bimbi talvolta rincorrono, felici di potere stringere un po’ di luce. Gli alberi sono folti di foglie e donano la loro ombra benefica. In campagna c’è molto lavoro ed i contadini si preparano per la fatica della mietitura. Anche i bimbi si preparano per la loro ultima fatica dell’anno scolastico e sperano di potere portare a casa una bella promozione.

Giugno, mese di spighe, ricco di sole e di feste, apre con chiavi d’oro le porte dell’estate. Il sole avvampa; le spighe diventano d’oro; i fiori hanno i colori più belli; alcuni petali ricordano lo splendore delle pietre preziose. Stridono le cicale; erra laboriosa l’ape; lampeggiano le falci; suda sui libri lo scolaro. Per chi ha ben lavorato, è l’ora del raccolto. (L. Rini Lombardini)

Giugno è il mese dei prati erbosi e delle rose; il mese dei giorni lunghi e delle notti chiare. Le rose fioriscono nei giardini, si arrampicano sui muri delle case. Nei campi, tra il grano, fioriscono gli azzurri fiordalisi e i papaveri fiammanti e la sera mille e mille lucciole scintillano fra le spighe. Il campo di grano ondeggia al passare del vento: sembra un mare d’oro. Il contadino guarda le messi e sorride. Ancora pochi giorni e raccoglierà il frutto delle sue fatiche. (G. Carducci)

Sera di giugno. La luna doveva già essere alta dietro il monte. Tutta la pianura, allo sbocco della valle, era illuminata da un chiarore d’alba. A poco a poco al dilagare di quel chiarore, anche nella costa cominciarono a spuntare i covoni raccolti in mucchi, come tanti sassi posti in fila. Degli altri punti neri si muovevano per la china, e a seconda del vento giungeva il suono grave e lontano dei campanacci che portava il bestiame grosso, mentre scendeva passo passo verso il torrente. Si tratto in tratto soffiava pure qualche folata di venticello più fresco dalla parte di ponente e per tutta la lunghezza della valle udivasi lo stormire delle messi ancora in piedi (G. Verga)

Giugno. I giorni succedevano ai giorni. Il sole descriveva un arco sempre più vasto nel cielo, il pomeriggio  si faceva di giorno in giorno più ardente, il fogliame si addensava sulle piante, il grano ingialliva nei campi, la vite e l’ulivo fiorivano profumando l’aria, e al loro odore si mescolava quello delle cantaridi verdi e dorate; gli uccelli tacevano, acquattati sulle uova dei nidi; la notte le lucciole uscivano di tra le spighe ancora acerbe, imitando nel buio lo stellato del firmamento. L’ultimo spicchio ranciato della luna calante si dondolava riflesso nell’acqua nera e cheta, simile a una barchetta di foglio dorato dimenticata lì da qualche bambino. Un coro di ranocchi al quale si mescolava la voce più chioccia di qualche rospo malinconico, si alzava ogni tanto con impeto lirico su dal pacciame, subitamente interrotto dal più leggero rumore che facesse il vento tra i giunchi e i salici della proda, o qualcuno che passasse nelle vicinanze. (A. Soffici)

Ai ultimi di maggio il cielo impallidì e perdette le nuvole che aveva ospitate per così lungo tempo al principio della primavera. Il sole prese a picchiare e continuò di giorno in giorno a picchiar sempre più sodo sul giovane granoturco finchè vide ingiallire gli orli d’ogni singola baionetta verde. Le nuvole tornarono, ma se ne andarono subito, e dopo qualche giorno non tentarono nemmeno più di tornare. Le erbacce si vestirono di un verde più scuro per mescolarsi alla vista, e smisero di moltiplicarsi. La terra si coprì di una sottile crosta dura che impallidiva man mano che il cielo impallidiva… Nei solchetti scavati dall’acqua la terra si sgretolò in rigagnoli di polvere minuta, tosto percorsi da innumerevoli processioni di formiche e  di formiconi. E sotto le sferzate ogni giorno più crudeli del sole le foglie del giovane granoturco perdevano la loro baldanza e la loro durezza; s’inchinavano, dapprima, e poi man mano che s’infiacchiva la loro colonna vertebrale, si prostravano. E venne il giugno, e il sole diventò selvaggio; le strisce brune sulle foglie del granoturco si estesero dagli orli fino a toccare le colonne vertebrali. Le ortiche si sfrangiarono, si raggrinzirono, invecchiarono. L’aria era afosa e il cielo sempre più pallido e di giorno in giorno la terra incanutiva. (J. Steinbeck, da “Furore”)

Le api irrequiete e vivacissime passavano dall’uno all’altro fiore, facendo bottino di polline e di nettare; le vespe andavano tagliando coi loro strumenti da falegname il legno per fabbricare la loro carta; i neri calabroni rodevano le corolle per cavarne fuori stami e pistilli. Un mondo di piccoli coleotteri mangiava allegramente i petali e ognuno di essi aveva scelto il suo fiore prediletto. Mi fermai dinanzi a un cespuglio di rose, mi fermai a lungo: molti bruchi verdi e gentili rodevano il margine delle foglie, mentre le tenere gemmette erano tutte quante coperte da afidi che ne cavavano il succo. Intanto una formica correva frettolosa dall’uno all’altro di quei piccoli animalucci, eccitandoli a secernere quell’umore di cui le formiche sono tanto ghiotte. In una aiuola di narcisi fioriti era un andare e un venire di farfalle di ogni colore che leggere leggere passavano d’una in altra corolla, succhiandone il miele. Quanto brulichio, quanto movimento, quanta attività!

Giugno è il mese che sta nel mezzo dell’anno come un trionfatore. Ora grano ora frutta, ora splendidi fiori e piante aromatiche, ora canto di uccelli e di insetti notte e giorno. Nei buchi delle mura le rondini hanno posato il nido, e da quello l’uccello implume si affaccia tentando il volo. Una vita immensa e tenace si è sparsa su tutta la terra. Tra le fratte di lentisco e di mirto scivolano le lucertole e i ramarri, saltano i grilli e volano come frecce gli uccelli. Su tutto le cicale cantano battendo il tempo minuto per minuto, e il loro canto dura fino a notte, quando nei campi l’opera del contadino non  è ancora terminata. (C. Alvaro)

Al principio di giugno, una sera, improvvisamente, scorgo una lucciola, poi altre due o tre, stelle avventurose e solitarie che fluttuano nell’aria chiara, come se navigassero sulla cresta di un’onda, o facessero la riverenza. Le loro minuscole luci s’accendono e si spengono secondo il ritmo del volo. A prenderne una sul palmo della mano sprigiona un bagliore strano, un messaggio misterioso, un piccolo alone verde pallido. La sera dopo, nei boschi, se ne trovano a centinaia. Per un motivo a noi ignoto restano sempre circa un metro da terra. Vien fatto di immaginare che un branco di ragazzi sui sei o sette anni, stia correndo per la foresta buia con candele o bacchette accese ad un fuoco magico, saltando allegramente, inseguendosi a balzelloni, roteando in segno di festa le piccole torce chiare. I boschi si riempiono di vita sfrenata e gioconda, mentre tutto è silenzio perfetto. (K. Blixen)

Era il colmo di giugno. In quei giorni le cicale emerse dalla terra salivano sugli ulivi a togliersi gli scafandri, ad asciugare le ali. I sole alto, quasi a piombo, cuoceva la terra. Ed ecco da un orifizio sotto un pino uscir fuori a uno a uno tanti piccoli caratteri simili a minuscoli 8, a impercettibili 3: erano le formiche brune. S’affaccendavano in piena luce a spiare indecise, quasi cieche, agitando i fili delle antenne. Subito, da un’aiuola spuntavano altre piccole formiche,  si incontravano, si annusavano; riprendevano di corsa verso una sola direzione, aggiravano un ciottolo, il pino, scansavano la ronda, s’introducevano nell’orifizio. Allora cominciarono a venir fuori tutte: a una, a due, a dieci, venti scaturivano fuori pigiandosi, accavallandosi l’una sull’altra; tutte, i maschi, i vecchi, le grosse regine, le ancelle: non finivano più, s’addensavano in masse, facevano circolo, si disponevano in file… (F. Tombari)

Giorgio ha un cartoccio di ciliege: sono rosse, lucide e succose. E’ proprio vero                                                                                                      che una tira l’altra: basta infatti che ne afferri una, perchè si formi dietro a quella tutta una fila. “E’ il frutto che mi piace di più”, dice Giorgio convinto. Ma ripeterà così anche quando assaporerà le prime albicocche della stagione nuova, le prime pesche, le prime prugne, le prime pere.

I papaveri hanno invaso il campo di grano. Sono un esercito. I soldatini indossano la camicia rossa e non fanno male a nessuno: la loro spada è una spiga. Il vento li agita: i soldatini sembrano correre nel campo conquistato. Quando poi il vento tace, ogni papavero si attarda al margine del solco col fiordaliso, suo compaesano, che indossa la tuta azzurra dell’operaio. (N. Salvaneschi)

“Buongiorno!” frinisce la cicala, appena il sole fa capolino dietro la foglia che le fa da cassa. “Buongiorno!”. Anche le formiche salutano la luce che filtra fra le erbe del prato; ma hanno una vocina sottile e nessuno le ode. “Buongiorno!”. Api, farfalle, calabroni, coccinelle, salutano il sole nascente con i loro ronzii, col battito delle loro ali, col fremito delle piccole elitre. In breve, da tutta la campagna, si leva un coro: “Buongiorno, oh sole!” (N. Oddi Ozzanesi)

 

Tutte le opere contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.

 

I libri del Dr Seuss

I libri del Dr Seuss. Theodor Seuss Geisel (1904 – 1991),  scrittore  poeta  illustratore e vignettista americano, è noto in tutto il mondo per i suoi libri per bambini, caratterizzati dalla presenza di personaggi fantastici e testi in rima, scritti sotto lo pseudonimo di Dr. Seuss. Ve ne sono molti altri, per i quali Seuss ha curato solo i testi o solo le illustrazioni firmandosi con lo pseudonimo Theo LeSieg (“LeSieg” è “Geisel” scritto al contrario), e, in un caso, Rosetta Stone.

I suoi libri più celebri sono disponibili in italiano nella collana “I libri del Dr Seuss” di Giunti Editore, tradotti da Anna Sarfatti; sempre dell’editore  Giunti, “A scuola con il Dr. Seuss”. Mondadori ha pubblicato nel 2000 “Il Grinch“, traduzione di Ilva Tron e Fiamma Izzo:

 Il Grinch
Regia di Ron Howard – Universal Pictures

Seuss nacque nel 1904 a Springfield nel Massachusetts, da una famiglia di immigrati tedeschi. Lasciati gli studi universitari prima del conseguimento della laurea, iniziò la sua carriera scrivendo e disegnando vignette umoristiche per vari giornali e riviste e divenne famoso grazie alla pubblicità di Flit , un insetticida comune a quel tempo; durante la grande depressione disegno per varie altre campagne pubblicitarie.

Il suo primo libro per bambini pubblicato a fatica, ma che riscosse grande successo,  fu “L’uovo di Ortone“.

Allo scoppio della seconda guerra mondiale, si dedicò alla satira politica, disegnando oltre 400 vignette in due anni, poi pubblicate in “Il Dr. Seuss va alla guerra”. Dal 1942 rivolse tutte le sue energie per sostenere lo sforzo bellico degli Stati Uniti. Assegnato alla “Divisione di Informazione ed Educazione” a Hollywood, sotto la direzione di Frank Capra, si occupò di film educativi per i soldati.

Durante la sua attività in ambito cinematografico vinse due Oscar ed ottenne altri numerosi successi, ma nonostante ciò, lasciò presto il cinema per tornare ai libri.

Nel maggio del 1954, la rivista Life pubblicò un rapporto sull’analfabetismo tra i bambini in età scolare, che si concludeva con l’affermazione che i bambini non imparavano a leggere perché i loro libri erano inadeguati e noiosi. Di conseguenza, William E. Spaulding, editore di libri per l’infanzia, compilò una lista di 348 parole base da saper riconoscere in prima elementare, e Seuss gli rispose promettendo che sarebbe riuscito a scrivere un libro utilizzando tali parole, ma riducendole a 250; nove mesi più tardi, con 236 delle parole stabilite, completò Il gatto e il cappello matto” , primo titolo della collana  “Beginner Books”, di cui poi Seuss assunse la presidenza. Il gatto e il cappello matto centrò l’obiettivo e in tre anni ne furono vendute quasi un milione di copie.

I libri della sezione “Beginner books” dovevano rispondere a criteri fissi, tra i quali:

– dovevano essere costruiti con le 225 parole che rappresentano il vocabolario base;

– ogni facciata non poteva contenere più di un’illustrazione;

– le illustrazioni delle facciate destra e sinistra dovevano formare insieme un’unità artistica;

– il testo poteva contenere solo i particolari presenti anche nelle immagini, e non altri.

A titolo di curiosità, c’è da riportare che Prosciutto e uova verdi , meraviglioso libretto del 1960, è scritto con sole 50 parole (a, am, and, anywhere, are, be, boat, box, car, could, dark, do, eat, eggs, fox, goat, good, green, ham, here, house, I, if, in, let, like, may, me, mouse, not, on, or, rain, Sam, say, see, so, thank, that, the, them, there, they, train, tree, try, will, with, would, you), ed è forse il suo libro più bello. E’ nato da una scommessa tra Seuss e il suo editore (Bennett Cerf) che, dopo la pubblicazione di The Cat in the Hat , affermò che non era possibile realizzare un libro con così poche parole. 

Ma il valore dei libri del Dr Seuss non consiste solo in questa ricerca di “leggibilità”;  per l’autore infatti non c’è tema che non possa essere affrontato dai bambini: la diversità, la difesa dell’ambiente, l’adozione, la guerra, la minaccia del nucleare, il consumismo e il materialismo, l’uguaglianza razziale …

Nel 1984 Seuss fu insignito del Premio Pulitzer “per il suo contributo di quasi mezzo secolo all’educazione e al divertimento dei bambini americani e dei loro genitori“.

Morì all’età di 87 anni; nel corso della sua vita si sposò due volte, e pur avendo dedicato gran parte della sua vita a scrivere libri per bambini, non ebbe figli.

Negli USA il 2 marzo, data di nascita del Dr Seuss,  è la data adottata dalla National Education Association come giornata della promozione della lettura: il “Read across America day”.

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Di seguito i libri del Dr Seuss disponibili nella nostra lingua. Trattandosi di testi in rima, a dire la verità, varrebbe la pena considerare anche la lettura dei testi originali in Inglese. Per quanto riguarda l’età consigliata, rientrano nella fascia di ascolto  a partire dai quattro anni, ma possono sicuramente essere apprezzati anche dai bambini più piccoli, ad esempio, L’uovo di Ortone e Prosciutto e uova verdi. Piacciono poi a tutte le età, sia da leggere, sia da ascoltare.

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 L’uovo di Ortone – Horton hatches the egg

“Lo penso e lo dico, lo dico e lo penso, onor di elefante, al cento per cento!”

Questo racconto in versi ha al centro un elefante generoso e fedele che si prende l’impegno di covare l’uovo di un’allodola alquanto irresponsabile: alla fine l’amore vincerà anche le leggi di natura…

Un tipo affidabile e leale, Ortone l’elefante: la sua parola d’onore vale tanto oro quanto (lui) pesa. Una volta che ha promesso di badare all’uovo della signora Giodola, un’allodola, niente può schiodarlo dal nido. Neanche se il nido è su un albero, neanche se l’uovo dovrà covarselo tutto da solo per un sacco di tempo, a costo di fare figuracce, buscarsi raffreddori sotto la pioggia o vedersela con tre cacciatori armati fino ai denti. E quando, finalmente, il pulcino si decide a nascere…

E’ una storia che insegna ad essere tenaci e a mantenere le promesse. Piace anche ai bambini più piccoli grazie alle belle illustrazioni ed al testo in rima, ma è consigliato in particolare dai cinque agli otto anni.

Giodola (Mayzie) l’allodola è stanca di covare e vorrebbe prendersi una vacanza alle Canarie (Palm Beach), così chiede ad Ortone l’elefante di sostituirla perchè lei possa fare una “breve pausa”, che in realtà finisce col diventare un trasferimento permanente… Ortone all’inizio rifiuta, ma poi si presta ad aiutare la sua amica. Il tempo passa, e l’elefante resiste, continuando a covare il suo uovo… Lo spettacolo di un elefante seduto su un albero non passa inosservato nella giungla, e il povero Ortone viene deriso dagli amici, preso di mira dal cattivo tempo e dai cacciatori, e molto altro, ma non abbandona mai il piccolo uovo che gli è stato affidato.

Nonostante le difficoltà e anche quando è chiaro che Giodola non farà mai ritorno, Ortone continua a ripetere : “Lo penso e lo dico, lo dico e lo penso, onor di elefante, al cento per cento!” ed insiste a mantenere la sua parola.

Quando finalmente l’uovo si schiude, la creatura che ne esce è un’incrocio tra allodola ed elefante. Il nuovo nato e Ortone fanno felicemente ritorno nella giungla, e Giodola rimane sola.

L’uovo di Ortone è, tra quelli del Dr Seuss,  uno dei più amati, e rappresenta un classico della letteratura per l’infanzia. E’ una delicata favola sull’adozione raccontata con umorismo e leggerezza, attraverso rime ripetizioni e nonsense, e le illustrazioni che accompagnano il testo aiutano a sorridere mentre ci parlano di impegno, integrità e perseveranza.

Il gatto e il cappello matto – The Cat in the Hat” 

Il gatto
Regia di Bo Welch – Universal Pictures

“The Cat in the Hat” è, come già detto, il libro che ha inaugurato la collana “Beginner Books”, dedicata alla causa dell’alfabetizzazione di base negli USA. Il protagonista è un gatto antropomorfo che porta un grande cappello a strisce bianche e rosse sulla testa e un grande papillon rosso legato al collo. Il personaggio comparirà in altri cinque libri successivi: The Cat in the Hat Comes Back, The Cat in the Hat Song Book, The Cat’s Quizzer, I Can Read with My Eyes Shut! Daisy-Head Mayzie, e diventerà il logo dei libri del Dr Seuss.

La vicenda inizia col gatto matto che irrompe nella casa di due bambini (Sally e suo fratello) che se stanno seduti davanti alla finestra in un noioso giorno di pioggia,  portando allegria, esuberanza, trasgressione e caos, mentre la mamma è uscita.  Il gatto si lancia in ogni genere di acrobazia per divertire i due bambini, ad un certo punto arriva a tenere un numero impressionante di oggetti in equilibrio mentre sta in bilico su una palla. Poi prova portando in casa una grande scatola che contiene due strane creature: I Cosi (Thing One e Thing Two), che cominciano a far volare gli oggetti di casa come aquiloni. Le pazzie del gatto sono invano osteggiate dall’animale domestico di casa: un pesce molto saggio.

