Dettati ortografici IL GRANO

Dettati ortografici IL GRANO, di autori vari, per bambini della scuola primaria. Difficoltà ortografiche miste.

Il campo, di lontano, appare come una distesa di pallido verde. Ci avviciniamo, raggiungiamo la proda; vi crescono ciuffi di erbe nuove, che si fanno strada fra i fuscelli secchi, rimasti per tutto l’inverno sul terreno. Il campo è vasto: in righe dritte, ben allineati, si levano gli steli, di un color verde ancora un po’ tenero, ma già vigorosi. Si direbbero, ora, steli d’erba senza nome, ma noi sappiamo quanto invece siano preziosi. Non si calpesti nemmeno uno di quegli steli. Essi cresceranno, metteranno spighe; al sole di giugno offriranno la messe del bel frumento dorato. E, più tardi, diventeranno pane, saranno il dono quotidiano che pare benedizione alle mense frugali.

Un mattino di primavera, un germoglio verde mise la testina fuori della terra umida. Il sole splendeva così caldo che la terra fumava.  E su in alto nell’azzurro cielo, un immenso stuolo di allodole cantava. Il chicco di grano si guardò intorno inebriato. Era proprio tornato in vita, rivedeva il sole e sentiva cantare le allodole. Ricominciava a vivere. E non era solo, perchè intorno a lui, nel campo, vedeva altri verdi germogli, un esercito intero, e in esse riconobbe i suoi fratelli. Allora la giovane pianticella si sentì invasa dalla gioia di esistere e le parve di dovere, in atto di pura riconoscenza, alzarsi fino al cielo e accarezzarlo con le sue foglie. (G. Joergensen)

Il grano è alto. La spiga è fatta e ondeggia al vento con le sue lunghe ariste e i chicchi bene allineati. Fra poco sarà pesante, piegherà il capo, diverrà tutta bionda e turgida. Allora la falce verrà a mieterla per il pane di domani. (B. Ardesi)

Un’estate senza le spighe che dondolano sotto la spinta del vento, non è un’estate. Proprio così: la messe bionda è il simbolo di questa stagione dalle lunghe giornate dilatate dal sole abbagliante. Otto mesi fa, i solchi erano aperti a ricevere il seme, oggi gli uomini si recano a raccogliere i frutti della terra generosa. (N. Nason)

Guarda com’è bella! Il sole l’ha dorata. I suoi chicchi sono disposti con ordine e ciascuno è coperto di leggere squame. Tutti hanno un ago sottile. Si chiama arista ed è il pugnale che li difende dagli uccelli troppo golosi. I suoi chicchi sono numerosi e vengono tutti da quell’unico che fu seminato nell’autunno. Ricordi? (D. Scotti)

La giovane sposa, col cesto sul capo, si affretta a portare la cena ai lavoratori. Stende la tovaglia sopra la terra; leva dal cesto il grande piatto della lattuga con le cipolle fresche; e intorno dispone le forcine, e i grossi pani e i fiaschi del vino acidetto. Riposano gli uomini, riposa la terra. (A. Panzini)

Ritto in mezzo al campo, stava lo spaventapasseri. Portava un cappello vecchio, una camicia, che un tempo doveva essere stata bianca, un paio di calzoni rattoppati e un fazzoletto rosso intorno al collo. Era solo lo spaventapasseri. (G. Ajmone)

Il campo di grano ondeggia al passare del vento; sembra un mare d’oro. Il contadino guarda le messi e sorride. Ancora pochi giorni, e raccoglierà il frutto delle sue fatiche. Ancora pochi giorni, ed anch’io spero di ricevere il compenso del mio lavoro: la promozione e la felicità delle vacanze. (M. Frati)

Sembra che le cicale nascoste fra gli alberi invochino il sole, perchè non le bruci vive. Non si muove una foglia; in lontananza le case della campagna tremolano nella gran luce. In quest’ora nessuno si azzarda a lasciare il fresco rifugio delle stanze. Soltanto un carro, laggiù, rotola all’ombra dei pioppi, lungo il canale. Il rumore delle ruote riempie tutta la campagna insieme con il frinire pazzo delle cicale ed al cinguettio continuo dei passeri. Poi, una mattina all’alba, sono cominciati i lavori della trebbiatura: sull’aia il gran polverone glorioso nel quale si muovono le figure brune dei contadini. Il canto delle cicale, sui pioppi del torrente, è soverchiato dall’iroso frastuono della trebbiatrice. Attorno al motore caldissimo, puzzolente d’olio e di nafta, si aggira il meccanico, asciugandosi ogni tanto i rivoli di sudore che gli scendono per la nuca e sul viso. Il sole si arrampica su per l’arco del cielo e l’afa comincia  a gravare sui campi. Verso mezzogiorno i contadini si rifugeranno all’ombra del portico, per ristorarsi un poco. (A. Lugli)

Il frumento, questa pianta benedetta che di dà il pane, porta la sua pesante spiga in cima a un fusto abbastanza lungo per allontanare i chicchi dalla polvere del terreno, abbastanza sottile per crescere in ciuffi folti senza dar noia ai vicini, abbastanza robusto per sostenere il peso dei semi, abbastanza elastico per piegarsi al vento senza rompersi. Questo insieme di qualità preziose è dato dalla forma speciale della paglia. Invece di farsi un fusto pieno, il frumento se lo fa vuoto. (E. Fabre)

il grano, con un impeto di forza, si affretta a compiere il ciclo della sua breve vita, finchè nei giorni di giugno le spighe si piegheranno. La rondine pare ripetere col suo grido stridente all’uomo: “Lavora, lavora il tuo grano, rincalza il crespo, strappa le erbacce”. La lucciola risplende di prima sera, volando silenziosa per tutta la distesa del grano; e la cicala, poi, canta nei grandi pomeriggi estivi sopra le spighe fiorenti. La rondine, la lucciola, la cicala accompagnano la vita del grano. E così tre fiori fanno al granaio ghirlanda: il giglio dei campi, i fiordalisi e i papaveri di fiamma. (A. Panzini)

Guardate la spiga di grano: ha in capo una corona di cento punte. E’ davvero la regina dei campi. Tutte le altre biade, tutti gli altri frutti sono meno belli di lei. E’ la piuma d’oro della terra. Essa è la prediletta del contadino che le presta le sue fatiche più dure. Ara con il pesante aratro per fare al seme un letto soffice e profondo, per difenderlo dal gelo. L’aiuta a crescere rompendo con la zappa la crosta della terra, che l’inverno ha indurito. Le dà il nutrimento di concime, perchè venga su robusta. E quando è fatta adulta, trema per lei se vede passare nel cielo una nuvola nera. Matura e dorata, egli va a raccoglierla e per tagliarla l’abbraccia e si china un poco come per dirle: “Perdonami se ti faccio male. Lo sai che ti voglio bene”. (R. Pezzani)

I papaveri hanno invaso il campo di grano. Sono un esercito. I soldatini indossano la camicia rossa e non fanno male a nessuno: la loro spada è una spiga. Il vento li agita: i soldatini sembrano correre nel campo conquistato. Quando poi il vento tace, ogni papavero si attarda al margine del solco col fiordaliso, suo compaesano, che indossa la tuta azzurra dell’operaio. (N. Salvaneschi)

Mi ricordo di aver passeggiato, quando è vicino il raccolto, per le campagne piene di frumento già maturo e bronzino. Sentivo nell’aria un odore di pane fresco e il contadino mi diceva, con l’aria di chi possiede un gran segreto, che anche per quell’anno non si sarebbe morti di fame. Infatti bastava guardar giù per vedere un mare di spighe, fra le quali frusciava l’alito caldo del mezzogiorno, piegarsi, incresparsi, prendere a vicenda il colore dell’oro, dell’argento e mandare scintillamenti, come vi fossero in mezzo delle lucciole. Fra gambo e gambo, cresce il papavero scarlatto, e sugli orli, la viola azzurra e la margherita; ronzano i mosconi, si alzano dalla strada nuvoli di polvere e schiamazzano centomila cicale o più, al chiasso che fanno. (E. De Marchi)

Si avvicinano i giorni della mietitura: essi hanno una solennità di attesa. Per le campagne non si parla d’altro. Un gran rito si compie. Fluttuano ancora per i campi le spighe con lieve fruscio di seta e un balenare di verde. Il granello, levato del suo involucro e spremuto tra le dita, è ancora un umore bianco. (A. Panzini)

Dice il proverbio: “Giugno, la falce in pugno”. Per fare cosa? Per mietere il grano, che ormai è maturo. Quanta fatica è costato! Il contadino ha arato il campo, lo ha seminato, concimato, ripulito dalle erbacce. Ma ora è ripagato con tanto oro. Il grano maturo sembra proprio oro. E’ più prezioso dell’oro. L’oro non si mangia, ma col grano si fa il pane, che è il nutrimento di tutti. (P. Bargellini)

Di fronte a me la collina tocca la curva linea del cielo, le piccole basse nubi, l’ampio glorioso sereno. Tre falciatori la vanno a gran forza tosando. Calzonacci di fustagno, andanti. Fusciacca, rossa come il sangue, intorno alla vita. Camicia aperta sul collo e sul petto, gonfia d’aria tremante. Maniche rimboccate su, oltre il gomito. Braccia come stanghe di vecchio rame. Come le larghe mani abbrancano la lunghissima falce! Come l’avventano, ampia, impetuosa, balenante nell’erba, con una mano afferra la lama luccicante, con l’altra attentamente e fortemente, or dall’alto, or dal basso, l’affila. (G. Zoppi)

Rocco mieteva, mieteva. Passava la falce al piede del grano alto, con una frequenza uguale di colpi come se la stanchezza non gli vincesse il braccio mai. La terra ardeva sotto; le messi mandavano vampate soffocanti. Ed egli mieteva, con gli occhi abbarbagliati dal lampeggiare continuo della falce, con le mani che gli pareva volessero scoppiare. Non finiva mai quel campo: le spighe ricrescevano appena tagliate. Gli altri mietitori, qua e là si trascinavano innanzi taciturni, senza un canto, senza una parola. (G. D’Annunzio)

La raccolta del grano era nel suo massimo ardore. Il campo sconfinato d’un giallo luccicante era limitato, solo da una parte, dall’alta, azzurreggiante foresta. Tutto il campo era coperto di covoni e di gente. Nell’alto, folto grano si vedeva qua e là, sul campo mietuto, la schiena curva di una mietitrice, lo sbatter delle spighe, quando essa le prendeva tra le dita; una donna all’ombra e i covoni dispersi qua e là per la seminagione. Dall’altra parte contadini ritti sui carri affastellavano i covoni e sollevavano polvere sul campo arso, rovente. (L. Tolstoj)

Il grano è una distesa d’oro fra strada e argine. Appena si muove, a quel venticello che porta l’alba, la peluria delle ariste trema e fa un suono leggero. A mezzogiorno, invece, pare che dica al contadino: “taglia, taglia”. E il contadino, sentendo questa voce, se, come accade, s’è posato all’ombra di un ulivo, col cappello sulla faccia, dopo sette ore di fatica, riapre gli occhi, gli par passato chissà quanto tempo e ripiglia la falce. (G. T. Rosa)

Il macchinista ha fatto ben presto ad avviare il motore, la cinghia è stata subito innestata, sotto alla trebbiatrice che già palpitava han disteso un ruvido panno a raccogliere quel poco che la macchina avrebbe lasciato perdere dagli ingranaggi; e l’uomo è subito montato su. Il contadino porgeva un covone dopo l’altro, accanto alla tramoggia; con un falcetto un altro tagliava un legaccio, e il primo infilava il covone per il capo, nella bocca della tramoggia… Solo il macchinista se ne stava imperioso, una gamba appoggiata al suo sussultante motore. (G. Titta Rosa)

L’estate è la stagione dei raccolti. Sotto il sole d’oro tutto diventa d’oro. Il grano biondeggia nei campi. L’erba falciata forma cumuli profumati. SI raccolgono i frutti dell’anno. Perciò  tutti sono contenti. Anche i bambini mietono dopo la loro fatica. Ognuno può dire: “Ho arato lungo le pagine dei quaderni. Anch’io ho seminato fra le righe.” Ed ecco che su quei solchi sono sbocciati e maturati buoni frutti. (P. Bargellini)

I seminati erano già alti, pallidi di un sentore di grano e illuminati sfarzosamente da papaveri d’ogni grandezza, il cui calice traboccava luce rossa nell’aria, tra le spighe e addirittura nell’interno del solco. Impolverati d’argento, a intervalli regolari, gli ulivi avevano l’aria di persone che si fossero fermate al richiamo di qualcuno rimasto indietro, per aspettarlo; il viale saliva verso un poggio su cui sorgeva una casina gialla dalle persiane verdi con accanto una fattoria dal muro biancastro crivellato di porte e finestre nere; a destra del viale, verdissimi, lucidi, rinfrescanti l’aria col loro alito di fontana si stendevano i giardini di limoni su su fino al poggio… V. Brancati

 La messe

Tutto il grande campo di grano color verderame era zeppo di spighe diritte; lassù, nel cielo azzurro, c’era il sole raggiante e tutte le allodole cantavano dallo spuntare dell’alba fino a sera. Dopo il tramonto, la rugiada cadeva dolce come un’onda rinfrescante sul grano infiammato dal sole e la grande luna d’oro splendeva mitemente sui campi che maturavano. (C. Joergensen)

 La semina del grano

Il grano, involandosi dal pugno, brillava come faville d’oro e cadeva sulle porche umide, ugualmente ripartito. Il seminatore avanzava con lentezza, affondando i piedi umidi nella terra cedevole, levando il capo nella santità della luce. Il suo gesto era largo, sapiente; tutta la sua persona era semplice, sacra, grandiosa. (G. D’Annunzio)

Il grano

Quasi certamente la prima pianta coltivata fu il grano. L’uomo era ancora rivestito di pelli e di corteccia d’albero quando scoprì che i granelli di una spiga che egli aveva lasciato cadere nel terreno, erano germogliati e avevano dato origine ad altre spighe uguali. Da quel giorno sono passati migliaia e migliaia di anni, ma da allora il pane fu il perno intorno a cui si sviluppò la civiltà mediterranea.

Il grano

Il chicco di grano  è caduto nel solco e fra poco germoglierà. Da quel piccolo chicco nascerà una piantina che a maggio metterà la spiga. Il vento trasporterà il polline da un chicco all’altro e la spiga allora sarà granita. Il sole la dorerà e la farà maturare. Il bel grano d’oro sarà mietuto e trebbiato. Con la farina che l’uomo saprà ricavarne si farà il buon pane quotidiano.

Grano maturo

Si vedeva un mare di spighe fra le quali frusciava l’alito caldo del mezzodì; piegarsi, incresparsi, prendere a vicenda il colore dell’oro, dell’argento e persino del latte, e mandare scintillamenti come se vi fossero in mezzo delle lucciole. Fra gambo e gambo cresceva il papavero scarlatto, e sugli orli, la viola azzurra e la margherita. (E. De Marchi)

Le speranze del contadino

Il contadino spera quando semina il grano, spera quando vede il primo biondeggiare delle spighe, spera quando i primi fiori della vite spandono il loro profumo e attraverso una fiorita corona di speranza, porta al granaio le messi, alla botte il mosto, alla cucina i legumi dell’orto. (P. Mantegazza)

Il grano

Gli uomini trovarono un’erba dal lungo stelo, che da un seme solo fa tante spighe ed ogni spiga tanti chicchi, i quali macinati, danno una polvere così bianca, così molle e queste, intrisa e rimenata e cotta, dà un cibo così soave, così forte! Quell’erba è la divina vivanda che di fa vivere: il pane! (G. Pascoli)

Il grano

Il grano è una delle piante più coltivate fin dai tempi antichi. Quando l’uomo decise di coltivare la terra forse furono semi di grano che egli gettò nel terreno. Da quel giorno lontano, i nostri campi ogni anno si coprono della preziosa messe che dà all’uomo il nutrimento necessario.

Il fiore del grano

La pianta benedetta, che ci dà il pane, ha fiori modesti. Facilmente potete scorgere tre stami pendenti, con l’antera, doppio sacchetto, ripiena di polline. La parte principale del fiore è l’ovario panciuto che, maturato, diventa un chicco di grano. E’ tale il piccolo, modesto fiore che ci fa vivere. (Fabre)

Il frumento

Seminato in ottobre – novembre, dopo il lavorio sotterraneo che ha sviluppato le radici, più tardi il grano spunterà fuori dal terreno in tanti fili teneri e versi. Da queste piantine si svilupperà la spiga che, in maggio – giugno diverrà tutta dorata. E ai primi di giugno, quando le cicale cominceranno a far sentire il loro canto monotono e assordante, le spighe cadranno sotto la falce dei  dei  mietitori. Il buon pane è assicurato.

Il grano

In autunno si semina, a primavera germoglierà. Al principio dell’estate quando il sole è tutto d’oro, il grano è maturo. Pare un mare dorato che il vento fa ondeggiare. Le bionde spighe cadranno sotto il falcetto del mietitore.

Esercizi di vocabolario
Grano: granaio, granaiolo, granaglie, granito, granire, granagione, granone, granuloso, sgranare, raggranellare, granivoro, …
Il grano può essere: seminato, spuntato, germogliato, spigato, maturo, mietuto, trebbiato, conciato, macinato, …
Il grano nasce, spunta, verzica, accestisce, fa lo stocco, fa la spiga, fiorisce, granisce, è in latte, biondeggia, si miete, si trebbia, si macina, si schiccola, si sgrana, si concia, si spigola, si vaglia, si monda, …
Spiga, mannello, covone, bica o barca, pula o loppa, paglia, stoppia, …
Falciatrice, mietitrice, trebbiatrice, spulatrice, vaglio, mulino, setaccio, …
Modi di dire: non avere un grano di giudizio; un granello di sabbia; un grano d’oro; un grano di pazzia; chi ha il grano non ha la sacca; mangiare il proprio grano in erba.

Il grano
Dio aveva già detto all’uomo scacciato dal paradiso terrestre: “Tu guadagnerai il pane col sudore della fronte”. Guadagnare il pane significò, per l’uomo, conquistarsi la possibilità di vivere.
L’uomo preistorico era frugivoro, cioè si nutriva di frutti. Grosso, irsuto, pesante, si esprimeva a mugolii con i suoi simili, scambiando con loro le notizie che lo interessavano: dove trovare, cioè, i frutti che gli piacevano tanto.
Poi, qualche volta, i frutti gli mancarono. Forse l’inverno era stato più rigido, forse il terreno dove in quel momento si trovava, era arido e sabbioso. In queste condizioni l’uomo subì un brutto periodo di carestia. Divenne magro e famelico. E poichè la fame è uno sprone, forse tra i più potenti, l’uomo imparò dagli animali ad aggredire altri esseri viventi che, con le loro carni, potevano sfamarlo. Il sapore della carne non dovette piacergli, abituato com’era a quello dolce e succoso dei frutti, ma vi si adattò. In seguito, seppe scegliere, fra gli animali, quelli che avevano la carne più tenera e saporita. L’uomo divenne cacciatore. Divorava la sua preda così come la trovava, ancora sanguinante e cruda, naturalmente. Non aveva ancora scoperto il fuoco.
La carne era un nutrimento forte, adatto ormai a quell’essere che aveva tante abitudini in comune con gli animali, ma spesso l’uomo aveva bisogno di alternare quel forte sapore non soltanto con la polpa succosa e fresca e soave dei frutti, ma con qualcosa di farinoso, di gentile, che temperasse piacevolmente il sapore della carne: il granello di una spiga che cresceva spontaneamente nei campi, prima verde, poi dorata, ma sempre tale da soddisfare il suo gusto.
Quei granelli gli piacquero tanto che egli li raccolse e li ammucchiò nella grotta che gli serviva da abitazione. Aveva imparato che non in tutte le stagioni gli era possibile trovarne.
Ma quella grotta dove il vento aveva portato un po’ di terra, era umida. Un giorno, l’uomo si accorse che quei granelli avevano germogliato. Li gettò via, irritato che la sua provvista di fosse guastata.
Tornò sul luogo dopo qualche mese. Accanto alla grotta, crescevano, alte, le spighe che l’uomo riconobbe. Non solo, si ricordò che in quel punto erano caduti i granelli germogliati…
La mente dell’uomo lavorava, lavorava… L’uomo raccolse i granelli di quelle spighe e li lasciò di nuovo cadere nel terreno. Questa volta non si mosse da quel luogo. Sorvegliò per vedere che cosa succedeva. Vide spuntare le piantine verdi e tenere e le difese dagli animali che ne erano ghiotti.. Le piantine divennero alte, misero la spiga. L’uomo resistette alla tentazione di mangiarne i granelli. E le spighe divennero d’oro. I granelli erano ormai maturi, l’uomo li raccolse nel palmo della mano e li osservò: erano identici a quelli che aveva seminato in un giorno lontano. Li mostrò alla sua donna e ai figlioletti, li assaggiò, poi indicò la terra e la donna capì. Non sarebbero morti di fame; non avrebbero dovuto vagare continuamente alla ricerca dei frutti, non sarebbero stati obbligati, per saziarsi,  a uccidere l’animale che fuggiva davanti a loro. Con quei granelli avevano in pugno il destino. Erano pochi granelli dorati che facevano, però, di un essere selvatico quasi come le bestie, un uomo che in quel momento muoveva il primo passo sul cammino della civiltà.
L’uomo divenne agricoltore, pur restando ancora nomade. Seminava i campi, aspettava che le messi maturassero e, per far ciò, aveva imparato a costruire alcune capanne di frasche, dato che le caverne, nei campi, non sempre si trovavano. L’uomo ebbe una casa sua, fatta con le sue mani. Ma quando i campi, ormai stremati dai successivi raccolti dettero un prodotto insufficiente, l’uomo li abbandonò per andare a cercarne altri non ancora sfruttati. Si portava dietro i greggi perchè aveva imparato ad allevare gli animali che lo dovevano nutrire.
Non mangiava più i granelli, così come la spiga glieli dava. Aveva ormai scoperto il fuoco e imparato a cuocervi sopra la carne dei capretti e delle lepri uccise a caccia. Ora stritolava i granelli fra due sassi e ne ricavava una farina bianca. Con questa farina, la donna impastava una rozza focaccia che, anche così bruciacchiata e nera, aveva un ottimo sapore.
Infine, l’uomo non fu più nomade. Costruì i suoi villaggi e coltivò i campi che li circondavano.
Il compito di seminare il grano era affidato alla donna che imparò a servirsi di un pezzo di legno con cui scavava un buco nel terreno per lasciarvi cadere il seme: un lavoro faticoso e lento. Per renderlo più facile, la donna chiese all’uomo di legare due pezzi di legno insieme: quasi una croce. Premendovi sopra col corpo, la donna riusciva a tracciare un solco nel quale, poi, avrebbe gettato il seme.
L’uomo, vedendo quel lavoro, si spaventò. Temeva di ferire la terra che egli considerava sua madre e che aveva paura di offendere. Ma la donna lo convinse del contrario. La terra gradiva quel trattamento. Infatti, dava maggior copia di spighe.
L’uomo si lasciò convincere, pur continuando ad offrire sacrifici alla buona terra che gli si mostrava così benigna.
Infine attaccò, a quell’arnese primitivo, un animale. Fu un bestione che egli aveva domato con molta fatica; un animale robusto che ancora mal si assoggettava alla schiavitù: il toro.
La civiltà avanzava. Ogni villaggio aveva ormai il suo mulino. Questo era formato da una grande pietra fissa sulla quale girava un’altra pietra, grossa e pesante: mulini che ancor oggi si trovano in qualche paese meno progredito. Li usarono anche i Romani, i quali vi attaccavano gli asini e i cavalli che bendavano per costringerli a girare. E qualche volta, vi attaccavano anche i prigionieri di guerra e gli schiavi.
Poi i Romani inventarono i mulini ad acqua. La macina era collegata a una ruota mossa dalla forza di un torrente o di un fiume.
Nel Medioevo si diffuse l’uso dei mulini con grande ruote munite di tele che utilizzavano la forza del vento; sono ancora in uso in alcuni paesi.
Oggi, i mulini sono complicati e perfetti, azionati dalla forza elettrica, attrezzati in modo tale che non solo procedono alla macinatura, ma anche alla selezione dei semi e alla setacciatura della farina.
Anche il pane, dalla rozza focaccia cotta tra due pietre, ha fatto una lunga strada. E’ diventato leggero, profumato, bianco, ha preso le forme più varie e invitanti.
Ma resta sempre il pane: il nutrimento fondamentale dell’uomo.

Il chicco di grano
Il seminatore procedeva nel campo, spargendo i semi di grano nella terra lavorata. Ci fu un chicco di grano che si trovò solo, tra due zolle di terra nera e umidiccia; divenne triste, molto triste! Ripensò al tempo in cui si ergeva in una spiga svelta, baciata dal sole, cullata dal vento, quando si sentiva beato come un bimbo in braccio alla mamma. Tutto il grande campo di grano color verderame era zeppo di spighe diritte; e lassù, nel cielo azzurro, c’era il sole raggiante, e tutte le allodole cantavano, dallo spuntar dell’alba fino a sera. E quando il sole tramontava non faceva freddo, non era umido come in quel momento; ma la rugiada cadeva dolce come un’onda rinfrescante sul grano infiammato dal sole, e la grande luna d’oro splendeva mite sui campi che maturavano. (Joergensen)

Il seme nella zolla
Quale avvenimento emozionante fu per me un mattino la scoperta, in quella zolla di terra, d’un chicco di grano in germoglio. In principio temei che il seme fosse già morto; ma, dopo aver spostato, per mezzo d’una festuca di paglia, con lentissime precauzioni il terriccio che l’attorniava, scoprii una linguetta viva, tenerissima, della forma e grandezza di un minuscolo filo d’erba.
Ah, tutto il mio essere, tutta la mia anima si raccolse ad un tratto attorno a quel piccolo seme. Quanto mi disperai allora di non sapere esattamente che cosa convenisse fare per aiutarlo meglio a vivere. Per ripararlo dal gelo vi aggiunsi sopra una manata di terra; ogni mattino facevo sciogliere su di esso un po’ di neve allo scopo di fornirgli l’umidità necessaria; e affinchè non gli mancasse il calore spesso vi alitavo sopra.
Quella zolla di terra, con quel piccolo debole tesoro nascosto, minacciato da tanti pericoli eppure vivente, finì per acquistare ai miei occhi il mistero, la familiarità, la santità di un seno materno. (I. Silone)

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Acquarello steineriano: La leggenda del lago di Carezza

Acquarello steineriano: il racconto della leggenda del Lago di Carezza e i tutorial per fare delle esperienze di pittura ad acquarello su foglio bagnato coi bambini, elaborate prendendo libera ispirazione dalla tecnica usata nelle scuole steineriane (o Waldorf)…

La leggenda può essere raccontata in terza classe, quando si parla degli ambienti naturali (montagna, collina, pianura, laghi, fiumi, ecc…) o in quinta parlando del Trentino Alto Adige; per questo ho inserito progetti più complessi per i più grandi, e più semplici per i piccoli…

(Per avere maggiori informazioni sulla tecnica, la preparazione dell’ambiente e dei materiali, ecc…puoi leggere qui)

La leggenda del lago di Carezza

Il lago di Carezza è anche detto “Lago dell’Arcobaleno”. Infatti nelle sue acque si vedono riflessi iridescenti, con tutti i colori dell’arcobaleno.

La leggenda racconta che molti e moli anni or sono nel Lago di Carezza viveva una bellissina ondina. Sovente saliva a fior d’acqua, si sedeva sulla sponda e cantava dolcemente. Ma se udiva avvicinarsi qualcuno, si rituffava immediatamente  nelle onde.

Presso il lago c’è un grande bosco, che giunge fino in vetta al monte Latemar. Nella foresta abitava uno stregone. Egli un giorno vide la bellissima ondina e ne ne invaghì.