I bambini riescono alla fine a riprendere il controllo della situazione, catturano gli oggetti volanti con una rete e tranquillizzano il gatto, che, per rimediare ai guai procurati, ripulisce tutta alla casa alla perfezione e sparisce proprio un attimo prima del ritorno della mamma. La madre chiede ai bambini cosa hanno fatto mentre lei era fuori, ma la loro risposta  non si sa…

Da un punto di vista letterario, Il gatto e il cappello matto è una prodezza di abilità, dal momento che, utilizzando un vocabolario elementare e ridotto, riesce a raccontare in rima una storia ricca e divertente.

E’ un libro adattissimo alla lettura ad alta voce: i bambini ascolteranno rapiti e presto impareranno a memoria le brillanti rime che contiene.

Le immagini poi, si sposano meravigliosamente col testo. E’ consigliato a partire dai quattro anni, ma può essere presentato anche prima, e naturalmente poi a lettori, adulti e bambini di qualsiasi età,  che amino le rime e i racconti surreali.

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Ortone i e piccoli Chi – Horton hears a Who!” 

Ortone e il mondo dei Chi
Regia di Jimmy Hayward, Steve Martino – 20th Century Fox Home Entertainment

“”Io devo salvarlo, perché questo penso : ognuno è importante, sia piccolo o immenso.”

Seuss scrisse questa nuova avventura di Ortone nel 1954, e il ritornello che la caratterizza portò da subito a definirla come una lezione in rima a tutela delle minoranze e dei loro diritti.

La città dei piccolissimi Chi corre il rischio di essere distrutta e l’elefante Ortone, che ha sentito il grido d’aiuto dei suoi piccoli abitanti,  cerca in tutti i modi di difenderli. La città dei Chi è davvero piccolissima: sta tutta intera in un granello di polvere. Ortone decide di chiedere aiuto ai suoi amici della giungla, ma le scimmie, i canguri e tutti gli altri animali non gli credono, lo prendono in giro e cercano di fargli credere che è diventato matto.

Ortone non si scoraggia,  trova un modo molto rumoroso per dimostrare a tutti l’esistenza dei suoi nuovi minuscoli amici, e facendosi aiutare proprio da loro, fa capire a tutti gli animali della giungla che ogni essere, seppur minuscolo e invisibile, va rispettato e aiutato. E tutti, Ortone, i suoi amici più piccoli e i suoi amici più grandi, imparano l’importanza del lavorare insieme per il bene comune.

Per molti è, insieme a Prosciutto e uova verdi, tra i più bei libri del Dr Seuss, per la sua comicità surreale e per la capacità dell’autore di trattare temi universali come l’uguaglianza in modo spontaneo e sincero, senza retorica e in un modo che parla davvero al cuore dei piccoli (e grandi) lettori.

E’ consigliato a partire dai cinque anni d’età, ma vale quanto detto per i libri precedenti.

Il ritorno del gatto col cappello – The Cat in the Hat Comes Back

“…anche io per fortuna, ho un esperto aiutante!”

Ancora una volta, la mamma ha lasciato Sally e suo fratello soli a casa, ma questa volta dando loro l’incarico di sgombrare il giardino dalla gran quantità di neve che è caduta in quei giorni, mentre lei è via.

I due fratellini si mettono all’opera, quando all’improvviso riappare il gatto matto, e ricominciano i guai…

Come se non bastasse, questa volta è accompagnato da tanti piccoli amici. 26, per la precisione e ciascuno chiamato a suo modo: A, B, C, D, E, F, G, H,…

… una prima introduzione alle lettere dell’alfabeto.

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Gli Snicci e altre storie – The Sneetches and Other Stories

Gli Snicci sono dei simpatici animaletti che si dividono in due categorie: quelli con una stellina verde sulla pancia e quelli senza.

I primi si sentono superiori, finché nel loro mondo non si presenta uno strano personaggio capace di mettere e togliere le stelle a piacere…

Che paura! e Troppi Cicci sono le altre due storie in rima contenute in questo libro dove, fra l’altro, ci capita anche di vedere un paio di pantaloni andare in giro da soli! 

Fu allora che si mossero. Quei pantaloni vuoti!
Sembrava che saltassero, così, senza piloti!

Tre storie in un solo libro, tanti personaggi per ridere e riflettere…

Gli Snicci (Sneetches)  è un racconto pensato dal Dr Seuss come satira della discriminazione tra razze e culture, ispirato in particolare dalla sua opposizione all’antisemitismo .

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Prosciutto e uova verdi –  Green eggs and ham

“Sono Nando, sono Nando detto Ferdi… vuoi prosciutto e uova verdi?”

“I am Sam, Sam I a m… do you want green eggs and ham?”

Una delle opere più conosciute del Dr. Seuss, sia per la vivacità delle immagini, sia per la simpatia del testo, che verte attorno a un vassoio contenente un insolito cibo colorato…

“No al prosciutto e uova verdi, non li voglio, detto Ferdi!”

Un personaggio noto come “detto Ferdi” (Sam I Am) assilla un altro personaggio per convincerlo ad assaggiare un piatto dall’aspetto molto bizzarro: prosciutto e uova verdi.

Lui rifiuta, ma “detto Ferdi” non demorde, lo segue e gli chiede se vuole assaggiarli magari in un posticino speciale oppure in compagnia di qualcuno in particolare, proponendogli un alto ramo, un’auto, una galleria, una cassa, un topino, una capretta, una volpe, un tavolino…

Alla fine, pur di liberarsi dallo scocciatore, la vittima accetta di assaggiare la pietanza e scopre che gli piace, ma così tanto da dichiarare di volerne mangiare ancora ” in barchetta! Anche insieme alla capretta…E anche sotto l’acquazzone. E sul treno. E in galleria. E sull’auto. E sul ramo. Che delizia, mamma mia!”.

Uno dei libri più belli e divertenti del Dr Seuss, consigliato da Nati per leggere a partire dai tre anni d’età. Può essere utile per vincere la diffidenza dei bambini nei confronti dei cibi nuovi.  

L’ottima traduzione italiana restituisce, dell’originale, la vivacità e la bizzarria delle scelte lessicali, la rima e il gioco della ripetizione e dell’accumulo.” 

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 C’è un mostrino nel taschino – There’s a wocket in my pocket!

Simpatici o antipatici, gentili o dispettosi, tanto piccoli da entrare nel taschino o grandi a tal punto da riempire il divano, questi mostri e mostrini sono proprio dappertutto!… ma non si sta poi tanto male in una casa così! 

I mostrini sono dappertutto: Basetto nel cassetto, Cavello nel lavello, Ploccia nella doccia, Uvano sul divano, Famino nel camino, Sottiglia nella bottiglia…

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La battaglia del burroThe butter battle book

Gli Zighi e gli Zaghi (Yooks e Zooks) sono due popolazioni tra loro in lotta per uno strano motivo: gli uni imburrano le fette di pane nella parte superiore, gli altri inferiore.

Da questa insignificante (ma per loro importantissima) diversità scaturisce un conflitto destinato sempre più a inasprirsi, con l’uso di tante e strampalate armi, fino a quando…

Il libro contiene anche la storia dei Rax, due esseri scorbutici e litigiosi, che si accapigliano per un diritto di precedenza.

”La battaglia del burro” è stato per sei mesi nella classifica del New York Times dei libri più venduti al pubblico adulto, unico libro per ragazzi cui sia toccato un così prestigioso e prolungato riconoscimento.

E correndo arruffato, fui da un grido gelato:

“Se tu spruzzi noi Zaghi, tu sarai rispruzzato!”

La follia della guerra, la corsa agli armamenti e l’odio razziale…

Questo libro è stato scritto durante la Guerra Fredda, e riflette le preoccupazioni del tempo, in particolare la percezione della possibilità della fine della vita a causa di  una guerra nucleare.

Zighi e Zaghi vivono su lati opposti di una lunga parete curva, abbastanza simile al Muro di Berlino . Il conflitto tra le due parti porta ad una corsa agli armamenti , e i due popoli cominciano a competere tra loro per chi realizza armi più grandi ed efficienti dell’altro.

Nessuna soluzione viene raggiunta alla fine del libro, che si chiude con i generali di entrambe le fazioni sul muro, pronti entrambi  a far cadere le loro bombe, e in attesa di vedere chi lo farà per primo.

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Il paese di Solla Sulla – I had a trouble in getting to Solla Sollew

Uno strampalato e avventuroso viaggio in rima verso il paese di Solla Sulla sulle acque del fiume Trastulla, laddove ”soffre poco chi è là, quasi nulla”.

Nel consueto ritmo e umorismo, proprio dei libri del Dr. Seuss, anche questa volta la voce narrante si trova coinvolta in molteplici incontri/scontri con problemi, personaggi, ambienti che divertono il lettore.

Un libro che insegna a non scappare dai guai, ma ad affrontarli. Il protagonista si avvia alla ricerca di Solla Sulla, città dove si soffre poco o quasi nulla, per evitare i suoi guai.

Per raggiungerla ne passa di tutti i colori, e quando arriva scopre che un piccolo, piccolissimo guaio, rende la città inagibile. Che fare? andarsene a Bao Baba Ballero, dove non soffre nessuno davvero? oppure….. tornarsene a casa e affrontare i propri guai?

Da oggi in poi sono pronto.
I miei guai si preparino…
io NON TEMO lo scontro!”

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Il LoraxThe Lorax

Lorax. Il guardiano della foresta
Regia di Chris Renaud, Kyle Balda – Universal Pictures

Il Lorax è un ometto un po’ scontroso, una piccola sentinella che difende gli alberi e gli animali della felice foresta dei Lecci Lanicci.

Un giorno, però, in quel paradiso giunge l’intraprendente Chi-Fu e le cose cominciano a cambiare…

Una storia divertente e bizzarra, scritta nel 1971 dal grande Theodor Geisel, in arte Dr. Seuss, che ci ricorda che in ogni angolo del mondo rischiamo di perdere le nostre risorse naturali. A meno che… 

 “Sono il Lorax. E per gli alberi parlo. Io parlo per gli alberi perché voce non hanno.” 

Riferimenti nel web:

http://en.wikipedia.org/wiki/Dr._Seuss

http://www.seussville.com/

http://www.annasarfatti.it/css/home_static.htm

Anna Sarfatti, Il Dr. Seuss, lo scrittore per bambini che inventò l’alfabeto oltre la Z

http://www.giuntistore.it/customer/search.php?in_id_collana=473

http://www.lafeltrinelli.it/catalogo/aut/214917.html

Naturalmente nel web ci sono moltissimi spunti di lavoro che hanno come base di partenza la lettura dei libri del Dr Seuss; sto raccogliendo il materiale qui:

Igiene orale: modello completo con apparecchio ortodontico

Insegniamo ai bambini con apparecchio ortodontico a curare la propria igiene dentale. Questo progetto è adatto a bambini di quarta quinta classe di scuola primaria ed oltre, può essere realizzato in autonomia e si lega allo studio del corpo umano.

Servono:

– uno schema delle arcate dentali superiore e inferiore

– play dough rosso e bianco

– due pezzi di cartoncino spesso (o plastica) rosso

– fil di ferro sottile

– carta stagnola

– una vernice trasparente tipo flatting o vernidas

Come procedere

Preparare un ovale con la pasta rossa, quindi dividerla a metà

Per ognuna delle metà ritagliare una sagoma di plastica o cartone rosso che faccia da supporto, poi, seguendo lo schema delle arcate dentali, modellare i denti ed incastrarli bene nella base. Per i molari basta modellare un abbozzo di cubo ed incidere una croce con un coltellino:

Far asciugare perfettamente; una volta indurito il modello può essere sovrapposto così:

Se il bambino porta l’apparecchio ortodontico, può riprodurlo su almeno una delle arcate utilizzando fil di ferro sottile e carta stagnola:

Rivestire il tutto con abbondanti pennellate di vernice trasparente, e far asciugare perfettamente. Il modello è pronto.

Attività di igiene orale con o senza apparecchio ortodontico

Il bambino prepara un vassoio con spazzolino, dentifricio, filo interdentale, scovolini, collutorio e un vaso d’acqua, e magari un timer, poi dispone il modello e il materiale ad esempio così:

Sporca il modello con acquarelli e pezzetti di carta negli spazi interdentali e anche tra dente e apparecchio.

Quindi procede, cominciando con lo spazzolare bene i denti con spazzolino e dentifricio, e acqua tutte le volte che occorre.

Dopo aver spazzolato bene, per almeno 3 minuti (ma vedrete che ne serviranno almeno una decina), il bambino può dedicarsi alla rimozione dei residui rimasti tra gli spazi interdentali col filo:

e a quelli rimasti tra dente e apparecchio con gli scovolini:

Infine potrà completare con un risciacquo col collutorio versandolo col tappo sui denti e poi inclinando il modello per “sputare”:

Ora non resta che esercitarsi a scaldare la cera tra i polpastrelli ed applicarla all’apparecchio:

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La trattazione dell’argomento “igiene orale” mi è stata ispirata dalla collaborazione con Genitori Channel, che ha realizzato questo video-comic sulla corretta igiene dei denti dei bambini (con o senza apparecchio ortodontico):

ed è sostenuta da:

Riferimenti all’argomento nel web:

– lessons.atozteacherstuff.com

– healthguide.howstuffworks.com

– babylux.tumblr.com

– aschoonerofscience.com

– media-cache7.pinterest.com

Questo articolo fa parte dell’Album di Vita pratica:

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Oral care: complete model with  orthodontic appliance. We teach children with orthodontic appliance to cure their dental hygiene. This project is suitable for children of fourth fifth class of primary school and in addition, it can be realized autonomously and connects to the study of the human body.

Oral care: complete model with  orthodontic appliance

What do you need?

– a diagram of the upper and lower dental arches
– Play dough red and white
– Two pieces of thick cardboard (or plastic) red
– Thin wire
– tin foil
– A transparent waterproofing paint.

Oral care: complete model with  orthodontic appliance
What to do?

Prepare a red oval with play dough, then divide it in half:

For each of the half cut out a silhouette of plastic or cardboard red to serve as support, then, following the pattern of the dental arches, model teeth and stick them right in the base. For molars just shape a sketch of cube and affect a cross with a boxcutter:

Let dry thoroughly; once hardened, the model can be superimposed so:

If your child has orthodontic appliance, it can do it in at least one of the arches using thin wire and foil:

Cover everything with abundant touches of clear varnish and let dry thoroughly. The model is ready.

The child prepares a tray with a toothbrush, toothpaste, dental floss, brushes, mouthwash and a jar of water, and maybe a timer, then it has the model and material for example in this way:

Dirty the model with watercolors and small pieces of paper in the interdental spaces and also between the tooth and appliance.

Then proceeds, starting with brushing the teeth with toothbrush and paste, and water as often as necessary.

After brushing well, for at least 3 minutes (but you will see that it will need at least ten), the child can concentrate on removing residual remained within the interdental spaces with dental floss:

and those that remained between tooth and appliance with interdental brushes:

Finally, it may be completed with a rinse with mouthwash with pouring cap on the teeth and then tilting the model for “spit”:

Now you have to practice to warm the wax between the fingertips and apply it:

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Dealing with the subject “oral care” I was inspired by the collaboration with “Genitori Channel“, which has made this video-comic on the proper care of the teeth of the children (in Italian):

and it is supported by:

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Oral care: complete model with  orthodontic appliance

Other links:

– lessons.atozteacherstuff.com

– healthguide.howstuffworks.com

– babylux.tumblr.com

– aschoonerofscience.com

– media-cache7.pinterest.com

Igiene orale – nomenclature Montessori – la struttura del dente

Igiene orale: schede delle nomenclature Montessori in tre parti, sulla struttura del dente.

A corredo del progetto di insegnamento della corretta igiene orale ai bambini, ho preparato queste carte delle nomenclature in tre parti (illustrate con parola, solo illustrazione e solo parola) sulla struttura del dente.

Come già detto qui,  

i bambini che già da molto piccoli hanno imparato a lavarsi i denti, presto desidereranno ricevere informazioni sui loro denti, sapere come si chiamano, come sono fatti, ecc… Per questo è importante predisporre per lui molte attività sul tema.

Imparare l’anatomia e la fisiologia dei denti aiuterà i bambini a lavarsi i denti ancora meglio, con maggior consapevolezza, e le prime informazioni possono essere date a partire dalla scuola d’infanzia.

Nella scuola primaria è poi importante riprendere ed approfondire coi bambini tutti i temi affrontati quando erano più piccoli, arricchendo le nozioni di anatomia e fisiologia di contenuti scientifici appropriati all’età.

Conoscere aumenta la motivazione a lavarsi bene i denti e favorisce l’indipendenza e l’autonomia.

Per l’uso delle carte delle nomenclature puoi leggere qui.

sono disponibili gratuitamente per gli abbonati qui:

Aggiungo uno schema riassuntivo, da utilizzare sempre coi cartellini:

Riferimenti all’argomento nel web:

– wholehealthsource.blogspot.com

– enchantedlearning.com

– healthyteeth.org

– wakeup-world.com

– stepintosecondgrade.blogspot.com

Igiene orale: la struttura del dente – modelli in cartoncino colorato e nomenclature

Igiene orale: la struttura del dente – modelli in cartoncino colorato e nomenclature. Come già detto qui,

 i bambini che già da molto piccoli hanno imparato a lavarsi i denti, presto desidereranno ricevere informazioni sui loro denti, sapere come si chiamano, come sono fatti, ecc… Per questo è importante predisporre per lui molte attività sul tema.

Imparare l’anatomia e la fisiologia dei denti aiuterà i bambini a lavarsi i denti ancora meglio, con maggior consapevolezza, e le prime informazioni possono essere date a partire dalla scuola d’infanzia.

Nella scuola primaria è poi importante riprendere ed approfondire coi bambini tutti i temi affrontati quando erano più piccoli, arricchendo le nozioni di anatomia e fisiologia di contenuti scientifici appropriati all’età.

Conoscere aumenta la motivazione e favorisce l’indipendenza e l’autonomia.

Il dente non è un unico blocco, ma un sistema composto da tante parti. E’ forte ed efficiente, ma al tempo stesso delicato.

Per creare un modello semplificato di dente possiamo utilizzare la pasta da modellare, come illustrato qui,

oppure fare dei più semplici modelli puzzle in cartoncino colorato, da utilizzare coi cartellini delle nomenclature.

Versione semplificata per bambini più piccoli

Ho preparato i modelli da ritagliare, che puoi stampare qui:

Ma si può realizzare molto facilmente anche senza usare il modello:

– nella prima pagina c’è per il fondo un foglio rosso A4, e la striscia blu sovrapposta ad esso per distinguere la corona dalla radice

– nella seconda pagina c’è la sagoma bianca da ritagliare (ho usato il fondo rosso per vederla bene)

– nella terza pagina ci sono le sagome gialla e rossa

Basta aggiungere solo un filo di cotone.

Versione completa per bambini più grandi

I modelli da ritagliare posso essere stampati da qui:

– nella prima pagina ci sono il fondo verde (corona) e il fondo beige (radice). Il rosso è la pagina di sfondo.

– nella seconda pagina ci sono le sagome rossa (gengiva) e arancio (polpa). Se decidi di usare un foglio A4 rosso come sfondo, la sagoma rossa della gengiva non serve (confronta l’immagine in alto, con quella della quarta pagina del pdf per decidere)

– nella terza pagina di sono le sagome gialla (dentina) e bianca (smalto)

– nella quarta pagina il puzzle assemblato senza la sagoma rossa della gengiva, con l’aggiunta delle due striscioline che rappresentano vaso sanguigno e nervo.