Andò sulla sponda del lago e la chiamò, chiedendole di mostrarsi e dicendole che ne avrebbe fatto la sua sposa.  Ma l’ondina non gli diede ascolto e rimase in fondo al lago.

Allora lo stregone ricorse all’astuzia: si trasformò in una lontra, si acquattò tra le pietre, vicino alla riva, e attese che l’ondina uscisse dall’acqua e si mettesse a cantare al sole.

Gli uccellini del bosco solevano radunarsi sugli alberi vicino alla riva per ascoltare il canto dell’ondina e imparare da lei le più dolci modulazioni. Quando videro la perfida lontra avvicinarsi a tradimento, si misero a svolazzare di qua e di là inquieti, con brevi gridi di angoscia. E l’ondina, che stava appunto affiorando, comprese che un pericolo la minacciava e tornò in fondo al lago.

Furibondo lo stregone andò sul monte Vajolon a consultare una vecchia strega che abitava lassù in una caverna. La vecchia si fece beffe di lui, ridendo del fatto che lui, mago potente, si era fatto canzonare dal una piccola ondina.

Poi gli  disse: “Ascolta, l’ondina non ha mai visto un arcobaleno… fabbricane uno bellissimo, che col suo arco vada dalla vetta del Latemar al lago. L’ondina certo verrà fuori ad ammirarlo. Tu intanto trasformati in un vecchio mercante e avvicinati alla riva come se nulla fosse. Poi tocca l’arcobaleno dicendo: <<Oh, questo è il tessuto con cui si fanno il vestito le figlie dell’aria!>>. Certo l’ondina incuriosita, verrà a parlare con te. Tu allora invitala a casa tua a vedere le vesti delle figlie dell’aria e gli altri tesori. Ti seguirà senza dubbio…”.

Lo stregone, entusiasta del consiglio della vecchia maga, fabbricò l’arcobaleno, e l’ondina salì a fior d’acqua per ammirarne l’iridescente splendore. Ma era furba, e anche sotto il travestimento da mercante riconobbe l’odiato stregone: con un fulmineo guizzo si rituffò nell’acqua.

Il mago fu invaso da un terribile furore: afferrò l’arcobaleno, lo schiantò con selvaggia violenza e lo buttò nel lago. Poi fuggì nella foresta imprecando.

Tutorial: Il mago cattivo e l’ondina – per i più grandi

Colori usati: giallo limone, blu oltremare, blu di Prussia, rosso carminio, rosso vermiglio

Iniziamo facendo una piccola macchia gialla sul foglio (la luce dell’ondina) ed intorno giochiamo col blu oltremare con movimenti acquosi che avvolgono l’ondina dolcemente, fino a formare il lago:

Tutto intorno al lago illuminiamo il foglio con il giallo limone, che brilla come la luce dei diamanti (il mondo minerale):

Portiamo nel mondo minerale acqua (blu di Prussia) e creiamo il mondo vegetale, assecondando il movimento del giallo(la foresta):

e per creare le montagne rinforziamo l’elemento minerale (ancora blu di prussia), in alto:

Le montagne sono forti e maestose, aggiungiamo questa forza (rosso carminio):

Individuiamo tra il verde della foresta le macchiette di verde più scuro e doniamo ad ogni albero il suo tronco:

quindi con altro blu di Prussia ed altro giallo limone giochiamo a definire gli alberi più grandi della foresta:

Nella foresta si nasconde il mago cattivo, inseriamo la luce rossa della sua presenza:

Con del giallo limone facciamo cantare l’ondina, in modo che la sua luce si propaghi un po’ intorno a lei a semicerchi di luce:

Se i bambini se la sentono, si possono definire le due figure all’interno della loro luce utilizzando un pennellino più sottile:

Il mago cattivo e l’ondina – per i più piccoli

Colori utilizzati: giallo limone, blu oltremare, blu di Prussia, rosso vermiglio.

Creiamo sul foglio una bella luce gialla accogliente, che lascia vicino al suo cuore lo spazio per l’amico che deve arrivare:

L’amico atteso è la luce dell’acqua del lago (blu oltremare), ma anche questa luce lascia vicino al suo cuore lo spazio per una terza amica:

Mentre aspettiamo questa amica del giallo e del blu, un’altra luce entra a disturbare l’armonia: la luce rossa del mago cattivo…

Ed ecco che la bella luce dell’ondina si tuffa nel blu:

Il lago è felice e si espande sempre più, facendo nascere attorno a sé tanto verde (blu di Prussia molto diluito sul giallo limone), formando foreste e montagne:

L’esperienza di può concludere così oppure, se i bambini se la sentono, possono definire meglio le figure dell’ondina e del mago all’interno delle loro luci, con un pennellino più piccolo:

Il mago stende l’arcobaleno tra il monte e il lago – Per i più piccoli

Colori utilizzati: giallo limone, giallo oro, blu oltremare, blu di Prussia, rosso vermiglio, rosso carminio.

Cominciamo col blu oltremare, creando in basso il lago, quindi facciamo scendere partendo dall’alto una bella luce gialla che va ad accarezzarlo:

Creiamo la montagna verde col blu di Prussia sul giallo limone, aspettando l’arcobaleno. Per l’arcobaleno usare intorno alla montagna:

– rosso vermiglio

– giallo oro  su parte del rosso(arancione)

– giallo limone

– blu di Prussia su parte del giallo (verde)

– blu oltremare

– rosso carminio sul blu oltremare (viola)

L’arcobaleno rimane per sempre nel lago con l’ondina – Per i più piccoli

Colori utilizzati: giallo limone, giallo oro, blu oltremare, blu di Prussia, rosso vermiglio, rosso carminio.

Una bella luce gialla accogliente sulla parte più esterna del foglio guarda l’ondina, che sta al centro:

Tutte le luci dell’arcobaleno, una alla volta, la abbracciano. Prima il rosso proprio attorno a lei, poi tutte le altre, fino a riempire tutto il lago:

Infine la luce dell’acqua del lago crea montagne e foreste intorno – pittura (quasi) asciutta:

https://shop.lapappadolce.net/prodotto/acquarello-steineriano-esercizi-di-colore-ebook/

Esperimenti scientifici per bambini – Cromatografia con i pennarelli

Esperimenti scientifici per bambini – Cromatografia con i pennarelli. Di cromatografia avevo già parlato qui, in un esperimento che dimostra perchè le foglie in autunno cambiano colore. Ora propongo esperimenti scientifici per bambini anche più piccoli, più semplici e artistici, utilizzando come base il colore dei pennarelli (o anche i coloranti alimentari, se volete).

Partiamo dai più semplici… anche coi bambini più piccoli ricordiamo la motivazione del nostro lavoro: nel rosso che usiamo per colorare c’è proprio solo il rosso? E il nero è solo nero, o contiene anche lui altri colori?

In questi video è mostrato l’esperimento con pennarello nero e acqua; possiamo usare qualsiasi carta un po’ assorbente e porosa, e non troppo delicata, anche la carta da cucina può andare bene; i pennarelli possono essere quelli lavabili o quelli a inchiostro permanente, magari insieme: è anche interessante vedere cosa succede di diverso usando un materiale piuttosto che un altro. Si possono usare anche coloranti liquidi alimentari.

In tutti i casi gli effetti migliori sono quelli ottenuti col nero e coi colori secondari e terziari.

In questo una bellissima variante con gessetti bianchi, pennarelli e acqua (scegliete gessi bianchi porosi, i gessi lisci non funzionano bene):

Mentre si sperimenta la cromatografia, si possono realizzare pezzi d’arte, ad esempio fiori di carta:

http://www.mn-net.com/tabid/11126/default.aspx

http://scientopia.org/blogs

http://www.homeschool-activities.com/

o farfalline:

http://discusprogram.blogspot.it/

Il video realizzato con l’acqua è accelerato; se volete davvero vedere i colori separarsi sotto i vostri occhi, invece dell’acqua dovete usare un solvente alcoolico, come spiegato poi. Utilizzando un alcool le bande di colore si formano dopo pochi minuti, e l’esperimento diventa per i bambini molto più stimolante.

http://chemistry.about.com/

Che usiate acqua o solventi, al termine dell’esperimento fate asciugare bene i gessi: avrete dei bellissimi gessetti colorati! A meno che non utilizziate grandi quantità di inchiostro o colorante, naturalmente il gesso si colorerà solo in superficie, e più che gessi colorati, saranno meravigliosi gessi bianchi decorati…

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Ed ora qualche informazione in più sulla cromatografia per l’adulto che presenta l’attività, e per i bambini più grandi: 

La cromatografia è un procedimento scientifico impiegato per separare i componenti di una miscela: comporta la separazione di sostanze chimiche. Esistono molti tipi di cromatografia, ed alcuni richiedono costose apparecchiature di laboratorio, ma alcune varianti possono invece essere realizzate a casa, facilmente e con pochissima spesa.

Possiamo separare ad esempio pigmenti vegetali (vedi qui),

oppure sostanze come l’inchiostro dei pennarelli o i coloranti alimentari.

La separazione, in tutti i progetti esposti sopra,  si ottiene ponendo la sostanza che intendiamo separare su di un supporto fisso (la carta o il gesso) e facendola interagire con una sostanza in movimento (l’acqua o l’alcool che lentamente “camminano” nel supporto fisso).

Per realizzare l’esperimento servono pochi materiali:

(i video mostrano molto bene sia i materiali, sia il procedimento)

per la cromatografia con carta:  carta porosa abbastanza assorbente e resistente, un vaso di acqua o di alcol, uno “stoppino” molto assorbente lungo poco più del vaso (si può fare con un pezzo di carta da cucina, o avvolgendo la carta da cucina o dell’ovatta attorno a un bastoncino); pennarelli o coloranti alimentari

per la cromatografia con gessetti: gessetti bianchi porosi, un piatto fondo, pennarelli o coloranti alimentari, acqua o alcool. Se si utilizza l’alcool, che evapora molto facilmente, può essere utile una ciotola grande trasparente da usare come coperchio oppure della plastica trasparente. Coi bambini piccoli è meglio non usare un piatto unico, ma porre ogni singolo gessetto in un vaso di vetro separato, più facile da chiudere.

In entrambi i casi, se usate coloranti liquidi, possono servire degli stuzzicadenti per distribuire il colore a gocce sulla carta o sul gesso.

I solventi alcoolici
Tutti i tutorial parlano di “rubber alcohol”, che é il nostro alcool isopropilico o “alcool bianco”. Questo detergente a base di alcool isopropilico e qualche altro ingrediente si trovava anche al supermercato:
 
 
ma pare che ora sia difficile da reperire.
Però si può acquistare l’alcool isopropilico denaturato anche nei negozi di elettronica (si usa come detergente di componenti vari), e online ad esempio qui:
 
 
oppure questo:
 
Anche l’alcool denaturato (rosa) può funzionare abbastanza bene, ma dipende anche dai pennarelli o dai coloranti che abbiamo a disposizione… si possono sempre fare delle prove.
 
Alcune fonti consigliano anche il metanolo (quello che si può acquistare nei negozi specializzati di modellismo), ma mi sembra una scelta ancora più complicata.
 
Per quanto riguarda la procedura, è sufficiente seguire i video; le uniche raccomandazioni sono: 
– se usate i gessi il colore non deve essere a diretto contatto col liquido, ma distanziato di circa mezzo centimetro;
– se lo scopo dell’esperimento è vedere i colori che si celano in ogni colore, è importante usare un solo colore per  gessetto, oppure distanziare tra loro i colori sulla carta; coi bambini più piccoli, se si è interessati principalmente all’osservazione dei colori che si muovono sul supporto, potete usare tutti i colori che volete, come più vi piace e anche sovrapponendoli;
– l’esperimento ha termine quando siete soddisfatti della vostra cromatografia, ed è quello il momento di togliere la carta o i gessi.
 

Possibili osservazioni conclusive

Il liquido è salito attraverso lo stoppino assorbente o il gesso, e man mano che ha percorso il gesso o la carta, ha raccolto i pigmenti portandoli con sé nel suo viaggiare. La separazione dei colori si è verificata perché i differenti colori presenti nell’inchiostro o nel colorante hanno pesi e dimensioni diverse, quindi alcuni viaggiano più di altri.

 

Riferimenti nel web:

http://chemistry.about.com/

http://education.llnl.gov/

http://voices.yahoo.com/home-school-chemistry-projects

http://www.hawaiinewsnow.com/story/11599709/weird-science-chalk-chromatography

http://www.mn-net.com/tabid/11126/default.aspx

http://www.homeschool-activities.com/valentine-crafts-for-kids.html

Dettati ortografici – Giugno

Dettati ortografici sul mese d giugno

Il sole si affaccia all’orizzonte e spande la sua luce sulla terra e nel cielo. Illumina le cime dei monti, le punte dei campanili, i tetti delle case. Getta un tappeto d’oro sui campi e mille scintille sulle acque del mare, dei laghi, dei fiumi. I galli annunciano il nuovo giorno e le campane squillano. Il contadino, di buon’ora, si avvia nel campo, ove l’attende il suo lavoro. L’aria, già calda al mattino, annuncia una giornata afosa.  Le cicale iniziano presto il loro grido insistente e, quando i bambini si svegliano, il sole, già alto nel cielo, entra nelle case a portare luce, salute, allegria. (M. Menicucci)

Carlo è felce quando può correre per i prati col suo cane. Mentre Bobi scappa avanti, Carlo si butta a terra, fra l’erba alta. Il cane si ferma e si gira di scatto: alza il muso, drizza le orecchie e poi, via! Con un balzo è sopra al suo padroncino e tutti e due rotolano insieme. Il bambino strilla e ride: il cane uggiola di gioia.

I contadini sotto il sole di giugno raccolgono i covoni di grano. Il loro viso scuro riluce di gocce di sudore, ma instancabili continuano il lavoro.  Un uccellino, in un prato accanto, si ferma un momento a guardare, poi continua, in un lieto cinguettio, a insegnare ai suoi piccoli a volare.

E’ arrivato giugno col sole caldo, con i temporali estivi e con i primi frutti succosi. Nelle belle giornate il sole si leva prestissimo e risplende per ore ed ore. Ai bambini piace attardarsi all’aperto fino al suo tramonto e salutare l’arrivo della sera con giochi e grida festose.

I prati sono verdi e nei campi biondeggia il grano. Di sera si vedono piccoli lumini vagare piano piano qua e là: sono le lucciole, che i bimbi talvolta rincorrono, felici di potere stringere un po’ di luce. Gli alberi sono folti di foglie e donano la loro ombra benefica. In campagna c’è molto lavoro ed i contadini si preparano per la fatica della mietitura. Anche i bimbi si preparano per la loro ultima fatica dell’anno scolastico e sperano di potere portare a casa una bella promozione.

Giugno, mese di spighe, ricco di sole e di feste, apre con chiavi d’oro le porte dell’estate. Il sole avvampa; le spighe diventano d’oro; i fiori hanno i colori più belli; alcuni petali ricordano lo splendore delle pietre preziose. Stridono le cicale; erra laboriosa l’ape; lampeggiano le falci; suda sui libri lo scolaro. Per chi ha ben lavorato, è l’ora del raccolto. (L. Rini Lombardini)

Giugno è il mese dei prati erbosi e delle rose; il mese dei giorni lunghi e delle notti chiare. Le rose fioriscono nei giardini, si arrampicano sui muri delle case. Nei campi, tra il grano, fioriscono gli azzurri fiordalisi e i papaveri fiammanti e la sera mille e mille lucciole scintillano fra le spighe. Il campo di grano ondeggia al passare del vento: sembra un mare d’oro. Il contadino guarda le messi e sorride. Ancora pochi giorni e raccoglierà il frutto delle sue fatiche. (G. Carducci)

Sera di giugno. La luna doveva già essere alta dietro il monte. Tutta la pianura, allo sbocco della valle, era illuminata da un chiarore d’alba. A poco a poco al dilagare di quel chiarore, anche nella costa cominciarono a spuntare i covoni raccolti in mucchi, come tanti sassi posti in fila. Degli altri punti neri si muovevano per la china, e a seconda del vento giungeva il suono grave e lontano dei campanacci che portava il bestiame grosso, mentre scendeva passo passo verso il torrente. Si tratto in tratto soffiava pure qualche folata di venticello più fresco dalla parte di ponente e per tutta la lunghezza della valle udivasi lo stormire delle messi ancora in piedi (G. Verga)

Giugno. I giorni succedevano ai giorni. Il sole descriveva un arco sempre più vasto nel cielo, il pomeriggio  si faceva di giorno in giorno più ardente, il fogliame si addensava sulle piante, il grano ingialliva nei campi, la vite e l’ulivo fiorivano profumando l’aria, e al loro odore si mescolava quello delle cantaridi verdi e dorate; gli uccelli tacevano, acquattati sulle uova dei nidi; la notte le lucciole uscivano di tra le spighe ancora acerbe, imitando nel buio lo stellato del firmamento. L’ultimo spicchio ranciato della luna calante si dondolava riflesso nell’acqua nera e cheta, simile a una barchetta di foglio dorato dimenticata lì da qualche bambino. Un coro di ranocchi al quale si mescolava la voce più chioccia di qualche rospo malinconico, si alzava ogni tanto con impeto lirico su dal pacciame, subitamente interrotto dal più leggero rumore che facesse il vento tra i giunchi e i salici della proda, o qualcuno che passasse nelle vicinanze. (A. Soffici)

Ai ultimi di maggio il cielo impallidì e perdette le nuvole che aveva ospitate per così lungo tempo al principio della primavera. Il sole prese a picchiare e continuò di giorno in giorno a picchiar sempre più sodo sul giovane granoturco finchè vide ingiallire gli orli d’ogni singola baionetta verde. Le nuvole tornarono, ma se ne andarono subito, e dopo qualche giorno non tentarono nemmeno più di tornare. Le erbacce si vestirono di un verde più scuro per mescolarsi alla vista, e smisero di moltiplicarsi. La terra si coprì di una sottile crosta dura che impallidiva man mano che il cielo impallidiva… Nei solchetti scavati dall’acqua la terra si sgretolò in rigagnoli di polvere minuta, tosto percorsi da innumerevoli processioni di formiche e  di formiconi. E sotto le sferzate ogni giorno più crudeli del sole le foglie del giovane granoturco perdevano la loro baldanza e la loro durezza; s’inchinavano, dapprima, e poi man mano che s’infiacchiva la loro colonna vertebrale, si prostravano. E venne il giugno, e il sole diventò selvaggio; le strisce brune sulle foglie del granoturco si estesero dagli orli fino a toccare le colonne vertebrali. Le ortiche si sfrangiarono, si raggrinzirono, invecchiarono. L’aria era afosa e il cielo sempre più pallido e di giorno in giorno la terra incanutiva. (J. Steinbeck, da “Furore”)

Le api irrequiete e vivacissime passavano dall’uno all’altro fiore, facendo bottino di polline e di nettare; le vespe andavano tagliando coi loro strumenti da falegname il legno per fabbricare la loro carta; i neri calabroni rodevano le corolle per cavarne fuori stami e pistilli. Un mondo di piccoli coleotteri mangiava allegramente i petali e ognuno di essi aveva scelto il suo fiore prediletto. Mi fermai dinanzi a un cespuglio di rose, mi fermai a lungo: molti bruchi verdi e gentili rodevano il margine delle foglie, mentre le tenere gemmette erano tutte quante coperte da afidi che ne cavavano il succo. Intanto una formica correva frettolosa dall’uno all’altro di quei piccoli animalucci, eccitandoli a secernere quell’umore di cui le formiche sono tanto ghiotte. In una aiuola di narcisi fioriti era un andare e un venire di farfalle di ogni colore che leggere leggere passavano d’una in altra corolla, succhiandone il miele. Quanto brulichio, quanto movimento, quanta attività!

Giugno è il mese che sta nel mezzo dell’anno come un trionfatore. Ora grano ora frutta, ora splendidi fiori e piante aromatiche, ora canto di uccelli e di insetti notte e giorno. Nei buchi delle mura le rondini hanno posato il nido, e da quello l’uccello implume si affaccia tentando il volo. Una vita immensa e tenace si è sparsa su tutta la terra. Tra le fratte di lentisco e di mirto scivolano le lucertole e i ramarri, saltano i grilli e volano come frecce gli uccelli. Su tutto le cicale cantano battendo il tempo minuto per minuto, e il loro canto dura fino a notte, quando nei campi l’opera del contadino non  è ancora terminata. (C. Alvaro)

Al principio di giugno, una sera, improvvisamente, scorgo una lucciola, poi altre due o tre, stelle avventurose e solitarie che fluttuano nell’aria chiara, come se navigassero sulla cresta di un’onda, o facessero la riverenza. Le loro minuscole luci s’accendono e si spengono secondo il ritmo del volo. A prenderne una sul palmo della mano sprigiona un bagliore strano, un messaggio misterioso, un piccolo alone verde pallido. La sera dopo, nei boschi, se ne trovano a centinaia. Per un motivo a noi ignoto restano sempre circa un metro da terra. Vien fatto di immaginare che un branco di ragazzi sui sei o sette anni, stia correndo per la foresta buia con candele o bacchette accese ad un fuoco magico, saltando allegramente, inseguendosi a balzelloni, roteando in segno di festa le piccole torce chiare. I boschi si riempiono di vita sfrenata e gioconda, mentre tutto è silenzio perfetto. (K. Blixen)

Era il colmo di giugno. In quei giorni le cicale emerse dalla terra salivano sugli ulivi a togliersi gli scafandri, ad asciugare le ali. I sole alto, quasi a piombo, cuoceva la terra. Ed ecco da un orifizio sotto un pino uscir fuori a uno a uno tanti piccoli caratteri simili a minuscoli 8, a impercettibili 3: erano le formiche brune. S’affaccendavano in piena luce a spiare indecise, quasi cieche, agitando i fili delle antenne. Subito, da un’aiuola spuntavano altre piccole formiche,  si incontravano, si annusavano; riprendevano di corsa verso una sola direzione, aggiravano un ciottolo, il pino, scansavano la ronda, s’introducevano nell’orifizio. Allora cominciarono a venir fuori tutte: a una, a due, a dieci, venti scaturivano fuori pigiandosi, accavallandosi l’una sull’altra; tutte, i maschi, i vecchi, le grosse regine, le ancelle: non finivano più, s’addensavano in masse, facevano circolo, si disponevano in file… (F. Tombari)

Giorgio ha un cartoccio di ciliege: sono rosse, lucide e succose. E’ proprio vero                                                                                                      che una tira l’altra: basta infatti che ne afferri una, perchè si formi dietro a quella tutta una fila. “E’ il frutto che mi piace di più”, dice Giorgio convinto. Ma ripeterà così anche quando assaporerà le prime albicocche della stagione nuova, le prime pesche, le prime prugne, le prime pere.

I papaveri hanno invaso il campo di grano. Sono un esercito. I soldatini indossano la camicia rossa e non fanno male a nessuno: la loro spada è una spiga. Il vento li agita: i soldatini sembrano correre nel campo conquistato. Quando poi il vento tace, ogni papavero si attarda al margine del solco col fiordaliso, suo compaesano, che indossa la tuta azzurra dell’operaio. (N. Salvaneschi)

“Buongiorno!” frinisce la cicala, appena il sole fa capolino dietro la foglia che le fa da cassa. “Buongiorno!”. Anche le formiche salutano la luce che filtra fra le erbe del prato; ma hanno una vocina sottile e nessuno le ode. “Buongiorno!”. Api, farfalle, calabroni, coccinelle, salutano il sole nascente con i loro ronzii, col battito delle loro ali, col fremito delle piccole elitre. In breve, da tutta la campagna, si leva un coro: “Buongiorno, oh sole!” (N. Oddi Ozzanesi)

 

Tutte le opere contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.

 

I libri del Dr Seuss

I libri del Dr Seuss. Theodor Seuss Geisel (1904 – 1991),  scrittore  poeta  illustratore e vignettista americano, è noto in tutto il mondo per i suoi libri per bambini, caratterizzati dalla presenza di personaggi fantastici e testi in rima, scritti sotto lo pseudonimo di Dr. Seuss. Ve ne sono molti altri, per i quali Seuss ha curato solo i testi o solo le illustrazioni firmandosi con lo pseudonimo Theo LeSieg (“LeSieg” è “Geisel” scritto al contrario), e, in un caso, Rosetta Stone.

I suoi libri più celebri sono disponibili in italiano nella collana “I libri del Dr Seuss” di Giunti Editore, tradotti da Anna Sarfatti; sempre dell’editore  Giunti, “A scuola con il Dr. Seuss”. Mondadori ha pubblicato nel 2000 “Il Grinch“, traduzione di Ilva Tron e Fiamma Izzo:

 Il Grinch
Regia di Ron Howard – Universal Pictures

Seuss nacque nel 1904 a Springfield nel Massachusetts, da una famiglia di immigrati tedeschi. Lasciati gli studi universitari prima del conseguimento della laurea, iniziò la sua carriera scrivendo e disegnando vignette umoristiche per vari giornali e riviste e divenne famoso grazie alla pubblicità di Flit , un insetticida comune a quel tempo; durante la grande depressione disegno per varie altre campagne pubblicitarie.

Il suo primo libro per bambini pubblicato a fatica, ma che riscosse grande successo,  fu “L’uovo di Ortone“.

Allo scoppio della seconda guerra mondiale, si dedicò alla satira politica, disegnando oltre 400 vignette in due anni, poi pubblicate in “Il Dr. Seuss va alla guerra”. Dal 1942 rivolse tutte le sue energie per sostenere lo sforzo bellico degli Stati Uniti. Assegnato alla “Divisione di Informazione ed Educazione” a Hollywood, sotto la direzione di Frank Capra, si occupò di film educativi per i soldati.

Durante la sua attività in ambito cinematografico vinse due Oscar ed ottenne altri numerosi successi, ma nonostante ciò, lasciò presto il cinema per tornare ai libri.

Nel maggio del 1954, la rivista Life pubblicò un rapporto sull’analfabetismo tra i bambini in età scolare, che si concludeva con l’affermazione che i bambini non imparavano a leggere perché i loro libri erano inadeguati e noiosi. Di conseguenza, William E. Spaulding, editore di libri per l’infanzia, compilò una lista di 348 parole base da saper riconoscere in prima elementare, e Seuss gli rispose promettendo che sarebbe riuscito a scrivere un libro utilizzando tali parole, ma riducendole a 250; nove mesi più tardi, con 236 delle parole stabilite, completò Il gatto e il cappello matto” , primo titolo della collana  “Beginner Books”, di cui poi Seuss assunse la presidenza. Il gatto e il cappello matto centrò l’obiettivo e in tre anni ne furono vendute quasi un milione di copie.

I libri della sezione “Beginner books” dovevano rispondere a criteri fissi, tra i quali:

– dovevano essere costruiti con le 225 parole che rappresentano il vocabolario base;

– ogni facciata non poteva contenere più di un’illustrazione;

– le illustrazioni delle facciate destra e sinistra dovevano formare insieme un’unità artistica;

– il testo poteva contenere solo i particolari presenti anche nelle immagini, e non altri.

A titolo di curiosità, c’è da riportare che Prosciutto e uova verdi , meraviglioso libretto del 1960, è scritto con sole 50 parole (a, am, and, anywhere, are, be, boat, box, car, could, dark, do, eat, eggs, fox, goat, good, green, ham, here, house, I, if, in, let, like, may, me, mouse, not, on, or, rain, Sam, say, see, so, thank, that, the, them, there, they, train, tree, try, will, with, would, you), ed è forse il suo libro più bello. E’ nato da una scommessa tra Seuss e il suo editore (Bennett Cerf) che, dopo la pubblicazione di The Cat in the Hat , affermò che non era possibile realizzare un libro con così poche parole. 

Ma il valore dei libri del Dr Seuss non consiste solo in questa ricerca di “leggibilità”;  per l’autore infatti non c’è tema che non possa essere affrontato dai bambini: la diversità, la difesa dell’ambiente, l’adozione, la guerra, la minaccia del nucleare, il consumismo e il materialismo, l’uguaglianza razziale …

Nel 1984 Seuss fu insignito del Premio Pulitzer “per il suo contributo di quasi mezzo secolo all’educazione e al divertimento dei bambini americani e dei loro genitori“.

Morì all’età di 87 anni; nel corso della sua vita si sposò due volte, e pur avendo dedicato gran parte della sua vita a scrivere libri per bambini, non ebbe figli.

Negli USA il 2 marzo, data di nascita del Dr Seuss,  è la data adottata dalla National Education Association come giornata della promozione della lettura: il “Read across America day”.

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Di seguito i libri del Dr Seuss disponibili nella nostra lingua. Trattandosi di testi in rima, a dire la verità, varrebbe la pena considerare anche la lettura dei testi originali in Inglese. Per quanto riguarda l’età consigliata, rientrano nella fascia di ascolto  a partire dai quattro anni, ma possono sicuramente essere apprezzati anche dai bambini più piccoli, ad esempio, L’uovo di Ortone e Prosciutto e uova verdi. Piacciono poi a tutte le età, sia da leggere, sia da ascoltare.

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 L’uovo di Ortone – Horton hatches the egg

“Lo penso e lo dico, lo dico e lo penso, onor di elefante, al cento per cento!”

Questo racconto in versi ha al centro un elefante generoso e fedele che si prende l’impegno di covare l’uovo di un’allodola alquanto irresponsabile: alla fine l’amore vincerà anche le leggi di natura…

Un tipo affidabile e leale, Ortone l’elefante: la sua parola d’onore vale tanto oro quanto (lui) pesa. Una volta che ha promesso di badare all’uovo della signora Giodola, un’allodola, niente può schiodarlo dal nido. Neanche se il nido è su un albero, neanche se l’uovo dovrà covarselo tutto da solo per un sacco di tempo, a costo di fare figuracce, buscarsi raffreddori sotto la pioggia o vedersela con tre cacciatori armati fino ai denti. E quando, finalmente, il pulcino si decide a nascere…

E’ una storia che insegna ad essere tenaci e a mantenere le promesse. Piace anche ai bambini più piccoli grazie alle belle illustrazioni ed al testo in rima, ma è consigliato in particolare dai cinque agli otto anni.

Giodola (Mayzie) l’allodola è stanca di covare e vorrebbe prendersi una vacanza alle Canarie (Palm Beach), così chiede ad Ortone l’elefante di sostituirla perchè lei possa fare una “breve pausa”, che in realtà finisce col diventare un trasferimento permanente… Ortone all’inizio rifiuta, ma poi si presta ad aiutare la sua amica. Il tempo passa, e l’elefante resiste, continuando a covare il suo uovo… Lo spettacolo di un elefante seduto su un albero non passa inosservato nella giungla, e il povero Ortone viene deriso dagli amici, preso di mira dal cattivo tempo e dai cacciatori, e molto altro, ma non abbandona mai il piccolo uovo che gli è stato affidato.

Nonostante le difficoltà e anche quando è chiaro che Giodola non farà mai ritorno, Ortone continua a ripetere : “Lo penso e lo dico, lo dico e lo penso, onor di elefante, al cento per cento!” ed insiste a mantenere la sua parola.

Quando finalmente l’uovo si schiude, la creatura che ne esce è un’incrocio tra allodola ed elefante. Il nuovo nato e Ortone fanno felicemente ritorno nella giungla, e Giodola rimane sola.

L’uovo di Ortone è, tra quelli del Dr Seuss,  uno dei più amati, e rappresenta un classico della letteratura per l’infanzia. E’ una delicata favola sull’adozione raccontata con umorismo e leggerezza, attraverso rime ripetizioni e nonsense, e le illustrazioni che accompagnano il testo aiutano a sorridere mentre ci parlano di impegno, integrità e perseveranza.

Il gatto e il cappello matto – The Cat in the Hat” 

Il gatto
Regia di Bo Welch – Universal Pictures

“The Cat in the Hat” è, come già detto, il libro che ha inaugurato la collana “Beginner Books”, dedicata alla causa dell’alfabetizzazione di base negli USA. Il protagonista è un gatto antropomorfo che porta un grande cappello a strisce bianche e rosse sulla testa e un grande papillon rosso legato al collo. Il personaggio comparirà in altri cinque libri successivi: The Cat in the Hat Comes Back, The Cat in the Hat Song Book, The Cat’s Quizzer, I Can Read with My Eyes Shut! Daisy-Head Mayzie, e diventerà il logo dei libri del Dr Seuss.

La vicenda inizia col gatto matto che irrompe nella casa di due bambini (Sally e suo fratello) che se stanno seduti davanti alla finestra in un noioso giorno di pioggia,  portando allegria, esuberanza, trasgressione e caos, mentre la mamma è uscita.  Il gatto si lancia in ogni genere di acrobazia per divertire i due bambini, ad un certo punto arriva a tenere un numero impressionante di oggetti in equilibrio mentre sta in bilico su una palla. Poi prova portando in casa una grande scatola che contiene due strane creature: I Cosi (Thing One e Thing Two), che cominciano a far volare gli oggetti di casa come aquiloni. Le pazzie del gatto sono invano osteggiate dall’animale domestico di casa: un pesce molto saggio.

I bambini riescono alla fine a riprendere il controllo della situazione, catturano gli oggetti volanti con una rete e tranquillizzano il gatto, che, per rimediare ai guai procurati, ripulisce tutta alla casa alla perfezione e sparisce proprio un attimo prima del ritorno della mamma. La madre chiede ai bambini cosa hanno fatto mentre lei era fuori, ma la loro risposta  non si sa…

Da un punto di vista letterario, Il gatto e il cappello matto è una prodezza di abilità, dal momento che, utilizzando un vocabolario elementare e ridotto, riesce a raccontare in rima una storia ricca e divertente.

E’ un libro adattissimo alla lettura ad alta voce: i bambini ascolteranno rapiti e presto impareranno a memoria le brillanti rime che contiene.

Le immagini poi, si sposano meravigliosamente col testo. E’ consigliato a partire dai quattro anni, ma può essere presentato anche prima, e naturalmente poi a lettori, adulti e bambini di qualsiasi età,  che amino le rime e i racconti surreali.

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Ortone i e piccoli Chi – Horton hears a Who!” 

Ortone e il mondo dei Chi
Regia di Jimmy Hayward, Steve Martino – 20th Century Fox Home Entertainment

“”Io devo salvarlo, perché questo penso : ognuno è importante, sia piccolo o immenso.”

Seuss scrisse questa nuova avventura di Ortone nel 1954, e il ritornello che la caratterizza portò da subito a definirla come una lezione in rima a tutela delle minoranze e dei loro diritti.

La città dei piccolissimi Chi corre il rischio di essere distrutta e l’elefante Ortone, che ha sentito il grido d’aiuto dei suoi piccoli abitanti,  cerca in tutti i modi di difenderli. La città dei Chi è davvero piccolissima: sta tutta intera in un granello di polvere. Ortone decide di chiedere aiuto ai suoi amici della giungla, ma le scimmie, i canguri e tutti gli altri animali non gli credono, lo prendono in giro e cercano di fargli credere che è diventato matto.

Ortone non si scoraggia,  trova un modo molto rumoroso per dimostrare a tutti l’esistenza dei suoi nuovi minuscoli amici, e facendosi aiutare proprio da loro, fa capire a tutti gli animali della giungla che ogni essere, seppur minuscolo e invisibile, va rispettato e aiutato. E tutti, Ortone, i suoi amici più piccoli e i suoi amici più grandi, imparano l’importanza del lavorare insieme per il bene comune.

Per molti è, insieme a Prosciutto e uova verdi, tra i più bei libri del Dr Seuss, per la sua comicità surreale e per la capacità dell’autore di trattare temi universali come l’uguaglianza in modo spontaneo e sincero, senza retorica e in un modo che parla davvero al cuore dei piccoli (e grandi) lettori.

E’ consigliato a partire dai cinque anni d’età, ma vale quanto detto per i libri precedenti.

Il ritorno del gatto col cappello – The Cat in the Hat Comes Back

“…anche io per fortuna, ho un esperto aiutante!”

Ancora una volta, la mamma ha lasciato Sally e suo fratello soli a casa, ma questa volta dando loro l’incarico di sgombrare il giardino dalla gran quantità di neve che è caduta in quei giorni, mentre lei è via.

I due fratellini si mettono all’opera, quando all’improvviso riappare il gatto matto, e ricominciano i guai…

Come se non bastasse, questa volta è accompagnato da tanti piccoli amici. 26, per la precisione e ciascuno chiamato a suo modo: A, B, C, D, E, F, G, H,…

… una prima introduzione alle lettere dell’alfabeto.

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Gli Snicci e altre storie – The Sneetches and Other Stories

Gli Snicci sono dei simpatici animaletti che si dividono in due categorie: quelli con una stellina verde sulla pancia e quelli senza.

I primi si sentono superiori, finché nel loro mondo non si presenta uno strano personaggio capace di mettere e togliere le stelle a piacere…

Che paura! e Troppi Cicci sono le altre due storie in rima contenute in questo libro dove, fra l’altro, ci capita anche di vedere un paio di pantaloni andare in giro da soli! 

Fu allora che si mossero. Quei pantaloni vuoti!
Sembrava che saltassero, così, senza piloti!

Tre storie in un solo libro, tanti personaggi per ridere e riflettere…

Gli Snicci (Sneetches)  è un racconto pensato dal Dr Seuss come satira della discriminazione tra razze e culture, ispirato in particolare dalla sua opposizione all’antisemitismo .

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Prosciutto e uova verdi –  Green eggs and ham

“Sono Nando, sono Nando detto Ferdi… vuoi prosciutto e uova verdi?”

“I am Sam, Sam I a m… do you want green eggs and ham?”

Una delle opere più conosciute del Dr. Seuss, sia per la vivacità delle immagini, sia per la simpatia del testo, che verte attorno a un vassoio contenente un insolito cibo colorato…

“No al prosciutto e uova verdi, non li voglio, detto Ferdi!”

Un personaggio noto come “detto Ferdi” (Sam I Am) assilla un altro personaggio per convincerlo ad assaggiare un piatto dall’aspetto molto bizzarro: prosciutto e uova verdi.

Lui rifiuta, ma “detto Ferdi” non demorde, lo segue e gli chiede se vuole assaggiarli magari in un posticino speciale oppure in compagnia di qualcuno in particolare, proponendogli un alto ramo, un’auto, una galleria, una cassa, un topino, una capretta, una volpe, un tavolino…

Alla fine, pur di liberarsi dallo scocciatore, la vittima accetta di assaggiare la pietanza e scopre che gli piace, ma così tanto da dichiarare di volerne mangiare ancora ” in barchetta! Anche insieme alla capretta…E anche sotto l’acquazzone. E sul treno. E in galleria. E sull’auto. E sul ramo. Che delizia, mamma mia!”.

Uno dei libri più belli e divertenti del Dr Seuss, consigliato da Nati per leggere a partire dai tre anni d’età. Può essere utile per vincere la diffidenza dei bambini nei confronti dei cibi nuovi.  

L’ottima traduzione italiana restituisce, dell’originale, la vivacità e la bizzarria delle scelte lessicali, la rima e il gioco della ripetizione e dell’accumulo.” 

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 C’è un mostrino nel taschino – There’s a wocket in my pocket!

Simpatici o antipatici, gentili o dispettosi, tanto piccoli da entrare nel taschino o grandi a tal punto da riempire il divano, questi mostri e mostrini sono proprio dappertutto!… ma non si sta poi tanto male in una casa così! 

I mostrini sono dappertutto: Basetto nel cassetto, Cavello nel lavello, Ploccia nella doccia, Uvano sul divano, Famino nel camino, Sottiglia nella bottiglia…

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La battaglia del burroThe butter battle book

Gli Zighi e gli Zaghi (Yooks e Zooks) sono due popolazioni tra loro in lotta per uno strano motivo: gli uni imburrano le fette di pane nella parte superiore, gli altri inferiore.

Da questa insignificante (ma per loro importantissima) diversità scaturisce un conflitto destinato sempre più a inasprirsi, con l’uso di tante e strampalate armi, fino a quando…

Il libro contiene anche la storia dei Rax, due esseri scorbutici e litigiosi, che si accapigliano per un diritto di precedenza.

”La battaglia del burro” è stato per sei mesi nella classifica del New York Times dei libri più venduti al pubblico adulto, unico libro per ragazzi cui sia toccato un così prestigioso e prolungato riconoscimento.

E correndo arruffato, fui da un grido gelato:

“Se tu spruzzi noi Zaghi, tu sarai rispruzzato!”

La follia della guerra, la corsa agli armamenti e l’odio razziale…

Questo libro è stato scritto durante la Guerra Fredda, e riflette le preoccupazioni del tempo, in particolare la percezione della possibilità della fine della vita a causa di  una guerra nucleare.

Zighi e Zaghi vivono su lati opposti di una lunga parete curva, abbastanza simile al Muro di Berlino . Il conflitto tra le due parti porta ad una corsa agli armamenti , e i due popoli cominciano a competere tra loro per chi realizza armi più grandi ed efficienti dell’altro.

Nessuna soluzione viene raggiunta alla fine del libro, che si chiude con i generali di entrambe le fazioni sul muro, pronti entrambi  a far cadere le loro bombe, e in attesa di vedere chi lo farà per primo.

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Il paese di Solla Sulla – I had a trouble in getting to Solla Sollew

Uno strampalato e avventuroso viaggio in rima verso il paese di Solla Sulla sulle acque del fiume Trastulla, laddove ”soffre poco chi è là, quasi nulla”.

Nel consueto ritmo e umorismo, proprio dei libri del Dr. Seuss, anche questa volta la voce narrante si trova coinvolta in molteplici incontri/scontri con problemi, personaggi, ambienti che divertono il lettore.

Un libro che insegna a non scappare dai guai, ma ad affrontarli. Il protagonista si avvia alla ricerca di Solla Sulla, città dove si soffre poco o quasi nulla, per evitare i suoi guai.

Per raggiungerla ne passa di tutti i colori, e quando arriva scopre che un piccolo, piccolissimo guaio, rende la città inagibile. Che fare? andarsene a Bao Baba Ballero, dove non soffre nessuno davvero? oppure….. tornarsene a casa e affrontare i propri guai?

Da oggi in poi sono pronto.
I miei guai si preparino…
io NON TEMO lo scontro!”

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Il LoraxThe Lorax

Lorax. Il guardiano della foresta
Regia di Chris Renaud, Kyle Balda – Universal Pictures

Il Lorax è un ometto un po’ scontroso, una piccola sentinella che difende gli alberi e gli animali della felice foresta dei Lecci Lanicci.

Un giorno, però, in quel paradiso giunge l’intraprendente Chi-Fu e le cose cominciano a cambiare…

Una storia divertente e bizzarra, scritta nel 1971 dal grande Theodor Geisel, in arte Dr. Seuss, che ci ricorda che in ogni angolo del mondo rischiamo di perdere le nostre risorse naturali. A meno che… 

 “Sono il Lorax. E per gli alberi parlo. Io parlo per gli alberi perché voce non hanno.” 

Riferimenti nel web:

http://en.wikipedia.org/wiki/Dr._Seuss

http://www.seussville.com/

http://www.annasarfatti.it/css/home_static.htm

Anna Sarfatti, Il Dr. Seuss, lo scrittore per bambini che inventò l’alfabeto oltre la Z

http://www.giuntistore.it/customer/search.php?in_id_collana=473

http://www.lafeltrinelli.it/catalogo/aut/214917.html

Naturalmente nel web ci sono moltissimi spunti di lavoro che hanno come base di partenza la lettura dei libri del Dr Seuss; sto raccogliendo il materiale qui:

Gioco cantato con traccia mp3 e spartito- Gli uccelli

Gioco cantato – Gli uccelli. Con istruzioni di gioco, spartito stampabile e file mp3 della melodia.

Testo

Gli uccelli già s’affacciano sugli alberi a cantar
ed ogni specie canta come sa cantar.

Lo spartito in formato immagine:

Spartito e traccia mp3: 

istruzioni di gioco

I giocatori sono in cerchio e cantano;
nel mezzo c’è un bambino con gli occhi bendati.
Si cammina in cerchio e al termine della canzone il bambino al centro chiede a un uccellino: “Come canti tu?”

Se dalla voce che risponde indovina di chi si tratta, prende il suo posto nel cerchio e il gioco ricomincia.

Insegnare l’igiene orale – Esperimento con le uova sode

Insegnare l’igiene orale – Esperimento con le uova sode

sostenuto da:

Salute dei denti e alimentazione

Insegnare l’igiene orale – Esperimento con le uova sode: la crescita di denti sani dipende molto dalla dieta. I denti da latte del vostro bambino si sono formati durante le gravidanza, influenzati dalla vostra dieta. Dopo la nascita, molto si può fare per garantire ai denti permanenti di svilupparsi e crescere sani e forti.

Assicuratevi che il vostro bambino riceva con la dieta un sufficiente apporto di calcio e vitamina D. Dopo lo svezzamento il bambino assume il latte in quantità decisamente minore, quindi è importante inserire nella sua alimentazione yogurt  e formaggio. 

L’alimentazione poi, influenza la salute dei denti anche in modo più diretto, per questo fate il possibile per evitare di sviluppare nel bambino comportamenti che ledono i denti creando nel cavo orale un ambiente favorevole allo sviluppo dei batteri ed all’insorgere di placca, tartaro e carie.

Non abituate i bambini a consumare succhi di frutta zuccherati, snack e bibite tra un pasto e l’altro. In ogni caso preferite sempre offrirgliele in bicchiere e non nel pacchetto con la cannuccia, perchè questo piccolo accorgimento può ridurre di molto il tempo di esposizione allo zucchero.

L’ideale sarebbe che il bambino non sapesse nemmeno cosa sono caramelle e cioccolata prima dei due anni, ma i condizionamenti posso essere molti. Non c’è dubbio che i dolci facciano male ai denti del vostro bambino, ma un atteggiamento ansioso e rigido non è comunque salutare per lui: dosati con cura, dolci e caramelle possono non essere un problema.

Alte concentrazioni di zucchero raffinato distruggono l’equilibrio acido nella bocca del bambino e compromettono la salute dello smalto dei denti. Ogni volta che si mangia dello zucchero, i denti sono in pericolo, e più a lungo lo zucchero rimane in bocca, tanto più è probabile che si formino carie, ma questo vale per lo zucchero raffinato in generale, e non in particolare per le caramelle: il sorseggiare continuo o il succhiare dalle cannucce dei succhi di frutta o di altre bevande, può essere più dannoso delle caramelle o della fetta di torta più dolce che ci sia.  

Per questo è più ragionevole controllare tutti gli alimenti dolci, anziché vietare le caramelle, e preferire sempre dolci che si consumano in fretta, perchè l’acido prodotto dalla loro presenza potrà scomparire senza avere il tempo di  aderire alla smalto dei denti . Ad esempio una fetta di torta o un pezzetto di cioccolata sono meno pericolosi per i denti di un lecca lecca che il bambino può succhiare per ore.

Anche la consistenza dei dolci fa la differenza: quelli che possono incollarsi ai denti masticando, magari restando là fino al prossimo spazzolamento, sono i peggiori: questo vale per i biscotti secchi e anche per alcuni prodotti naturali che a volte offriamo perchè più salutari rispetto alle caramelle: ad esempio l’uvetta.

Tutti i bambini attraversano fasi in cui sono particolarmente golosi di dolci: scegliamo quelli che si dissolvono più rapidamente in bocca, come cioccolato e caramelle morbide, e diamo da bere dell’acqua. 

Insegniamo ai bambini a riconoscere gli alimenti che fanno bene ai denti, e quelli che possono danneggiarli. Si può cominciare anche quando sono piccoli, anche senza dare particolari informazioni tecniche, ma permettendo loro di fare esperienze dirette.

L’esempio classico è l’esperimento con le uova sode. E’ vero che l’affinità tra guscio dell’uovo e smalto dei denti è assolutamente discutibile, ma come vedrete l’impatto visivo è formidabile e i bambini fanno spontaneamente l’associazione tra uovo e dente.  In questo caso l’immaginazione è davvero più potente della fredda analisi nel trasmettere l’informazione corretta…

Insegnare l’igiene orale – Esperimento con le uova sode – Per l’esperimento servono:

– due barattoli trasparenti
– due uova sode (se le trovate bianche è meglio, ma non è indispensabile)
– un assortimento di cibi sani (frutta, formaggi, verdura, pane,…), acqua e latte
– un assortimento di cibi dannosi (miele, zucchero, cioccolata, marmellata, panna montata, caramelle, gelato,…),e cola
– spazzolino da denti e dentifricio
– una bacinella d’acqua
– vassoio e piattini
– può essere utile anche un timer o una clessidra, se vogliamo rinforzare nel bambino la percezione di quanto siano lunghi i tre minuti che gli chiediamo di impiegare per spazzolarsi i denti.

Insegnare l’igiene orale – Esperimento con le uova sode – Cosa fare:

Prima di intraprendere l’esperimento sarebbe importante avviare coi bambini una discussione sul tema dei denti,  e ad esempio portarli ad immaginare cosa potremmo mangiare se non avessero i denti. Possiamo invitare i bambini a toccarsi i denti e poi a dirci come sono, quindi a toccare le uova sode che abbiamo preparato. Emergerà che i denti sono duri e bianchi proprio come le uova.

Ora prepariamo in un vassoio tutti i cibi dannosi per i denti, mettiamo nel primo barattolo un uovo sodo,

aggiungiamo gli alimenti

e versiamo la cola (per rendere l’esperimento ancora più impressionante si può aggiungere succo d’arancia e aceto: in questo modo, oltre a sporcarsi tantissimo, l’uovo assumerà un odore disgustoso e diventerà molliccio).

In un altro vassoio prepariamo tutti di cibi sani,

mettiamo l’altro uovo sodo nel secondo barattolo, aggiungiamo gli alimenti e versiamo latte ed acqua.

Ora andiamo a dormire senza lavarci i denti…

Nel versare i vari alimenti nei barattoli, possiamo chiedere ai bambini cosa sono e se secondo loro sono buoni. Sicuramente in molti diranno che la cola è buona, ad esempio. Ma proviamo a chiedere se fa bene ai denti, e molti bambini non sapranno cosa rispondere. Per fortuna abbiamo il nostro dente – uovo ad aiutarci!

Possiamo anche dire che, ad esempio, nella cola c’è molto zucchero, e che lo zucchero nella nostra bocca diventa acido come l’aceto, e che questo piace molto ai batteri che bucano i dentini con le carie.

E se non ci lavassimo i denti, cosa succederebbe?

Il  giorno successivo, tiriamo fuori dai barattoli i nostri denti – uova: il confronto è incredibilmente forte!

Laviamo il povero dente… prepariamo su un vassoio dentifricio, spazzolino, l’uovo da lavare in un piattino e a parte una bacinella d’acqua. Grazie a questa attività il bambino si eserciterà a svitare e riavvitare il tappo, stendere il dentifricio, spazzolare…

Se il bambino lo desidera, può dedicarsi anche alla pulizia dell’altro dente, ma ai fini dell’esperimento è servito essenzialmente per il confronto iniziale…

Lavarsi i denti, insomma, anche se ogni tanto mangiamo un po’ di zucchero, mantiene i denti puliti e bianchi, proprio come il guscio d’uovo! Però mangiare sano è proprio meglio…

Insegnare l’igiene orale – Esperimento con le uova sode

Riferimenti all’argomento nel web:

– thechocolatemuffintree.com

– mamabeefromthehive.blogspot.com

– fitkidsclub.blogspot.com

– science-mattersblog.blogspot.com

– luvprek.blogspot.com

– imaginationstationtoledo.org

– thepreschoolexperiment.blogspot.com

Oral care – Experiment with hard-boiled eggs: the growth of healthy teeth is very dependent on diet. The milk teeth of your child have been formed during the pregnancy, affected by your diet. After birth, much can be done to ensure the permanent teeth to develop and grow healthy and strong.

Make sure your child receives a diet with sufficient calcium and vitamin D. After weaning, the child takes the milk in amounts much lower, so it is important to include in his diet yogurt and cheese.

The nutrition then, affects the health of teeth even more directly, so do everything you can to avoid developing in the child behaviors which harm teeth creating a favorable environment in the oral cavity to the development of bacteria and the onset of plaque, tartar and cavities.

Not accustomed children to consume sugary juices, snacks and drinks between meals and the other. In any case always prefer to offer them in glass and not in the package with drinking straw, because this little trick can greatly reduce the time of exposure to sugar.

Ideally, the child does not even know What are candies and chocolate before two years, but the conditioning can be many. There is no doubt that the sweets to hurt your child’s teeth, but an anxious and rigid approach however, it is not healthy for him dosed carefully, cakes and sweets can not be a problem.

High concentrations of refined sugar destroy the acid balance in your child’s mouth and endanger the health of the tooth enamel. Every time you eat sugar, the teeth are in danger, and the longer the sugar remains in the mouth, the more it is likely to be formed caries, but this applies to the refined sugar in general, and in particular not for candies : the continuous sipping from straws fruit juices or other drinks, can be more damaging of candies or cake sweeter there is.

Therefore it is more reasonable to check all sweet foods, rather than banning the sweets, and always prefer sweets that you consume in a hurry, because the acid produced by their presence will disappear without having time to adhere to tooth enamel. For example, a slice of cake or a piece of chocolate are less hazardous to the teeth of a lollipop that the baby can suck for hours.

Even the consistency of the sweets makes the difference: those who can stick to teeth by chewing, maybe staying there until the next toothbrushing, are the worst: that goes for dry biscuits and even for some natural products that sometimes we offer because most healthful compared to candies: such as raisins.

All children go through stages where they are particularly sweet tooth: choose those that dissolve quickly in the mouth, such as chocolate and soft candy, and we give him water to drink.

We teach children to recognize foods that are good for teeth, and those that can damage them. You can begin when they are small, without giving any further technical information, but allowing them to make direct experiences.

The classic example is the experiment with the boiled eggs. It is true that the affinity between eggshell and tooth enamel is absolutely questionable, but as you will see the visual impact is tremendous and the children spontaneously make the association between egg and tooth. In this case the imagination is truly mightier than the cold analysis in conveying the correct information …

Oral care – Experiment with hard-boiled eggs

What do you need?

– Two transparent jars
– Two boiled eggs (if you find white is better, but is not essential)
– An assortment of healthy foods (fruit, cheese, vegetables, bread, …), water and milk
– An assortment of harmful foods (honey, sugar, chocolate, jam, whipped cream, candy, ice cream, …), and cola
– Toothbrush and toothpaste
– A bowl of water
– Tray and dishes
– It can also be useful a timer or an hourglass, if we want to strengthen the child’s perception of how long are the three minutes that we ask him to employ for brushing teeth.

Oral care – Experiment with hard-boiled eggs

What to do?

Before embarking on the experiment it would be important to start a discussion with kids on the theme of the teeth, and for example take them to imagine what we could eat if we did not have their teeth. We invite children to touch their teeth and then tell us how they arethen to touch the boiled eggs that we have prepared. It emerges that the teeth are hard and white just like the eggs.

Now we prepare on a tray all the foods damaging to their teeth, and we put in the first jar a boiled egg,

add foods:

and pour the cola (to make the experiment more impressive you can add orange juice and vinegar: in this way, as well as dirty a lot, the egg will take a disgusting smell and become mushy):

In another tray we prepare all of healthy foods,

We put another hard-boiled egg in the second pot, add the food and pour milk and water.

Now we go to bed without brushing our teeth …

While we pour the various foods in jars, we can ask the children what they are and if they think they are good. Surely many will say that the cola is good, for example. But we try to ask if it is good for teeth, and many children do not know what to say. Luckily we have our teeth – egg to help us!