Infine, questi sono i cartellini delle nomenclature:

Riferimenti all’argomento nel web:

– wholehealthsource.blogspot.com

– enchantedlearning.com

– healthyteeth.org

– wakeup-world.com

– stepintosecondgrade.blogspot.com

Igiene orale: la struttura del dente – modello in play dough e nomenclature

Igiene orale: il dente non è un unico blocco, ma un sistema composto da tante parti. E’ forte ed efficiente, ma al tempo stesso delicato.

Per creare un modello semplificato di dente possiamo utilizzare la pasta da modellare.

Cosa serve:

play dough rosso, bianco, giallo, arancio o rosa

un filo di lana o cotone

una superficie di cartone spesso o plastica

uno schema della struttura del dente.

Cosa fare:

Dopo aver studiato la struttura dei denti, possiamo fissare le conoscenze attraverso la realizzazione del modello. Il consiglio è di cominciare dalla dentina:

inserire nella dentina la polpa:

aggiungere la gengiva e il filo che rappresenta nervi e vasi sanguigni:

e infine lo smalto.

Una volta asciutto, il modello può servire per abbinare alle varie parti i cartellini della nomenclatura. I miei sono questi:

https://shop.lapappadolce.net/prodotto/materiale-stampabile-sulle-parti-del-dente/

Riferimenti all’argomento nel web:

– wholehealthsource.blogspot.com

– enchantedlearning.com

– https://www.nsdental.org/

– wakeup-world.com

– stepintosecondgrade.blogspot.com

Insegnare l’igiene orale – Esperimento con le uova sode

Insegnare l’igiene orale – Esperimento con le uova sode

sostenuto da:

Salute dei denti e alimentazione

Insegnare l’igiene orale – Esperimento con le uova sode: la crescita di denti sani dipende molto dalla dieta. I denti da latte del vostro bambino si sono formati durante le gravidanza, influenzati dalla vostra dieta. Dopo la nascita, molto si può fare per garantire ai denti permanenti di svilupparsi e crescere sani e forti.

Assicuratevi che il vostro bambino riceva con la dieta un sufficiente apporto di calcio e vitamina D. Dopo lo svezzamento il bambino assume il latte in quantità decisamente minore, quindi è importante inserire nella sua alimentazione yogurt  e formaggio. 

L’alimentazione poi, influenza la salute dei denti anche in modo più diretto, per questo fate il possibile per evitare di sviluppare nel bambino comportamenti che ledono i denti creando nel cavo orale un ambiente favorevole allo sviluppo dei batteri ed all’insorgere di placca, tartaro e carie.

Non abituate i bambini a consumare succhi di frutta zuccherati, snack e bibite tra un pasto e l’altro. In ogni caso preferite sempre offrirgliele in bicchiere e non nel pacchetto con la cannuccia, perchè questo piccolo accorgimento può ridurre di molto il tempo di esposizione allo zucchero.

L’ideale sarebbe che il bambino non sapesse nemmeno cosa sono caramelle e cioccolata prima dei due anni, ma i condizionamenti posso essere molti. Non c’è dubbio che i dolci facciano male ai denti del vostro bambino, ma un atteggiamento ansioso e rigido non è comunque salutare per lui: dosati con cura, dolci e caramelle possono non essere un problema.

Alte concentrazioni di zucchero raffinato distruggono l’equilibrio acido nella bocca del bambino e compromettono la salute dello smalto dei denti. Ogni volta che si mangia dello zucchero, i denti sono in pericolo, e più a lungo lo zucchero rimane in bocca, tanto più è probabile che si formino carie, ma questo vale per lo zucchero raffinato in generale, e non in particolare per le caramelle: il sorseggiare continuo o il succhiare dalle cannucce dei succhi di frutta o di altre bevande, può essere più dannoso delle caramelle o della fetta di torta più dolce che ci sia.  

Per questo è più ragionevole controllare tutti gli alimenti dolci, anziché vietare le caramelle, e preferire sempre dolci che si consumano in fretta, perchè l’acido prodotto dalla loro presenza potrà scomparire senza avere il tempo di  aderire alla smalto dei denti . Ad esempio una fetta di torta o un pezzetto di cioccolata sono meno pericolosi per i denti di un lecca lecca che il bambino può succhiare per ore.

Anche la consistenza dei dolci fa la differenza: quelli che possono incollarsi ai denti masticando, magari restando là fino al prossimo spazzolamento, sono i peggiori: questo vale per i biscotti secchi e anche per alcuni prodotti naturali che a volte offriamo perchè più salutari rispetto alle caramelle: ad esempio l’uvetta.

Tutti i bambini attraversano fasi in cui sono particolarmente golosi di dolci: scegliamo quelli che si dissolvono più rapidamente in bocca, come cioccolato e caramelle morbide, e diamo da bere dell’acqua. 

Insegniamo ai bambini a riconoscere gli alimenti che fanno bene ai denti, e quelli che possono danneggiarli. Si può cominciare anche quando sono piccoli, anche senza dare particolari informazioni tecniche, ma permettendo loro di fare esperienze dirette.

L’esempio classico è l’esperimento con le uova sode. E’ vero che l’affinità tra guscio dell’uovo e smalto dei denti è assolutamente discutibile, ma come vedrete l’impatto visivo è formidabile e i bambini fanno spontaneamente l’associazione tra uovo e dente.  In questo caso l’immaginazione è davvero più potente della fredda analisi nel trasmettere l’informazione corretta…

Insegnare l’igiene orale – Esperimento con le uova sode – Per l’esperimento servono:

– due barattoli trasparenti
– due uova sode (se le trovate bianche è meglio, ma non è indispensabile)
– un assortimento di cibi sani (frutta, formaggi, verdura, pane,…), acqua e latte
– un assortimento di cibi dannosi (miele, zucchero, cioccolata, marmellata, panna montata, caramelle, gelato,…),e cola
– spazzolino da denti e dentifricio
– una bacinella d’acqua
– vassoio e piattini
– può essere utile anche un timer o una clessidra, se vogliamo rinforzare nel bambino la percezione di quanto siano lunghi i tre minuti che gli chiediamo di impiegare per spazzolarsi i denti.

Insegnare l’igiene orale – Esperimento con le uova sode – Cosa fare:

Prima di intraprendere l’esperimento sarebbe importante avviare coi bambini una discussione sul tema dei denti,  e ad esempio portarli ad immaginare cosa potremmo mangiare se non avessero i denti. Possiamo invitare i bambini a toccarsi i denti e poi a dirci come sono, quindi a toccare le uova sode che abbiamo preparato. Emergerà che i denti sono duri e bianchi proprio come le uova.

Ora prepariamo in un vassoio tutti i cibi dannosi per i denti, mettiamo nel primo barattolo un uovo sodo,

aggiungiamo gli alimenti

e versiamo la cola (per rendere l’esperimento ancora più impressionante si può aggiungere succo d’arancia e aceto: in questo modo, oltre a sporcarsi tantissimo, l’uovo assumerà un odore disgustoso e diventerà molliccio).

In un altro vassoio prepariamo tutti di cibi sani,

mettiamo l’altro uovo sodo nel secondo barattolo, aggiungiamo gli alimenti e versiamo latte ed acqua.

Ora andiamo a dormire senza lavarci i denti…

Nel versare i vari alimenti nei barattoli, possiamo chiedere ai bambini cosa sono e se secondo loro sono buoni. Sicuramente in molti diranno che la cola è buona, ad esempio. Ma proviamo a chiedere se fa bene ai denti, e molti bambini non sapranno cosa rispondere. Per fortuna abbiamo il nostro dente – uovo ad aiutarci!

Possiamo anche dire che, ad esempio, nella cola c’è molto zucchero, e che lo zucchero nella nostra bocca diventa acido come l’aceto, e che questo piace molto ai batteri che bucano i dentini con le carie.

E se non ci lavassimo i denti, cosa succederebbe?

Il  giorno successivo, tiriamo fuori dai barattoli i nostri denti – uova: il confronto è incredibilmente forte!

Laviamo il povero dente… prepariamo su un vassoio dentifricio, spazzolino, l’uovo da lavare in un piattino e a parte una bacinella d’acqua. Grazie a questa attività il bambino si eserciterà a svitare e riavvitare il tappo, stendere il dentifricio, spazzolare…

Se il bambino lo desidera, può dedicarsi anche alla pulizia dell’altro dente, ma ai fini dell’esperimento è servito essenzialmente per il confronto iniziale…

Lavarsi i denti, insomma, anche se ogni tanto mangiamo un po’ di zucchero, mantiene i denti puliti e bianchi, proprio come il guscio d’uovo! Però mangiare sano è proprio meglio…

Insegnare l’igiene orale – Esperimento con le uova sode

Riferimenti all’argomento nel web:

– thechocolatemuffintree.com

– mamabeefromthehive.blogspot.com

– fitkidsclub.blogspot.com

– science-mattersblog.blogspot.com

– luvprek.blogspot.com

– imaginationstationtoledo.org

– thepreschoolexperiment.blogspot.com

Oral care – Experiment with hard-boiled eggs: the growth of healthy teeth is very dependent on diet. The milk teeth of your child have been formed during the pregnancy, affected by your diet. After birth, much can be done to ensure the permanent teeth to develop and grow healthy and strong.

Make sure your child receives a diet with sufficient calcium and vitamin D. After weaning, the child takes the milk in amounts much lower, so it is important to include in his diet yogurt and cheese.

The nutrition then, affects the health of teeth even more directly, so do everything you can to avoid developing in the child behaviors which harm teeth creating a favorable environment in the oral cavity to the development of bacteria and the onset of plaque, tartar and cavities.

Not accustomed children to consume sugary juices, snacks and drinks between meals and the other. In any case always prefer to offer them in glass and not in the package with drinking straw, because this little trick can greatly reduce the time of exposure to sugar.

Ideally, the child does not even know What are candies and chocolate before two years, but the conditioning can be many. There is no doubt that the sweets to hurt your child’s teeth, but an anxious and rigid approach however, it is not healthy for him dosed carefully, cakes and sweets can not be a problem.

High concentrations of refined sugar destroy the acid balance in your child’s mouth and endanger the health of the tooth enamel. Every time you eat sugar, the teeth are in danger, and the longer the sugar remains in the mouth, the more it is likely to be formed caries, but this applies to the refined sugar in general, and in particular not for candies : the continuous sipping from straws fruit juices or other drinks, can be more damaging of candies or cake sweeter there is.

Therefore it is more reasonable to check all sweet foods, rather than banning the sweets, and always prefer sweets that you consume in a hurry, because the acid produced by their presence will disappear without having time to adhere to tooth enamel. For example, a slice of cake or a piece of chocolate are less hazardous to the teeth of a lollipop that the baby can suck for hours.

Even the consistency of the sweets makes the difference: those who can stick to teeth by chewing, maybe staying there until the next toothbrushing, are the worst: that goes for dry biscuits and even for some natural products that sometimes we offer because most healthful compared to candies: such as raisins.

All children go through stages where they are particularly sweet tooth: choose those that dissolve quickly in the mouth, such as chocolate and soft candy, and we give him water to drink.

We teach children to recognize foods that are good for teeth, and those that can damage them. You can begin when they are small, without giving any further technical information, but allowing them to make direct experiences.

The classic example is the experiment with the boiled eggs. It is true that the affinity between eggshell and tooth enamel is absolutely questionable, but as you will see the visual impact is tremendous and the children spontaneously make the association between egg and tooth. In this case the imagination is truly mightier than the cold analysis in conveying the correct information …

Oral care – Experiment with hard-boiled eggs

What do you need?

– Two transparent jars
– Two boiled eggs (if you find white is better, but is not essential)
– An assortment of healthy foods (fruit, cheese, vegetables, bread, …), water and milk
– An assortment of harmful foods (honey, sugar, chocolate, jam, whipped cream, candy, ice cream, …), and cola
– Toothbrush and toothpaste
– A bowl of water
– Tray and dishes
– It can also be useful a timer or an hourglass, if we want to strengthen the child’s perception of how long are the three minutes that we ask him to employ for brushing teeth.

Oral care – Experiment with hard-boiled eggs

What to do?

Before embarking on the experiment it would be important to start a discussion with kids on the theme of the teeth, and for example take them to imagine what we could eat if we did not have their teeth. We invite children to touch their teeth and then tell us how they arethen to touch the boiled eggs that we have prepared. It emerges that the teeth are hard and white just like the eggs.

Now we prepare on a tray all the foods damaging to their teeth, and we put in the first jar a boiled egg,

add foods:

and pour the cola (to make the experiment more impressive you can add orange juice and vinegar: in this way, as well as dirty a lot, the egg will take a disgusting smell and become mushy):

In another tray we prepare all of healthy foods,

We put another hard-boiled egg in the second pot, add the food and pour milk and water.

Now we go to bed without brushing our teeth …

While we pour the various foods in jars, we can ask the children what they are and if they think they are good. Surely many will say that the cola is good, for example. But we try to ask if it is good for teeth, and many children do not know what to say. Luckily we have our teeth – egg to help us!

We can also say that, for example, in the cola there is a lot of sugar, and that sugar in our mouth becomes acid such as vinegar, and that it really like to the bacteria, which pierce the teeth with caries.

And if we do not brush teeth, what would happen?

The next day, we pull out of the jars our teeth – eggs: the comparison is incredibly strong!

We wash the poor tooth … prepare a tray of toothpaste, toothbrush, the egg to be washed in a dish and part a basin of water. Thanks to this activity the child will practice to unscrew and screw the cap, apply toothpaste, brushing …

If the child wants, he can dedicate himself to cleaning the other tooth, but the purpose of the experiment is served primarily by the initial confrontation …

Brush your teeth, in short, even if sometimes we eat a bit of sugar, keeps teeth clean and white, just like the eggshell! But eating healthy is your best…

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Oral care – Experiment with hard-boiled eggs

Other links

– thechocolatemuffintree.com

– mamabeefromthehive.blogspot.com

– fitkidsclub.blogspot.com

– science-mattersblog.blogspot.com

– luvprek.blogspot.com

– imaginationstationtoledo.org

– thepreschoolexperiment.blogspot.com

Igiene orale: costruiamo un libro – spazzolino

Igiene orale: costruiamo un libro – spazzolino. Questo progetto, estremamente semplice da realizzare, può essere se fatto a scuola un bel lavoretto da portare a casa per favorire la partecipazione della famiglia all’educazione all’igiene orale dei bambini.

E’ indicato per i bambini che sanno leggere, ed è anche una bella decorazione per lo specchio del bagno e un simpatico promemoria per tutti anche da realizzare in famiglia dopo aver lavorato al tema denti ed igiene orale.

Igiene orale: costruiamo un libro – spazzolino
Cosa serve:

– una striscia di cartoncino colorato (il manico dello spazzolino)

– i cartellini con le indicazioni per la corretta igiene orale (le setole)

I miei cartellini, se volete, sono questi:

ma potete anche pensare ad altre frasi, a far scrivere i cartellini a mano al bambino, o anche a sostituire il testo con delle immagini, per i bambini più piccoli…

Non servono particolari indicazioni sul “come fare”…

Riferimenti all’argomento nel web:

– lessonplandiva.com

– preschoolplaybook.com

– daniellesplace.com

– fun-in-first.blogspot.com

Questo articolo fa parte dell’Album di Vita pratica:

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Igiene orale: un modello di denti realizzato con bicchierini di plastica

Igiene orale: un modello di denti realizzato con bicchierini di plastica. Il progetto di costruzione del modello non è adatto ai bambini, soprattutto perchè ritagliare i bicchierini richiede una certa forza, e per realizzare un modello impermeabile e resistente all’acqua, l’uso della colla a caldo è necessario. I bambini possono comunque partecipare ritagliando le strisce di  panno, legando i bicchierini tra loro, riempendoli con la carta di recupero. Naturalmente l’uso del modello è invece tutto loro… Il modello può servire ad esercitarsi non solo sull’uso dello spazzolino, ma anche del filo interdentale.

Cosa serve:

– dodici bicchierini di plastica da da caffè
– una superficie rossa (meglio se di plastica)
– strisce di pannolenci rosso
– carta bianca di recupero
– colla a caldo

Per fare in modo che i dentini stiano ben vicini gli uni agli altri, ritagliate così:

poi fare una collana usando nastro adesivo, o biadesivo, o anche con la graffettatrice:

Riempite i dentini con della carta bianca di recupero:

Disponete ad arco i dentini sulla superficie rossa e incollante con abbondante colla a caldo: i dentini devono essere resistenti!

Con altra abbondante colla a caldo aggiungete le strisce di pannolenci alla base dei dentini, a formare le gengive e fissare ulteriormente il tutto. Ritagliate la superficie rossa seguendo l’arco dei dentini.

Se volete rifinite con un giro di nastro isolante colorato, ed il modello è pronto.

Attività di igiene orale

Per preparare l’attività servono:
– acquarelli e pezzetti di carta colorata
– un vaso d’acqua
– spazzolino, dentifricio e filo interdentale

Sporcate il vostro modello così:

Il bambino si dedicherà sua pulizia e sarà un buon modo per mostrare come spazzolare i denti e come utilizzare il filo tra gli spazi interdentali:

Al termine potete proporre anche un tappo di collutorio:

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Oral care: a model of teeth made of plastic cups. The project of construction of the model is not suitable for children, especially because cut the plastic cups requires a certain strength, and to achieve a model waterproof and water resistant, the use of hot glue is needed. Children can still participate by cutting strips of cloth, tying the cups between them, filling them with waste paper.
Instead the use of the model is their.
The model can be used to practice not only on the use of the toothbrush, but also floss.

Oral care: a model of teeth made of plastic cups

What do you need?

– twelve plastic cups
– A red surface (preferably plastic)
– Strips of red felt
– White paper
– Hot glue

Oral care: a model of teeth made of plastic cups

How is it done?

To make sure that the teeth are very close to each other, cut out in this way:

then make a necklace using adhesive tape, or biadhesive, or even with the stapler::

Filled teeth with of the white paper:

Arrange the teeth in the shape of arc on red surface and gluing with plenty of hot glue: the teeth must be resistant!

With plenty of other hot glue, add the strips of felt at the base of the teeth, to form gums and fixing everything. Cut the red surface following the arch of teeth.

If you want
finish with a round of colored tape, and the model is ready.

Oral care: a model of teeth made of plastic cups

Activities of oral care

To prepare the activities need:
– Watercolors and bits of colored paper
– A glass of water
– Toothbrush, toothpaste and dental floss

Dirtying your model like this:

The child will be dedicated clean it and will be a good way to show how to brush their teeth and how to use the floss between the interdental spaces:

At the end you can also proposing a cap of mouthwash:

FARFALLE E BRUCHI: dettati ortografici e letture

Dettati ortografici FARFALLE E BRUCHI – Una raccolta di  dettati ortografici di vari autori, sul tema farfalle e bruchi, per la scuola primaria.