We can also say that, for example, in the cola there is a lot of sugar, and that sugar in our mouth becomes acid such as vinegar, and that it really like to the bacteria, which pierce the teeth with caries.

And if we do not brush teeth, what would happen?

The next day, we pull out of the jars our teeth – eggs: the comparison is incredibly strong!

We wash the poor tooth … prepare a tray of toothpaste, toothbrush, the egg to be washed in a dish and part a basin of water. Thanks to this activity the child will practice to unscrew and screw the cap, apply toothpaste, brushing …

If the child wants, he can dedicate himself to cleaning the other tooth, but the purpose of the experiment is served primarily by the initial confrontation …

Brush your teeth, in short, even if sometimes we eat a bit of sugar, keeps teeth clean and white, just like the eggshell! But eating healthy is your best…

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Oral care – Experiment with hard-boiled eggs

Other links

– thechocolatemuffintree.com

– mamabeefromthehive.blogspot.com

– fitkidsclub.blogspot.com

– science-mattersblog.blogspot.com

– luvprek.blogspot.com

– imaginationstationtoledo.org

– thepreschoolexperiment.blogspot.com

Igiene orale: un modello di denti realizzato con bicchierini di plastica

Igiene orale: un modello di denti realizzato con bicchierini di plastica. Il progetto di costruzione del modello non è adatto ai bambini, soprattutto perchè ritagliare i bicchierini richiede una certa forza, e per realizzare un modello impermeabile e resistente all’acqua, l’uso della colla a caldo è necessario. I bambini possono comunque partecipare ritagliando le strisce di  panno, legando i bicchierini tra loro, riempendoli con la carta di recupero. Naturalmente l’uso del modello è invece tutto loro… Il modello può servire ad esercitarsi non solo sull’uso dello spazzolino, ma anche del filo interdentale.

Cosa serve:

– dodici bicchierini di plastica da da caffè
– una superficie rossa (meglio se di plastica)
– strisce di pannolenci rosso
– carta bianca di recupero
– colla a caldo

Per fare in modo che i dentini stiano ben vicini gli uni agli altri, ritagliate così:

poi fare una collana usando nastro adesivo, o biadesivo, o anche con la graffettatrice:

Riempite i dentini con della carta bianca di recupero:

Disponete ad arco i dentini sulla superficie rossa e incollante con abbondante colla a caldo: i dentini devono essere resistenti!

Con altra abbondante colla a caldo aggiungete le strisce di pannolenci alla base dei dentini, a formare le gengive e fissare ulteriormente il tutto. Ritagliate la superficie rossa seguendo l’arco dei dentini.

Se volete rifinite con un giro di nastro isolante colorato, ed il modello è pronto.

Attività di igiene orale

Per preparare l’attività servono:
– acquarelli e pezzetti di carta colorata
– un vaso d’acqua
– spazzolino, dentifricio e filo interdentale

Sporcate il vostro modello così:

Il bambino si dedicherà sua pulizia e sarà un buon modo per mostrare come spazzolare i denti e come utilizzare il filo tra gli spazi interdentali:

Al termine potete proporre anche un tappo di collutorio:

Questo articolo fa parte dell’Album di Vita pratica:

Tutti gli album

Oral care: a model of teeth made of plastic cups. The project of construction of the model is not suitable for children, especially because cut the plastic cups requires a certain strength, and to achieve a model waterproof and water resistant, the use of hot glue is needed. Children can still participate by cutting strips of cloth, tying the cups between them, filling them with waste paper.
Instead the use of the model is their.
The model can be used to practice not only on the use of the toothbrush, but also floss.

Oral care: a model of teeth made of plastic cups

What do you need?

– twelve plastic cups
– A red surface (preferably plastic)
– Strips of red felt
– White paper
– Hot glue

Oral care: a model of teeth made of plastic cups

How is it done?

To make sure that the teeth are very close to each other, cut out in this way:

then make a necklace using adhesive tape, or biadhesive, or even with the stapler::

Filled teeth with of the white paper:

Arrange the teeth in the shape of arc on red surface and gluing with plenty of hot glue: the teeth must be resistant!

With plenty of other hot glue, add the strips of felt at the base of the teeth, to form gums and fixing everything. Cut the red surface following the arch of teeth.

If you want
finish with a round of colored tape, and the model is ready.

Oral care: a model of teeth made of plastic cups

Activities of oral care

To prepare the activities need:
– Watercolors and bits of colored paper
– A glass of water
– Toothbrush, toothpaste and dental floss

Dirtying your model like this:

The child will be dedicated clean it and will be a good way to show how to brush their teeth and how to use the floss between the interdental spaces:

At the end you can also proposing a cap of mouthwash:

FARFALLE E BRUCHI: dettati ortografici e letture

Dettati ortografici FARFALLE E BRUCHI – Una raccolta di  dettati ortografici di vari autori, sul tema farfalle e bruchi, per la scuola primaria.

Come gli uccelli che cantano meglio hanno il piumaggio più semplice, così la più utile tra le farfalle ha un abito semplicissimo. E’ la farfalla del filugello, una farfalla che sa appena volare, che non sa mangiare perchè il suo apparato boccale non glielo consente, non sa far nulla, soltanto deporre le uova e poi morire. Ma da queste uova nasceranno centinaia di bacolini minuti che, mangiando una gran quantità di foglie di gelso, diverranno i preziosi bachi da seta.

La primavera era arrivata e tutto risplendeva di luci e di colori. Un bruco verde e peloso piangeva in mezzo a tanta allegria. Lo udì il vento: “Che cos’hai?”. Il bruco rispose: “Sono triste, perchè tutti hanno schifo di me, anche i bambini…”. Il vento andò lontano, rincorse la primavera: “Dolce fatina” chiamò, “c’è un animaletto infelice, mentre tutti sono allegri: il bruco…”. “E’ vero” disse la fatina, “Come ho potuto dimenticarmi di lui? Va’, digli  che esprima un desiderio. Sarà accontentato”. Il bruco allora osservò i fiori, guardò gli uccelli. “Ecco” disse “Voglio diventare anche per poco, un piccolo uccello dalle ali leggere e colorate come i petali dei fiori”. Fu preso da un freddo terribile e da un sonno profondo. Quando riaprì gli occhi, era un bellissimo insetto con le ali dai colori dell’arcobaleno. Volò sulle erbe e sui fiori con la leggerezza di una piuma: era nata la farfalla. (G. Vaj Pedotti)

 

La farfalla cavolaia gironzolò un poco sotto la foglia per trovare il punto più tenero. Stette un momento immobile come chi ha bisogno di riposare e quindi incominciò a punzecchiare la foglia. Ad ogni punzecchiatura piantava un ovetto giallino. Ne depose una ventina, poi si mise a volare sopra i cavoli. Cercò il rovescio di una foglia e vi piantò un’altra ventina di uova. Sotto una seconda ne piantò dieci; altre ne lasciò sull’orlo. Dopo una settimana al posto delle uova c’erano dei piccoli bruchi verdi, uguali, per colore, alle foglie. E alla distanza di quindici giorni i bruchi, cioè i figli della farfalla, erano molto cresciuti. Mangiavano senza riguardo nell’orlo e in mezzo alle foglie e sempre cercavano di andare verso il centro della pianta dove le foglie erano più tenere. (P. Boranga)

 

Abbiamo osservato nel prato molte farfalle: alcune hanno le ali nere vergate di rosso, altre sono bianche ornate di cerchi arancione, altre ancora sono azzurre e gialle. Tutte sono bellissime. Sul capo hanno due antenne: sono l’organo del tatto e dell’olfatto. Sotto il capo hanno una specie di tromba, un succhiatoio sottile come un capello arrotolato a spirale. Quando si avvicinano ad un fiore svolgono la tromba e la immergono nel cuore della corolla per succhiarvi una goccia di nettare. Le farfalle hanno una vita molto breve.

Una farfalla si posa sopra un fiore. E’ una bellissima farfalla e le sue ali hanno i più gai colori. Ma da lei nasceranno i bruchi che rovineranno tutto l’orto.

Era un modesto bruco che strisciava sopra una foglia di cavolo. Poi, un giorno, quel bruco non ci fu più. Ci fu, invece, una farfalla dalle ali variopinte.

E’ così bella con le sue ali variopinte! Ma, purtroppo, la farfalla deporrà tante piccole uova e da quelle uova nasceranno tanti bruchi che saranno la rovina delle piante.

La farfalla nasce da un piccolo uovo sotto forma di bruco (larva), che striscia sulle foglie o sul tronco o sul frutto di cui si nutre. Mangia voracemente per un certo periodo di tempo, quindi emette un filo con cui tesse una specie di bozzolo nel quale si chiude. Nel bozzolo avviene una prima trasformazione. Non si tratta più di un bruco, ma di un essere quasi coriaceo, immobile, chiamato ninfa. Dopo un certo periodo, la ninfa comincia a muoversi, rompe, col capo, l’involucro che l’avvolge ed esce fornita di ali, non più bruco, ma farfalla. Questa metamorfosi non si compie nell’identico modo per tutte le specie di farfalle; anche il bozzolo  può assumere diversi aspetti, ma, nelle sue grandi linee, la trasformazione segue questo processo.

Le farfalle si possono dividere in tre grandi gruppi: farfalle diurne, farfalle notturne e tignole. Fra le farfalle diurne, le più comuni sono le vanesse dalle ali vagamente variopinte e, fra queste, la cavolaia, flagello degli orti.

L’unica farfalla utile, anzi preziosa all’uomo che ne fa l’allevamento, è la farfalla del filugello chiamato anche baco da seta o bombice del gelso. Il baco cambia pelle cinque volte, nutrendosi di foglie di gelso. Ad un certo punto, smette di mangiare, si arrampica su un rametto ed emette dalla bocca un sottilissimo filo che è tutto di un pezzo e può raggiungere anche la lunghezza di circa mille metri. Con questo filo, il baco si tesse intorno al corpo un bozzolo di purissima seta. Dopo una ventina di giorni, l’animale inumidisce, con un liquido speciale, l’estremità del bozzolo e battendovi forte con il capo, riesce a praticarvi un foro, da cui uscirà farfalla.

Si tratta di una farfalla grossa e tozza che non può volare. Non ha neppure l’apparato boccale e quindi è condannata a morir di fame. Ma, prima di morire, la femmina depone centinaia di piccolissime uova da cui, a suo tempo, nasceranno i piccoli bruchi.

La farfalla scende su un fiore. Immerge ingordamente la testolina nella corolla; spinge il so succhiatoio fino in fondo e succhia il nettare. Approfittando di quella posizione, il fiore scuote sulla testa della farfalla il suo polline. Quando essa ha finito di succhiare il nettare, riprende il volo. Vola di qua e di là. Vede altri fiori simili a quello che ha visitato. Si getta sul primo che incontra. Mette la testolina nel calice. Intanto il polline di cui si era impolverata va a cadere sul nuovo fiore. (P. Bargellini)

La farfalla è un insetto, perciò presenta le stesse caratteristiche generali degli insetti. Il suo corpo brunastro, peloso e fragile, è diviso in capo, torace e addome. Sul capo si trovano due antenne, due grossi occhi composti e l’apparato boccale, costituito di una lunga e sottile proboscide avvolta a spirale come la una molla.

Quando la sera, d’estate, si tengono le finestre aperte, numerose farfalline volano in gran numero verso la sorgente luminosa. Le volano intorno, fino a che cadono esauste, morenti, nel lampadario, dove finiscono la loro breve vita. Sono le tignole. Alcune vengono dalle provviste alimentari: dalla farina, dalla pasta. Altre, di colore grigio dorato, veloci, ma non resistenti volatrici, sono l’incubo delle massaie. E con ragione: sono le tignole dei panni. Esse depositano nelle stoffe di lana, nelle pellicce, le loro uova, dalle quali nasceranno tanti piccoli, distruttori dei nostri indumenti.

Dall’uovo deposto dalla farfalla nasce un piccolissimo bruco. Poichè le uova sono centinaia e centinaia, tanti sono anche i bruchi, che divorano steli, foglie e gemme. Ogni giorno il bruco mangia il doppio del proprio peso; perciò nessuna meraviglia che debba più volte cambiare la pelle, se quella che ha addosso diventa ogni giorno più stretta. Quando il bruco è pienamente sviluppato, abbandona la pianta che lo nutriva e va in cerca di un luogo adatto. Qui si tesse un nido e vi si chiude dentro, oppure si libera semplicemente dell’ultima pelle, trasformandosi in crisalide. Ora è diventato un essere senza gambe, senza testa, fasciato da una pelle rigida e scolpita, che se ne sta immobile come una mummia. Ma dopo un certo numero di giorni questo essere muto, cieco, sordo e immobile incomincia ad agitarsi; la sua rigida scorza si spacca sul dorso; ed ecco venir fuori un essere brutto, raggrinzito, umido. A poco a poco, però, le sue ali si stendono, il corpo si affusola, appaiono i colori, l’insetto fa le prime prove vibrando le ali, e finalmente è perfetto e nitido, tutto nuovo, splendente, e quello che era un bruco strisciante ora vola e vive nell’aria la sua terza vita.

Quando i bruchi nascono, non c’è nessuno che provveda a nutrirli: ed essi stessi devono subito lavorare di mascelle per provvedere all’avvenire. Ma ci provvedono tanto bene che, se tutti i bruchi che nascono vivessero sempre fino a diventar farfalle e a deporre le uova a centinaia, e da queste uova nascessero e vivessero altri bruchi, dotati dello stesso formidabile appetito, potremmo dire addio a tutti i nostri alberi, ai fiori, agli ortaggi: i bruchi finirebbero ogni cosa. La terra resterebbe spoglia, veramente tutta brucata. Ecco perchè, forse, la natura ha disposto che la vira di un bruco sia piuttosto indifesa; non è certamente male, dunque, che di bruchi ne muoiano parecchi.

 

La farfalla è come un fiore vivo, un fiore volante, con due petali soli. Ama il verde dei giardini, dei prati, dei boschi. Se la gode a far l’altalena, su e giù; sotto la carezza del sole. Le sue ali sono ornate di vivi colori e coperte di una polvere fine. Il suo corpo è sottile, il capo piccino e le zampine esili come fili. (T. Fanelli)

Le tignole sono minuscole farfalline dalle ali frastagliate, più o meno colorate, in genere dannose. Parecchie di esse danneggiano il grano, la pasta, la farina; altre sono le famigerate tarme o tignole dei panni, che tutti conoscono, altre ancora sono la rovina dei meli, dei ciliegi e di altri alberi da frutto. Se nella mela, nella ciliegia, troviamo il verme, lo dobbiamo a queste minuscole farfalline che hanno precedentemente deposto un uovo nel calice di ogni fiore, così che il piccolo bruco ha trovato, al suo nascere, un dolce rifugio che è insieme, culla e cibo. (M. Menicucci)

La pieride cavolaia maggiore. Come è bella nella sua veste bianca con sfrangiature verdi e marroni sulle punte, con il corpicino elegante! Ma il povero cavolo come la teme! Questa farfalla si posa sulla pagina inferiore delle sue grandi foglie. Qui depone tante uova ben nascoste. Dopo pochi giorni, dalle uova nascono i bruchi. E che cosa fanno? Brucano la foglia, passano sulla pagina superiore e si mettono a divorare. In breve della bella foglia non ne restano che le nervature.

Chi, guardando le farfalle che volano leggere sui fiori, pensa agli eserciti di bruchi che hanno divorato quintali di foglie, migliaia di piante, centinaia di potenti tronchi d’albero, per soddisfare il loro insaziabile appetito? L’esercito dei bruchi si è trasformato in un esercito di farfalle. All’origine della minuscola tignola di pochi millimetri, come della più grande farfalla australiana, che ha un’apertura d’ali di quasi trenta centimetri, c’è sempre un bruco. (M. Menicucci)

Generalmente i bruchi sono voraci e talvolta questa voracità è veramente straordinaria. Il celebre naturalista Reaumur pesò alcuni bruchi della cavolaia, la bianca farfalla che predilige i cavoli, e diede loro brandelli di cavolo che pesavano il doppio del loro corpo. In meno di ventiquattro ore avevano consumato tutto. In questo tratto di tempo il loro peso era cresciuto di un decimo. Per fare un paragone, un uomo che pesi ottanta chili dovrebbe mangiare centosessanta chili di cibo in un giorno per mettersi alla pari con questi potenti mangiatori! (R. Scaringi)

Esce da un ciuffo d’erba che lo aveva nascosto durante il caldo. Attraversa il viale di sabbia con grandi ondulazioni, e per un momento si crede perduto nell’ombra lasciata dallo zoccolo del giardiniere. Giunto dove sono le fragole, si ferma, si riposa, alza il naso a destra e  a sinistra per annusare, poi riparte, e sotto le foglie sa oramai dove va. Che bel bruco grasso, velloso, impellicciato, bruno, punteggiato d’oro e con gli occhi neri! Guidato dall’olfatto, si dimena e si aggrotta come un sopracciglio folto. SI ferma sotto il rosaio; e con le sue papille sottili tasta la scorza ruvida, muove qua e là la testolina di cane appena nato e finalmente osa arrampicarsi. E questa volta sembra che divori faticosamente tutta la lunghezza del cammino in salita, inghiottendola. (G. Renard)

Colori delle farfalle
Questi insetti dovettero essere dapprima fiori; fiori portati così in alto dallo stelo che finirono per distaccarsene; oppure, sotto una carezza di luce, avvenne che il sogno dei fiori trovò modo di attuarsi, di prendere forma e volteggiare nell’aria. Le ali hanno, infatti, l’apparenza di grandi petali e ne riproducono i colori: dal rosso fuoco del tulipano all’azzurro del giacinto, dal giallo del ranuncolo al bianco del ciliegio, dal lilla dell’iris alla cupezza della mammola. E’ perchè la luce, quando colpisce un’ala di farfalla, non incontra una superficie liscia, ma un succedersi di minuscole lamine, di scudi minuscoli articolati sulla superficie dell’ala; e ciascuno di questi ha il suo modo di riflettere e diffondere la luce quasi come le sfaccettature di un diamante. Quella polvere dorata che ci resta sulle dita quando si tocca un’ala di farfalla, non è fatta che da un insieme di tali scudi, così lievi e delicati, ca non sopportare contatti che non siano quelli dell’aria e della luce.
(A. Anile)

Prime farfalle
Un picchio è nascosto tra i pioppi; con il suo becco appuntito, esso batte senza posa nella corteccia degli alberi. E’ questo il segno che è arrivata la primavera e l’uccello dalle belle piume di color porpora dà, in tal modo, il lieto annuncio alla formica. Nell’aria serena e luminosa i campi sembrano sorridere, mentre timida timida la violetta spunta sotto i cespugli e il salice piega le verdeggianti fronde sull’acqua del limpido fiume. Nel prato svolazzano intanto le prime farfalle. Un ragazzino le insegue con sfrenata allegria, nel desiderio di acchiapparle, e il suo volto si illumina di gioia, quando può ammirare la sua mano cosparsa di una polverina d’oro: è riuscito, finalmente, a prenderne una!
(V. Verdusio)

La farfalla
Si dice che le farfalle siano dannose. E che male può fare una variopinta farfallina che vola, leggiadra, di fiore in fiore, succhiando il nettare e beandosi di sole? Se si accontentasse di questo non farebbe male a nessuno. Ma la farfalla è un’ottima mamma e un giorno depone tante uova, piccole piccole, ma tante, tante. A primavera, saranno nati tanti bruchi, piccoli piccoli, ma tanti tanti, che in poco tempo divoreranno tutto ciò che capita sotto il loro instancabile apparato boccale.

Le farfalle
Se vi trovate, in primavera o d’estate, in campagna, vedrete farfalle di ogni colore e d’ogni grandezza volare sui fiori. Alcune volano in alto, altre si posano leggiadramente sui fiori e vi indugiano, infilando la oro tromba nel calice, a succhiarvi la gocciolina di nettare in esso contenuta. E quando il sole è tramontato, ecco miriadi di farfalline accorrere intorno alle sorgenti luminose e, qualche volta, in mezzo a loro c’è una grossa farfalla dal corpo pesante che sembra volare quasi a fatica. E’ una farfalla notturna.

Le farfalle
Hanno sulla fronte due corna fini, due antenne ora sfilate, a ciuffo, ora frastagliate a pennacchio. Hanno sotto la testa una tromba, una cannuccia sottile, come un capello arrotolato a spirale. Quando si avvicinano a un fiore, svolgono la tromba e la immergono in fondo alla corolla, per bervi una goccia di liquore melato. Oh, come sono belle!
(Fabre)

La farfallina del melo
Le farfalline deposero un piccolo uovo in ogni fiore del melo, poi morirono perchè le farfalle, quando hanno pensato ai piccini che debbono nascere, non hanno più nulla da fare. I fiori del melo perdettero i petali e pian piano si trasformarono in frutti. Ma in ognuna di quelle piccole mele che il sole coloriva e faceva diventare sempre più grosse, c’era un bacolino nato dall’uovo deposto dalle farfalline azzurre, un bacolino che aveva trovato la casa e insieme la polpa saporita da mangiare.

Le farfalle
Come sono belle! Ve ne sono con le ali vergate di rosso sopra un fondo granata; ve ne sono di un turchino vivo con dei cerchi neri; altre sono bianche e orlate d’aurora. Hanno sulla fronte due corna fini, due antenne ora sfilate a ciuffo, ora frastagliate a pennacchio.
(Fabre)

La farfallina
La farfallina scende su un fiore. Immerge ingordamente la testolina nella corolla; spinge il suo succhiatoio fino in fondo e succhia il nettare. Approfittando di quella posizione il fiore scuote sulla testa della farfalla il suo polline. Quando essa ha finito di succhiare il nettare, riprende il volo.
(P. Bargellini)

La farfalla
Quando la farfalla ha finito di succhiare il nettare, riprende il volo. Vola di qua vola di là. Vede altri fiori simili a quello che ha visitato. Si getta sul primo che incontra. Mette la testolina nel calice e intanto il polline, di cui si era precedentemente impolverata, va a cadere sul nuovo fiore.
(P. Bargellini)

Bruchi e farfalle
Chi, guardando le farfalle che volano leggere sui fiori, pensa agli eserciti di bruchi che hanno divorato quintali di foglie, migliaia di piante, centinaia di potenti tronchi d’albero, per soddisfare il loro insaziabile appetito? L’esercito di bruchi si è trasformato in un esercito di farfalle. All’origine della minuscola tignola di pochi millimetri, come della più grande farfalla australiana, che ha un’apertura d’ali di quasi trenta centimetri, c’è sempre un bruco.

Il bruco
Il bruco non ha che un dovere, non sente che un richiamo, non ha che un’occupazione: mangiare. Possiamo considerare il bruco come un tubo digerente che si muove. Nulla lo interessa se non quello che può soddisfare il suo appetito formidabile. E ingrassa. Soltanto quando è giunto al massimo della sua dimensione, quando il suo peso è aumentato anche fino a sedicimila volte quello originario, soltanto allora il cibo non lo interessa più.

Il bruco tessitore
Quando il bruco è arrivato al massimo della sua dimensione che la natura gli impone, ecco che il cibo non lo interessa più. Ne ha nausea. Diventa schifiltoso. Si sente tardo, pesante, obeso. E’ in attesa di qualcosa che non sa ancora definire, ma che egli sembra cercare con i movimenti pieni di ansia della sua testa oscillante. Poi, improvvisamente, si mette a secernere qualcosa che diventa rapidamente un filo, tanti fili uniti insieme, lunghi e luminosi e forti e resistenti, e dentro ci sono le immense quantità d’erba, di foglie, di legno che il bruco ha divorato durante il primo stadio della sua vita.

Le tignole
Sono minuscole farfalline dalle ali frastagliate, più o meno colorate, in genere dannose. Parecchie di esse danneggiano il grano, la pasta, la farina: altre sono le famigerate tignole dei panni che tutti conoscono, altre ancora sono la rovina dei meli, dei ciliegi e di altri alberi da frutto. Se nella mela, nella ciliegia, troviamo il verme, lo dobbiamo a queste minuscole farfalle che hanno precedentemente deposto un uovo nel calice di ogni fiore, così che il piccolo bruco ha trovato, al suo nascere, un dolce rifugio che è insieme culla e cibo.

Il bozzolo
Dopo aver tanto gozzovigliato, il bruco si scopre la vocazione del penitente. Vuol farsi eremita. Si costruisce intorno un bozzolo con un filo lungo anche migliaia di metri e vi si chiude dentro in attesa del miracolo che premierà la sua improvvisa vocazione, il suo ritiro da monaco. Diventa rigido, cade come in catalessi. Tutto fasciato come una mummia, non sente, non vede più. E’ coriaceo, immobile, morto. Ma un giorno, il morto resusciterà.

La farfalla
La farfalla sembra attirata dai fiori; ma non è il fiore, è una goccia di dolcissimo nettare che la chiama a sè irresistibilmente. Chi ha mai mangiato foglie di cavolo? O foglie di gelso? Chi ha mai rosicchiato legno? Chi si è mai cibato di peluzzi di lana? Il nettare, ecco il cibo della farfalla. Essa si posa sul fiore e ne percepisce lo squisito sapore zuccherino con… le zampe. E’ all’estremità delle loro zampette che le farfalle hanno gli organi gustativi.

Le farfalle
La farfalla si era staccata con indicibile dolcezza da uno stelo e ora di librava con volo incerto; molte farfalle, simili a quelle che aleggiavano sopra la prateria, rapide solo in apparenza, oscillavano su e giù in un gioco entusiasmante. Sembravano dei fiori vaganti, giocondi, che non avevano più potuto restare sullo stelo e s’erano saccati per danzare un po’; oppure fiori giunti col sole, che non avevano ancora il loro posto e cercavano all’intorno. Si lasciavano cadere come se l’avessero trovato, poi subito risalivano e continuavano nella ricerca.
(F. Salten)

Da dove vengono i bachi della frutta

Qualche volta, tagliando a metà un frutto, ci capita di vedere la sua polpa intaccata da lunghe gallerie. In fondo a queste vive tranquillo un baco. Com’è entrato nel frutto?
Ve l’ha depositato, sotto forma di uovo, la piccola mosca dei frutti, forandone la buccia. Poi l’uovo si è trasformato in baco, che, per nutrirsi, ha mangiato la polpa del nostro frutto, scavando le gallerie che vediamo.

L’imperatrice cinese Silinci ebbe un giorno dall’imperatore un piccolo baco e questo consiglio: “Impara ad allevare questo baco e il popolo non ti dimenticherà mai”. Silinci prese ad osservare i bachi, e vide che essi, quando fanno le loro dormite, si rivestono di un tenue velo di fili. Ella scelse quei fili e tessè un fazzolettino. Silinci vide poi che i bachi montavano sui gelsi. Allora ella prese a raccogliere le foglie dei gelsi e a nutrire con esse i bachi. Così i bachi allevati furono moltissimi e Silinci volle che tutto il popolo imparasse la nuova arte. Da allora sono passati cinquemila anni e i Cinesi ricordano ancora l’imperatrice che insegnò loro ad allevare il prezioso baco da seta. (L. Tolstoj)

Gli alberi che per primi si sono ricoperti di larghe foglie, i gelsi che segnano in lunghi filari i campi dalle messi ancora immature, si trovano di giorno in giorno più spogli. Non hanno potuto attendere l’autunno con gli altri alberi. Le mani degli uomini li hanno spogliati per nutrire i bachi voraci e quelle foglie saranno trasformate in seta lucente.

Dettati ortografici FARFALLE E BRUCHI – Le farfalle diurne

La Cleopatra annuncia per prima, a febbraio – marzo, la buona stagione. E’ gialla e ha sulle ali anteriori una macchia rossastra.