Come gli uccelli che cantano meglio hanno il piumaggio più semplice, così la più utile tra le farfalle ha un abito semplicissimo. E’ la farfalla del filugello, una farfalla che sa appena volare, che non sa mangiare perchè il suo apparato boccale non glielo consente, non sa far nulla, soltanto deporre le uova e poi morire. Ma da queste uova nasceranno centinaia di bacolini minuti che, mangiando una gran quantità di foglie di gelso, diverranno i preziosi bachi da seta.

La primavera era arrivata e tutto risplendeva di luci e di colori. Un bruco verde e peloso piangeva in mezzo a tanta allegria. Lo udì il vento: “Che cos’hai?”. Il bruco rispose: “Sono triste, perchè tutti hanno schifo di me, anche i bambini…”. Il vento andò lontano, rincorse la primavera: “Dolce fatina” chiamò, “c’è un animaletto infelice, mentre tutti sono allegri: il bruco…”. “E’ vero” disse la fatina, “Come ho potuto dimenticarmi di lui? Va’, digli  che esprima un desiderio. Sarà accontentato”. Il bruco allora osservò i fiori, guardò gli uccelli. “Ecco” disse “Voglio diventare anche per poco, un piccolo uccello dalle ali leggere e colorate come i petali dei fiori”. Fu preso da un freddo terribile e da un sonno profondo. Quando riaprì gli occhi, era un bellissimo insetto con le ali dai colori dell’arcobaleno. Volò sulle erbe e sui fiori con la leggerezza di una piuma: era nata la farfalla. (G. Vaj Pedotti)

 

La farfalla cavolaia gironzolò un poco sotto la foglia per trovare il punto più tenero. Stette un momento immobile come chi ha bisogno di riposare e quindi incominciò a punzecchiare la foglia. Ad ogni punzecchiatura piantava un ovetto giallino. Ne depose una ventina, poi si mise a volare sopra i cavoli. Cercò il rovescio di una foglia e vi piantò un’altra ventina di uova. Sotto una seconda ne piantò dieci; altre ne lasciò sull’orlo. Dopo una settimana al posto delle uova c’erano dei piccoli bruchi verdi, uguali, per colore, alle foglie. E alla distanza di quindici giorni i bruchi, cioè i figli della farfalla, erano molto cresciuti. Mangiavano senza riguardo nell’orlo e in mezzo alle foglie e sempre cercavano di andare verso il centro della pianta dove le foglie erano più tenere. (P. Boranga)

 

Abbiamo osservato nel prato molte farfalle: alcune hanno le ali nere vergate di rosso, altre sono bianche ornate di cerchi arancione, altre ancora sono azzurre e gialle. Tutte sono bellissime. Sul capo hanno due antenne: sono l’organo del tatto e dell’olfatto. Sotto il capo hanno una specie di tromba, un succhiatoio sottile come un capello arrotolato a spirale. Quando si avvicinano ad un fiore svolgono la tromba e la immergono nel cuore della corolla per succhiarvi una goccia di nettare. Le farfalle hanno una vita molto breve.

Una farfalla si posa sopra un fiore. E’ una bellissima farfalla e le sue ali hanno i più gai colori. Ma da lei nasceranno i bruchi che rovineranno tutto l’orto.

Era un modesto bruco che strisciava sopra una foglia di cavolo. Poi, un giorno, quel bruco non ci fu più. Ci fu, invece, una farfalla dalle ali variopinte.

E’ così bella con le sue ali variopinte! Ma, purtroppo, la farfalla deporrà tante piccole uova e da quelle uova nasceranno tanti bruchi che saranno la rovina delle piante.

La farfalla nasce da un piccolo uovo sotto forma di bruco (larva), che striscia sulle foglie o sul tronco o sul frutto di cui si nutre. Mangia voracemente per un certo periodo di tempo, quindi emette un filo con cui tesse una specie di bozzolo nel quale si chiude. Nel bozzolo avviene una prima trasformazione. Non si tratta più di un bruco, ma di un essere quasi coriaceo, immobile, chiamato ninfa. Dopo un certo periodo, la ninfa comincia a muoversi, rompe, col capo, l’involucro che l’avvolge ed esce fornita di ali, non più bruco, ma farfalla. Questa metamorfosi non si compie nell’identico modo per tutte le specie di farfalle; anche il bozzolo  può assumere diversi aspetti, ma, nelle sue grandi linee, la trasformazione segue questo processo.

Le farfalle si possono dividere in tre grandi gruppi: farfalle diurne, farfalle notturne e tignole. Fra le farfalle diurne, le più comuni sono le vanesse dalle ali vagamente variopinte e, fra queste, la cavolaia, flagello degli orti.

L’unica farfalla utile, anzi preziosa all’uomo che ne fa l’allevamento, è la farfalla del filugello chiamato anche baco da seta o bombice del gelso. Il baco cambia pelle cinque volte, nutrendosi di foglie di gelso. Ad un certo punto, smette di mangiare, si arrampica su un rametto ed emette dalla bocca un sottilissimo filo che è tutto di un pezzo e può raggiungere anche la lunghezza di circa mille metri. Con questo filo, il baco si tesse intorno al corpo un bozzolo di purissima seta. Dopo una ventina di giorni, l’animale inumidisce, con un liquido speciale, l’estremità del bozzolo e battendovi forte con il capo, riesce a praticarvi un foro, da cui uscirà farfalla.

Si tratta di una farfalla grossa e tozza che non può volare. Non ha neppure l’apparato boccale e quindi è condannata a morir di fame. Ma, prima di morire, la femmina depone centinaia di piccolissime uova da cui, a suo tempo, nasceranno i piccoli bruchi.

La farfalla scende su un fiore. Immerge ingordamente la testolina nella corolla; spinge il so succhiatoio fino in fondo e succhia il nettare. Approfittando di quella posizione, il fiore scuote sulla testa della farfalla il suo polline. Quando essa ha finito di succhiare il nettare, riprende il volo. Vola di qua e di là. Vede altri fiori simili a quello che ha visitato. Si getta sul primo che incontra. Mette la testolina nel calice. Intanto il polline di cui si era impolverata va a cadere sul nuovo fiore. (P. Bargellini)

La farfalla è un insetto, perciò presenta le stesse caratteristiche generali degli insetti. Il suo corpo brunastro, peloso e fragile, è diviso in capo, torace e addome. Sul capo si trovano due antenne, due grossi occhi composti e l’apparato boccale, costituito di una lunga e sottile proboscide avvolta a spirale come la una molla.

Quando la sera, d’estate, si tengono le finestre aperte, numerose farfalline volano in gran numero verso la sorgente luminosa. Le volano intorno, fino a che cadono esauste, morenti, nel lampadario, dove finiscono la loro breve vita. Sono le tignole. Alcune vengono dalle provviste alimentari: dalla farina, dalla pasta. Altre, di colore grigio dorato, veloci, ma non resistenti volatrici, sono l’incubo delle massaie. E con ragione: sono le tignole dei panni. Esse depositano nelle stoffe di lana, nelle pellicce, le loro uova, dalle quali nasceranno tanti piccoli, distruttori dei nostri indumenti.

Dall’uovo deposto dalla farfalla nasce un piccolissimo bruco. Poichè le uova sono centinaia e centinaia, tanti sono anche i bruchi, che divorano steli, foglie e gemme. Ogni giorno il bruco mangia il doppio del proprio peso; perciò nessuna meraviglia che debba più volte cambiare la pelle, se quella che ha addosso diventa ogni giorno più stretta. Quando il bruco è pienamente sviluppato, abbandona la pianta che lo nutriva e va in cerca di un luogo adatto. Qui si tesse un nido e vi si chiude dentro, oppure si libera semplicemente dell’ultima pelle, trasformandosi in crisalide. Ora è diventato un essere senza gambe, senza testa, fasciato da una pelle rigida e scolpita, che se ne sta immobile come una mummia. Ma dopo un certo numero di giorni questo essere muto, cieco, sordo e immobile incomincia ad agitarsi; la sua rigida scorza si spacca sul dorso; ed ecco venir fuori un essere brutto, raggrinzito, umido. A poco a poco, però, le sue ali si stendono, il corpo si affusola, appaiono i colori, l’insetto fa le prime prove vibrando le ali, e finalmente è perfetto e nitido, tutto nuovo, splendente, e quello che era un bruco strisciante ora vola e vive nell’aria la sua terza vita.

Quando i bruchi nascono, non c’è nessuno che provveda a nutrirli: ed essi stessi devono subito lavorare di mascelle per provvedere all’avvenire. Ma ci provvedono tanto bene che, se tutti i bruchi che nascono vivessero sempre fino a diventar farfalle e a deporre le uova a centinaia, e da queste uova nascessero e vivessero altri bruchi, dotati dello stesso formidabile appetito, potremmo dire addio a tutti i nostri alberi, ai fiori, agli ortaggi: i bruchi finirebbero ogni cosa. La terra resterebbe spoglia, veramente tutta brucata. Ecco perchè, forse, la natura ha disposto che la vira di un bruco sia piuttosto indifesa; non è certamente male, dunque, che di bruchi ne muoiano parecchi.

 

La farfalla è come un fiore vivo, un fiore volante, con due petali soli. Ama il verde dei giardini, dei prati, dei boschi. Se la gode a far l’altalena, su e giù; sotto la carezza del sole. Le sue ali sono ornate di vivi colori e coperte di una polvere fine. Il suo corpo è sottile, il capo piccino e le zampine esili come fili. (T. Fanelli)

Le tignole sono minuscole farfalline dalle ali frastagliate, più o meno colorate, in genere dannose. Parecchie di esse danneggiano il grano, la pasta, la farina; altre sono le famigerate tarme o tignole dei panni, che tutti conoscono, altre ancora sono la rovina dei meli, dei ciliegi e di altri alberi da frutto. Se nella mela, nella ciliegia, troviamo il verme, lo dobbiamo a queste minuscole farfalline che hanno precedentemente deposto un uovo nel calice di ogni fiore, così che il piccolo bruco ha trovato, al suo nascere, un dolce rifugio che è insieme, culla e cibo. (M. Menicucci)

La pieride cavolaia maggiore. Come è bella nella sua veste bianca con sfrangiature verdi e marroni sulle punte, con il corpicino elegante! Ma il povero cavolo come la teme! Questa farfalla si posa sulla pagina inferiore delle sue grandi foglie. Qui depone tante uova ben nascoste. Dopo pochi giorni, dalle uova nascono i bruchi. E che cosa fanno? Brucano la foglia, passano sulla pagina superiore e si mettono a divorare. In breve della bella foglia non ne restano che le nervature.

Chi, guardando le farfalle che volano leggere sui fiori, pensa agli eserciti di bruchi che hanno divorato quintali di foglie, migliaia di piante, centinaia di potenti tronchi d’albero, per soddisfare il loro insaziabile appetito? L’esercito dei bruchi si è trasformato in un esercito di farfalle. All’origine della minuscola tignola di pochi millimetri, come della più grande farfalla australiana, che ha un’apertura d’ali di quasi trenta centimetri, c’è sempre un bruco. (M. Menicucci)

Generalmente i bruchi sono voraci e talvolta questa voracità è veramente straordinaria. Il celebre naturalista Reaumur pesò alcuni bruchi della cavolaia, la bianca farfalla che predilige i cavoli, e diede loro brandelli di cavolo che pesavano il doppio del loro corpo. In meno di ventiquattro ore avevano consumato tutto. In questo tratto di tempo il loro peso era cresciuto di un decimo. Per fare un paragone, un uomo che pesi ottanta chili dovrebbe mangiare centosessanta chili di cibo in un giorno per mettersi alla pari con questi potenti mangiatori! (R. Scaringi)

Esce da un ciuffo d’erba che lo aveva nascosto durante il caldo. Attraversa il viale di sabbia con grandi ondulazioni, e per un momento si crede perduto nell’ombra lasciata dallo zoccolo del giardiniere. Giunto dove sono le fragole, si ferma, si riposa, alza il naso a destra e  a sinistra per annusare, poi riparte, e sotto le foglie sa oramai dove va. Che bel bruco grasso, velloso, impellicciato, bruno, punteggiato d’oro e con gli occhi neri! Guidato dall’olfatto, si dimena e si aggrotta come un sopracciglio folto. SI ferma sotto il rosaio; e con le sue papille sottili tasta la scorza ruvida, muove qua e là la testolina di cane appena nato e finalmente osa arrampicarsi. E questa volta sembra che divori faticosamente tutta la lunghezza del cammino in salita, inghiottendola. (G. Renard)

Colori delle farfalle
Questi insetti dovettero essere dapprima fiori; fiori portati così in alto dallo stelo che finirono per distaccarsene; oppure, sotto una carezza di luce, avvenne che il sogno dei fiori trovò modo di attuarsi, di prendere forma e volteggiare nell’aria. Le ali hanno, infatti, l’apparenza di grandi petali e ne riproducono i colori: dal rosso fuoco del tulipano all’azzurro del giacinto, dal giallo del ranuncolo al bianco del ciliegio, dal lilla dell’iris alla cupezza della mammola. E’ perchè la luce, quando colpisce un’ala di farfalla, non incontra una superficie liscia, ma un succedersi di minuscole lamine, di scudi minuscoli articolati sulla superficie dell’ala; e ciascuno di questi ha il suo modo di riflettere e diffondere la luce quasi come le sfaccettature di un diamante. Quella polvere dorata che ci resta sulle dita quando si tocca un’ala di farfalla, non è fatta che da un insieme di tali scudi, così lievi e delicati, ca non sopportare contatti che non siano quelli dell’aria e della luce.
(A. Anile)

Prime farfalle
Un picchio è nascosto tra i pioppi; con il suo becco appuntito, esso batte senza posa nella corteccia degli alberi. E’ questo il segno che è arrivata la primavera e l’uccello dalle belle piume di color porpora dà, in tal modo, il lieto annuncio alla formica. Nell’aria serena e luminosa i campi sembrano sorridere, mentre timida timida la violetta spunta sotto i cespugli e il salice piega le verdeggianti fronde sull’acqua del limpido fiume. Nel prato svolazzano intanto le prime farfalle. Un ragazzino le insegue con sfrenata allegria, nel desiderio di acchiapparle, e il suo volto si illumina di gioia, quando può ammirare la sua mano cosparsa di una polverina d’oro: è riuscito, finalmente, a prenderne una!
(V. Verdusio)

La farfalla
Si dice che le farfalle siano dannose. E che male può fare una variopinta farfallina che vola, leggiadra, di fiore in fiore, succhiando il nettare e beandosi di sole? Se si accontentasse di questo non farebbe male a nessuno. Ma la farfalla è un’ottima mamma e un giorno depone tante uova, piccole piccole, ma tante, tante. A primavera, saranno nati tanti bruchi, piccoli piccoli, ma tanti tanti, che in poco tempo divoreranno tutto ciò che capita sotto il loro instancabile apparato boccale.

Le farfalle
Se vi trovate, in primavera o d’estate, in campagna, vedrete farfalle di ogni colore e d’ogni grandezza volare sui fiori. Alcune volano in alto, altre si posano leggiadramente sui fiori e vi indugiano, infilando la oro tromba nel calice, a succhiarvi la gocciolina di nettare in esso contenuta. E quando il sole è tramontato, ecco miriadi di farfalline accorrere intorno alle sorgenti luminose e, qualche volta, in mezzo a loro c’è una grossa farfalla dal corpo pesante che sembra volare quasi a fatica. E’ una farfalla notturna.

Le farfalle
Hanno sulla fronte due corna fini, due antenne ora sfilate, a ciuffo, ora frastagliate a pennacchio. Hanno sotto la testa una tromba, una cannuccia sottile, come un capello arrotolato a spirale. Quando si avvicinano a un fiore, svolgono la tromba e la immergono in fondo alla corolla, per bervi una goccia di liquore melato. Oh, come sono belle!
(Fabre)

La farfallina del melo
Le farfalline deposero un piccolo uovo in ogni fiore del melo, poi morirono perchè le farfalle, quando hanno pensato ai piccini che debbono nascere, non hanno più nulla da fare. I fiori del melo perdettero i petali e pian piano si trasformarono in frutti. Ma in ognuna di quelle piccole mele che il sole coloriva e faceva diventare sempre più grosse, c’era un bacolino nato dall’uovo deposto dalle farfalline azzurre, un bacolino che aveva trovato la casa e insieme la polpa saporita da mangiare.

Le farfalle
Come sono belle! Ve ne sono con le ali vergate di rosso sopra un fondo granata; ve ne sono di un turchino vivo con dei cerchi neri; altre sono bianche e orlate d’aurora. Hanno sulla fronte due corna fini, due antenne ora sfilate a ciuffo, ora frastagliate a pennacchio.
(Fabre)

La farfallina
La farfallina scende su un fiore. Immerge ingordamente la testolina nella corolla; spinge il suo succhiatoio fino in fondo e succhia il nettare. Approfittando di quella posizione il fiore scuote sulla testa della farfalla il suo polline. Quando essa ha finito di succhiare il nettare, riprende il volo.
(P. Bargellini)

La farfalla
Quando la farfalla ha finito di succhiare il nettare, riprende il volo. Vola di qua vola di là. Vede altri fiori simili a quello che ha visitato. Si getta sul primo che incontra. Mette la testolina nel calice e intanto il polline, di cui si era precedentemente impolverata, va a cadere sul nuovo fiore.
(P. Bargellini)

Bruchi e farfalle
Chi, guardando le farfalle che volano leggere sui fiori, pensa agli eserciti di bruchi che hanno divorato quintali di foglie, migliaia di piante, centinaia di potenti tronchi d’albero, per soddisfare il loro insaziabile appetito? L’esercito di bruchi si è trasformato in un esercito di farfalle. All’origine della minuscola tignola di pochi millimetri, come della più grande farfalla australiana, che ha un’apertura d’ali di quasi trenta centimetri, c’è sempre un bruco.

Il bruco
Il bruco non ha che un dovere, non sente che un richiamo, non ha che un’occupazione: mangiare. Possiamo considerare il bruco come un tubo digerente che si muove. Nulla lo interessa se non quello che può soddisfare il suo appetito formidabile. E ingrassa. Soltanto quando è giunto al massimo della sua dimensione, quando il suo peso è aumentato anche fino a sedicimila volte quello originario, soltanto allora il cibo non lo interessa più.

Il bruco tessitore
Quando il bruco è arrivato al massimo della sua dimensione che la natura gli impone, ecco che il cibo non lo interessa più. Ne ha nausea. Diventa schifiltoso. Si sente tardo, pesante, obeso. E’ in attesa di qualcosa che non sa ancora definire, ma che egli sembra cercare con i movimenti pieni di ansia della sua testa oscillante. Poi, improvvisamente, si mette a secernere qualcosa che diventa rapidamente un filo, tanti fili uniti insieme, lunghi e luminosi e forti e resistenti, e dentro ci sono le immense quantità d’erba, di foglie, di legno che il bruco ha divorato durante il primo stadio della sua vita.