Lo splendido Macaone ha le ali anteriori screziate di nero e di giallo e le ali posteriori con bordi neri e gialli, una striscia blu, ancora una macchia gialla e due “occhi” rossi sulle estremità. Appare in marzo.

La Pieride Cavolaia è pure bianca con una macchia bruna sulla punta delle ali anteriori. Il maschio ha anche due macchie brune. La possiamo trovare in aprile.

La farfalla Circe è la farfalla che si nasconde. Tenendo congiunte le ali di un bel marrone carico con striscia verticale chiara, si posa su un tronco. Se qualcuno si avvicina, gira intorno al tronco e poi, non vista, prende il volo.

La Pavonia maggiore è il gigante degli insetti europei: le sue ali aperte misurano anche quindici centimetri di larghezza. Il suo nome deriva dalle macchie a forma di occhio, simili a quelle del pavone, poste sulle sue ali. Le sue ali hanno tonalità di colori che vanno dal marrone al giallo. La larva è vivacemente colorata e vive sugli alberi da frutta.

La Vanessa Atalanta e la Vanessa Jo, detta “occhio di pavone”, sono altri due splendidi esemplari estivi. Entrambe hanno come colore di fondo un arancione affocato. La prima, un po’ più grande, ha grandi macchie scure e bordi variegati con striature azzurre sulle ali inferiori. La seconda ha quattro grandi macchie simili a quelle che ornano le penne del pavone.

La Singe Testa di Morto è chiamata così per il disegno che ha sul torace, assomigliante a un teschio. Se viene stuzzicata emette un suono stridulo dovuto allo sfregamento della spiritromba cornea.

Nell’America meridionale, nell’India e nell’Australia, vivono le farfalle dai colori più brillanti e forme più strane. Una di queste è il Morphos Menelaus dell’America del Sud, dalle ali di un blu metallico e splendente.

Il Papilio Priamus dell’India ha invece strisce e macchie verde smeraldo su fondo nero. E’ molto grande e, quando volteggia sulle chiome degli alberi, sembra un uccello.

La Papilio, che vive nelle foreste vergini dell’Africa occidentale, è una tra le più grandi farfalle che si conoscano. Ha un’apertura d’ali di circa ventidue centimetri.

Le farfalle

Le quattro ali della farfalla sono ricoperte da piccolissime scaglie che, ad occhio nudo, sembrano una finissima polverina.
Le specie di farfalle sono moltissime, circa centomila, e tutte meravigliosamente colorate. Volano di fiore in fiore alla ricerca del nettare, di cui si nutrono.
La loro bocca è adatta a succhiare; infatti è munita di una tromba o proboscide, avvolta a spirale, che si svolge al momento di introdursi in fondo al calice del fiore per succhiarne il nettare.
Le farfalle che volano di giorno (diurne) hanno il corpo esile e un volo leggero. Quando viene la sera si nascondono in cantucci oscuri.
Le farfalle notturne hanno invece un corpo molto robusto e grosso; di sera volano attorno ai lampioni accesi e quando riposano tengono le ali distese come quelle di un aeroplano.
La farfalla prima di diventare come la vedi subisce alcune trasformazioni, cioè una metamorfosi. Dall’uovo di farfalla, deposto tra le erbe o sulle piante, nasce un bruco che si nutre di foglie, di fiori e di frutti. Successivamente il bruco diventa una crisalide che si chiude nel suo bozzolo e dorme. Dopo un certo tempo, dal bozzolo esce la farfalla ancora umida e molle. Quando si è asciugata, spicca il volo leggera come una piuma.
La vita delle farfalle è breve; alcune vivono poche ore, altre qualche giorno. In questo periodo depongono continuamente uova.

Voracità dei bruchi

Quando i bruchi nascono, non c’è nessuno che provveda a nutrirli: ed essi stessi devono subito lavorare di mascelle per provvedere all’avvenire. Ma ci provvedono tanto bene che, se tutti i bruchi che nascono vivessero sempre fino a diventare farfalle e deporre le uova a centinaia, e da queste uova nascessero e vivessero altri bruchi, dotati dello stesso formidabile appetito, potremmo dire addio a tutti i nostri alberi, ai fiori, agli ortaggi: i bruchi finirebbero ogni cosa. La terra resterebbe spoglia, veramente tutta brucata. Ecco perchè, forse, la natura ha disposto che la vita di un bruco sia piuttosto indifesa; non è certamente male, dunque, che di bruchi ne muoiano parecchi.

 

Le farfalle

Come sono belle! Ve ne sono con le ali vergate di rosso sopra uno sfondo granata, ve ne sono di un turchino vivo con dei cerchi neri; altre sono bianche e orlate d’aurora. Hanno sulla fronte due corna fini; due antenne, ora sfilate a ciuffo ora frastagliate a pennacchio. Hanno sotto la testa una tromba, un succhiatoio sottile come un capello, arrotolato a spirale. Quando si avvicinano a un fiore, svolgono la tromba e la immergono in fondo alla corolla, per bervi una goccia di liquore melato. Oh, come sono belle! (E. Fabre)

Bruchi sempre affamati

Generalmente i bruchi sono voraci e talvolta questa voracità è veramente straordinaria. Il celebre naturalista Reaumur però alcuni bruchi della cavolaia, la bianca farfalla che predilige i cavoli, e diede loro brandelli di cavolo che pesavano il doppio del loro corpo. In meno di ventiquattro ore avevano consumato tutto. In questo tratto di tempo il loro peso era cresciuto di un decimo. Per fare un paragone, un uomo che pesi 80 kg dovrebbe mangiare 160 kg di cibo in un giorno per mettersi alla pari con questi potenti mangiatori! (R. Scaringi)

Il bruco

Esce da un  ciuffo d’erba che lo aveva nascosto durante il caldo. Attraversa il viale di sabbia con grandi ondulazioni e per un momento si crede perduto nell’ombra lasciata dallo zoccolo del giardiniere. Giunto dove sono le fragole, si ferma, si riposa, alza il naso a destra e a sinistra per annusare, poi riparte, e sotto le foglie sa ormai dove va.
Che bel bruco grasso, velloso, impellicciato, bruno, punteggiato d’oro e con gli occhi neri!
Guidato dall’olfatto, si dimena e si aggrotta come un sopracciglio folto. Si ferma sotto il rosaio; e con le sue papille sottili tasta la scorza ruvida, muove qua e là la testolina ci cane appena nato e finalmente osa arrampicarsi.
E questa volta sembra che divori faticosamente tutta la lunghezza del cammino il salita, inghiottendola. (G. Renard)

 

Le farfalle

Nelle farfalle, la natura ha spiegato il massimo della prodigalità, in bellezza ed armonia di colori. La spettacolosa varietà delle tinte, le iridescenze, i riflessi metallici, la morbidezza vellutata, la leggiadria del volo, l’istinto infallibile che le porta a scegliere il luogo più adatto per la loro conservazione, tutto possiedono questi insetti, che sembrano creati per rappresentare la bellezza nel regno animale.

La vita. Nell’analizzare la loro esistenza, si rimane stupiti da tanta armonia. La vita delle farfalle è generalmente breve e le femmine muoiono dopo aver deposto le uova. Dall’uovo all’insetto perfetto (e di nuovo all’uovo) passa di solito circa un anno e precisamente il ciclo di sviluppo va da una primavera all’altra.
Tuttavia in molte farfalle diurne si possono avere nello spazio di un anno, due generazioni. Il periodo larvale ha una durata varia, da poche settimane a parecchi mesi: anche la durata della ninfosi è varia. In alcune specie la farfalla si schiude dopo una o due settimane, in altre lo stadio ninfale si prolunga per tutto l’inverno, mentre la farfalla completa ha un periodo di vita che va da qualche giorno a due mesi.

Dall’uovo alla farfalla. Le farfalle depongono uova piccolissime: anche nelle specie più grandi, non superano le dimensioni di una capocchia di spillo. Dall’uovo non esce l’insetto alato, bensì una larva, o bruco, senza ali, di aspetto simile ad un verme, che cresce rapidamente, mutando quattro o cinque volte la propria pelle.
I bruchi si muovono lentamente, ed hanno in generale colori poco vistosi: il loro corpo è ornato talora di bitorzoli pelosi, di setole, di cornetti uncinati. La bocca è formata da due mascelle taglienti con cui divorano foglie, fiori, frutta, legno.
Quando la larva ha raggiunto un completo sviluppo, non si nutre più e va in cerca di un luogo adatto per trasformarsi in ninfa. Per far questo la larva si appende mediante un filo ad un ramo, o si avvolge in un involucro, tessuto con fili che emette dalla bocca (in tal caso la ninfa si chiama crisalide), o si sprofonda nel terreno o nel legno o si avvolge nelle foglie.
Mentre la ninfa sta così racchiusa, avviene la sua ultima trasformazione, e dopo un tempo più o meno lungo uscirà dal suo involucro la farfalla.

Come sono fatte. Mirabile è l’anatomia di questi insetti. Le farfalle hanno quattro ali membranose; sul capo due antenne di forma e lunghezza variabili e lateralmente due grandi occhi composti, formati cioè da migliaia di minutissimi occhi tubolari. La bocca è composta da un tubo avvolto a spirale, detto spiritromba, per mezzo del quale le farfalle succhiano dai fiori le sostanze zuccherine (nettare).
Questi insetti dell’ordine dei Lepidotteri sono diffusi dappertutto, dove c’è vegetazione.
La loro parte più interessante sono le ali, ricoperte su entrambe le facce da piccolissime squame, variamente colorate e facilmente distaccabili: infatti esse formano un pulviscolo variopinto che rimane attaccato alle nostre dita quando afferriamo l’insetto. Le squame sono di varia forma, rotonde o ovali, seghettate, tronche o acute all’apice, inserite per mezzo di articoli in corrispondenti piccolissime cavità della lamina alare e disposte in modo da dar l’impressione di un rivestimento di piastrine smaltate.
Le diverse tinte delle squame dipendono dai vari strati di cellule del tegumento, i quali possono essere più o meno ricchi di materie coloranti. Ma le iridescenze ed i colori cangianti sono dovuti indubbiamente all’effetto ottico combinato da due o più squame vicine, e siccome la luce e la temperatura influiscono potentemente sulle cellule del derma, le farfalle delle zone torride sono più vistose, mentre vi è una diversità di colorazione sulle due facce dell’ala. Nella maggior parte dei casi, la colorazione della faccia inferiore è povera ed uniforme, e ciò soprattutto per difesa: poichè nel volo la farfalla ha poco da temere, mentre in riposo le occorre una colorazione che si discosti poco dall’ambiente.
Quando la farfalla si posa su di un ramo, avvicina le ali in modo che si dispongano verticalmente e lascino vedere solo la faccia inferiore.

 

Dettati ortografici FARFALLE E BRUCHI – Tutte le opere  contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. 

LE API E LE VESPE: dettati ortografici e letture

Dettati ortografici LE API E LE VESPE – Una raccolta di  dettati ortografici di vari autori, sul tema farfalle e bruchi, per la scuola primaria.

Le api
Le api, come le formiche, si riuniscono in una società a capo della quale c’è la regina, che non ha che un dovere: fare le uova. Le brave api operaie penseranno poi ad allevare e a custodire la prole. Intanto le altre andranno a far bottino di nettare e di polline. Volano di fiore in fiore, e poi portano le loro provviste all’alveare dove fabbricheranno il miele e la cera.

Le api
Quando i giardini i prati e le foreste fanno pompa delle loro fioriture, rare volte pensiamo che milioni di fiori leggiadri nascondono preziosi tesori. I ricchi tesori sui quali nessuno fa valere il più piccolo diritto di proprietà, sono le minutissime gocce di nettare che le api laboriose estraggono dalla più profonda cavità della corolla e che convertono in miele e cera. L’uomo perciò prese ad allevare le api che, nelle antiche età, vivevano allo stato selvatico e nascondevano il miele nelle fenditure delle rocce e in alberi cavi.
(Reichelt)

Le api
Hanno scosso il lungo torpore invernale: la regina si è messa di nuovo a deporre le uova fin dai primi giorni di febbraio. Le operaie hanno visitato gli anemoni, i giunchi, le violette, i salici, i noccioli. Poi la primavera ha rivestito la terra; i granai e le cantine traboccano di miele e di polline. Migliaia di api nascono ogni giorno. (Meeterlinck)

Fiori e api
La natura ha dato ai fiori una forma tale da attirare le api, e alle api un corpo che si adatta ai fiori, un corpo che reca loro il polline e che a sua volta usa il polline e il nettare dei fiori. Qualcosa come diecimila specie di fiori si sarebbero estinte se non ci fossero state le api, e le api non potrebbero vivere senza fiori. Nel colmo di una giornata umida e calma, il flusso del nettare alla base dei petali dei fiori d’arancio è il massimo. L’aria è satura del suo profumo che, da lontano, attira le api.
(D. Culross Peattie)

La vespa
La vespa è simile all’ape, ma di questa non ha nessun merito. Le vespe si distinguono dalle api perchè, quando stanno in posizione di riposo, ripongono le ali superiori che sembrano, così, strettissime. Si nutrono non soltanto di polline e di nettare, ma anche di frutta e perfino di carne. L’aculeo delle vespe ha, alla base, una borsetta piena di veleno; per questo la puntura della vespa è ancora più pericolosa di quella dell’ape. Il nido delle vespe, di forma rotonda, è costituito da un materiale simile al cartone che la vespa fabbrica elaborando, con la saliva, il legno degli alberi.

L’ape e la vespa si assomigliano; spesso i bambini le scambiano fra loro per il loro aspetto quasi simile, ma questi insetti cugini hanno delle abitudini, e anche delle qualità, molto differenti.
La vespa costruisce un nido con il legno degli alberi che essa mastica trasformandolo in una specie di cartone. Forse l’uomo ha imparato proprio dalla vespa a fabbricare la carta con la pasta di legno. Le vespe vivono in colonie, e le progenitrici di queste colonie sono alcune femmine sopravvissute alla stagione passata. Queste femmine depongono uova da cui nascono maschi e operaie. Alla fine della buona stagione, le vespe muoiono, meno alcune regine che svernano per dar vita, in primavera, a una nuova famiglia.

Le vespe
Non sono animali simpatici perchè, se pungono, il loro pungiglione darà un dolore intenso che non passerà tanto presto. Eppure le vespe hanno insegnato come si fabbrica la carta. Infatti, masticando sostanze vegetali e cementandole con la saliva, le vespe fabbricano un vero e proprio materiale cartaceo col quale costruiscono il loro nido.

Il nido delle vespe
Le vespe, per fabbricare il loro nido, scelgono di preferenza i pali della corrente elettrica o alberi dai quali possono staccare facilmente il materiale da costruzione che è loro necessario. Sgretolano quindi il legno, ne formano pallottole e costruiscono le celle, trasformando il legno in pasta per mezzo della saliva. Le celle non sono regolari come quelle delle api. Le femmine vi depongono le uova e subito nascono le larve che le vespe nutrono con una poltiglia di insetti afferrati con rapidi voli. (T. Stagni)

L’ape è uno dei pochissimi insetti che l’uomo alleva (l’altro è il filugello o baco da seta). Anche fra le api c’è una regina che è la madre di tutta la popolazione dell’alveare; ci sono i fuchi (maschi) tra i quali la regina sceglie lo sposo. Essi muoiono dopo o vengono uccisi subito dopo avvenuta la fecondazione. Il resto della popolazione è formato dalle operaie, che sono quelle che vediamo visitare indefessamente i fiori, succhiarne il nettare e il polline. Il polline viene messo in apposite sacchette che le api hanno nelle zampe; il nettare viene raccolto nel canale digerente, trasformato in miele e rigurgitato, poi, nell’alveare.
L’alveare, fabbricato dalle stesse api, è formato da molte cellette prismatiche a sezione esagonale, disposte in due strati. Queste cellette costituiscono il favo e sono fatte di cera, sostanza prodotta dalle ghiandole addominali delle operaie, e intonacate di propoli, sostanza resinosa ricavata dalle gemme dei pioppi.
Dentro il favo viene depositato il miele che dovrebbe servire al nutrimento delle larve e di tutta la popolazione dell’alveare. Le cellette non sono tutte uguali, ma differenti, a seconda dell’uso a cui devono servire: le più piccole sono per le operaie, quelle grandissime per le future regine.
Il meraviglioso è che la regina sa, in precedenza, quali individui usciranno dalle uova che depone e lascia cadere quelle operaie, dei fuchi, e delle future regine, nelle cellette appositamente costruite per ognuno.
Le operaie più vecchie hanno l’onore e l’onere di allevare i nascituri. Appena la piccola larva esce dall’uovo, viene nutrita con miele e con polline semidigerito. Per le larve di regina si usa un regime speciale, la pappa reale, che ha il compito di favorirne lo sviluppo. Non solo, ma questo alimento, prezioso e privilegiato, servirà alla formazione di quelle uova che un giorno la futura regina deporrà.
Dopo pochi giorni, dalle uova escono le ninfe, e allora le nutrici le chiudono nelle cellette, da dove, dopo sette giorni, usciranno trasformate in insetti perfetti.
Durante il suo volo, l’ape operaia visita migliaia di fiori. Affonda nel calice la proboscide, succhia il nettare che introdotto nello stomaco, a contatto con speciali succhi, viene trasformato in miele o in cera, a seconda della necessità.
Se nell’alveare nasce un’altra regina, si accende una lotta accanita fra la vecchia e la nuova. La lotta ha un esito mortale: in un solo alveare non possono rimanere due regine. Ma se l’alveare è troppo numeroso, allora l’istinto infallibile avverte le due contendenti, le quali in questo caso, non si combattono. Una di esse, in genere la più giovane, sciamerà, cioè partirà dall’alveare portando con sè uno sciame numeroso di operaie e di fuchi.
Trovato il posto che le pare adatto per fondare il nuovo regno, la regina si ferma e si aggrappa a un appiglio qualunque, in genere il ramo di un albero, e ad esso si appendono, come in un meraviglioso grappolo, tutte le alte api. L’apicoltore sta in guardia: quando le api sciamano, le insegue e cattura lo sciame con mezzi vari.
Per favorire la costruzione dell’alveare l’uomo prepara per lo sciame delle apposite cassettine. La cassettina, il favo e lo sciame formano quello che si chiama arnia. L’alveare è costituito dai soli favi che qualche volta le api si costruiscono anche nei tronchi cavi degli alberi.

L’ape ha una difesa: il pungiglione, un aculeo che nasconde nell’addome. Ma, quando è costretta a servirsene, ciò segna anche la sua condanna a morte perchè il pungiglione resta nella ferita e, con esso, parte dell’apparato digerente dell’insetto.

Creature laboriose
Con i primi tepori della primavera abbiamo visto uscire dalle arnie le api. Sono già in cerca di corolle aperte alla luce per raccogliere il nettare dolce, che trasformeranno in dolcissimo miele.
Talvolta vediamo le api ferme tra i rami degli alberi resinosi: raccolgono sostanze vischiose con cui tureranno le fessure della propria casina.
(G. G. Moroni)

Uno sciame d’api
Che cos’è questa musica che sembra sgorgare, grave, dal cuore del ciliegio come da un violoncello magico, e gli vibra intorno, senza uscire dalla cerchia dei rami in fiore? E’ uno sciame d’api. Da dove vengono? Forse dagli alveari dell’orto poco discosto da qui. Le ha chiamate odor di cibo dolce, odor d’aprile.
(A. Negri)

Lo sciame
Quando la nuova generazione è completa, nell’alveare c’è troppa gente e bisogna decidersi a sfollare. Allora, un forte gruppo di api, preceduto dai maschi, vola via dall’alveare con una nuova regina. Tutte vanno in cerca di un luogo sicuro per formare un nuovo alveare. Ma appena trovato il luogo, i maschi vengono cacciati via. La regina si mette subito al lavoro, che è quello di fare migliaia di uova che dovranno assicurare la popolazione del nuovo alveare.

Le api
Quando i giardini, i prati e le foreste fanno pompa della loro fioritura, rare volte pensiamo che milioni di fiori leggiadri nascondono tesori preziosi. I ricchi tesori sui quali nessuno fa valere il più piccolo diritto di proprietà, sono le minutissime gocce di nettare che le api laboriose estraggono dalla più profonda cavità della corolla e che convertono in miele e in cera. L’uomo, perciò, prese ad allevare le api che, nelle antiche età, vivevano allo stato selvatico e nascondevano il miele nelle fenditure delle rocce e in alberi cavi.
(Reichelt)

Le api
L’uomo deve essere molto grato alle api che fabbricano per lui un prodotto nutriente e delizioso, il miele. Le operaie volano di fiore in fiore succhiando polline e nettare e che poi trasformano in cera e in miele. La cera serve a fabbricare i favi, tutti a cellette esagonali perfettissime in alcune delle quali viene racchiuso il miele, mentre in altre la regina depone le uova. Abitanti dell’alveare sono anche i fuchi, cioè i maschi, che a un certo punto vengono cacciati fuori e muoiono di fame perchè incapaci di procurarsi il cibo, o sono uccisi dalle api stesse.

Il favo
Il favo è formato di celle esagonali fatte con cera che trasuda l’addome delle api operaie. Le cellette non sono tutte uguali. Alcune sono più piccole e in esse la regina depone le uova che daranno vita alle operaie; in altre, più grandi, sono deposte le uova da cui nasceranno i fuchi, cioè i maschi. Più grande di tutte, a forma di ghianda, è la cella che servirà alla regina, la futura rivale della regina madre.

Il miele
Il nettare, viene introdotto nel proventricolo dell’ape dove, a contatto coi succhi gastrici, si trasforma in miele. Allora l’ape entra nell’alveare e con le zampette lo spinge in una cella. Un’altra ape lo comprime ben bene col capo e, dopo, la cella piena viene chiusa con la cera. Altre celle sono lasciate vuote per accogliere le uova che la regina vi depositerà.

Lo sciame
Le api sciamano, d’ordinario, nello ore del mezzogiorno e con impeto selvaggio si precipitano come fiocchi di neve, quando cade fitta fitta. Quindi si posano sul ramo dell’albero vicino attaccandosi l’una all’altra, finchè sono tutte ammucchiate come un grappolo pendente. L’apicoltore accorre pronto con un alveare vuoto e cautamente ci mette dentro lo sciame. Più presto le api sciamano e più l’apicoltore gode perchè allora il popolo minuscolo può raccogliere più ricche provvigioni per l’inverno ed egli deve venire loro in aiuto con poco nutrimento.
(Reichelt)

Dentro alle arnie lavorano le api. Vivono in grande armonia tra loro. Le api operaie sono all’opera: chi va in cerca del dolce succo dei fiori; chi resta a costruire i favi; chi fa la pulizia delle cellette; chi prepara il cibo ai piccini e alla regina; chi scalda le covate e chi porta via i morti. Soltanto l’ape regina, che è la più grossa delle altre, vive da… regina. E non fa nulla? No, fa molto anche lei. Depone migliaia di uova per la conservazione della specie.
(Lipparini)

Le api
Fuori dell’alveare è un brulichio confuso di api che si raccolgono intorno ai fori d’entrata. Le operaie entrano ed escono senza posa, con un ronzio sonoro e affaccendato. Visitano tutti i fiori, instancabilmente. Succhiano il nettare, si caricano di polline e nel prodigioso laboratorio del loro proventricolo trasformano questa sostanza in miele e cera. Intanto la regina è occupata a deporre migliaia di uova, le sentinelle fanno buona guardia, le nutrici custodiscono le piccole larve e le sventolatrici agitano senza posa le loro ali affinchè nell’alveare venga mantenuta la temperatura necessaria al benessere di quel laborioso popolo.

L’ape
Quando i giardini, i campi, i prati fanno pompa della loro fioritura, noi ricordiamo che questi leggiadri fiori nascondono un tesoro di cui non sappiamo servirci. Ma qualcuno lo sa. Lo sanno le api, minuscole operaie laboriose e industriose che raccolgono il giallo polline, che succhiano la dolce stilla di nettare racchiusa nei calici e trasformano il loro raccolto in cera e miele, prodotti tanto utili all’uomo.

Le api
E’ uno sciame d’api. Le ha chiamate odor di cibo dolce, odor d’aprile. Volano, ronzano attorno ai fiori, vi s’attaccano, ne cercano e ne estraggono il nettare e il loro corsaletto d’oro e di ambra splende nel sole. Le une sanno ciò che fanno le altre; un’unica intesa le guida, le rende strumenti di perfetta orchestra.
(A. Negri)

Ora che siamo in maggio e le rose sono tutte in fiore, nell’aria si sente un gran brusio. Le api vanno, vengono, frettolose e infaticabili, e sembrano d’oro nel sole d’oro. Vanno a fare il loro bottino di polline e di nettare nei calici dei fiori e lo portano alle loro casette, dove lo trasformano in cera e miele. (G. Zanetti)

Che cos’è questa musica che sembra sgorgare dal cuore del ciliegio e gli vibra intorno senza uscire dalla cerchia dei rami in fiore? E’ uno sciame di api. Di dove vengono? Forse dagli alveari che sono nell’orto, poco distanti di qui. Le ha chiamate odor di cibo dolce. Svolano, ronzano intorno ai fiori, vi si attaccano, ne cercano e ne estraggono il nettare. (A. Negri)

“Zzz…. zzz… zzz…!”. Sono le api. Ronzano intorno ai fiori. Succhiano il dolce nettare e si caricano di polline. Poi, veloci, tornano all’alveare. Per riposarsi? No, per deporre il miele e la cera. Il miele d’oro, dolcissimo. La cera bianca, profumata. Il cibo per noi e la fiamma per la candela.

Le api ronzano intorno all’alveare. “Come vi affaccendate, api! Ma che cosa c’è di nuovo?”. “La regina ha deposto le uova. Molte, una per ogni celletta. Adesso, noi api operaie, dobbiamo fare molto miele per nutrire le larve che nasceranno tra poco. Il prato è smaltato di fiori nuovi; il giardino, le siepi, gli alberi da frutto ci offrono il nettare. Non dobbiamo perdere tempo”. Le api vanno e vengono dall’alveare ai fiori, dai fiori all’alveare. (Davanzato Scotti)

Un alveare è come una città. Una città di gente laboriosa. Ogni cittadino ha un compito. C’è la regina che depone le uova ed è la madre di tutte le api. Ci sono i fuchi e le operaie. A queste ultime spetta il compito di andare per i campi a raccogliere le provviste. Altre devono costruire le case, le celle. Altre ancora sono incaricate di accudire alle api bambine. Le operaie per strumenti di lavoro, hanno le spazzole e il cestello. Per fare la raccolta penetrano nei fiori, si coprono di polline e succhiano il nettare, il succo zuccherino che è nel calice. (M. Di Filippo)

Dall’apicoltore
Le api che si vedono entrare nell’alveare sono le api operaie. Esse volano da un fiore all’altro e, con le speciali spazzole delle zampe posteriori, raccolgono il polline, di cui si nutrono, e lo mettono in cestelli aperti nelle stesse zampe. In fondo al calice dei fiori succhiano una goccia dolcissima, il nettare, che inghiottono in una specie di stomaco detto mielario.
Giunte all’alveare rimettono il nettare, diventato miele, in ogni favo: sarà il nutrimento dei piccoli appena nati.
Intanto, altre api sono intente alla costruzione delle cellette di cera per il miele, altre hanno cura delle uova deposte dall’ape regina e sorvegliano che nessun estraneo venga a turbare la loro operosità.
Il maschio dell’ape si chiama fuco. In un alveare possono esservi anche quarantamila api operaie che vivono pochi mesi. L’ape regina mangia la pappa reale, depone le uova a milioni e vive quasi sei anni.
Questi insetti lavorano per tutta la buona stagione a produrre miele: da ogni arnia se ne possono ricavare 20 – 30 chili. I fiori offrono polline e nettare; le api contraccambiano il dono portando da una corolla all’altra un po’ di polline, indispensabile perchè, dai fiori, nascano i frutti.