Le tignole
Sono minuscole farfalline dalle ali frastagliate, più o meno colorate, in genere dannose. Parecchie di esse danneggiano il grano, la pasta, la farina: altre sono le famigerate tignole dei panni che tutti conoscono, altre ancora sono la rovina dei meli, dei ciliegi e di altri alberi da frutto. Se nella mela, nella ciliegia, troviamo il verme, lo dobbiamo a queste minuscole farfalle che hanno precedentemente deposto un uovo nel calice di ogni fiore, così che il piccolo bruco ha trovato, al suo nascere, un dolce rifugio che è insieme culla e cibo.

Il bozzolo
Dopo aver tanto gozzovigliato, il bruco si scopre la vocazione del penitente. Vuol farsi eremita. Si costruisce intorno un bozzolo con un filo lungo anche migliaia di metri e vi si chiude dentro in attesa del miracolo che premierà la sua improvvisa vocazione, il suo ritiro da monaco. Diventa rigido, cade come in catalessi. Tutto fasciato come una mummia, non sente, non vede più. E’ coriaceo, immobile, morto. Ma un giorno, il morto resusciterà.

La farfalla
La farfalla sembra attirata dai fiori; ma non è il fiore, è una goccia di dolcissimo nettare che la chiama a sè irresistibilmente. Chi ha mai mangiato foglie di cavolo? O foglie di gelso? Chi ha mai rosicchiato legno? Chi si è mai cibato di peluzzi di lana? Il nettare, ecco il cibo della farfalla. Essa si posa sul fiore e ne percepisce lo squisito sapore zuccherino con… le zampe. E’ all’estremità delle loro zampette che le farfalle hanno gli organi gustativi.

Le farfalle
La farfalla si era staccata con indicibile dolcezza da uno stelo e ora di librava con volo incerto; molte farfalle, simili a quelle che aleggiavano sopra la prateria, rapide solo in apparenza, oscillavano su e giù in un gioco entusiasmante. Sembravano dei fiori vaganti, giocondi, che non avevano più potuto restare sullo stelo e s’erano saccati per danzare un po’; oppure fiori giunti col sole, che non avevano ancora il loro posto e cercavano all’intorno. Si lasciavano cadere come se l’avessero trovato, poi subito risalivano e continuavano nella ricerca.
(F. Salten)

Da dove vengono i bachi della frutta

Qualche volta, tagliando a metà un frutto, ci capita di vedere la sua polpa intaccata da lunghe gallerie. In fondo a queste vive tranquillo un baco. Com’è entrato nel frutto?
Ve l’ha depositato, sotto forma di uovo, la piccola mosca dei frutti, forandone la buccia. Poi l’uovo si è trasformato in baco, che, per nutrirsi, ha mangiato la polpa del nostro frutto, scavando le gallerie che vediamo.

L’imperatrice cinese Silinci ebbe un giorno dall’imperatore un piccolo baco e questo consiglio: “Impara ad allevare questo baco e il popolo non ti dimenticherà mai”. Silinci prese ad osservare i bachi, e vide che essi, quando fanno le loro dormite, si rivestono di un tenue velo di fili. Ella scelse quei fili e tessè un fazzolettino. Silinci vide poi che i bachi montavano sui gelsi. Allora ella prese a raccogliere le foglie dei gelsi e a nutrire con esse i bachi. Così i bachi allevati furono moltissimi e Silinci volle che tutto il popolo imparasse la nuova arte. Da allora sono passati cinquemila anni e i Cinesi ricordano ancora l’imperatrice che insegnò loro ad allevare il prezioso baco da seta. (L. Tolstoj)

Gli alberi che per primi si sono ricoperti di larghe foglie, i gelsi che segnano in lunghi filari i campi dalle messi ancora immature, si trovano di giorno in giorno più spogli. Non hanno potuto attendere l’autunno con gli altri alberi. Le mani degli uomini li hanno spogliati per nutrire i bachi voraci e quelle foglie saranno trasformate in seta lucente.

Dettati ortografici FARFALLE E BRUCHI – Le farfalle diurne

La Cleopatra annuncia per prima, a febbraio – marzo, la buona stagione. E’ gialla e ha sulle ali anteriori una macchia rossastra.

Lo splendido Macaone ha le ali anteriori screziate di nero e di giallo e le ali posteriori con bordi neri e gialli, una striscia blu, ancora una macchia gialla e due “occhi” rossi sulle estremità. Appare in marzo.

La Pieride Cavolaia è pure bianca con una macchia bruna sulla punta delle ali anteriori. Il maschio ha anche due macchie brune. La possiamo trovare in aprile.

La farfalla Circe è la farfalla che si nasconde. Tenendo congiunte le ali di un bel marrone carico con striscia verticale chiara, si posa su un tronco. Se qualcuno si avvicina, gira intorno al tronco e poi, non vista, prende il volo.

La Pavonia maggiore è il gigante degli insetti europei: le sue ali aperte misurano anche quindici centimetri di larghezza. Il suo nome deriva dalle macchie a forma di occhio, simili a quelle del pavone, poste sulle sue ali. Le sue ali hanno tonalità di colori che vanno dal marrone al giallo. La larva è vivacemente colorata e vive sugli alberi da frutta.

La Vanessa Atalanta e la Vanessa Jo, detta “occhio di pavone”, sono altri due splendidi esemplari estivi. Entrambe hanno come colore di fondo un arancione affocato. La prima, un po’ più grande, ha grandi macchie scure e bordi variegati con striature azzurre sulle ali inferiori. La seconda ha quattro grandi macchie simili a quelle che ornano le penne del pavone.

La Singe Testa di Morto è chiamata così per il disegno che ha sul torace, assomigliante a un teschio. Se viene stuzzicata emette un suono stridulo dovuto allo sfregamento della spiritromba cornea.

Nell’America meridionale, nell’India e nell’Australia, vivono le farfalle dai colori più brillanti e forme più strane. Una di queste è il Morphos Menelaus dell’America del Sud, dalle ali di un blu metallico e splendente.

Il Papilio Priamus dell’India ha invece strisce e macchie verde smeraldo su fondo nero. E’ molto grande e, quando volteggia sulle chiome degli alberi, sembra un uccello.

La Papilio, che vive nelle foreste vergini dell’Africa occidentale, è una tra le più grandi farfalle che si conoscano. Ha un’apertura d’ali di circa ventidue centimetri.

Le farfalle

Le quattro ali della farfalla sono ricoperte da piccolissime scaglie che, ad occhio nudo, sembrano una finissima polverina.
Le specie di farfalle sono moltissime, circa centomila, e tutte meravigliosamente colorate. Volano di fiore in fiore alla ricerca del nettare, di cui si nutrono.
La loro bocca è adatta a succhiare; infatti è munita di una tromba o proboscide, avvolta a spirale, che si svolge al momento di introdursi in fondo al calice del fiore per succhiarne il nettare.
Le farfalle che volano di giorno (diurne) hanno il corpo esile e un volo leggero. Quando viene la sera si nascondono in cantucci oscuri.
Le farfalle notturne hanno invece un corpo molto robusto e grosso; di sera volano attorno ai lampioni accesi e quando riposano tengono le ali distese come quelle di un aeroplano.
La farfalla prima di diventare come la vedi subisce alcune trasformazioni, cioè una metamorfosi. Dall’uovo di farfalla, deposto tra le erbe o sulle piante, nasce un bruco che si nutre di foglie, di fiori e di frutti. Successivamente il bruco diventa una crisalide che si chiude nel suo bozzolo e dorme. Dopo un certo tempo, dal bozzolo esce la farfalla ancora umida e molle. Quando si è asciugata, spicca il volo leggera come una piuma.
La vita delle farfalle è breve; alcune vivono poche ore, altre qualche giorno. In questo periodo depongono continuamente uova.

Voracità dei bruchi

Quando i bruchi nascono, non c’è nessuno che provveda a nutrirli: ed essi stessi devono subito lavorare di mascelle per provvedere all’avvenire. Ma ci provvedono tanto bene che, se tutti i bruchi che nascono vivessero sempre fino a diventare farfalle e deporre le uova a centinaia, e da queste uova nascessero e vivessero altri bruchi, dotati dello stesso formidabile appetito, potremmo dire addio a tutti i nostri alberi, ai fiori, agli ortaggi: i bruchi finirebbero ogni cosa. La terra resterebbe spoglia, veramente tutta brucata. Ecco perchè, forse, la natura ha disposto che la vita di un bruco sia piuttosto indifesa; non è certamente male, dunque, che di bruchi ne muoiano parecchi.

 

Le farfalle

Come sono belle! Ve ne sono con le ali vergate di rosso sopra uno sfondo granata, ve ne sono di un turchino vivo con dei cerchi neri; altre sono bianche e orlate d’aurora. Hanno sulla fronte due corna fini; due antenne, ora sfilate a ciuffo ora frastagliate a pennacchio. Hanno sotto la testa una tromba, un succhiatoio sottile come un capello, arrotolato a spirale. Quando si avvicinano a un fiore, svolgono la tromba e la immergono in fondo alla corolla, per bervi una goccia di liquore melato. Oh, come sono belle! (E. Fabre)

Bruchi sempre affamati

Generalmente i bruchi sono voraci e talvolta questa voracità è veramente straordinaria. Il celebre naturalista Reaumur però alcuni bruchi della cavolaia, la bianca farfalla che predilige i cavoli, e diede loro brandelli di cavolo che pesavano il doppio del loro corpo. In meno di ventiquattro ore avevano consumato tutto. In questo tratto di tempo il loro peso era cresciuto di un decimo. Per fare un paragone, un uomo che pesi 80 kg dovrebbe mangiare 160 kg di cibo in un giorno per mettersi alla pari con questi potenti mangiatori! (R. Scaringi)

Il bruco

Esce da un  ciuffo d’erba che lo aveva nascosto durante il caldo. Attraversa il viale di sabbia con grandi ondulazioni e per un momento si crede perduto nell’ombra lasciata dallo zoccolo del giardiniere. Giunto dove sono le fragole, si ferma, si riposa, alza il naso a destra e a sinistra per annusare, poi riparte, e sotto le foglie sa ormai dove va.
Che bel bruco grasso, velloso, impellicciato, bruno, punteggiato d’oro e con gli occhi neri!
Guidato dall’olfatto, si dimena e si aggrotta come un sopracciglio folto. Si ferma sotto il rosaio; e con le sue papille sottili tasta la scorza ruvida, muove qua e là la testolina ci cane appena nato e finalmente osa arrampicarsi.
E questa volta sembra che divori faticosamente tutta la lunghezza del cammino il salita, inghiottendola. (G. Renard)

 

Le farfalle

Nelle farfalle, la natura ha spiegato il massimo della prodigalità, in bellezza ed armonia di colori. La spettacolosa varietà delle tinte, le iridescenze, i riflessi metallici, la morbidezza vellutata, la leggiadria del volo, l’istinto infallibile che le porta a scegliere il luogo più adatto per la loro conservazione, tutto possiedono questi insetti, che sembrano creati per rappresentare la bellezza nel regno animale.

La vita. Nell’analizzare la loro esistenza, si rimane stupiti da tanta armonia. La vita delle farfalle è generalmente breve e le femmine muoiono dopo aver deposto le uova. Dall’uovo all’insetto perfetto (e di nuovo all’uovo) passa di solito circa un anno e precisamente il ciclo di sviluppo va da una primavera all’altra.
Tuttavia in molte farfalle diurne si possono avere nello spazio di un anno, due generazioni. Il periodo larvale ha una durata varia, da poche settimane a parecchi mesi: anche la durata della ninfosi è varia. In alcune specie la farfalla si schiude dopo una o due settimane, in altre lo stadio ninfale si prolunga per tutto l’inverno, mentre la farfalla completa ha un periodo di vita che va da qualche giorno a due mesi.

Dall’uovo alla farfalla. Le farfalle depongono uova piccolissime: anche nelle specie più grandi, non superano le dimensioni di una capocchia di spillo. Dall’uovo non esce l’insetto alato, bensì una larva, o bruco, senza ali, di aspetto simile ad un verme, che cresce rapidamente, mutando quattro o cinque volte la propria pelle.
I bruchi si muovono lentamente, ed hanno in generale colori poco vistosi: il loro corpo è ornato talora di bitorzoli pelosi, di setole, di cornetti uncinati. La bocca è formata da due mascelle taglienti con cui divorano foglie, fiori, frutta, legno.
Quando la larva ha raggiunto un completo sviluppo, non si nutre più e va in cerca di un luogo adatto per trasformarsi in ninfa. Per far questo la larva si appende mediante un filo ad un ramo, o si avvolge in un involucro, tessuto con fili che emette dalla bocca (in tal caso la ninfa si chiama crisalide), o si sprofonda nel terreno o nel legno o si avvolge nelle foglie.
Mentre la ninfa sta così racchiusa, avviene la sua ultima trasformazione, e dopo un tempo più o meno lungo uscirà dal suo involucro la farfalla.

Come sono fatte. Mirabile è l’anatomia di questi insetti. Le farfalle hanno quattro ali membranose; sul capo due antenne di forma e lunghezza variabili e lateralmente due grandi occhi composti, formati cioè da migliaia di minutissimi occhi tubolari. La bocca è composta da un tubo avvolto a spirale, detto spiritromba, per mezzo del quale le farfalle succhiano dai fiori le sostanze zuccherine (nettare).
Questi insetti dell’ordine dei Lepidotteri sono diffusi dappertutto, dove c’è vegetazione.
La loro parte più interessante sono le ali, ricoperte su entrambe le facce da piccolissime squame, variamente colorate e facilmente distaccabili: infatti esse formano un pulviscolo variopinto che rimane attaccato alle nostre dita quando afferriamo l’insetto. Le squame sono di varia forma, rotonde o ovali, seghettate, tronche o acute all’apice, inserite per mezzo di articoli in corrispondenti piccolissime cavità della lamina alare e disposte in modo da dar l’impressione di un rivestimento di piastrine smaltate.
Le diverse tinte delle squame dipendono dai vari strati di cellule del tegumento, i quali possono essere più o meno ricchi di materie coloranti. Ma le iridescenze ed i colori cangianti sono dovuti indubbiamente all’effetto ottico combinato da due o più squame vicine, e siccome la luce e la temperatura influiscono potentemente sulle cellule del derma, le farfalle delle zone torride sono più vistose, mentre vi è una diversità di colorazione sulle due facce dell’ala. Nella maggior parte dei casi, la colorazione della faccia inferiore è povera ed uniforme, e ciò soprattutto per difesa: poichè nel volo la farfalla ha poco da temere, mentre in riposo le occorre una colorazione che si discosti poco dall’ambiente.
Quando la farfalla si posa su di un ramo, avvicina le ali in modo che si dispongano verticalmente e lascino vedere solo la faccia inferiore.

 

Dettati ortografici FARFALLE E BRUCHI – Tutte le opere  contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. 

LE API E LE VESPE: dettati ortografici e letture

Dettati ortografici LE API E LE VESPE – Una raccolta di  dettati ortografici di vari autori, sul tema farfalle e bruchi, per la scuola primaria.

Le api
Le api, come le formiche, si riuniscono in una società a capo della quale c’è la regina, che non ha che un dovere: fare le uova. Le brave api operaie penseranno poi ad allevare e a custodire la prole. Intanto le altre andranno a far bottino di nettare e di polline. Volano di fiore in fiore, e poi portano le loro provviste all’alveare dove fabbricheranno il miele e la cera.

Le api
Quando i giardini i prati e le foreste fanno pompa delle loro fioriture, rare volte pensiamo che milioni di fiori leggiadri nascondono preziosi tesori. I ricchi tesori sui quali nessuno fa valere il più piccolo diritto di proprietà, sono le minutissime gocce di nettare che le api laboriose estraggono dalla più profonda cavità della corolla e che convertono in miele e cera. L’uomo perciò prese ad allevare le api che, nelle antiche età, vivevano allo stato selvatico e nascondevano il miele nelle fenditure delle rocce e in alberi cavi.
(Reichelt)

Le api
Hanno scosso il lungo torpore invernale: la regina si è messa di nuovo a deporre le uova fin dai primi giorni di febbraio. Le operaie hanno visitato gli anemoni, i giunchi, le violette, i salici, i noccioli. Poi la primavera ha rivestito la terra; i granai e le cantine traboccano di miele e di polline. Migliaia di api nascono ogni giorno. (Meeterlinck)

Fiori e api
La natura ha dato ai fiori una forma tale da attirare le api, e alle api un corpo che si adatta ai fiori, un corpo che reca loro il polline e che a sua volta usa il polline e il nettare dei fiori. Qualcosa come diecimila specie di fiori si sarebbero estinte se non ci fossero state le api, e le api non potrebbero vivere senza fiori. Nel colmo di una giornata umida e calma, il flusso del nettare alla base dei petali dei fiori d’arancio è il massimo. L’aria è satura del suo profumo che, da lontano, attira le api.
(D. Culross Peattie)

La vespa
La vespa è simile all’ape, ma di questa non ha nessun merito. Le vespe si distinguono dalle api perchè, quando stanno in posizione di riposo, ripongono le ali superiori che sembrano, così, strettissime. Si nutrono non soltanto di polline e di nettare, ma anche di frutta e perfino di carne. L’aculeo delle vespe ha, alla base, una borsetta piena di veleno; per questo la puntura della vespa è ancora più pericolosa di quella dell’ape. Il nido delle vespe, di forma rotonda, è costituito da un materiale simile al cartone che la vespa fabbrica elaborando, con la saliva, il legno degli alberi.

L’ape e la vespa si assomigliano; spesso i bambini le scambiano fra loro per il loro aspetto quasi simile, ma questi insetti cugini hanno delle abitudini, e anche delle qualità, molto differenti.
La vespa costruisce un nido con il legno degli alberi che essa mastica trasformandolo in una specie di cartone. Forse l’uomo ha imparato proprio dalla vespa a fabbricare la carta con la pasta di legno. Le vespe vivono in colonie, e le progenitrici di queste colonie sono alcune femmine sopravvissute alla stagione passata. Queste femmine depongono uova da cui nascono maschi e operaie. Alla fine della buona stagione, le vespe muoiono, meno alcune regine che svernano per dar vita, in primavera, a una nuova famiglia.

Le vespe
Non sono animali simpatici perchè, se pungono, il loro pungiglione darà un dolore intenso che non passerà tanto presto. Eppure le vespe hanno insegnato come si fabbrica la carta. Infatti, masticando sostanze vegetali e cementandole con la saliva, le vespe fabbricano un vero e proprio materiale cartaceo col quale costruiscono il loro nido.

Il nido delle vespe
Le vespe, per fabbricare il loro nido, scelgono di preferenza i pali della corrente elettrica o alberi dai quali possono staccare facilmente il materiale da costruzione che è loro necessario. Sgretolano quindi il legno, ne formano pallottole e costruiscono le celle, trasformando il legno in pasta per mezzo della saliva. Le celle non sono regolari come quelle delle api. Le femmine vi depongono le uova e subito nascono le larve che le vespe nutrono con una poltiglia di insetti afferrati con rapidi voli. (T. Stagni)

L’ape è uno dei pochissimi insetti che l’uomo alleva (l’altro è il filugello o baco da seta). Anche fra le api c’è una regina che è la madre di tutta la popolazione dell’alveare; ci sono i fuchi (maschi) tra i quali la regina sceglie lo sposo. Essi muoiono dopo o vengono uccisi subito dopo avvenuta la fecondazione. Il resto della popolazione è formato dalle operaie, che sono quelle che vediamo visitare indefessamente i fiori, succhiarne il nettare e il polline. Il polline viene messo in apposite sacchette che le api hanno nelle zampe; il nettare viene raccolto nel canale digerente, trasformato in miele e rigurgitato, poi, nell’alveare.
L’alveare, fabbricato dalle stesse api, è formato da molte cellette prismatiche a sezione esagonale, disposte in due strati. Queste cellette costituiscono il favo e sono fatte di cera, sostanza prodotta dalle ghiandole addominali delle operaie, e intonacate di propoli, sostanza resinosa ricavata dalle gemme dei pioppi.
Dentro il favo viene depositato il miele che dovrebbe servire al nutrimento delle larve e di tutta la popolazione dell’alveare. Le cellette non sono tutte uguali, ma differenti, a seconda dell’uso a cui devono servire: le più piccole sono per le operaie, quelle grandissime per le future regine.
Il meraviglioso è che la regina sa, in precedenza, quali individui usciranno dalle uova che depone e lascia cadere quelle operaie, dei fuchi, e delle future regine, nelle cellette appositamente costruite per ognuno.
Le operaie più vecchie hanno l’onore e l’onere di allevare i nascituri. Appena la piccola larva esce dall’uovo, viene nutrita con miele e con polline semidigerito. Per le larve di regina si usa un regime speciale, la pappa reale, che ha il compito di favorirne lo sviluppo. Non solo, ma questo alimento, prezioso e privilegiato, servirà alla formazione di quelle uova che un giorno la futura regina deporrà.
Dopo pochi giorni, dalle uova escono le ninfe, e allora le nutrici le chiudono nelle cellette, da dove, dopo sette giorni, usciranno trasformate in insetti perfetti.
Durante il suo volo, l’ape operaia visita migliaia di fiori. Affonda nel calice la proboscide, succhia il nettare che introdotto nello stomaco, a contatto con speciali succhi, viene trasformato in miele o in cera, a seconda della necessità.
Se nell’alveare nasce un’altra regina, si accende una lotta accanita fra la vecchia e la nuova. La lotta ha un esito mortale: in un solo alveare non possono rimanere due regine. Ma se l’alveare è troppo numeroso, allora l’istinto infallibile avverte le due contendenti, le quali in questo caso, non si combattono. Una di esse, in genere la più giovane, sciamerà, cioè partirà dall’alveare portando con sè uno sciame numeroso di operaie e di fuchi.
Trovato il posto che le pare adatto per fondare il nuovo regno, la regina si ferma e si aggrappa a un appiglio qualunque, in genere il ramo di un albero, e ad esso si appendono, come in un meraviglioso grappolo, tutte le alte api. L’apicoltore sta in guardia: quando le api sciamano, le insegue e cattura lo sciame con mezzi vari.
Per favorire la costruzione dell’alveare l’uomo prepara per lo sciame delle apposite cassettine. La cassettina, il favo e lo sciame formano quello che si chiama arnia. L’alveare è costituito dai soli favi che qualche volta le api si costruiscono anche nei tronchi cavi degli alberi.

L’ape ha una difesa: il pungiglione, un aculeo che nasconde nell’addome. Ma, quando è costretta a servirsene, ciò segna anche la sua condanna a morte perchè il pungiglione resta nella ferita e, con esso, parte dell’apparato digerente dell’insetto.

Creature laboriose
Con i primi tepori della primavera abbiamo visto uscire dalle arnie le api. Sono già in cerca di corolle aperte alla luce per raccogliere il nettare dolce, che trasformeranno in dolcissimo miele.
Talvolta vediamo le api ferme tra i rami degli alberi resinosi: raccolgono sostanze vischiose con cui tureranno le fessure della propria casina.
(G. G. Moroni)

Uno sciame d’api
Che cos’è questa musica che sembra sgorgare, grave, dal cuore del ciliegio come da un violoncello magico, e gli vibra intorno, senza uscire dalla cerchia dei rami in fiore? E’ uno sciame d’api. Da dove vengono? Forse dagli alveari dell’orto poco discosto da qui. Le ha chiamate odor di cibo dolce, odor d’aprile.
(A. Negri)

Lo sciame
Quando la nuova generazione è completa, nell’alveare c’è troppa gente e bisogna decidersi a sfollare. Allora, un forte gruppo di api, preceduto dai maschi, vola via dall’alveare con una nuova regina. Tutte vanno in cerca di un luogo sicuro per formare un nuovo alveare. Ma appena trovato il luogo, i maschi vengono cacciati via. La regina si mette subito al lavoro, che è quello di fare migliaia di uova che dovranno assicurare la popolazione del nuovo alveare.

Le api
Quando i giardini, i prati e le foreste fanno pompa della loro fioritura, rare volte pensiamo che milioni di fiori leggiadri nascondono tesori preziosi. I ricchi tesori sui quali nessuno fa valere il più piccolo diritto di proprietà, sono le minutissime gocce di nettare che le api laboriose estraggono dalla più profonda cavità della corolla e che convertono in miele e in cera. L’uomo, perciò, prese ad allevare le api che, nelle antiche età, vivevano allo stato selvatico e nascondevano il miele nelle fenditure delle rocce e in alberi cavi.
(Reichelt)

Le api
L’uomo deve essere molto grato alle api che fabbricano per lui un prodotto nutriente e delizioso, il miele. Le operaie volano di fiore in fiore succhiando polline e nettare e che poi trasformano in cera e in miele. La cera serve a fabbricare i favi, tutti a cellette esagonali perfettissime in alcune delle quali viene racchiuso il miele, mentre in altre la regina depone le uova. Abitanti dell’alveare sono anche i fuchi, cioè i maschi, che a un certo punto vengono cacciati fuori e muoiono di fame perchè incapaci di procurarsi il cibo, o sono uccisi dalle api stesse.

Il favo
Il favo è formato di celle esagonali fatte con cera che trasuda l’addome delle api operaie. Le cellette non sono tutte uguali. Alcune sono più piccole e in esse la regina depone le uova che daranno vita alle operaie; in altre, più grandi, sono deposte le uova da cui nasceranno i fuchi, cioè i maschi. Più grande di tutte, a forma di ghianda, è la cella che servirà alla regina, la futura rivale della regina madre.

Il miele
Il nettare, viene introdotto nel proventricolo dell’ape dove, a contatto coi succhi gastrici, si trasforma in miele. Allora l’ape entra nell’alveare e con le zampette lo spinge in una cella. Un’altra ape lo comprime ben bene col capo e, dopo, la cella piena viene chiusa con la cera. Altre celle sono lasciate vuote per accogliere le uova che la regina vi depositerà.

Lo sciame
Le api sciamano, d’ordinario, nello ore del mezzogiorno e con impeto selvaggio si precipitano come fiocchi di neve, quando cade fitta fitta. Quindi si posano sul ramo dell’albero vicino attaccandosi l’una all’altra, finchè sono tutte ammucchiate come un grappolo pendente. L’apicoltore accorre pronto con un alveare vuoto e cautamente ci mette dentro lo sciame. Più presto le api sciamano e più l’apicoltore gode perchè allora il popolo minuscolo può raccogliere più ricche provvigioni per l’inverno ed egli deve venire loro in aiuto con poco nutrimento.
(Reichelt)

Dentro alle arnie lavorano le api. Vivono in grande armonia tra loro. Le api operaie sono all’opera: chi va in cerca del dolce succo dei fiori; chi resta a costruire i favi; chi fa la pulizia delle cellette; chi prepara il cibo ai piccini e alla regina; chi scalda le covate e chi porta via i morti. Soltanto l’ape regina, che è la più grossa delle altre, vive da… regina. E non fa nulla? No, fa molto anche lei. Depone migliaia di uova per la conservazione della specie.
(Lipparini)

Le api
Fuori dell’alveare è un brulichio confuso di api che si raccolgono intorno ai fori d’entrata. Le operaie entrano ed escono senza posa, con un ronzio sonoro e affaccendato. Visitano tutti i fiori, instancabilmente. Succhiano il nettare, si caricano di polline e nel prodigioso laboratorio del loro proventricolo trasformano questa sostanza in miele e cera. Intanto la regina è occupata a deporre migliaia di uova, le sentinelle fanno buona guardia, le nutrici custodiscono le piccole larve e le sventolatrici agitano senza posa le loro ali affinchè nell’alveare venga mantenuta la temperatura necessaria al benessere di quel laborioso popolo.

L’ape
Quando i giardini, i campi, i prati fanno pompa della loro fioritura, noi ricordiamo che questi leggiadri fiori nascondono un tesoro di cui non sappiamo servirci. Ma qualcuno lo sa. Lo sanno le api, minuscole operaie laboriose e industriose che raccolgono il giallo polline, che succhiano la dolce stilla di nettare racchiusa nei calici e trasformano il loro raccolto in cera e miele, prodotti tanto utili all’uomo.

Le api
E’ uno sciame d’api. Le ha chiamate odor di cibo dolce, odor d’aprile. Volano, ronzano attorno ai fiori, vi s’attaccano, ne cercano e ne estraggono il nettare e il loro corsaletto d’oro e di ambra splende nel sole. Le une sanno ciò che fanno le altre; un’unica intesa le guida, le rende strumenti di perfetta orchestra.
(A. Negri)

Ora che siamo in maggio e le rose sono tutte in fiore, nell’aria si sente un gran brusio. Le api vanno, vengono, frettolose e infaticabili, e sembrano d’oro nel sole d’oro. Vanno a fare il loro bottino di polline e di nettare nei calici dei fiori e lo portano alle loro casette, dove lo trasformano in cera e miele. (G. Zanetti)

Che cos’è questa musica che sembra sgorgare dal cuore del ciliegio e gli vibra intorno senza uscire dalla cerchia dei rami in fiore? E’ uno sciame di api. Di dove vengono? Forse dagli alveari che sono nell’orto, poco distanti di qui. Le ha chiamate odor di cibo dolce. Svolano, ronzano intorno ai fiori, vi si attaccano, ne cercano e ne estraggono il nettare. (A. Negri)

“Zzz…. zzz… zzz…!”. Sono le api. Ronzano intorno ai fiori. Succhiano il dolce nettare e si caricano di polline. Poi, veloci, tornano all’alveare. Per riposarsi? No, per deporre il miele e la cera. Il miele d’oro, dolcissimo. La cera bianca, profumata. Il cibo per noi e la fiamma per la candela.

Le api ronzano intorno all’alveare. “Come vi affaccendate, api! Ma che cosa c’è di nuovo?”. “La regina ha deposto le uova. Molte, una per ogni celletta. Adesso, noi api operaie, dobbiamo fare molto miele per nutrire le larve che nasceranno tra poco. Il prato è smaltato di fiori nuovi; il giardino, le siepi, gli alberi da frutto ci offrono il nettare. Non dobbiamo perdere tempo”. Le api vanno e vengono dall’alveare ai fiori, dai fiori all’alveare. (Davanzato Scotti)

Un alveare è come una città. Una città di gente laboriosa. Ogni cittadino ha un compito. C’è la regina che depone le uova ed è la madre di tutte le api. Ci sono i fuchi e le operaie. A queste ultime spetta il compito di andare per i campi a raccogliere le provviste. Altre devono costruire le case, le celle. Altre ancora sono incaricate di accudire alle api bambine. Le operaie per strumenti di lavoro, hanno le spazzole e il cestello. Per fare la raccolta penetrano nei fiori, si coprono di polline e succhiano il nettare, il succo zuccherino che è nel calice. (M. Di Filippo)

Dall’apicoltore
Le api che si vedono entrare nell’alveare sono le api operaie. Esse volano da un fiore all’altro e, con le speciali spazzole delle zampe posteriori, raccolgono il polline, di cui si nutrono, e lo mettono in cestelli aperti nelle stesse zampe. In fondo al calice dei fiori succhiano una goccia dolcissima, il nettare, che inghiottono in una specie di stomaco detto mielario.
Giunte all’alveare rimettono il nettare, diventato miele, in ogni favo: sarà il nutrimento dei piccoli appena nati.
Intanto, altre api sono intente alla costruzione delle cellette di cera per il miele, altre hanno cura delle uova deposte dall’ape regina e sorvegliano che nessun estraneo venga a turbare la loro operosità.
Il maschio dell’ape si chiama fuco. In un alveare possono esservi anche quarantamila api operaie che vivono pochi mesi. L’ape regina mangia la pappa reale, depone le uova a milioni e vive quasi sei anni.
Questi insetti lavorano per tutta la buona stagione a produrre miele: da ogni arnia se ne possono ricavare 20 – 30 chili. I fiori offrono polline e nettare; le api contraccambiano il dono portando da una corolla all’altra un po’ di polline, indispensabile perchè, dai fiori, nascano i frutti.

Gli abitanti dell’alveare

L’ape operaia è piccola, di colore rosso bruno. Le sue zampe sono fornite di due palette ricurve, e di spazzole. L’apparato boccale è piuttosto complicato: vi sono due forti mandibole, per afferrare il materiale, e una proboscide che l’ape introduce nell’interno dei fiori. Inoltre, nell’ultima parte dell’addome, le api operaie hanno ghiandole che secernono la cera, e un acuto pungiglione, che esse estraggono solo in momento di pericolo.
I maschi, detti anche fuchi, sono più lunghi delle operaie, hanno ali che ricoprono tutto l’addome, e sono privi di palette e di pungiglione.
La regina è più grossa delle operaie, ma più piccola del fuco; le sue ali le ricoprono solo metà del corpo, e manca anch’essa di palette e di pungiglione.

Che cosa fanno

Alla regina è affidato il compito della deposizione delle uova. Ogni giorno ne depone più di trecento e durante tutta la sua vita più di mezzo milione.
Le operaie attendono infaticabilmente alla costruzione dei favi contenente le cellette, alla pulizia dell’alveare, alla raccolta del nettare che esse trasformano nel prezioso miele destinato, insieme con il polline, al nutrimento delle larve e della regina.
Quanto ai maschi, il compito loro assegnato è di unirsi con la regina, e ciò avviene una sola volta, nel volo nuziale.
Al ritorno dal volo la regina inizia la deposizione delle uova, mentre i maschi, non sapendo raccogliere ne il polline ne il polline, vengono considerati bocche inutili ed espulsi dalla comunità o addirittura spietatamente uccisi dalle operaie.

Ecco un’ape operaia di ritorno dal suo lungo viaggio di fiore in fiore: è primavera, ed essa è stata la prima ad uscire dall’alveare. Quest’ape è stata inviata in ricognizione dal grosso ed industrioso esercito di cui fa parte. Quando le compagne vedranno il carico di polline che essa reca con sè, imprigionato fra i lunghi peli dei cestelli, sulle due zampe posteriori, si affretteranno ad uscire: è venuto il momento di mettersi assiduamente al lavoro!

Un’ape su una rosa

In un cespuglio di rose, su una splendida rosa bianca, si posa un’ape, e vi rimane per parecchio tempo. Se la guardassimo bene, meglio se con una lente, vedremmo che l’ape ha allungato la sua proboscide tra i petali, la stende, la raccorcia, la ravvolge, la piega continuamente. Essa succhia dal cuore della rosa il polline, e lo posa sulla spazzola: da qui lo balza sulle palette e quindi, con l’aiuto delle tenaglie lo depone in un condotto, dal quale il succo passa nello stomaco. Ecco il primo stadio per la fabbricazione del miele.

Il miele nei favi

Il polline, passato per mezzo delle spazzole nelle palette delle zampe posteriori, viene introdotto nello stomaco dell’ape,  nella cosiddetta “borsa melaria”, dove il polline, al contatto coi succhi dell’ape, si muta in miele. All0ra l’ape piena di miele entra nell’alveare, rigurgita il miele dallo stomaco e con le zampe mediane lo spinge in una cella; un’altra ape lo comprime ben bene col capo, e, quando la cella è piena, viene chiusa con la cera.
Ma altre celle vengono lasciate vuote, perchè la regina vi depositerà le uova.

L’attività febbrile di un alveare

Nell’alveare si lavora, non c’è che dire. Api giungono dai campi, cariche di provviste, altre vanno a prenderne a loro volta: sono le predatrici. Ci sono le spazzine, che tengono pulitissime le celle da ogni elemento estraneo; le… becchine, che portano fuori i cadaveri; le guerriere, che lottano contro gli stranieri che vorrebbero invadere l’alveare; le sentinelle, che fanno buona guardia ed osservano attentamente le api prima di lasciarle entrare… Ognuna ha il suo posto, il suo incarico, il suo lavoro. E la regina? Quella non ha che un solo compito: fare le uova. Ha una vera guardia del corpo di operaie, che la spazzolano, la leccano, le presentano il miele con la loro proboscide, le risparmiano ogni fatica. Bisogna dire che in ogni arnia vi è una sola regina, mentre le operaie sono dalle quattro alle ventimila.

Le balie

Alle operaie più vecchie è affidato l’alto onore di custodire le uova e allevare le larve che ne usciranno. Infatti, appena la piccola larva si è schiusa dal guscio, ecco la sua balia pronta col cibo: miele e polline semidigeriti… Questo è il cibo destinato alle larve di operaie e di maschi; ma le larve di regina hanno un trattamento speciale. Vengono nutrite con la pappa reale, che è assai più densa e zuccherata del cibo apprestato alle altre larve, e ha il potere di aiutare la formazione e lo sviluppo delle uova. In cinque giorni, le larve diventano ninfe, che è lo stato di passaggio dalla larva all’insetto. Allora le balie chiudono le celle perchè le ninfe non mangiano; dopo sette giorni la ninfa depone le vecchie spoglie di larva e diventa insetto. Naturalmente, le giovani api vengono ancora aiutate dalle loro balie; crescono rapidamente e cominciano subito a lavorare.

Quanto vivono le api?

Le operaie, che hanno la vita più laboriosa, vivono meno: cinque o sei settimane in tutto. Solo quelle nate in autunno arrivano alla primavera successiva, e passano l’inverno ben chiuse nell’alveare, nutrendosi del miele conservato nelle cellette. La regina invece vive anche quattro o cinque anni. I maschi vivono al massimo tre mesi.

La sciamatura

Spesso, agli inizi della primavera, le nascite si nuove api sono sin troppo numerose ed accade che in un’arnia si trovino tre o quattro volte più api di quanto essa possa contenerne. Le api vi si trovano a disagio. Se fra i nati si trova una nuova ape regina, avviene allora la sciamatura. La vecchia ape regina,a capo di un numeroso gruppo di api, abbandona la vecchia casa. Il nuovo sciame va, di solito, a stabilirsi a poca distanza dall’arnia in cui viveva. L’ape regina si posa sul ramo di un albero e tutte le operaie si aggrappano a lei formando un grosso grappolo vivente.
Nei giorni seguenti le “api esploratrici” andranno in cerca di un luogo opportuno ove poter costruire i nuovi favi, ma prima che ciò avvenga, l’apicoltore cattura il nuovo sciame e provvede egli stesso a fornirgli una nuova casetta.