Gli abitanti dell’alveare

L’ape operaia è piccola, di colore rosso bruno. Le sue zampe sono fornite di due palette ricurve, e di spazzole. L’apparato boccale è piuttosto complicato: vi sono due forti mandibole, per afferrare il materiale, e una proboscide che l’ape introduce nell’interno dei fiori. Inoltre, nell’ultima parte dell’addome, le api operaie hanno ghiandole che secernono la cera, e un acuto pungiglione, che esse estraggono solo in momento di pericolo.
I maschi, detti anche fuchi, sono più lunghi delle operaie, hanno ali che ricoprono tutto l’addome, e sono privi di palette e di pungiglione.
La regina è più grossa delle operaie, ma più piccola del fuco; le sue ali le ricoprono solo metà del corpo, e manca anch’essa di palette e di pungiglione.

Che cosa fanno

Alla regina è affidato il compito della deposizione delle uova. Ogni giorno ne depone più di trecento e durante tutta la sua vita più di mezzo milione.
Le operaie attendono infaticabilmente alla costruzione dei favi contenente le cellette, alla pulizia dell’alveare, alla raccolta del nettare che esse trasformano nel prezioso miele destinato, insieme con il polline, al nutrimento delle larve e della regina.
Quanto ai maschi, il compito loro assegnato è di unirsi con la regina, e ciò avviene una sola volta, nel volo nuziale.
Al ritorno dal volo la regina inizia la deposizione delle uova, mentre i maschi, non sapendo raccogliere ne il polline ne il polline, vengono considerati bocche inutili ed espulsi dalla comunità o addirittura spietatamente uccisi dalle operaie.

Ecco un’ape operaia di ritorno dal suo lungo viaggio di fiore in fiore: è primavera, ed essa è stata la prima ad uscire dall’alveare. Quest’ape è stata inviata in ricognizione dal grosso ed industrioso esercito di cui fa parte. Quando le compagne vedranno il carico di polline che essa reca con sè, imprigionato fra i lunghi peli dei cestelli, sulle due zampe posteriori, si affretteranno ad uscire: è venuto il momento di mettersi assiduamente al lavoro!

Un’ape su una rosa

In un cespuglio di rose, su una splendida rosa bianca, si posa un’ape, e vi rimane per parecchio tempo. Se la guardassimo bene, meglio se con una lente, vedremmo che l’ape ha allungato la sua proboscide tra i petali, la stende, la raccorcia, la ravvolge, la piega continuamente. Essa succhia dal cuore della rosa il polline, e lo posa sulla spazzola: da qui lo balza sulle palette e quindi, con l’aiuto delle tenaglie lo depone in un condotto, dal quale il succo passa nello stomaco. Ecco il primo stadio per la fabbricazione del miele.

Il miele nei favi

Il polline, passato per mezzo delle spazzole nelle palette delle zampe posteriori, viene introdotto nello stomaco dell’ape,  nella cosiddetta “borsa melaria”, dove il polline, al contatto coi succhi dell’ape, si muta in miele. All0ra l’ape piena di miele entra nell’alveare, rigurgita il miele dallo stomaco e con le zampe mediane lo spinge in una cella; un’altra ape lo comprime ben bene col capo, e, quando la cella è piena, viene chiusa con la cera.
Ma altre celle vengono lasciate vuote, perchè la regina vi depositerà le uova.

L’attività febbrile di un alveare

Nell’alveare si lavora, non c’è che dire. Api giungono dai campi, cariche di provviste, altre vanno a prenderne a loro volta: sono le predatrici. Ci sono le spazzine, che tengono pulitissime le celle da ogni elemento estraneo; le… becchine, che portano fuori i cadaveri; le guerriere, che lottano contro gli stranieri che vorrebbero invadere l’alveare; le sentinelle, che fanno buona guardia ed osservano attentamente le api prima di lasciarle entrare… Ognuna ha il suo posto, il suo incarico, il suo lavoro. E la regina? Quella non ha che un solo compito: fare le uova. Ha una vera guardia del corpo di operaie, che la spazzolano, la leccano, le presentano il miele con la loro proboscide, le risparmiano ogni fatica. Bisogna dire che in ogni arnia vi è una sola regina, mentre le operaie sono dalle quattro alle ventimila.

Le balie

Alle operaie più vecchie è affidato l’alto onore di custodire le uova e allevare le larve che ne usciranno. Infatti, appena la piccola larva si è schiusa dal guscio, ecco la sua balia pronta col cibo: miele e polline semidigeriti… Questo è il cibo destinato alle larve di operaie e di maschi; ma le larve di regina hanno un trattamento speciale. Vengono nutrite con la pappa reale, che è assai più densa e zuccherata del cibo apprestato alle altre larve, e ha il potere di aiutare la formazione e lo sviluppo delle uova. In cinque giorni, le larve diventano ninfe, che è lo stato di passaggio dalla larva all’insetto. Allora le balie chiudono le celle perchè le ninfe non mangiano; dopo sette giorni la ninfa depone le vecchie spoglie di larva e diventa insetto. Naturalmente, le giovani api vengono ancora aiutate dalle loro balie; crescono rapidamente e cominciano subito a lavorare.

Quanto vivono le api?

Le operaie, che hanno la vita più laboriosa, vivono meno: cinque o sei settimane in tutto. Solo quelle nate in autunno arrivano alla primavera successiva, e passano l’inverno ben chiuse nell’alveare, nutrendosi del miele conservato nelle cellette. La regina invece vive anche quattro o cinque anni. I maschi vivono al massimo tre mesi.

La sciamatura

Spesso, agli inizi della primavera, le nascite si nuove api sono sin troppo numerose ed accade che in un’arnia si trovino tre o quattro volte più api di quanto essa possa contenerne. Le api vi si trovano a disagio. Se fra i nati si trova una nuova ape regina, avviene allora la sciamatura. La vecchia ape regina,a capo di un numeroso gruppo di api, abbandona la vecchia casa. Il nuovo sciame va, di solito, a stabilirsi a poca distanza dall’arnia in cui viveva. L’ape regina si posa sul ramo di un albero e tutte le operaie si aggrappano a lei formando un grosso grappolo vivente.
Nei giorni seguenti le “api esploratrici” andranno in cerca di un luogo opportuno ove poter costruire i nuovi favi, ma prima che ciò avvenga, l’apicoltore cattura il nuovo sciame e provvede egli stesso a fornirgli una nuova casetta.

Insetti molto simili alle api: le vespe

Le vespe si distinguono dalle api perchè quando stanno a riposo ripiegano le ali superiori, che sembrano così strettissime, a differenza delle api che le tengono sempre larghe; inoltre le vespe hanno il corpo molto allungato.
Anche le vespe hanno femmine, maschi e operaie.
I loro nidi sono un’opera perfetta di costruzione, di ordine, di pulizia: hanno forma ovale o sferica e sono muniti di una porta di ingresso e di una porta di uscita; generalmente sono formati da quindici o sedici favi, distribuiti in piani.
L’aculeo delle vespe ha, alla base, una borsetta piena di veleno. Questa è la ragione per cui la puntura di vespa può essere pericolosa.
Quando viene l’inverno, tutte le vespe muoiono, ad eccezione di alcune femmine più forti.

Come costruiscono il loro nido le vespe?

Il nido delle vespe comuni è di materia grigia, durissima, che sembra un grosso cartone. Come è ottenuto questo cartone? Le vespe, con le forti mandibole, tagliuzzano dei vegetali e, lavorandoli con la saliva, ottengono un impasto duro e resistentissimo, simile appunto al cartone.

Di cosa si nutrono le vespe?

Le vespe sono ghiotte di miele e di materie zuccherine, ma si cibano anche di frutta, di carne cruda, e perfino di piccoli insetti vivi che incontrano nei loro voli.

Le api

Il sole ha fatto uscire dalle loro casette di legno le api. Il loro ronzio risuona nel silenzio della campagna. Sempre in movimento, volano di corolla in corolla per tornare all’alveare cariche di nettare. Nessuna ozia: se potessimo entrare nella loro casina, vedremmo che ognuna di esse ha un proprio compito, un lavoro che compie diligentemente: costruiscono cellette, tengono pulito ogni piccolo spazio, nutrono le larve e la grande regina e… funzionano da ventilatori per mantenere all’interno sempre la stessa temperatura.

Uno sciame d’api

Che è questa musica, che sembra sgorgare, grave, dal cuore del ciliegio, come da un violoncello magico, e gli vibra intorno, senza uscire dalla cerchia dei rami in fiore?
E’ uno sciame d’api. Da dove vengono? Forse dagli alveari che sono nell’orto del curato, poco discosto da qui. Le ha chiamate odore di cibo dolce, odor d’aprile. Svolano, ronzano intorno ai fiori, vi si attaccano, ne cercano e ne estraggono il nettare, splendendo si e non nel vibratile corsaletto d’oro e d’ambra. Le une fanno ciò che fanno le altre: un’unica intesa le guida, le rende strumenti di perfetta orchestra. (A. Negri)

Bestioline operose

Dentro alle arnie lavorano le api. Vivono in grande armonia fra loro. Le api operaie sono sempre all’opera: chi va in cerca del dolce succo nei fiori, chi resta a casa a costruire i favi. Chi fa pulizia, chi prepara il cibo ai piccini e alla regina, chi scalda le covate e chi porta via i morti.  Soltanto l’ape regina, che è più grossa delle altre, vive da… regina! E non fa nulla? Depone migliaia di uova…
Dagli alveari si ricavano due sostanze utilissime: miele e cera. (G. Lipparini)

L’alveare

Un alveare è come una città. Una città di gente molto laboriosa. Ogni cittadino ha un compito.
C’è la regina che depone le uova ed  è la madre di tutte le api. Ci sono i fuchi e le operaie. A queste ultime spetta il compito di andare nei campi a raccogliere le provviste. Altre devono costruire le case, le celle. Altre ancora sono incaricate di accudire alle api bambine.
Le operaie, per strumenti di lavoro, hanno le spazzole e il cestello. Per fare la raccolta penetrano nei fiori, si coprono di polline e succhiano il nettare, il succo zuccherino che è nel calice. (M. Di Filippo)

Le api si fabbricano l’alveare

L’alveare è formato da celle a forma di prisma esagonale, dette favi, e formate con la cera secreta da ghiandole dell’addome. Ma come hanno fatto a costruire una casa così perfetta e regolare? Le api provviste di miele si allacciano tra loro per mezzo delle zampe posteriori e anteriori, e formano così lunghe catene, disposte a festoni. In tale posizione, le api segregano facilmente la cera, che si consolida in scagliette che esse, con le mandibole, trasportano per farne le cellette: più piccole per le operaie; più grandi per i maschi; più grande di tutte, a forma di ghianda, è la cella della regina.
Ogni cella viene chiusa poi con un coperchietto di cera, sia che debba servire da deposito di miele o alla custodia per le larve. Gli eventuali buchi o fessure che risultassero nell’arnia, vengono chiusi con propoli, sostanza vegetale, che si solidifica e forma una specie di cemento. Qualche volta capita che una limaccia o una chiocchiola riesca a penetrare nell’alveare. Le api, furibonde, le sono addosso: con forti punzecchiature al capo la uccidono.
Per la chiocchiola, basta otturare con propoli il buco del guscio. La limaccia, che non ha guscio, si corromperebbe, infestando così l’aria dell’alveare. Ma le industriose operaie trovano subito il rimedio. La limaccia è troppo grossa per portarla fuori: esse allora le fanno una vera imbalsamatura, coprendola con propoli, in modo che  è tolto ogni pericolo che l’aria diventi infetta e possa nuocere alla vita dei pacifici insetti.

Il favo

Il favo è una costruzione a celle che le api operaie preparano per ospitare le uova che la regina depone e per custodire il miele. E’ interamente fatto di cera. Per costruire il favo le giovani api che eseguono questo lavoro iniziano la costruzione dall’alto, fissando le prime squamette di cera al soffitto dell’arnia; in questo modo esse sono certe che la costruzione riuscirà ben verticale.
Una di esse prende con le zampe posteriori la cera che le trasuda dall’addome, la porta alla bocca, la impasta e la attacca ad un punto del soffitto. Un’altra ape compie lo stesso lavoro e pone la sua pallottolina di cera vicino a quella fissata dalla prima compagna. Una terza la segue e così di seguito, col lavoro di migliaia di api, si viene formando il favo. Il meraviglioso è che la costruzione, eseguita da un numero così grande di lavoratori, ognuno dei quali non fa altro che avvicinarsi all’opera, collocare il proprio “mattoncino” ed andarsene, riesca tanto perfetta ed esattamente calcolata in tutte le sue parti. I matematici hanno accertato che non sarebbe possibile costruire un edificio altrettanto solido, con maggior spazio disponibile per le covate e per la conservazione del miele, consumando una minor quantità di cera.
Infatti un famoso entomologo francese, Antonio Ferchault di Réamur, formulò un problema rimasto famoso sotto il nome di “Problema delle api”; esso diceva:
“una cella a sezione esagonale regolare è terminata da tre rombi uguali ed ugualmente inclinati; calcolare l’ampiezza dell’angolo minore dei rombi perchè la superficie totale della cella sia la minor possibile”.
Tre grandi matematici, un tedesco, uno svizzero e un inglese, si cimentarono nella soluzione del quesito ed il risultato fu 70° 32′, esattamente la misura che le ingegnosissime api applicano nella costruzione delle loro celle!
L’uomo più sapiente non potrebbe suggerire nessuna modifica o miglioria alle api, nella costruzione della loro casa.
Accade che le api inizino la costruzione di un favo in più punti del soffitto di un’arnia. Si formano così due o tre favetti che poi, progredendo il lavoro, si saldano fra loro. Ebbene, le celle dei punti di congiunzione risultano anch’esse perfettamente esagonali ed uguali alle altre; ciò significa che le api non hanno scelto a caso i vari punti di inizio del lavoro, ma hanno minuziosamente calcolato le distanze, prevedendo fin dall’inizio  i punti di incontro, nel vuoto, dei vari favetti.
Come le api eseguano questi calcoli è un mistero.

Il bottino

Le api hanno bisogno di tre tipi di nutrimento: il polline, il nettare e l’acqua.
Il polline è il nutrimento di cui l’ape ha bisogno nei primi giorni della sua vita, quando è allo stato di larva.
L’ape bottinatrice non mescola mai, durante il raccolto, qualità diverse di polline nelle cestelle delle sue zampe; fino a quando esse non sono colme, l’ape visita sempre la stessa specie di fiori. Ciò è di grande importanza per i fiori che, per la loro impollinazione, si servono dell’opera delle api.
Il polline raccolto dalle bottinatrici viene sistemato dalle giovani api che svolgono il servizio interno in celle vicine a quelle occupate dalle larve, pronto per essere distribuito.
Il nettare è il nutrimento dell’ape adulta e, trasformato in miele, diviene un cibo di riserva. Tenendolo nell’ingluvie o borsa melaria, l’ape lo trasporta nell’arnia. Già durante questa breve permanenza nel corpo dell’ape, il nettare comincia a trasformarsi in miele.
Giunta all’arnia, l’ape verse il nettare nell’ingluvie delle giovani api, le quali provvedono a raccoglierlo in celle che vengono sigillate con cura.  Stagionandosi, il nettare dei fiori si trasforma definitivamente in miele; allora le api vi inoculano una piccola quantità del loro veleno, il quale ha la proprietà di renderlo inalterabile anche col trascorrere di lunghissimo tempo.
Un’ape può trasportare in media, in un volo, 50 mg di nettare. Calcolando la lunghezza media di un volo in 2 km e mezzo, si ha che per raccogliere un chilo di miele occorrono circa 40.000 voli, per un totale di 100.000 km. Eppure un buon alveare nel periodo della più intensa fioritura può ammassare, in un sol giorno, anche 10 kg di nettare.
Anche l’acqua è un alimento indispensabile all’alveare, soprattutto per preparare la pappa per le larve; anch’essa viene raccolta dalle bottinatrici e trasportata all’arnia nelle loro ingluvie. Le bottinatrici, divise in gruppi, si occupano di tutte queste raccolte; le giovani api, adibite ai lavori interni, le avvertono di volta in volta, se al momento occorra più polline, o nettare, o acqua; ma gli entomologi non sono ancora riusciti a scoprire come vengono trasmesse queste comunicazioni.

Il naso delle api

Le api impediscono agli estranei l’accesso nei loro nidi e non solo ai predoni, ma anche alle api di altri alveari. Si suppone che si riconoscano grazie all’olfatto. Sembra ormai accertato che ogni alveare possieda un odore speciale, per mezzo del quale le api dello stesso nido riescono a riconoscersi. Se un’ape sperduta cerca di penetrare in un alveare forestiero, essa viene subito accolta ostilmente e, se non si allontana, viene trafitta dal pungiglione delle legittime proprietarie di nido. Qualche volta succede che un’ape, di ritorno da un abbondante raccolto, col gozzo pieno di nettare, sbaglia casa e viene assalita dalle altre api. Allora sporge la proboscide e lascia gocciolare il dolce succo, che viene avidamente leccato dalle padrone del nido le quali, dopo questa specie di pedaggio, lasciano libero l’ingresso alla forestiera.
L’esistenza e l’importanza di un odore tipico delle api di uno stesso alveare vengono inoltre dimostrate dalle osservazioni che si sono fatte al tempo della sciamatura.
Quando uno sciame abbandona l’alveare, si dà quasi sempre il caso che esso si aggrappi e resti appeso su quel ramo sul quale uno sciame dello stesso alveare si era precedentemente collocato e dove l’apicoltore lo aveva raccolto.
Si è potuto provare che nemmeno una pioggia abbondante riesca ad allontanare quell’odore caratteristico.
Dov’è situato il naso delle api? O meglio, dove risiedono gli organi dell’olfatto? Possiamo dirlo con tutta sicurezza: sulle zampe. E nelle zampe si trovano pure le orecchie, o, meglio, l’apparato uditivo. (A. Canestrini)

Lo sciame

Ecco la prima tappa dello sciame, detta “sciame primario”, alla testa del quale si trova sempre la vecchia regina. Si ferma, d’ordinario, sull’albero o arbusto più vicino all’arniaio, giacchè la regina, appesantita dalle uova e non avendo riveduto la luce fin dal suo volo nuziale o dallo sciamaggio dell’anno precedente, esita ancora a slanciarsi nello spazio, e sembra aver dimenticato l’uso delle ali.
L’apicoltore aspetta che la massa delle api si sia ben agglomerata. Poi, coperto il capo d’un largo cappello di paglia, (giacchè l’ape più inoffensiva mette fuori inevitabilmente il pungiglione quando si impiglia nei capelli o si prede presa in trappola), senza maschera e senza velo, se ha esperienza, dopo aver immerso nell’acqua fredda le braccia nude fino al gomito, raccoglie lo sciame scuotendo vigorosamente al disopra di un’arnia capovolta il ramo che lo porta; e allora il grappolo vi cade pesantemente come un frutto maturo.
Ovvero, se il ramo è troppo forte, con un cucchiaio attinge dal mucchio colme cucchiaiate viventi e le sparge ove gli piace, come farebbe del grano. Nè deve temere le api che gli ronzano attorno e gli coprono in folla le mani e il viso: egli ascolta il loro canto di ebbrezza, che non somiglia al loro canto di collera. E nessun timore che lo sciame si divida, si irriti, si dissipi o scappi. L’ho detto: quel giorno le misteriose operaie hanno un’aria così festosa e fidente, che nulla potrebbe alterare; sono inoffensive per troppa felicità, sono felici senza che si sappia perchè: eseguono la legge.
Lo sciame resterà dov’è caduta la regina; e, fosse pure caduta sola nell’alveare, appena avvertita la sua presenza, tutte le api, in lunghe file nere, dirigeranno i loro passi verso la dimora materna. E mentre la più parte vi penetra in fretta, una moltitudine di altre, arrestandosi un istante sulla soglia delle porte sconosciute, vi formeranno circoli d’allegrezza solenne, con i quali usano salutare gli avvenimenti felici. Esse “battono a raccolta”, dicono i contadini. In un batter d’occhio, il ricovero che non speravano è accettato ed esplorato nei minimi nascondigli; la sua posizione nell’arniaio, la sua forma, il suo colore sono raffigurati e iscritti in migliaia di piccole memorie prudenti e fedeli. I punti di riferimento dei dintorni sono attentamente notati; la nuova città esiste già tutta intera in fondo alla loro immaginazione coraggiosa, e il suo posto è fissato nel cervello e nel cuore di tutti i suoi abitanti: s’ode riecheggiare nei suoi muri l’inno d’amore della presenza reale; e il lavoro comincia. (da M. Maeterlinck, La vita delle api).

Il linguaggio delle api

Le api hanno possibilità di comunicare fra di loro per informarsi l’un l’altra sulla località in cui si trova il cibo o sull’imminenza di un pericolo. Possiedono un linguaggio che si esprime attraverso figure tracciate col volo.

I nemici delle api

Molti sono i nemici delle api; e, nonostante tutta la loro attenzione e la loro perspicacia, a volte le api restano ingannate.
C’è, per esempio, la farfalla detta “testa di morto” che sa entrare nell’alveare simulando il ronzio dell’ape regina e ingannando così le sentinelle che stanno alla porta. Per premunirsi contro le incursioni di questo loro nemico, le api costruiscono un muro interno contro la porta, in modo che possono entrare le api, ma non gli insetti più grossi.
Se alla porta si presenta un’ape di un altro alveare, viene uccisa o cacciata, a meno che non porti miele, nel qual caso viene ben accolta.
A volte è una grossa chiocciola che entra tranquilla, sfidando i pungiglioni. Allora le api, che non ce la vogliono viva, la murano dentro il suo guscio, con un bel coperchio di cera, che lo tappa ermeticamente; così la chiocciola muore, se non è morta prima a forza di punture…
Se per caso il guscio della chiocciola è screpolato, lo rivestono tutto di cera affinchè nessuna cattiva esalazione venga dal cadavere chiuso nel nicchio.

Le api e il contadino (racconto)

Un contadino scozzese aveva una bella fattoria. In essa allevava cavalli, mucche, pecore, galline, conigli d’ogni sorta ed anche api. Perdeva veramente molte ore davanti alle arnie, però, in compenso, si poteva vantare di ottenere il miele più buono di tutto il vicinato, e moltissima cera.
Un giorno poi le api gli resero un gran servigio.
Egli stava presso gli alveari; con la vanga rimuoveva la terra nella quale avrebbe poi deposti semi da fiori; le api laboriose ronzavano; lavorava il contadino, lavoravano tranquille anch’esse; nessuna poi avrebbe mai cercato di pungere il padrone. Ma ecco che questi, rialzando il capo dalla vanga, si vide davanti tre sconosciuti armati di coltello che gli gridavano con voce minacciosa di consegnare tutto quanto aveva con sè.
Il contadino era un uomo forte e calmo. Si portò qualche passo indietro, davanti alle arnie: “Ho poco denaro con me” disse, “a signori come voi, vorrei consegnare qualcosetta di più…”
“Poche chiacchiere”
“E’ giusto, poche chiacchiere… e fuori i denari…” fece il contadino e, con la vanga, con mossa rapida, rovesciò di colpo una dozzina di  arnie.
Gli sciami, disturbati e inferociti, si levarono come una nube e si precipitarono non certo sul contadino, ma su quei tre figuri a cui non restò che darsela a gambe. Le api li inseguirono e dove poterono arrivare con i loro pungiglioni, si piantarono terribili.
Rossi, sfigurati, confusi; con mani, facce, colli gonfi e doloranti, i tre sciagurati non si poterono nascondere. La polizia li rintracciò facilmente, li fece medicare per bene, poi li passò dall’ospedale alla prigione che avevano meritata.
Il contadino riordinò le arnie con pazienza; ne ebbe più cura di prima. Ma si comprò anche un buon cane da guardia.

Dettati ortografici LE API E LE VESPE – Tutte le opere contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.

GLI ANIMALI DEL PRATO: dettati ortografici e letture

Dettati ortografici PRIMAVERA – Gli animali del prato. Una collezione di dettati ortografici sul tema “gli animali del prato e la primavera”, di autori vari, per la scuola primaria.

I cantori del prato
Non sono gli uccelli che preferiscono le verdi chiome degli alberi, ma le cavallette, i grilli. Quanto alle cicale, esse vivono un po’ sull’albero, un po’… sotto. Cavallette e grilli cantano preferibilmente di notte, le cicale alla luce solare. Ma è un canto per modo di dire, perchè la loro voce non è altro che la vibrazione di un organo speciale e non ha nulla a che fare con il canto.

Le cicale

Cominciano agli ultimi di giugno, nelle splendide mattinate; cominciano ad accordare in lirica monotonia le voci argute e squillanti. Prima una, due, tre, quattro, da altrettanti alberi; poi dieci, venti, cento, mille, non si sa di dove, pazze di sole; poi tutto un gran coro che aumenta d’intonazione e di intensità col calore e col luglio, e canta, canta, canta, sui capi, d’attorno, ai piedi dei mietitori. Finisce la mietitura, ma non il coro. Nelle fiere solitudini sul solleone, pare che tutta la pianura canti, e tutti i monti cantino, e tutti i boschi cantino…
(G. Carducci)

Animali del prato
Se guardiamo fra le erbe del prato, che brulichio di insetti, che viavai d’animaletti frettolosi, affaccendati, impauriti! Formiche, vespe, calabroni, farfalle e, nei buchi del terreno, i grilli canterini che fanno compagnia ai lombrichi aratori!

Il grillo
E’ l’ora in cui stanco di vagare l’insetto nero torna dalla passeggiata e rimedia con cura al disordine della sua tana. Dapprima rastrella i suoi stretti viali di sabbia. Poi fa un po’ di segatura che sparge sulla soglia del suo rifugio. Lima la radice di quella grande erba che gli dà fastidio. Si riposa. Poi carica il suo orologino. Ha finito? O l’orologio si è rotto? Di nuovo si riposa un po’. Rientra in casa e chiude la porta. A lungo gira la chiave nella delicata serratura. Sta in ascolto. Fuori, nessun allarme. Ma lui non si sente sicuro. E come una lunga catenella, la cui carrucola stride, scende in fondo alla terra.  Non si sente più nulla. Nella campagna muta, i pioppi si drizzano come dita nell’aria e indicano la luna.
(J. Renard)

Il maggiolino
Che disastro quando un bosco è invaso da questi formidabili distruttori! Non resta nemmeno una foglia, nemmeno una gemma. Tutto è sparito dentro il vorace stomaco di questi animaletti… ma per fortuna il maggiolino ha dei nemici: se si lascia ingannare dal sole invernale, sale sulla superficie, e qui il gelo sopravvenuto lo uccide. Se il contadino ara o zappa il terreno, mette allo scoperto le grosse larve bianchicce e allora che festa per le cornacchie, gli storni, le galline e tutti i pennuti che vanno a caccia di insetti!

Libellule, cicale, cavallette
Molte specie d’insetti infestano le nostre campagne. Alcuni, come la libellula, ci sono indirettamente utili perchè si cibano delle larve degli altri insetti. Altri, come la cicala, il grillo e la cavalletta, sono i gentili cantori dei prati. La cicala produce il suo stridulo canto mediante uno speciale apparato costituito da un insieme di membrane che, contraendosi e vibrando, producono la caratteristica risonanza. La cavalletta, quando è riunita in sciami numerosi, può produrre incalcolabili danni alla vegetazione.

Il maggiolino

E’ un insetto dal formidabile apparato masticatorio e dalle ali anteriori rigide, dure, le quali coprono quelle posteriori, membranose. Sotto le ali è nascosto il corpo dell’insetto: parte del torace e l’addome.
I maggiolini adulti fanno la loro apparizione in maggio: donde il nome. Appena la femmina ha posto le uova in un buco del terreno, muore. Qualche settimana dopo, dall’uovo si schiude una larva senza ali, fornita di sei zampe, la quale comincia a scavare lunghe gallerie sotterranee, nutrendosi delle radici che incontra. Si nutre e ingrossa notevolmente, per un periodo di tre anni. Allora la larva si nasconde in fondo ad una galleria e diventa ninfa.
Nel mese di settembre, la ninfa diventa insetto adulto. Ma ormai si avvicina l’inverno, e il giovane maggiolino rimane ancora sotto terra, fino alla primavera seguente. A primavera, i maggiolini assaltano gli alberi e divorano tutte le gemme, le foglie, gli arbusti teneri. Per fortuna, questa invasione avviene solo ogni tre o quattro anni, altrimenti poveri alberi!

La cavalletta

Il prato è una festa di colori. Le farfalle si posano con grazia sui fiori. Le cavallette invece non conoscono la cortesia. Prendono le misure e poi spiccano i loro grandi salti.
Guardiamo le tre parti del corpo della cavalletta. La testa ha due lunghe e sottili antenne e due occhi che guardano con fissità.
La cavalletta mangia foglie, steli e insetti tagliandoli con organi che assomigliano a una pinza. Il torace della cavalletta è sostenuto da due zampe.
Le due ali anteriori sono abbastanza dure e resistenti. Le due ali posteriori sono sottili e trasparenti. Quando una cavalletta è in volo, tutte e quattro le sue belle ali sono spiegate come le vele di un’antica nave, ma soltanto le ali posteriori si muovono e fanno da motorino.
L’addome non ha nè ali nè zampe: è formato da tanti anelli. La cavalletta non ha uno scheletro, ma il suo corpo è ugualmente protetto dalla pelle, che lo difende come una corazza.
La cavalletta respira con l’addome, ai cui lati si aprono alcuni forellini.
Le cavallette dell’Italia del Nord sono in piccolo numero e poco adatte al volo; nell’Italia insulare e nell’Africa si formano immensi sciami, che percorrono in volo centinaia di chilometri. Dove si posa questa nuvola di cavallette, ogni raccolto è divorato, distrutto.

Il grillo campestre

Al canto delle cicale si unisce, in campagna, e continua anche nelle serene notti d’estate, il canto del grillo.
Dapprima è un grillo solo, che lancia nell’aria la sua nota vibrante: cri, cri, cri… Poi un altro lo imita, poi un altro ancora: in breve, tutta l’orchestra è in azione,e la sinfonia si alza nel cielo.
Il grillo depone le sue uova, gialle, cilindriche, in un nido che è una meraviglia di meccanica. Immaginate un piccolo astuccio, aperto in alto da un foro circolare che funziona da coperchio. Quando il grillino si è formato, dà un colpo con la testa al coperchio, che si apre di scatto, come in certe scatole dalle quali, premendo una molla, scatta fuori il diavoletto. L’uovo rimane col coperchio appeso all’imboccatura. Il grillo cerca un rifugio sotto terra, dove passa l’inverno. Sotto terra è di colore pallido; e lavora attivamente, con la mandibola e con calci, e si fa strada nel terreno. Finalmente ne esce, e allora diventa di colore scuro. Corre intorno rapidamente, in cerca di cibo. E’ piccolo come una pulce, e le formiche ne fanno grande strage. In agosto è tutto bruno, e si è fatto un po’ più grandicello. Vive al riparo di una foglia morta, si scava la tana: zappa con le zampe anteriori, e con le posteriori spinge indietro il materiale. Entra nella terra, e ogni tanto torna fuori, a buttar via i detriti. Quando è stanco, si ferma sulla soglia della sua piccola tana, tenendo fuori la testa, le cui antenne vibrano continuamente.

La musica del prato

Esseri mostruosi dotati delle armi più potenti, più strane, più complicate; armati di veleni, di gas, di radar, di antenne; esseri mostruosi per la loro forza si aggirano in una intricata foresta dove è sempre in agguato la morte: questo è il prato. Eppure, tra tante lotte, c’è chi canta: il grillo. Come suona? Le due elitre (ossia le due ali anteriori) posseggono una nervatura marginale, rafforzata e dentata che rappresenta l’archetto, seguita da un’altra parte detta cantino. L’archetto dell’ala destra sfrega contro il cantino dell’ala sinistra e viceversa. Ne risulta quel dolce cri cri metallico.
Dove c’è musica, ci sono orecchie pronte ad ascoltarla: i grilli hanno le orecchie sulle zampe anteriori, come le locuste, così come gli altri animali le hanno nei punti più alti del loro corpo.

Cantano i grilli

Cantano cantano i grilli! La loro voce si spande per la campagna come un inno di gioia e dai rami rispondono gli uccelli. Il sole benefico ha maturato le messi; i campi di grano sono biondi come l’oro. Presto le spighe verranno recise e raccolte in covoni. Un bel giorno arriverà sui campi la trebbiatrice, la macchina miracolosa che separa i chicchi dalla pula e dalla paglia. Allora al canto dei grilli si unirà l’inno gioioso degli uomini.
(A. Stalli)

L’utile coccinella

La coccinella comune, riconoscibilissima per avere il corpo di forma quasi emisferica e le elitre di un bel colore rosso vivo con sette puntini neri, è uno degli insetti più utili all’agricoltura, in quanto, allo stato di larva, distrugge enormi quantità di parassiti delle piante coltivate, specialmente di afidi, noti più comunemente col nome di pidocchi delle piante.

Lucciola

E’ sera: brillano in cielo le stelle, ma anche sulla terra brillano ad intervallo qua e là delle piccole luci tremolanti: sono le lucciole, minuscole lampade viventi. Come tali insetti producono questa luce?
Essa viene emessa da due organi luminosi piatti che si trovano nell’addome e che appaiono come macchie bianche. Le lucciole accendono e spengono a piacimento il loro lumino. Se ne stanno nascoste fra i cespugli che appaiono illuminati da una luce tenue: non appena però avvertono un pericolo smorzano il lume: ecco perchè quando qualcuno le cattura esse non emanano più luce.
Sverna riparata sotto le pietre, fra le radici degli alberi o fra foglie secche.

Il ragno
Un bimbo, mentre passava vicino a una siepe, ruppe con la sua frusta una grossa tela di ragno. “Bravo!” – disse subito il ragno con una voce stizzita – “Ti vorrei vedere, però, a rifare questa tela!”. Il ragno aveva ragione: è più facile disfare che fare.
(G. Fanciulli)

Le lucertole
Serbiamo il nostro rispetto anche alle lucertole, che, come tanti animali, sono le cacciatrici d’insetti, quindi di aiuto all’uomo. Chi non conosce la lucertola grigia, delle muraglie assolate? Spia le mosche, rovista da un buco all’altro per afferrare ogni insetto che passi. E’ la protettrice delle siepi e delle piante rampicanti. La vediamo distendersi al sole, immobile, ma al minimo rumore sparire, tornare, ripiegarsi su se stessa, infilarsi rapida in un crepaccio.
(E. Fabre)

Animali del prato

Nel prato volteggiano le farfalle: farfalle bianche, variamente colorate, leggiadre, ma tutte indistintamente dannose. Sono utili solo indirettamente per l’impollinazione dei fiori.
La cavalletta, che deve questo nome alla forma della testa che assomiglia a quella del cavallo, e forse anche alla sua abilità nel fare i salti, può distruggere i raccolti in quelle zone dove si abbatte in foltissimi sciami. Osserviamo le sue zampe posteriori e ci renderemo conto del perchè può fare dei salti così alti. Anche gli altri animali saltatori (rana, canguro, coniglio, lepre) hanno le zampe posteriori molto più lunghe delle anteriori.
Il grillo dei prati, o grillo canterino, è nero con una macchia chiara sul dorso. Un suo cugino abita anche sotto le pietre dei caminetti, nei forni, nei granai. Il suo tremulo canto si leva nelle notti serene.
Amante del sole è invece la cicala, che stordisce col suo canto nelle calde giornate di agosto. Quello che canta è soltanto il maschio, mentre la femmina si limita a deporre le uova entro un foro che ha scavato, con uno speciale succhiello, nel tronco di un albero.
Dopo qualche tempo nascono le larve che scendono dall’albero e vanno a nascondersi nel terreno dove vivono qualche anno succhiando gli umori delle radici. Infine tornano sugli alberi dove, dalla pelle che si spacca, esce l’insetto perfetto.
Le voci di questi insetti hanno diverse denominazioni: zirlare, frinire, cantare, ma è singolare che non si tratta di voce nel senso proprio della parola. Essi posseggono un organo vibratorio, una specie di cassa armonica nel torace o nell’addome, con cui riescono a produrre quelle vibrazioni che comunemente chiamiamo canto.

Gli insetti

Gli insetti sono tutti fuori. Alcuni di essi hanno compiuto le loro metamorfosi e ora volano di fiore in fiore, per succhiarne la goccia di dolcissimo nettare, nascosta in fondo ad ogni calice. Sono farfalle, vespe, api, calabroni. E dappertutto si sente un ronzio sonoro che sembra la voce stessa della primavera.

Animali del prato

Quante minuscole vite si agitano fra le erbe del prato! Intere tribù di coleotteri bruni, verdi, con le elitere screziate o cangianti; cavallette dalle lunghissime zampe, coccinelle con il grazioso vestito rosso a puntini neri, bruchi che sbucano dalla terra, lenti e molli, grossi scarabei affaccendati a far pallottole e infine, interi eserciti di insetti quasi invisibili. Più in alto, altri insetti volano instancabilmente a visitare i fiori: farfalle bianche e colorate, api frettolose, vespe ronzanti e stizzose, bombici rumorosi. E ognuna di queste piccole vite, che forse noi distruggiamo con indifferenza, racchiude un miracolo di perfezione e di amore.

Animaletti

Le api, irrequiete e vivacissime, passavano dall’uno all’altro fiore facendo bottino di polline e di nettare; le vespe andavano tagliando, coi loro strumenti da falegname, il legno per fabbricare la loro casa; i neri calabroni rodevano le corolle per cavarne fuori i pistilli. Un mondo di piccoli coleotteri mangiava allegramente i petali; e ognuno di essi aveva scelto il suo fiore prediletto. Quanto brulichio, quanto movimento, quanta attività!
(P. Mantegazza)

Il maggiolino

Uno dei flagelli più temibili dell’agricoltura è il  maggiolino, piccolo grazioso insetto, che divora le foglie di molti alberi e specialmente degli olmi.  Negli anni in cui  i maggiolini sono poco numerosi, non si scorgono quasi i loro danni; ma se appaiono in più legioni sterminate, si vedono intere parti di giardino o di bosco del tutto spoglie di verde e che, nel cuore dell’estate, offrono aspetti di un paesaggio invernale.
Di solito gli alberi così devastati non muoiono: a stento però riprendono l’antico vigore e quelli dei frutteti non danno frutti per un anno o due.
(L. Figuier)

La larva del maggiolino

E’ un grosso verme panciuto, dall’andatura pesante, di colore bianco con la testa giallastra. Le sei zampe gli servono, non già per correre alla superficie del suolo ma per strisciare sotto terra. Le forti mandibole sono adattissime a trinciare le radici delle piante. La sua testa, onde scavare con maggior vigore, ha per cranio una calotta di corno. L’alimento che appare in nero, attraverso la pelle del ventre, lo appesantisce tanto che non può stare sulle gambe e si corica indolentemente sul fianco.
(H. Fabre)

La cavalletta

Che sia il carabiniere degli insetti? Tutto il giorno salta e si accanisce sulle tracce di altri insetti che non riesce mai a prendere… Le erbe più alte non la fermano. Nulla la spaventa, perchè ha gli stivali delle sette leghe, il collo del toro, la fronte geniale, le ali di celluloide, due corna diaboliche…
Ma a sera… a sera caccia per davvero: fa il suo pasto più prelibato. Povere lucciole! Col loro lumino si tradiscono e si fanno prendere e sventrare.

La libellula

Tra canne e salici, che circondano lo specchio d’acqua scintillante al sole, s’affaccendano in agile volo grosse libellule: volteggiano al disopra dell’acqua e si posano sulle punte delle canne e dei giunchi, mettendo in mostra i loro esili capi azzurri o verdastri. Le libellule vivono esclusivamente di preda. Nel loro rapido volo, esse afferrano la vittima nell’aria, un piccolo insetto e cominciano subito ad addentarla.
(A. E. Brehm)

La mantide guerriera

Con le zampette anteriori sollevate come se stesse pregando, la bellicosa mantide resta a lungo immobile. Una cavalletta, ignara del pericolo, le si avvicina.  Fulminea, la mantide affonda i suoi pungiglioni acuminati nel corpo della vittima. La tiene stretta tra le sue zampette seghettate e la divora. Le mantidi nascono battagliere. Incominciano a bisticciare e a combattere tra di loro prima di mettere le ali.  Qualche volta esse combattono fino alla morte. Alla fine dell’estate, le femmine danzano la danza della morte davanti ai maschi. Poi piombano loro addosso e li uccidono.

La lucciola

Nella quieta oscurità della notte c’è un lumicino che s’alza, scende, vaga sul prato, scompare, riappare sulla siepe, s’allontana… Ora guizza sul ruscello, ora gira sull’aia; si direbbe una stellina vagabonda, venuta a danzare sul prato ove grilli e ranocchi hanno intonato il loro concerto notturno.
Invece non è che una luccioletta che esce a godersi il fresco della notte e si rischiara la via col suo lumicino.
(A. Buzio)

Insetti luminosi

Gli indigeni di alcune regioni dell’America tropicale hanno a loro disposizione un mezzo molto economico per illuminare la notte: si servono infatti di un insetto, il piroforo, che emette luce vivissima.
La sua luce è di due colori diversi: dal torace traspare un bel verde, mentre l’addome risplende di luce arancione.
Molto più modeste sono le lucciole europee, il cui bagliore biancastro, emesso dall’addome, serve solo a punteggiare i prati estivi come per una fantastica fiaccolata.

Lucciole

Nel nero della notte non si distingue più il campo di grano; ma, nel buio, come se caduto dal cielo rimasto deserto, ecco un vortice di piccole stelle inquiete. Le lucciole! A milioni palpitano sulla distesa delle messi addormentate. Vagano, alte e basse, si accendono  e si spingono fra i rami, piombano come gocciole d’oro tra l’erba muta. Lontano, dal bosco, i gorgheggi dell’usignolo, il canto dei ranocchi; nell’aria calda e quieta il profumo possente del fieno maggese; e giù per la strada invisibile, una voce di bimbo scoppia all’improvviso:
“Lucciole lucciole dove andate?
Tutte le porte sono serrate,
sono serrate a chiavistello
con la punta del coltello…”
Si commuove questa voce chiara della nostra infanzia, dei nostri cari giorni perduti:
“Lucciola, lucciola, vieni da me
io ti darò il pan del re,
il pan del re e della regina,
lucciola, lucciola piccolina…”.
(A. Soffici)

Libellule, cicale e cavallette

Molte specie di insetti infestano le nostre campagne. Alcuni, come la libellula, ci sono indirettamente utili perchè si cibano delle larve degli altri insetti. Altri, come la cicala, il grillo e la cavalletta, sono i cantori dei prati. La cicala produce il suo stridulo canto mediante uno speciale apparato costituito da un insieme di membrane che, contraendosi e vibrando, producono la caratteristica risonanza. La cavalletta, quando è riunita in sciami numerosi, può produrre incalcolabili danni alla vegetazione.
(M. Menicucci)

Le palline dello scarabeo

Lo scarabeo stercorario sembra che si diverta ad arrampicarsi su piccoli mucchietti di terra e poi ruzzolare giù. Questi scarabei sono anche tenaci lavoratori e hanno una gran cura delle loro uova. La madre e il padre ammucchiano dei pezzi di sterco fresco di pecora e, modellandoli con le loro zampette, ne fanno una pallottolina grassa come una pillola. Nel centro della palla la madre depone un uovo. Poi, camminando entrambi all’indietro, la fanno rotolare sul terreno, il padre spingendo e la madre tirando. Man mano che la palla rotola, la sabbia del terreno forma intorno ad essa una crosta dura. Allora la madre scava una buca, e i due scarabei vi fanno discendere la palla. Quando l’uovo si aprirà, l’insetto appena nato potrà nutrirsi con le provviste di cibo contenute nella palla. La madre e il padre possono così lasciarlo al sicuro e ricominciare a lavorare per un altro uovo.

Un nido sotterraneo

La femmina del grillotalpa si serve delle sue forti zampe anteriori per scavarsi una tana come fa la talpa. Essa depone le uova nel fondo della galleria e resta a sorvegliare finché i piccoli sono nati. Poi rimane a guardia dell’entrata del nido, pronta ad attaccare qualsiasi insetto nemico che tentasse di farvi irruzione.

Dettati ortografici PRIMAVERA – Gli animali del prato – Tutte le opere  contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.

GLI UCCELLI: dettati ortografici e letture

Dettati ortografici GLI UCCELLI – Una collezione di dettati ortografici sugli uccelli, di autori vari, per la scuola primaria.

Uccelli
Piove, adagio adagio, poco poco. C’è bisogno di fango per fare i nidi. Ci sarà? Tutti gli uccellini a due a due sotto l’ombrello delle frasche ascoltano la pioggia che dice loro: “Sì. Sì”. Il giorno dopo, come sfolgora il sole, gli sposini lavorano tutti a farsi una casettina; la tottavilla, il migliarino, l’ortolano, i beccafichi, le peppole; fra l’erba spagna, sui rami, dentro le siepi, sotto le tegole; chi taglia, chi mura, chi impasta, chi cuce, chi scava, chi intreccia. Bisogna far presto perchè domani è domenica. (F. Tombari)

Uccelli
L’aria è piena di frulli d’ali, di canti, di strida, di misteriosi bisbigli. Sono tornati gli uccelli e nelle loro fragili e belle casette, nuove vite pigolano in attesa del cibo. E’ tornata la cincia che libera l’oliveto dalle uova delle mosche olearie; è tornata la capinera gentile il cui canto ricorda quello dell’usignolo; l’allodola mattiniera, il pettirosso vivace, la rondine che stride e saetta nel cielo, senza posa. Siano benedette queste piccole creature che lavorano senza posa alla distruzione dei nemici dei campi e dei raccolti.

Uccelli
Verso la fine di marzo la prima rondine giunse sotto il tetto. Si aggrappò al nido, sbattè più volte le ali, poi riprese a volare nel cielo disegnando nell’aria ampi cerchi. Passò sul melo dell’orto, e subito dai piccoli rametti brulli sbucarono alcune gemme. In un baleno, dai cartoccetti che bucavano l’aria come dentini, si svolsero i bianchi fiori i il melo sembrò a tutti una bella nuvola caduta dal cielo nell’orto. La rondine passò a volo sul pesco, e anche il pesco si ingemmò. Giunse perfino sul mandorlo, là verso la collina, e col suo grido acuto la rondine lo risvegliò. Poi sfiorò i prati e l’erba incominciò a tremare nell’aria col suo filo di un verde tenero; sfiorò le prode, e l’acqua dei ruscelli incominciò a scorrere tra i sassi; e le viole, sotto le larghe foglie, si destarono come per incanto, spandendo nell’aria il loro delicato profumo. Volava, volava, la rondine, e cinguettava felice. (C. Bucci)

Uccelli
Quando il cielo diventa sereno e azzurro e, scivolando su un raggio tiepido di sole, arriva primavera, ritornano nel nostro cielo le rondini.  In largo stormo gli eleganti uccelli volano sul mare; poi, in piccoli gruppi, prendono la via di casa, la via del vecchio nido. Qualcuna, ansiosa, sopravanza il gruppo, arriva prima. Eccola là, sul filo, petto bianco, dorso nero. Si guarda attorno, osserva tutto. Poi, arrivano tutte, e i cornicioni, i fili dell’elettricità, i tetti sono pieni dei piccoli uccelli bianchi e neri. (G. Valle)

Sulla facciata rustica, per tutte le cornici, lungo il gocciolatoio, sopra gli architravi, sotto i davanzali delle finestre, sotto le lastre dei balconi, dovunque, le rondini avevano nidificato. I nidi di creta, innumerevoli, vecchi e nuovi, agglomerati come le cellette di un alveare, lasciavano pochi intervalli liberi tra loro. Benchè chiusa e disabitata, la casa viveva. Viveva di una vita irrequieta, allegra e tenera. Le rondini fedeli l’avvolgevano dei loro voli, delle loro grida, dei loro luccichii senza posa. (G. D’Annunzio)

Quando la rondine vuol rassettare il suo vecchio nido, non cerca nè trucioli nè pagliuzze, come fanno gli altri uccelli, ma adopera fango e con bravura lo accomoda col becco. Vola là dove scorre il ruscello. Vi si piana sopra con le ali in alto, battendole rapidamente. Tiene a fior d’acqua il petto per bagnarsene le piume, poi spruzza l’acquerugiola sulla polvere e ne fa una tenace poltiglia. E di questa poltiglia col suo becco, o si fabbrica o si accomoda il nido. (Taverna)

Uccelli
E’ primavera, è il tempo degli uccellini. Allegri, felici, già ghiotti di ciliegie, litigiosi, stanno in cinquanta su un ramo come tanti piccoli gnomi, fuggono col vento, spensierati, da un albero a un tetto, dal pagliaio al campanile, rubano a man bassa; un chiasso, un cinguettio, una baraonda. Le passerette, pettegole, con un vestitino corto che le copre sì e no, non vanno mai d’accordo, si intrufolano da per tutto, fanno a chi arriva prima sul fiume a vedere il martin pescatore. (F. Tombari)

Uccelli
Il sole nasce, gli uccelli si sparpagliano. Cercano il loro pascolo, chi le bacche, chi i vermiciattoli, chi i semi, a frotte. Si cibano, si azzuffano, amano, saltellano qua e là: infine spiccano il volo e dall’aria agili coronano con un batter d’ala e un gorgheggio la loro piccola fatica. (G. Pascoli)

Uccelli
Dorati uccelli, dall’acuta voce, liberi per il bosco solitario in cima ai rami di pino confusamente si lamentano; e chi comincia, chi indugia, chi lancia il suo richiamo verso i monti: e l’eco che non tace, amica dei deserti, lo ripete dal fondo delle valli. (Lirici Greci)

Uccelli
Gli uccelli, oltre a rallegrare col loro canto, sono preziosi per l’agricoltura perchè distruggono gli insetti. Se possiamo raccogliere i saporiti ortaggi, se possiamo assaporare la squisita frutta, se riempiamo di grano i nostri granai, lo dobbiamo, in gran parte, a questi preziosi amici dell’agricoltore.

La rondine è tornata. Ha fatto sentire il suo grido e si è messa a volare in tondo sul tetto. Ha veduto il suo nido e vi è volata dentro come una piccola freccia nera. Poi è tornata a volare, ma il suo grido era più lieto e festoso. Avevo ritrovato la sua casetta. E presto, in quella casetta, ci sarebbero stati i rondinini.

Uccelli
A introdurre i suoni più belli nel mondo primaverile, accanto al ronzio e alle musiche varie degli insetti, sono gli uccelli con il loro concerto canoro. Basta ricordare che la primavera è la stagione in cui gli uccelli fanno il nido! Essi sono le creature della gioia: la scienza non ha trovato una spiegazione del loro canto che sembra superfluo; ma chi saprebbe immaginare gli uccelli senza più le loro melodie? F. Molinelli

La rondinella ci porta il primo saluto della primavera e ci ricorda la passata malinconia dell’autunno. Essa, fidando in noi, appende il nido ai tetti e ai portici delle nostre case, ritornando ogni anno nello stesso giorno e quasi nella stessa ora. P. Mantegazza

In marzo tornano le rondini. Vengono dai paesi caldi dove hanno passato l’inverno. Se ne andarono verso la fine di settembre, non tanto perchè avessero paura del freddo, ma specialmente perchè essendo uccelli insettivori, durante il freddo non avrebbero trovato di che nutrirsi. Tornano adesso perchè gli insetti cominciano a rinascere. Questi erano morti ai primi freddi, ma avevano lasciato le loro uova o le loro crisalidi ben nascoste e riparate sotto la corteccia degli alberi. E. Fabre

Uccelli
L’uomo non potrebbe difendersi da solo dalle distruzioni causate dagli insetti. Ma gli uccelli lo aiutano validamente, divorando le larve nascoste sotto i tronchi o striscianti sopra le foglie, cibandosi degli insetti che volano nell’aria, nutrendosi di bruchi, di farfalline, di tignole. Gli uccelli non sono soltanto piacevoli a vedersi e ad ascoltarsi, ma sono anche i preziosi amici dell’agricoltore.

Uccelli
Gli uccellini non sono soltanto graziose creature che ci rallegrano col loro canto. Essi sono anche i preziosi amici dell’agricoltore perchè divorano gli insetti e le larve, salvando così la vegetazione. Rispetta, dunque, gli uccellini. Non chiuderli in gabbia, non catturarli, non distruggere i loro nidi. Anche gli uccelli sono creature che soffrono e godono e, oltretutto, salvaguardano le campagne e la vegetazione.

Uccelli
Gli uccelli insettivori si dividono il campo di caccia: chi va nei prati, chi nei boschi e nei verzieri; fanno una guerra continua ai bruchi che distruggerebbero i nostri raccolti. Più abili di noi, di vista più acuta, più pazienti e senza altra occupazione che quella, gli uccelli fanno un lavoro che a noi sarebbe assolutamente impossibile. (E. Fabre)

Uccelli
In ogni nido c’è una piccola famiglia. C’è il babbo, c’è la mamma, ci sono i figlioletti, tutti uniti da un tenerissimo amore. Se tu distruggi un nido, metti il dolore dov’era la gioia, la disperazione dove non c’era che allegria e amore. Rispetta i nidi come vorresti che fosse rispettata la tua casetta.

Il passero è dappertutto e sempre. Vola e saltella, bruno e chiacchierone, tra le foglie verdi degli alberi, nella buona stagione; sui rami brulli e secchi nell’inverno: cinguetta sui fili del telegrafo, sulle gronde, sui davanzali; becca grani, briciole di pane, insetti… E’ graziosissimo, quantunque non sia bello come la rondine e non canti come l’usignolo. (Bianchi e Giaroli)

Uccelli
Piove adagio adagio, poco poco. C’è bisogno di fango per fare i nidi. Ci sarà? Tutti gli uccelletti, a due a due sotto le ombre delle frasche, ascoltano la pioggia che dice loro sì, sì… Il giorno dopo, come sfolgora il sole, lavorano tutti a farsi una casettina. Chi taglia, chi mura, chi impasta, chi cuoce, chi scova, chi intreccia. (F. Tombari)

Uccelli
Ogni uccellino cerca un posto sicuro per fabbricare il suo nido. IL fringuello lo intreccia sui rami dei ciliegi e delle querce. L’allodola lo nasconde tra le zolle dei campi. Il corvo lo sospende ai rami del pioppo. La rondine lo nasconde sotto le grondaie o sotto le travi di casa. Quando gli uccellini fanno il nido, mille piccole cose vengono utilizzate: pagliuzze, crini, foglie secche, muschi, piccoli fili di lana. (V. Gaiba)

Sono tornate le rondini. Hanno attraversato mari e monti pur di tornare al loro nido. E ora che lo hanno ritrovato, cinguettano felici, lo riparano, lo imbottiscono, perchè fra poco nasceranno i rondinini.

Ecco mamma rondine che ritorna con un insetto e tutti i piccini spalancano il becco e gridano perchè lo vorrebbero per sè. Che piccini affamati! Non sono mai sazi. E mamma rondine vola, vola, torna e ritorna al nido per saziare quei rondinini che aspettano, con il beccuccio aperto. Poi si rimettono giù buoni, buoni, con gli occhietti chiusi, ad aspettare che la mammina torni ancora.