Insetti molto simili alle api: le vespe

Le vespe si distinguono dalle api perchè quando stanno a riposo ripiegano le ali superiori, che sembrano così strettissime, a differenza delle api che le tengono sempre larghe; inoltre le vespe hanno il corpo molto allungato.
Anche le vespe hanno femmine, maschi e operaie.
I loro nidi sono un’opera perfetta di costruzione, di ordine, di pulizia: hanno forma ovale o sferica e sono muniti di una porta di ingresso e di una porta di uscita; generalmente sono formati da quindici o sedici favi, distribuiti in piani.
L’aculeo delle vespe ha, alla base, una borsetta piena di veleno. Questa è la ragione per cui la puntura di vespa può essere pericolosa.
Quando viene l’inverno, tutte le vespe muoiono, ad eccezione di alcune femmine più forti.

Come costruiscono il loro nido le vespe?

Il nido delle vespe comuni è di materia grigia, durissima, che sembra un grosso cartone. Come è ottenuto questo cartone? Le vespe, con le forti mandibole, tagliuzzano dei vegetali e, lavorandoli con la saliva, ottengono un impasto duro e resistentissimo, simile appunto al cartone.

Di cosa si nutrono le vespe?

Le vespe sono ghiotte di miele e di materie zuccherine, ma si cibano anche di frutta, di carne cruda, e perfino di piccoli insetti vivi che incontrano nei loro voli.

Le api

Il sole ha fatto uscire dalle loro casette di legno le api. Il loro ronzio risuona nel silenzio della campagna. Sempre in movimento, volano di corolla in corolla per tornare all’alveare cariche di nettare. Nessuna ozia: se potessimo entrare nella loro casina, vedremmo che ognuna di esse ha un proprio compito, un lavoro che compie diligentemente: costruiscono cellette, tengono pulito ogni piccolo spazio, nutrono le larve e la grande regina e… funzionano da ventilatori per mantenere all’interno sempre la stessa temperatura.

Uno sciame d’api

Che è questa musica, che sembra sgorgare, grave, dal cuore del ciliegio, come da un violoncello magico, e gli vibra intorno, senza uscire dalla cerchia dei rami in fiore?
E’ uno sciame d’api. Da dove vengono? Forse dagli alveari che sono nell’orto del curato, poco discosto da qui. Le ha chiamate odore di cibo dolce, odor d’aprile. Svolano, ronzano intorno ai fiori, vi si attaccano, ne cercano e ne estraggono il nettare, splendendo si e non nel vibratile corsaletto d’oro e d’ambra. Le une fanno ciò che fanno le altre: un’unica intesa le guida, le rende strumenti di perfetta orchestra. (A. Negri)

Bestioline operose

Dentro alle arnie lavorano le api. Vivono in grande armonia fra loro. Le api operaie sono sempre all’opera: chi va in cerca del dolce succo nei fiori, chi resta a casa a costruire i favi. Chi fa pulizia, chi prepara il cibo ai piccini e alla regina, chi scalda le covate e chi porta via i morti.  Soltanto l’ape regina, che è più grossa delle altre, vive da… regina! E non fa nulla? Depone migliaia di uova…
Dagli alveari si ricavano due sostanze utilissime: miele e cera. (G. Lipparini)

L’alveare

Un alveare è come una città. Una città di gente molto laboriosa. Ogni cittadino ha un compito.
C’è la regina che depone le uova ed  è la madre di tutte le api. Ci sono i fuchi e le operaie. A queste ultime spetta il compito di andare nei campi a raccogliere le provviste. Altre devono costruire le case, le celle. Altre ancora sono incaricate di accudire alle api bambine.
Le operaie, per strumenti di lavoro, hanno le spazzole e il cestello. Per fare la raccolta penetrano nei fiori, si coprono di polline e succhiano il nettare, il succo zuccherino che è nel calice. (M. Di Filippo)

Le api si fabbricano l’alveare

L’alveare è formato da celle a forma di prisma esagonale, dette favi, e formate con la cera secreta da ghiandole dell’addome. Ma come hanno fatto a costruire una casa così perfetta e regolare? Le api provviste di miele si allacciano tra loro per mezzo delle zampe posteriori e anteriori, e formano così lunghe catene, disposte a festoni. In tale posizione, le api segregano facilmente la cera, che si consolida in scagliette che esse, con le mandibole, trasportano per farne le cellette: più piccole per le operaie; più grandi per i maschi; più grande di tutte, a forma di ghianda, è la cella della regina.
Ogni cella viene chiusa poi con un coperchietto di cera, sia che debba servire da deposito di miele o alla custodia per le larve. Gli eventuali buchi o fessure che risultassero nell’arnia, vengono chiusi con propoli, sostanza vegetale, che si solidifica e forma una specie di cemento. Qualche volta capita che una limaccia o una chiocchiola riesca a penetrare nell’alveare. Le api, furibonde, le sono addosso: con forti punzecchiature al capo la uccidono.
Per la chiocchiola, basta otturare con propoli il buco del guscio. La limaccia, che non ha guscio, si corromperebbe, infestando così l’aria dell’alveare. Ma le industriose operaie trovano subito il rimedio. La limaccia è troppo grossa per portarla fuori: esse allora le fanno una vera imbalsamatura, coprendola con propoli, in modo che  è tolto ogni pericolo che l’aria diventi infetta e possa nuocere alla vita dei pacifici insetti.

Il favo

Il favo è una costruzione a celle che le api operaie preparano per ospitare le uova che la regina depone e per custodire il miele. E’ interamente fatto di cera. Per costruire il favo le giovani api che eseguono questo lavoro iniziano la costruzione dall’alto, fissando le prime squamette di cera al soffitto dell’arnia; in questo modo esse sono certe che la costruzione riuscirà ben verticale.
Una di esse prende con le zampe posteriori la cera che le trasuda dall’addome, la porta alla bocca, la impasta e la attacca ad un punto del soffitto. Un’altra ape compie lo stesso lavoro e pone la sua pallottolina di cera vicino a quella fissata dalla prima compagna. Una terza la segue e così di seguito, col lavoro di migliaia di api, si viene formando il favo. Il meraviglioso è che la costruzione, eseguita da un numero così grande di lavoratori, ognuno dei quali non fa altro che avvicinarsi all’opera, collocare il proprio “mattoncino” ed andarsene, riesca tanto perfetta ed esattamente calcolata in tutte le sue parti. I matematici hanno accertato che non sarebbe possibile costruire un edificio altrettanto solido, con maggior spazio disponibile per le covate e per la conservazione del miele, consumando una minor quantità di cera.
Infatti un famoso entomologo francese, Antonio Ferchault di Réamur, formulò un problema rimasto famoso sotto il nome di “Problema delle api”; esso diceva:
“una cella a sezione esagonale regolare è terminata da tre rombi uguali ed ugualmente inclinati; calcolare l’ampiezza dell’angolo minore dei rombi perchè la superficie totale della cella sia la minor possibile”.
Tre grandi matematici, un tedesco, uno svizzero e un inglese, si cimentarono nella soluzione del quesito ed il risultato fu 70° 32′, esattamente la misura che le ingegnosissime api applicano nella costruzione delle loro celle!
L’uomo più sapiente non potrebbe suggerire nessuna modifica o miglioria alle api, nella costruzione della loro casa.
Accade che le api inizino la costruzione di un favo in più punti del soffitto di un’arnia. Si formano così due o tre favetti che poi, progredendo il lavoro, si saldano fra loro. Ebbene, le celle dei punti di congiunzione risultano anch’esse perfettamente esagonali ed uguali alle altre; ciò significa che le api non hanno scelto a caso i vari punti di inizio del lavoro, ma hanno minuziosamente calcolato le distanze, prevedendo fin dall’inizio  i punti di incontro, nel vuoto, dei vari favetti.
Come le api eseguano questi calcoli è un mistero.

Il bottino

Le api hanno bisogno di tre tipi di nutrimento: il polline, il nettare e l’acqua.
Il polline è il nutrimento di cui l’ape ha bisogno nei primi giorni della sua vita, quando è allo stato di larva.
L’ape bottinatrice non mescola mai, durante il raccolto, qualità diverse di polline nelle cestelle delle sue zampe; fino a quando esse non sono colme, l’ape visita sempre la stessa specie di fiori. Ciò è di grande importanza per i fiori che, per la loro impollinazione, si servono dell’opera delle api.
Il polline raccolto dalle bottinatrici viene sistemato dalle giovani api che svolgono il servizio interno in celle vicine a quelle occupate dalle larve, pronto per essere distribuito.
Il nettare è il nutrimento dell’ape adulta e, trasformato in miele, diviene un cibo di riserva. Tenendolo nell’ingluvie o borsa melaria, l’ape lo trasporta nell’arnia. Già durante questa breve permanenza nel corpo dell’ape, il nettare comincia a trasformarsi in miele.
Giunta all’arnia, l’ape verse il nettare nell’ingluvie delle giovani api, le quali provvedono a raccoglierlo in celle che vengono sigillate con cura.  Stagionandosi, il nettare dei fiori si trasforma definitivamente in miele; allora le api vi inoculano una piccola quantità del loro veleno, il quale ha la proprietà di renderlo inalterabile anche col trascorrere di lunghissimo tempo.
Un’ape può trasportare in media, in un volo, 50 mg di nettare. Calcolando la lunghezza media di un volo in 2 km e mezzo, si ha che per raccogliere un chilo di miele occorrono circa 40.000 voli, per un totale di 100.000 km. Eppure un buon alveare nel periodo della più intensa fioritura può ammassare, in un sol giorno, anche 10 kg di nettare.
Anche l’acqua è un alimento indispensabile all’alveare, soprattutto per preparare la pappa per le larve; anch’essa viene raccolta dalle bottinatrici e trasportata all’arnia nelle loro ingluvie. Le bottinatrici, divise in gruppi, si occupano di tutte queste raccolte; le giovani api, adibite ai lavori interni, le avvertono di volta in volta, se al momento occorra più polline, o nettare, o acqua; ma gli entomologi non sono ancora riusciti a scoprire come vengono trasmesse queste comunicazioni.

Il naso delle api

Le api impediscono agli estranei l’accesso nei loro nidi e non solo ai predoni, ma anche alle api di altri alveari. Si suppone che si riconoscano grazie all’olfatto. Sembra ormai accertato che ogni alveare possieda un odore speciale, per mezzo del quale le api dello stesso nido riescono a riconoscersi. Se un’ape sperduta cerca di penetrare in un alveare forestiero, essa viene subito accolta ostilmente e, se non si allontana, viene trafitta dal pungiglione delle legittime proprietarie di nido. Qualche volta succede che un’ape, di ritorno da un abbondante raccolto, col gozzo pieno di nettare, sbaglia casa e viene assalita dalle altre api. Allora sporge la proboscide e lascia gocciolare il dolce succo, che viene avidamente leccato dalle padrone del nido le quali, dopo questa specie di pedaggio, lasciano libero l’ingresso alla forestiera.
L’esistenza e l’importanza di un odore tipico delle api di uno stesso alveare vengono inoltre dimostrate dalle osservazioni che si sono fatte al tempo della sciamatura.
Quando uno sciame abbandona l’alveare, si dà quasi sempre il caso che esso si aggrappi e resti appeso su quel ramo sul quale uno sciame dello stesso alveare si era precedentemente collocato e dove l’apicoltore lo aveva raccolto.
Si è potuto provare che nemmeno una pioggia abbondante riesca ad allontanare quell’odore caratteristico.
Dov’è situato il naso delle api? O meglio, dove risiedono gli organi dell’olfatto? Possiamo dirlo con tutta sicurezza: sulle zampe. E nelle zampe si trovano pure le orecchie, o, meglio, l’apparato uditivo. (A. Canestrini)

Lo sciame

Ecco la prima tappa dello sciame, detta “sciame primario”, alla testa del quale si trova sempre la vecchia regina. Si ferma, d’ordinario, sull’albero o arbusto più vicino all’arniaio, giacchè la regina, appesantita dalle uova e non avendo riveduto la luce fin dal suo volo nuziale o dallo sciamaggio dell’anno precedente, esita ancora a slanciarsi nello spazio, e sembra aver dimenticato l’uso delle ali.
L’apicoltore aspetta che la massa delle api si sia ben agglomerata. Poi, coperto il capo d’un largo cappello di paglia, (giacchè l’ape più inoffensiva mette fuori inevitabilmente il pungiglione quando si impiglia nei capelli o si prede presa in trappola), senza maschera e senza velo, se ha esperienza, dopo aver immerso nell’acqua fredda le braccia nude fino al gomito, raccoglie lo sciame scuotendo vigorosamente al disopra di un’arnia capovolta il ramo che lo porta; e allora il grappolo vi cade pesantemente come un frutto maturo.
Ovvero, se il ramo è troppo forte, con un cucchiaio attinge dal mucchio colme cucchiaiate viventi e le sparge ove gli piace, come farebbe del grano. Nè deve temere le api che gli ronzano attorno e gli coprono in folla le mani e il viso: egli ascolta il loro canto di ebbrezza, che non somiglia al loro canto di collera. E nessun timore che lo sciame si divida, si irriti, si dissipi o scappi. L’ho detto: quel giorno le misteriose operaie hanno un’aria così festosa e fidente, che nulla potrebbe alterare; sono inoffensive per troppa felicità, sono felici senza che si sappia perchè: eseguono la legge.
Lo sciame resterà dov’è caduta la regina; e, fosse pure caduta sola nell’alveare, appena avvertita la sua presenza, tutte le api, in lunghe file nere, dirigeranno i loro passi verso la dimora materna. E mentre la più parte vi penetra in fretta, una moltitudine di altre, arrestandosi un istante sulla soglia delle porte sconosciute, vi formeranno circoli d’allegrezza solenne, con i quali usano salutare gli avvenimenti felici. Esse “battono a raccolta”, dicono i contadini. In un batter d’occhio, il ricovero che non speravano è accettato ed esplorato nei minimi nascondigli; la sua posizione nell’arniaio, la sua forma, il suo colore sono raffigurati e iscritti in migliaia di piccole memorie prudenti e fedeli. I punti di riferimento dei dintorni sono attentamente notati; la nuova città esiste già tutta intera in fondo alla loro immaginazione coraggiosa, e il suo posto è fissato nel cervello e nel cuore di tutti i suoi abitanti: s’ode riecheggiare nei suoi muri l’inno d’amore della presenza reale; e il lavoro comincia. (da M. Maeterlinck, La vita delle api).

Il linguaggio delle api

Le api hanno possibilità di comunicare fra di loro per informarsi l’un l’altra sulla località in cui si trova il cibo o sull’imminenza di un pericolo. Possiedono un linguaggio che si esprime attraverso figure tracciate col volo.

I nemici delle api

Molti sono i nemici delle api; e, nonostante tutta la loro attenzione e la loro perspicacia, a volte le api restano ingannate.
C’è, per esempio, la farfalla detta “testa di morto” che sa entrare nell’alveare simulando il ronzio dell’ape regina e ingannando così le sentinelle che stanno alla porta. Per premunirsi contro le incursioni di questo loro nemico, le api costruiscono un muro interno contro la porta, in modo che possono entrare le api, ma non gli insetti più grossi.
Se alla porta si presenta un’ape di un altro alveare, viene uccisa o cacciata, a meno che non porti miele, nel qual caso viene ben accolta.
A volte è una grossa chiocciola che entra tranquilla, sfidando i pungiglioni. Allora le api, che non ce la vogliono viva, la murano dentro il suo guscio, con un bel coperchio di cera, che lo tappa ermeticamente; così la chiocciola muore, se non è morta prima a forza di punture…
Se per caso il guscio della chiocciola è screpolato, lo rivestono tutto di cera affinchè nessuna cattiva esalazione venga dal cadavere chiuso nel nicchio.

Le api e il contadino (racconto)

Un contadino scozzese aveva una bella fattoria. In essa allevava cavalli, mucche, pecore, galline, conigli d’ogni sorta ed anche api. Perdeva veramente molte ore davanti alle arnie, però, in compenso, si poteva vantare di ottenere il miele più buono di tutto il vicinato, e moltissima cera.
Un giorno poi le api gli resero un gran servigio.
Egli stava presso gli alveari; con la vanga rimuoveva la terra nella quale avrebbe poi deposti semi da fiori; le api laboriose ronzavano; lavorava il contadino, lavoravano tranquille anch’esse; nessuna poi avrebbe mai cercato di pungere il padrone. Ma ecco che questi, rialzando il capo dalla vanga, si vide davanti tre sconosciuti armati di coltello che gli gridavano con voce minacciosa di consegnare tutto quanto aveva con sè.
Il contadino era un uomo forte e calmo. Si portò qualche passo indietro, davanti alle arnie: “Ho poco denaro con me” disse, “a signori come voi, vorrei consegnare qualcosetta di più…”
“Poche chiacchiere”
“E’ giusto, poche chiacchiere… e fuori i denari…” fece il contadino e, con la vanga, con mossa rapida, rovesciò di colpo una dozzina di  arnie.
Gli sciami, disturbati e inferociti, si levarono come una nube e si precipitarono non certo sul contadino, ma su quei tre figuri a cui non restò che darsela a gambe. Le api li inseguirono e dove poterono arrivare con i loro pungiglioni, si piantarono terribili.
Rossi, sfigurati, confusi; con mani, facce, colli gonfi e doloranti, i tre sciagurati non si poterono nascondere. La polizia li rintracciò facilmente, li fece medicare per bene, poi li passò dall’ospedale alla prigione che avevano meritata.
Il contadino riordinò le arnie con pazienza; ne ebbe più cura di prima. Ma si comprò anche un buon cane da guardia.

Dettati ortografici LE API E LE VESPE – Tutte le opere contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.

GLI ANIMALI DEL PRATO: dettati ortografici e letture

Dettati ortografici PRIMAVERA – Gli animali del prato. Una collezione di dettati ortografici sul tema “gli animali del prato e la primavera”, di autori vari, per la scuola primaria.

I cantori del prato
Non sono gli uccelli che preferiscono le verdi chiome degli alberi, ma le cavallette, i grilli. Quanto alle cicale, esse vivono un po’ sull’albero, un po’… sotto. Cavallette e grilli cantano preferibilmente di notte, le cicale alla luce solare. Ma è un canto per modo di dire, perchè la loro voce non è altro che la vibrazione di un organo speciale e non ha nulla a che fare con il canto.

Le cicale

Cominciano agli ultimi di giugno, nelle splendide mattinate; cominciano ad accordare in lirica monotonia le voci argute e squillanti. Prima una, due, tre, quattro, da altrettanti alberi; poi dieci, venti, cento, mille, non si sa di dove, pazze di sole; poi tutto un gran coro che aumenta d’intonazione e di intensità col calore e col luglio, e canta, canta, canta, sui capi, d’attorno, ai piedi dei mietitori. Finisce la mietitura, ma non il coro. Nelle fiere solitudini sul solleone, pare che tutta la pianura canti, e tutti i monti cantino, e tutti i boschi cantino…
(G. Carducci)

Animali del prato
Se guardiamo fra le erbe del prato, che brulichio di insetti, che viavai d’animaletti frettolosi, affaccendati, impauriti! Formiche, vespe, calabroni, farfalle e, nei buchi del terreno, i grilli canterini che fanno compagnia ai lombrichi aratori!

Il grillo
E’ l’ora in cui stanco di vagare l’insetto nero torna dalla passeggiata e rimedia con cura al disordine della sua tana. Dapprima rastrella i suoi stretti viali di sabbia. Poi fa un po’ di segatura che sparge sulla soglia del suo rifugio. Lima la radice di quella grande erba che gli dà fastidio. Si riposa. Poi carica il suo orologino. Ha finito? O l’orologio si è rotto? Di nuovo si riposa un po’. Rientra in casa e chiude la porta. A lungo gira la chiave nella delicata serratura. Sta in ascolto. Fuori, nessun allarme. Ma lui non si sente sicuro. E come una lunga catenella, la cui carrucola stride, scende in fondo alla terra.  Non si sente più nulla. Nella campagna muta, i pioppi si drizzano come dita nell’aria e indicano la luna.
(J. Renard)

Il maggiolino
Che disastro quando un bosco è invaso da questi formidabili distruttori! Non resta nemmeno una foglia, nemmeno una gemma. Tutto è sparito dentro il vorace stomaco di questi animaletti… ma per fortuna il maggiolino ha dei nemici: se si lascia ingannare dal sole invernale, sale sulla superficie, e qui il gelo sopravvenuto lo uccide. Se il contadino ara o zappa il terreno, mette allo scoperto le grosse larve bianchicce e allora che festa per le cornacchie, gli storni, le galline e tutti i pennuti che vanno a caccia di insetti!

Libellule, cicale, cavallette
Molte specie d’insetti infestano le nostre campagne. Alcuni, come la libellula, ci sono indirettamente utili perchè si cibano delle larve degli altri insetti. Altri, come la cicala, il grillo e la cavalletta, sono i gentili cantori dei prati. La cicala produce il suo stridulo canto mediante uno speciale apparato costituito da un insieme di membrane che, contraendosi e vibrando, producono la caratteristica risonanza. La cavalletta, quando è riunita in sciami numerosi, può produrre incalcolabili danni alla vegetazione.

Il maggiolino

E’ un insetto dal formidabile apparato masticatorio e dalle ali anteriori rigide, dure, le quali coprono quelle posteriori, membranose. Sotto le ali è nascosto il corpo dell’insetto: parte del torace e l’addome.
I maggiolini adulti fanno la loro apparizione in maggio: donde il nome. Appena la femmina ha posto le uova in un buco del terreno, muore. Qualche settimana dopo, dall’uovo si schiude una larva senza ali, fornita di sei zampe, la quale comincia a scavare lunghe gallerie sotterranee, nutrendosi delle radici che incontra. Si nutre e ingrossa notevolmente, per un periodo di tre anni. Allora la larva si nasconde in fondo ad una galleria e diventa ninfa.
Nel mese di settembre, la ninfa diventa insetto adulto. Ma ormai si avvicina l’inverno, e il giovane maggiolino rimane ancora sotto terra, fino alla primavera seguente. A primavera, i maggiolini assaltano gli alberi e divorano tutte le gemme, le foglie, gli arbusti teneri. Per fortuna, questa invasione avviene solo ogni tre o quattro anni, altrimenti poveri alberi!

La cavalletta

Il prato è una festa di colori. Le farfalle si posano con grazia sui fiori. Le cavallette invece non conoscono la cortesia. Prendono le misure e poi spiccano i loro grandi salti.
Guardiamo le tre parti del corpo della cavalletta. La testa ha due lunghe e sottili antenne e due occhi che guardano con fissità.
La cavalletta mangia foglie, steli e insetti tagliandoli con organi che assomigliano a una pinza. Il torace della cavalletta è sostenuto da due zampe.
Le due ali anteriori sono abbastanza dure e resistenti. Le due ali posteriori sono sottili e trasparenti. Quando una cavalletta è in volo, tutte e quattro le sue belle ali sono spiegate come le vele di un’antica nave, ma soltanto le ali posteriori si muovono e fanno da motorino.
L’addome non ha nè ali nè zampe: è formato da tanti anelli. La cavalletta non ha uno scheletro, ma il suo corpo è ugualmente protetto dalla pelle, che lo difende come una corazza.
La cavalletta respira con l’addome, ai cui lati si aprono alcuni forellini.
Le cavallette dell’Italia del Nord sono in piccolo numero e poco adatte al volo; nell’Italia insulare e nell’Africa si formano immensi sciami, che percorrono in volo centinaia di chilometri. Dove si posa questa nuvola di cavallette, ogni raccolto è divorato, distrutto.

Il grillo campestre

Al canto delle cicale si unisce, in campagna, e continua anche nelle serene notti d’estate, il canto del grillo.
Dapprima è un grillo solo, che lancia nell’aria la sua nota vibrante: cri, cri, cri… Poi un altro lo imita, poi un altro ancora: in breve, tutta l’orchestra è in azione,e la sinfonia si alza nel cielo.
Il grillo depone le sue uova, gialle, cilindriche, in un nido che è una meraviglia di meccanica. Immaginate un piccolo astuccio, aperto in alto da un foro circolare che funziona da coperchio. Quando il grillino si è formato, dà un colpo con la testa al coperchio, che si apre di scatto, come in certe scatole dalle quali, premendo una molla, scatta fuori il diavoletto. L’uovo rimane col coperchio appeso all’imboccatura. Il grillo cerca un rifugio sotto terra, dove passa l’inverno. Sotto terra è di colore pallido; e lavora attivamente, con la mandibola e con calci, e si fa strada nel terreno. Finalmente ne esce, e allora diventa di colore scuro. Corre intorno rapidamente, in cerca di cibo. E’ piccolo come una pulce, e le formiche ne fanno grande strage. In agosto è tutto bruno, e si è fatto un po’ più grandicello. Vive al riparo di una foglia morta, si scava la tana: zappa con le zampe anteriori, e con le posteriori spinge indietro il materiale. Entra nella terra, e ogni tanto torna fuori, a buttar via i detriti. Quando è stanco, si ferma sulla soglia della sua piccola tana, tenendo fuori la testa, le cui antenne vibrano continuamente.

La musica del prato

Esseri mostruosi dotati delle armi più potenti, più strane, più complicate; armati di veleni, di gas, di radar, di antenne; esseri mostruosi per la loro forza si aggirano in una intricata foresta dove è sempre in agguato la morte: questo è il prato. Eppure, tra tante lotte, c’è chi canta: il grillo. Come suona? Le due elitre (ossia le due ali anteriori) posseggono una nervatura marginale, rafforzata e dentata che rappresenta l’archetto, seguita da un’altra parte detta cantino. L’archetto dell’ala destra sfrega contro il cantino dell’ala sinistra e viceversa. Ne risulta quel dolce cri cri metallico.
Dove c’è musica, ci sono orecchie pronte ad ascoltarla: i grilli hanno le orecchie sulle zampe anteriori, come le locuste, così come gli altri animali le hanno nei punti più alti del loro corpo.

Cantano i grilli

Cantano cantano i grilli! La loro voce si spande per la campagna come un inno di gioia e dai rami rispondono gli uccelli. Il sole benefico ha maturato le messi; i campi di grano sono biondi come l’oro. Presto le spighe verranno recise e raccolte in covoni. Un bel giorno arriverà sui campi la trebbiatrice, la macchina miracolosa che separa i chicchi dalla pula e dalla paglia. Allora al canto dei grilli si unirà l’inno gioioso degli uomini.
(A. Stalli)

L’utile coccinella

La coccinella comune, riconoscibilissima per avere il corpo di forma quasi emisferica e le elitre di un bel colore rosso vivo con sette puntini neri, è uno degli insetti più utili all’agricoltura, in quanto, allo stato di larva, distrugge enormi quantità di parassiti delle piante coltivate, specialmente di afidi, noti più comunemente col nome di pidocchi delle piante.

Lucciola

E’ sera: brillano in cielo le stelle, ma anche sulla terra brillano ad intervallo qua e là delle piccole luci tremolanti: sono le lucciole, minuscole lampade viventi. Come tali insetti producono questa luce?
Essa viene emessa da due organi luminosi piatti che si trovano nell’addome e che appaiono come macchie bianche. Le lucciole accendono e spengono a piacimento il loro lumino. Se ne stanno nascoste fra i cespugli che appaiono illuminati da una luce tenue: non appena però avvertono un pericolo smorzano il lume: ecco perchè quando qualcuno le cattura esse non emanano più luce.
Sverna riparata sotto le pietre, fra le radici degli alberi o fra foglie secche.

Il ragno
Un bimbo, mentre passava vicino a una siepe, ruppe con la sua frusta una grossa tela di ragno. “Bravo!” – disse subito il ragno con una voce stizzita – “Ti vorrei vedere, però, a rifare questa tela!”. Il ragno aveva ragione: è più facile disfare che fare.
(G. Fanciulli)

Le lucertole
Serbiamo il nostro rispetto anche alle lucertole, che, come tanti animali, sono le cacciatrici d’insetti, quindi di aiuto all’uomo. Chi non conosce la lucertola grigia, delle muraglie assolate? Spia le mosche, rovista da un buco all’altro per afferrare ogni insetto che passi. E’ la protettrice delle siepi e delle piante rampicanti. La vediamo distendersi al sole, immobile, ma al minimo rumore sparire, tornare, ripiegarsi su se stessa, infilarsi rapida in un crepaccio.
(E. Fabre)

Animali del prato

Nel prato volteggiano le farfalle: farfalle bianche, variamente colorate, leggiadre, ma tutte indistintamente dannose. Sono utili solo indirettamente per l’impollinazione dei fiori.
La cavalletta, che deve questo nome alla forma della testa che assomiglia a quella del cavallo, e forse anche alla sua abilità nel fare i salti, può distruggere i raccolti in quelle zone dove si abbatte in foltissimi sciami. Osserviamo le sue zampe posteriori e ci renderemo conto del perchè può fare dei salti così alti. Anche gli altri animali saltatori (rana, canguro, coniglio, lepre) hanno le zampe posteriori molto più lunghe delle anteriori.
Il grillo dei prati, o grillo canterino, è nero con una macchia chiara sul dorso. Un suo cugino abita anche sotto le pietre dei caminetti, nei forni, nei granai. Il suo tremulo canto si leva nelle notti serene.
Amante del sole è invece la cicala, che stordisce col suo canto nelle calde giornate di agosto. Quello che canta è soltanto il maschio, mentre la femmina si limita a deporre le uova entro un foro che ha scavato, con uno speciale succhiello, nel tronco di un albero.
Dopo qualche tempo nascono le larve che scendono dall’albero e vanno a nascondersi nel terreno dove vivono qualche anno succhiando gli umori delle radici. Infine tornano sugli alberi dove, dalla pelle che si spacca, esce l’insetto perfetto.
Le voci di questi insetti hanno diverse denominazioni: zirlare, frinire, cantare, ma è singolare che non si tratta di voce nel senso proprio della parola. Essi posseggono un organo vibratorio, una specie di cassa armonica nel torace o nell’addome, con cui riescono a produrre quelle vibrazioni che comunemente chiamiamo canto.

Gli insetti

Gli insetti sono tutti fuori. Alcuni di essi hanno compiuto le loro metamorfosi e ora volano di fiore in fiore, per succhiarne la goccia di dolcissimo nettare, nascosta in fondo ad ogni calice. Sono farfalle, vespe, api, calabroni. E dappertutto si sente un ronzio sonoro che sembra la voce stessa della primavera.

Animali del prato

Quante minuscole vite si agitano fra le erbe del prato! Intere tribù di coleotteri bruni, verdi, con le elitere screziate o cangianti; cavallette dalle lunghissime zampe, coccinelle con il grazioso vestito rosso a puntini neri, bruchi che sbucano dalla terra, lenti e molli, grossi scarabei affaccendati a far pallottole e infine, interi eserciti di insetti quasi invisibili. Più in alto, altri insetti volano instancabilmente a visitare i fiori: farfalle bianche e colorate, api frettolose, vespe ronzanti e stizzose, bombici rumorosi. E ognuna di queste piccole vite, che forse noi distruggiamo con indifferenza, racchiude un miracolo di perfezione e di amore.

Animaletti

Le api, irrequiete e vivacissime, passavano dall’uno all’altro fiore facendo bottino di polline e di nettare; le vespe andavano tagliando, coi loro strumenti da falegname, il legno per fabbricare la loro casa; i neri calabroni rodevano le corolle per cavarne fuori i pistilli. Un mondo di piccoli coleotteri mangiava allegramente i petali; e ognuno di essi aveva scelto il suo fiore prediletto. Quanto brulichio, quanto movimento, quanta attività!
(P. Mantegazza)

Il maggiolino

Uno dei flagelli più temibili dell’agricoltura è il  maggiolino, piccolo grazioso insetto, che divora le foglie di molti alberi e specialmente degli olmi.  Negli anni in cui  i maggiolini sono poco numerosi, non si scorgono quasi i loro danni; ma se appaiono in più legioni sterminate, si vedono intere parti di giardino o di bosco del tutto spoglie di verde e che, nel cuore dell’estate, offrono aspetti di un paesaggio invernale.
Di solito gli alberi così devastati non muoiono: a stento però riprendono l’antico vigore e quelli dei frutteti non danno frutti per un anno o due.
(L. Figuier)

La larva del maggiolino

E’ un grosso verme panciuto, dall’andatura pesante, di colore bianco con la testa giallastra. Le sei zampe gli servono, non già per correre alla superficie del suolo ma per strisciare sotto terra. Le forti mandibole sono adattissime a trinciare le radici delle piante. La sua testa, onde scavare con maggior vigore, ha per cranio una calotta di corno. L’alimento che appare in nero, attraverso la pelle del ventre, lo appesantisce tanto che non può stare sulle gambe e si corica indolentemente sul fianco.
(H. Fabre)

La cavalletta

Che sia il carabiniere degli insetti? Tutto il giorno salta e si accanisce sulle tracce di altri insetti che non riesce mai a prendere… Le erbe più alte non la fermano. Nulla la spaventa, perchè ha gli stivali delle sette leghe, il collo del toro, la fronte geniale, le ali di celluloide, due corna diaboliche…
Ma a sera… a sera caccia per davvero: fa il suo pasto più prelibato. Povere lucciole! Col loro lumino si tradiscono e si fanno prendere e sventrare.

La libellula

Tra canne e salici, che circondano lo specchio d’acqua scintillante al sole, s’affaccendano in agile volo grosse libellule: volteggiano al disopra dell’acqua e si posano sulle punte delle canne e dei giunchi, mettendo in mostra i loro esili capi azzurri o verdastri. Le libellule vivono esclusivamente di preda. Nel loro rapido volo, esse afferrano la vittima nell’aria, un piccolo insetto e cominciano subito ad addentarla.
(A. E. Brehm)

La mantide guerriera

Con le zampette anteriori sollevate come se stesse pregando, la bellicosa mantide resta a lungo immobile. Una cavalletta, ignara del pericolo, le si avvicina.  Fulminea, la mantide affonda i suoi pungiglioni acuminati nel corpo della vittima. La tiene stretta tra le sue zampette seghettate e la divora. Le mantidi nascono battagliere. Incominciano a bisticciare e a combattere tra di loro prima di mettere le ali.  Qualche volta esse combattono fino alla morte. Alla fine dell’estate, le femmine danzano la danza della morte davanti ai maschi. Poi piombano loro addosso e li uccidono.

La lucciola

Nella quieta oscurità della notte c’è un lumicino che s’alza, scende, vaga sul prato, scompare, riappare sulla siepe, s’allontana… Ora guizza sul ruscello, ora gira sull’aia; si direbbe una stellina vagabonda, venuta a danzare sul prato ove grilli e ranocchi hanno intonato il loro concerto notturno.
Invece non è che una luccioletta che esce a godersi il fresco della notte e si rischiara la via col suo lumicino.
(A. Buzio)

Insetti luminosi

Gli indigeni di alcune regioni dell’America tropicale hanno a loro disposizione un mezzo molto economico per illuminare la notte: si servono infatti di un insetto, il piroforo, che emette luce vivissima.
La sua luce è di due colori diversi: dal torace traspare un bel verde, mentre l’addome risplende di luce arancione.
Molto più modeste sono le lucciole europee, il cui bagliore biancastro, emesso dall’addome, serve solo a punteggiare i prati estivi come per una fantastica fiaccolata.

Lucciole

Nel nero della notte non si distingue più il campo di grano; ma, nel buio, come se caduto dal cielo rimasto deserto, ecco un vortice di piccole stelle inquiete. Le lucciole! A milioni palpitano sulla distesa delle messi addormentate. Vagano, alte e basse, si accendono  e si spingono fra i rami, piombano come gocciole d’oro tra l’erba muta. Lontano, dal bosco, i gorgheggi dell’usignolo, il canto dei ranocchi; nell’aria calda e quieta il profumo possente del fieno maggese; e giù per la strada invisibile, una voce di bimbo scoppia all’improvviso:
“Lucciole lucciole dove andate?
Tutte le porte sono serrate,
sono serrate a chiavistello
con la punta del coltello…”
Si commuove questa voce chiara della nostra infanzia, dei nostri cari giorni perduti:
“Lucciola, lucciola, vieni da me
io ti darò il pan del re,
il pan del re e della regina,
lucciola, lucciola piccolina…”.
(A. Soffici)

Libellule, cicale e cavallette

Molte specie di insetti infestano le nostre campagne. Alcuni, come la libellula, ci sono indirettamente utili perchè si cibano delle larve degli altri insetti. Altri, come la cicala, il grillo e la cavalletta, sono i cantori dei prati. La cicala produce il suo stridulo canto mediante uno speciale apparato costituito da un insieme di membrane che, contraendosi e vibrando, producono la caratteristica risonanza. La cavalletta, quando è riunita in sciami numerosi, può produrre incalcolabili danni alla vegetazione.
(M. Menicucci)

Le palline dello scarabeo

Lo scarabeo stercorario sembra che si diverta ad arrampicarsi su piccoli mucchietti di terra e poi ruzzolare giù. Questi scarabei sono anche tenaci lavoratori e hanno una gran cura delle loro uova. La madre e il padre ammucchiano dei pezzi di sterco fresco di pecora e, modellandoli con le loro zampette, ne fanno una pallottolina grassa come una pillola. Nel centro della palla la madre depone un uovo. Poi, camminando entrambi all’indietro, la fanno rotolare sul terreno, il padre spingendo e la madre tirando. Man mano che la palla rotola, la sabbia del terreno forma intorno ad essa una crosta dura. Allora la madre scava una buca, e i due scarabei vi fanno discendere la palla. Quando l’uovo si aprirà, l’insetto appena nato potrà nutrirsi con le provviste di cibo contenute nella palla. La madre e il padre possono così lasciarlo al sicuro e ricominciare a lavorare per un altro uovo.

Un nido sotterraneo

La femmina del grillotalpa si serve delle sue forti zampe anteriori per scavarsi una tana come fa la talpa. Essa depone le uova nel fondo della galleria e resta a sorvegliare finché i piccoli sono nati. Poi rimane a guardia dell’entrata del nido, pronta ad attaccare qualsiasi insetto nemico che tentasse di farvi irruzione.

Dettati ortografici PRIMAVERA – Gli animali del prato – Tutte le opere  contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.

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