In marzo tornano le rondini. Arrivano dai paesi caldi dove hanno passato l’inverno. Se ne andarono verso la fine di settembre, non tanto perchè avessero paura del freddo, ma perchè, essendo uccelli insettivori, durante l’inverno non avrebbero avuto di che nutrirsi. (E. Fabre)

In un giorno di primavera, si è sentito un lieto garrito nell’aria. Erano le rondini che tornavano. Hanno ritrovato il vecchio nido. Con un grido di gioia sono volate dentro a ripararlo, a farlo tutto morbido e caldo. Rispetta le rondinelle. Sono la benedizione delle case che le ospitano.

San Benedetto, la rondine sotto il tetto. Ha attraversato mari e monti per tornare al suo nido e, ora che lo ha ritrovato, garrisce di gioia. Come il viaggiatore che ritorna alla sua casa, così la rondine fa festa quando ritrova il suo nido e di dà da fare per ripararlo, per accomodare i danni causati dalle intemperie, per renderlo morbido e tiepido. Mamma rondine pensa ai rondinini che fra poco cinguetteranno nel nido appeso sotto la gronda.

San Benedetto, la rondine sotto il tetto. Forse è una rondine sola; è arrivata prima delle altre per vedere se il tempo si è veramente rimesso al bello e se l’inverno è andato via. Ma spesso è ancora freddo; la primavera sembra lontana e la povera rondine, con le penne arruffate dal vento, col corpicino tremante, si sente smarrita, sola, affamata. Povera rondinella, arrivata troppo presto!

Esistono molte varietà di rondini, tra cui il balestruccio, che ha il dorso nero violetto e le parti inferiori e la coda bianche; la rondinella comune che è nera, col petto castano e la coda con macchie bianche; il rondone, che è tutto nero, salvo una macchia bianca sulla gola. Soltanto la rondinella e il balestruccio fanno il nido sotto la gronda; alcune specie di rondine lo fanno sulle rive scoscese dei fiumi e nei buchi delle altre muraglie. Il trillo della rondine si chiama garrito.

Uccelli
Ogni uccello, in primavera, fa il suo nido. L’uccellino canoro lo intreccia tra i rami degli alberi, la rondine lo costruisce sotto la gronda, l’aquila in un crepaccio della montagna dove vive, il passero sotto il tegolo o in un buco del muro. E, in ogni nido, nasceranno i piccini.

Con la primavera, ecco la fedele rondine che torna al suo nido lasciato sotto la gronda. Osserviamole nel volo: hanno ali lunghe, fortissime, che permettono loro di attraversare il mare, talvolta senza sostare nemmeno un momento. Ammiriamo l’infallibile istinto di questo uccello, che gli fa ritrovare non soltanto la località che ha lasciato, ma perfino il tetto, il nido.

Uccelli
Perchè gli uccelli migrano? Vi sono le anatre selvatiche che, pur di depositare le uova nelle zone dove sono nate, non esitano ad arrivare perfino al circolo polare, dove nidificano. Per ciò che riguarda la rondine, poichè questo uccello è insettivoro, non troverebbe durante la cattiva stagione di che nutrirsi, perchè gli insetti muoiono o sono nascosti. E’ per questo che la rondine emigra verso le terre calde, dove il cibo non manca, per ritornare a deporre le uova sotto i nostri tetti, al ritorno della buona stagione.

Il becco della rondine è largo e corto. La rondine si nutre di insetti e li cattura a volo. Il suo becco, che è di grande apertura, facilita appunto questa cattura. Invece il becco degli uccelli granivori è forte e a punta, adatto a beccare i grani. Il becco dei rapaci, che si nutrono di piccole prede vive, è forte, adunco, e adatto a lacerare la carne. Il becco dei palmipedi è fatto a cucchiaio, e lascia sfuggire l’acqua per trattenere solo il cibo.

Uccelli
Le zampe degli uccelli che sono grandi volatori, come le rondini, sono rattrappite, ottime per aggrapparsi, ma quasi inadatte a posarsi sul terreno. Infatti, se la rondine cade sul terreno, riprende il volo con grande difficoltà. La zampa dei gallinacei, invece, e dei corridori come lo struzzo, è larga, schiacciata, atta a posarsi sul terreno; nei polli è munita di unghielli per razzolare; nello struzzo, di callosità. La zampa dei rampicanti (pappagallo, picchio, cuculo) ha due dita anteriori e due posteriori atte ad arrampicarsi sul tronco degli alberi. Quella dei rapaci è armata di artigli formidabili con cui l’uccello afferra la preda, la dilania e la porta al nido. Nei palmipedi le zampe hanno le dita unite da una membrana che le trasforma in ottimi remi.

La rondine fabbrica il nido con fango, cementandolo sotto le gronde. Sembra quasi che abbia imparato a costruirlo dall’uomo, sotto la cui casa nidifica. Gli altri uccelli lo costruiscono in maniera ben diversa. I cantori, che sono quelli che fabbricano il nido più perfetto, lo fanno di ramoscelli intrecciati e lo imbottiscono di lanuggine e di piccole penne. I rapaci lo fabbricano in maniera rudimentale negli anfratti delle rocce dove vivono; il passero lo da sotto i tegoli, nei buchi del muro.

Uccelli
Gli uccelli depongono un numero variabile di uova, che hanno un guscio generalmente colorato o macchiato, e da queste uova, dopo un periodo di incubazione, nascono i piccoli, implumi, inadatti a nutrirsi da soli. I genitori li imboccano ed è per questo che gli uccelli sono dei formidabili distruttori di insetti. Si è potuto calcolare che la cincia distrugge fino a trecentomila fra insetti e larve ad ogni stagione.

Uccelli
Gi uccelli sono la gioia della campagna, sono i figli della terra e la terra li nutre senza che essi si affannino a seminare e a mietere; non c’è zolla che neghi loro una gemma, un fiore, una buccia di frutto! Il danno che danno ai tuoi campi lo ripagano; tu non sai quanti insetti nocivi essi distruggono, se ti rubano un chicco te ne salvano cento.
(F. Lanza)

I pellicani
Fra i rami e gli arbusti di cotone, albergavano colonie di pellicani, le cui zampe sporgevano dal nido mentre essi covavano. I maschi nutrivano le femmine che parevano non abbandonare mai il loro nido nel periodo della covata. Papà pellicano era buono con la moglie, e vi era un continuo andirivieni di questi enormi uccelli. Sono grandi pescatori e portano la loro preda in una borsa di pelle gialla che, quando è piena, pende come un sacco sotto il becco.

La rondine ha il mantello di piume nero e bianco, il becco corto e largo, le zampe adatte per aggrapparsi, la coda biforcuta.  Ci sono parecchie specie di rondini: la rondinella comune, il balestruccio, il balestruccio selvatico che nidifica sulle sponde dei fiumi, il rondone che è il più grosso della specie. Il grido della rondine si chiama garrito.

Il nido che la rondine costruisce sotto la gronda è fatto di terra impastata d’acqua, come se il simpatico uccello volesse imitare le case degli uomini presso le quali vive. Dentro, è imbottito di lanuggine che la rondine carpisce all’aria o alle piante.

Il corpo della rondine è snello, robusto, con ali molto sviluppate. Le remiganti  sono penne lunghe e forti perchè le rondini dovono fare lunghi viaggi, attraversare il mare e spesso anche territori deserti per recarsi nei paesi caldi. La rondine ha un manifesto istinto d’orientamento. Quindi, in primavera torna da noi, e non soltanto conosce la località, ma addirittura il nido che si affretta a restaurare e a preparare per la nuova covata.

Il becco della rondine è larghissimo e corto: adatto cioè alla caccia degli insetti di cui la rondine si nutre volando. Vola a becco spalancato così che gli insetti che essa insegue, si invischiano e vengono catturati. E, appunto perchè si nutre di insetti, finita la buona stagione, se ne va.  Gli insetti, al sopraggiungere del freddo, muoiono o si rintanano; quindi, la rondine non avrebbe più il cibo che le è necessario. La rondine è un animale utile,  come tutti gli animali insettivori, considerando il danno prodotto dagli insetti alla coltivazione.

La rondine è tornata da lontano, ha girato sopra la città, ha riconosciuto la casa, il tetto, il nido. Ed ora eccola tutta affaccendata a preparare la casetta per i rondinini che verranno.

Sono arrivate le rondinelle. Hanno attraversato mari e monti per tornare al loro nido. Benvenute, rondinelle, che arrivate da tanto lontano!

“Ecco mamma rondine che ritorna! Che cosa hai portato, mammina?”. I rondinini aspettano nel nido col becco spalancato.

La rondine vuole riassettare il vecchio nido. Non cerca fuscelli come gli altri uccellini, ma adopera fango e con bravura lo impasta col becco.  Poi fa il nido morbido e caldo.

San Benedetto, la rondine è sul tetto. Forse è una rondine sola quella che è arrivata prima della altre per vedere se il tempo si è rimesso al bello. Ma presto verranno anche le altre.

La rondine vola sempre: mangia volando, si bagna volando e qualche volta  nutre i suoi piccoli volando. L’aria è il suo dominio.

Rispetta le rondinelle. Sono la benedizione della casa. Sono tornate da tanto lontano per venire ad abitare il vecchio nido. Fra poco nel vecchio nido pigoleranno i rondinini.

Un bel giorno di primavera si è sentito un grido nell’aria. Era la rondine che tornava. Ha riconosciuto il vecchio nido e con un grido di gioia vi è entrata dentro, per rassettarlo.

Le rondini gridano in alto, nel cielo sereno. I bambini le guardano e dicono: “Sono tornate le rondini. E’ primavera”.

Uccelli
Dopo che la primavera ha spiegato tutti i suoi fascini, di campo in campo, allora si fabbricano ovunque i nidi: nidi tra le erbe, nidi sugli alberi, nidi su spacchi di scogli, in fessure di mura, sotto travi, sotto cornici di case: nidi e nidi dappertutto. Guai se questi asili di nascituri fossero costruiti su alberi nudi, o in siepi senza foglie, o in cantucci senza muschio. Sarebbero esposti alla vista di molti nemici. Si nascondono invece tra ripari abbassati che li nascondono dalle insidie. Ve ne sono con pareti cementate di argilla, rivestiti di licheni, tessuti con fili, steli, fuscelli, con l’interno tappezzato di molli foglie, di fiori, di lana, di crini. Le averle e le capinere li fabbricano con rametti di scope, i tordi vi mettono intonachi di legno fradicio, i beccafichi e i canapini vi intrecciano sottili gramigne miste a tele di ragno, a semi di pioppo, a lanugini. I falchi rapaci, vi ammassano penne di vittime; i pacifici storni penne di polli e di anatre, raccolte nei cortili, nei campi; i cardellini setole di maiali; i passeri crini, paglia, stoppa, cenci, brandelli di carta. (P. Lioy)

Il merlo. Col suo abito da cerimoniere, il becco dorato, l’occhio fisso che pare non veda e vede benissimo; con la sua coda alzata, la voce amplificata e ripercossa dall’eco dei macchioni dei quali fa la sua rocca; ora di corsa sul terreno, ora in volo a freccia, ora immerso nelle sue alcove di rovi, in interminabili meditazioni; coi suoi gridi vari, ciascuno dei quali corrisponde a un sentimento o a un atto, il “pitt pitt”  di quando va a dormire, il “cac cac cac” dell’angoscia per un pericolo che corre il nido, lo stridulo e rapido “ki ki ki” che manda quando fugge via; infine col suo canto, col suo vero canto che ritengo il più completo e il più musicale di tutti i canti degli uccelli che fischiano, sempre lui si profila sullo schermo della mia memoria, quando essa torna indietro verso gli anni in cui passavo le vacanze pasquali in campagna. (M. Roland)

Uccelli
La nebbia si diradava, apparivano profili di boschi neri sull’azzurro pallido dell’orizzonte; poi tutto fu sereno, come se mani invisibili tirassero di qua e di là i veli del maltempo e un grande arcobaleno di sette vivi colori e un altro più piccolo e più scialbo s’incurvarono sul paesaggio. Grandi ranuncoli gialli, umidi come di rugiada, brillarono nei prati argentei, e le prime stelle apparse al cadere della sera sorrisero ai fiori: il cielo e la terra parevano due specchi che si riflettessero. Un usignolo cantò sull’albero solitario ancora soffuso di fumo, tutta la frescura della sera, tutta l’armonia delle lontananze serene; e il sorriso delle stelle ai fiori, e il sorriso dei fiori alle stelle, e tutta la malinconia dei poveri che vivono aspettando l’avanzo della mensa dei ricchi, e i dolori lontani e le speranze, e il passato, l’amore, il delitto; il rimorso, la preghiera, il cantico del pellegrino che va e va e non sa dove passerà la notte, e la solitudine verde, la voce del fiume e degli ontani laggiù, il riso e il pianto di tutto il mondo, tremavano e vibravano delle note dell’usignolo, sopra l’albero solitario che pareva più alto dei monti, con la cima rasente il cielo e la punta dell’ultima foglia ficcata dentro una stella. (G. Deledda)

Uccelli
Ciascun nido ha una sua costruzione ed una sua sapienza d’amore. Nidi di allodole cui pochi fuscelli bastano nel solco delle messi; nidi di pettirossi nei cespugli intessuti di fili d’erba e rivestiti internamente di borragine e di licheni; nidi di stiaccini e di fringuelli nell’intrico delle siepi; nidi sugli olmi, sulle querce, in cima agli alti pioppi che fiancheggiano i fiumi; nidi di passeri solitari nei crepacci di rocce odoranti di fiori selvaggi. Nei casi dove il nido non riesca del tutto ad occultare le uova, queste hanno colore mimetico, cioè con la stessa tinta delle cose che sono loro attorno e però da queste non facilmente distinguibili. (A. Anile)

Uova

Tutti gli uccelli producono uova. L’uovo ha forma tondeggiante ed è rivestito di un guscio rigido e resistente. Aderente al guscio c’è una pellicola elastica , che forma sul fondo una camera d’aria. Il guscio racchiude le parti nutrienti dell’uovo: l’albume e il tuorlo.

Quando gli uccelli covano le loro uova, nell’interno si sviluppa un piccolo che si nutre appunto del tuorlo e dell’albume. Quando il piccolo è formato, rompe il guscio ed inizia la sua vita all’aria aperta.

Ci sono piccoli capaci subito di muoversi e di nutrirsi (i pulcini), altri che nascono senza piume ed hanno bisogno di essere imbeccati dai genitori  (passerotti, rondini, …)

Penne e piume

Il corpo degli uccelli è protetto da un manto fitto, morbido, caldo, di piume fatte a fiocchetto. Le ali e la coda sono munite di penne. Quelle che stanno al bordo delle ali sono dette remiganti, quelle della coda timoniere. Le penne sono lunghe, robuste, rigide, sostenute da una specie di bastoncino detto calamo, piantato nella pelle.

Becchi di uccelli

Molti uccelli sono granivori o insettivori: la natura ha dato loro un becco adatto al cibo di cui si nutrono. Gli uccelli granivori hanno becchi non troppo lunghi, larghi alla base, appuntiti, duri e taglienti: con essi frantumano i grani. Gli uccelli insettivori hanno becchi molto larghi, teneri, appiccicosi, capaci di afferrare e inghiottire anche grossi insetti.

La rondine

La rondine vive in campagna e in città: cerca le grondaie per costruirvi il nido ed ama l’acqua del fiume, del lago e dello stagno. Infatti sa che, alla superficie dell’acqua, si cacciano in abbondanza gli insetti, che sono il suo cibo preferito.

Ha le ali aguzze e lunghe, la coda biforcuta. Le piume sono di color turchino carico sul dorso e bianche sul petto.

E’ un uccello che ama il caldo; perciò, appena l’estate lascia il passo all’autunno umido e freddo, la rondine se ne va in Africa, dove l’attende il sole. Per questo si dice che è un uccello migratore.

Il nido della rondine assomiglia ad una mezza scodella. E’ costruito con pezzetti di fango appiccicati l’uno all’altro con la saliva e rafforzato con erbe, pagliuzze e piume.

La gallina

E’ un uccello molto utile, dell’ordine dei galliformi, che popola le aie ed i cortili. L’uomo le costruisce una casetta, il pollaio. Il suo corpo è piuttosto grosso e pesante; le ali, corte e deboli, le permettono solo voli brevi. Il capo è ornato di piccoli barbigli e di una cresta rossa e corta. Gli occhi sono tondi. Il becco è rigido, capace di rompere i semi duri. Le zampe sono ricoperte di scaglie giallastre. Sono robuste, armate di unghie e adatte a razzolare.

La gallina offre all’uomo carne fine e nutriente e uova. E’ una mamma (chioccia) affettuosa; per tre settimane cova pazientemente quindici – venti uova, che si schiudono liberando i pulcini. Essi, appena sgusciati, sono già coperti di piumino e molto vispi.

L’oca

E’ un uccello palmipede perchè ha le dita delle zampe riunite da una pelle dura e membranosa che le serve per nuotare negli stagni. Le zampe sono poste molto indietro rispetto al resto del corpo e ciò dà all’oca un’andatura goffa. Essendo un uccello acquatico ha le penne e le piume cosparse di un grasso oleoso, grazie al quale il suo corpo non si bagna. Pesca il suo nutrimento servendosi del becco largo e schiacciato, che lascia uscire l’acqua dai margini dentellati. Sono uccelli palmipedi il cigno, l’anitra, il gabbiano, il pellicano.

Il cuculo

E’ un uccello diffidente e astuto, molto accorto; vive evitando anche di farsi vedere nelle vicinanze delle nostre case. Il suo verso, il caratteristico cucù, ci giunge spesso all’orecchio nelle sere di primavera, mentre l’uccello è nascosto in mezzo al fogliame. Ottimo volatore, il cuculo percorre lunghissime distanze emigrando nella cattiva stagione verso le terre calde, per poi ritornare da noi agli inizi di primavera.

Il picchio

E’ un uccello rampicante adatto alla vita sui tronchi degli alberi; vi si arrampica e vi si aggrappa mediante le quattro dita del piede, della quali due sono rivolte in avanti e due indietro. Ha il becco lungo e diritto, con il quale picchia contro la scorza degli alberi. Mediante il suono prodotto dal legno, il picchio sente se il tronco è cavo o pieno; nel caso sia cavo, l’uccello pratica col becco un foro nella corteccia, e con la lingua lunga e viscida, prende gli insetti e le larve che vi dimorano.

Le voci degli uccelli

Il colombo tuba. La civetta squittisce, chiurla, stride. L’anitra schiamazza. La cornacchia gracchia e crocida. La gallina chioccia e crocchia. La gazza gracchia. Il merlo zufola, zirla, chioccola. La passera pigola, garrisce, cinguetta. La rondine stride e garrisce. L’usignolo gorgheggia. La pernice stride.

L’aquila

E’ la dominatrice dell’aria. Abita le più alte montagne, nidifica su rocce scoscese e alimenta i suoi aquilotti con la carne degli animali (conigli, lepri, agnelli) dei quali va in cerca di giorno volando, e sui quali si abbatte non appena li ha scorti, afferrandoli con gli artigli e sollevandosi a grandi altezze per portarli poi al nido o in altro luogo sicuro.

Ha il becco tagliente e forte, detto rostro; unghie robuste e adunche, dette artigli, atte a dilaniare la preda.

Anche la civetta, il barbagianni e il gufo sono uccelli rapaci ma notturni, perchè volano solo di notte dando la caccia a topi, vipere e altri animali dannosi.

Questi uccelli rapaci notturni sono rivestiti di un piumaggio adatto alle loro abitudini di predoni delle tenebre: colori scuri, piume foltissime, morbide e vellutate che rendono il volo assolutamente silenzioso. Il loro corpo è grosso e rotondo, con gli occhi dalla grande iride colorata di giallo o rosso. Un largo cerchio di penne chiare circonda gli enormi occhi quasi a guisa di occhiali, dando loro un aspetto del tutto singolare.

Grossi rapaci sono pure il falco, la poiana, lo sparviero, l’avvoltoio e il girifalco.

Il passero

In Italia è uno degli uccelli più comuni. Vive presso le case e nidifica generalmente sui tetti. Ha un becco conico robusto, le zampe con quattro dita e la coda tronca. Si nutre di semi: è un granivoro vorace. Infatti i contadini, quando le messi sono mature, per tenerlo lontano dai campi vi dispongono dei bizzarri fantocci: gli spaventapasseri. Si nutre però anche di insetti e di vermi, rendendosi così molto utile. Quando ha i piccoli nel nido, il passero dà loro l’imbeccata anche venti volte in un’ora. Altri passeracei sono il fringuello, il cardellino, l’allodola, l’usignolo, il merlo, il tordo, il pettirosso e il canarino.

Il gabbiano

E’ un uccello carenato e palmipede (ha cioè le zampe con le dita palmate, munite di una membrana che le rende simili a remi); frequente lungo le spiagge del mare, si trova anche in riva ai laghi e lungo i fiumi. Vola sull’acqua con volo lento e grave mandando un grido particolare, specialmente all’approssimarsi delle burrasche. Ha grandi ali così che può facilmente sostenere un lungo volo; può anche nuotare con i piedi palmati. Si ciba di pesci, vermi marini, crostacei ed altri piccoli invertebrati che prende nuotando o sfiorando a volo il pelo dell’acqua, oppure saltellando sulla riva del mare, guardingo e circospetto, alla scoperta di quanto l’onda ha lasciato per lui. Nidifica nelle paludi e negli stagni, fabbricando il nido fra erbe, giunchi e alghe.

Il pappagallo

E’ un uccello rampicante: ha cioè le zampe particolarmente adatte  ad arrampicarsi, con due dita rivolte in avanti e due rivolte indietro. Ha le piume dai colori vivaci, e proviene dalle foreste dei paesi tropicali. Si può addomesticare ed ambientare anche nei nostri paesi ed è divertente perchè apprende e ripete parole ed espressioni umane.

La cicogna

E’ un trampoliere: infatti le sue zampe lunghissime sono simili ai trampoli. Oltre alle zampe snelle  e sottili, ha il collo e il becco molto lunghi; il becco è fatto  in modo da afferrare e trattenere la preda. E’ un uccello migratore, cioè non ha stabile dimora in un luogo: sverna in Africa e passa l’estate in Europa. L’unico trampoliere stazionario in Italia è l’airone cinerino.

Il pinguino

Anche il pinguino è un uccello, ma ha il corpo inadatto al volo. Cammina con andatura goffa e barcollante. Vive in branchi numerosissimi fra i ghiacci delle regioni polari dell’Antartide. Le sue ali corte e robuste si sono adattate al nuoto anziché al volo. La femmina del pinguino depone le uova dalle quali, dopo circa due mesi, nascono i piccoli rivestiti di un fitto piumino.

Le qualità degli uccelli: rapaci, passeracei, gallinacei, palmipedi, corridori, granivori, acquatici, insettivori, notturni, diurni, migratori, sedentari, canterini, implumi, lenti, veloci, grandi, leggeri.

Le azioni degli uccelli: cinguettare, cantare, schiamazzare, stridere, pigolare, volare, migrare, nidificare, deporre, covare, imbeccare, costruire, saltellare, beccare, razzolare, raspare, bezzicare, frullare, saltellare.

Passeri sulla neve

Il passero pigola tra le fronde sempre verdi e fa capolino dalla volta di un tegolo, rannicchiato, irsuto come un riccio. Poveri passeri! Li vedete fatti dalla necessità doppiamente domestici, spiccarsi tratto tratto dai comignoli, venire a stormi dalla campagna tutta coperta, svolazzarvi tra le gambe, cercando qualche cosa da beccare. Intanto qualche pietosa bimba sbriciola agli affamati uccelletti il panino della sua  colazione. (A. Stoppani)

Lo scricciolo (racconto)

Passavo presso una cascina leggendo. D’un tratto mi vidi a lato un bimbo che teneva in mano un uccellino così piccolo come non ne avevo veduto nei miei paesi.

– Eccoti due soldi, me lo dai? – Non se lo fece dire due volte. Prese la moneta e si allontanò correndo. Povero uccellino! Non era più grosso del mio pollice; grigio, con un becco fino e acuto, ancor lattiginoso agli angoli. Doveva essere appena fuggito dal nido. Ad un tratto mi scappò di mano, mandando degli acutissimi “ci!” “ci!”  e battendo le ali così rapidamente che pareva un grosso insetto. Ma non potè sostenersi e scese a terra subito. Io lo raccolsi e lo portai a  casa. Perchè non lo posi sopra una siepe? Lo lasciai svolazzare per lo studio tutto il giorno; non poteva camminare, avanzava a piccoli salti come un ranocchio; il suo color grigio anche lo faceva somigliare ad un piccolo rospo.

Si appendeva alle tende e a piccoli salti giungeva alla cima. Lo imbeccai e lo posi a dormire nella bambagia. Al mattino il suo grido, simile al cigolio del manico di un secchiello, mi svegliò. Era appeso alle tende e guardava fuori dai vetri. Aprii le finestre: appena vide uno spiraglio prese il volo, ma cadde sul balcone. Lo raccolsi e gli tarpai le ali leggermente. Volle spiccarsi di nuovo, si slanciò verso le vetrate, verso la libertà e la luce, ma cadde sul tavolino. Che cosa crudele!

Perchè? Speravo che si addomesticasse.

E non volò più, anzi non si mosse più. Incominciò a socchiudere gli occhi leggermente. Come è triste ciò! Le palpebre diafane si appesantivano: le piume si arruffavano, si raggomitolavano. Io lo scaldavo con le mie mani e le sue pulsazioni erano rapidissime, interrotte spesso da scosse che dovevano essere fortissime per quel corpicino.

Dovevo uscire per le mie occupazioni. Lo posi nella sua bambagia ed egli vi si ficcò tutto sotto, come sotto le ali di una madre per morire in pace.

Presto tornai. Ero assediato dall’idea della piccola vita prigioniera e moribonda; giunto a casa fui pronto a sollevare il piccolo strato di bambagia… Era rigido. (G. Cena)

Il colpo di fucile

Fu allora che il cacciatore lasciò andare una schioppettata. Le anatre, fra grida di spavento, fuggirono sui campi e per qualche minuto si udirono richiamarsi alla lontana, fino a che, riunite in due squadre, dileguarono lungo il fiume. Solo due mancarono all’appello: erano rimaste là, sul greto fra le canne. (F. Tombari)

Gli uccelli insettivori

La vegetazione ha i suoi nemici ed i suoi amici. Sono suoi nemici certi insetti, che rodono le gemme, le tenere foglie, i fiori. Per fortuna, vi sono gli uccelli insettivori, che si dividono il lavoro nei campi, nelle siepi, nei boschi, negli orti, e fanno una guerra continua a tutti i bachi che distruggerebbero i nostri raccolti. Essi, con la vista acuta, con la pazienza, e senza altra occupazione che quella, fanno un lavoro che sarebbe assolutamente impossibile senza di loro.

Gli uccelli

Fortunati gli uccelli! Essi sono liberi di percorrere a volo le infinite vie del cielo. Ne conosciamo moltissimi: uccelli da preda come le aquile e i falchi, i gabbiani che vivono in riva al mare, le rondini che emigrano in autunno e tornano in primavera, le cicogne del becco lungo e dalle lunghe zampe, i pappagalli, le gazze che rubano tutti gli oggetti lucenti, le civette ed i gufi che vivono di notte, e tutti gli uccelli che cinguettano, trillano, fischiano, come i passeri, i cardellini, i pettirossi, i canarini, gli usignoli, i merli , i fringuelli, e molti altri.

Gli uccelli pesanti non possono volare. Conosciamo il gallo e la gallina, le oche, le anatre, i tacchini e i pavoni. Lo struzzo è un grosso uccello dalle gambe robustissime che corre velocissimo nei deserti e nelle savane dei paesi caldi. Le anatre sanno anche volare e così altri grossi uccelli come i fagiani e le pernici.

Uccelli

Dall’alba all’ora di notte è un turbinio continuo di ali e un solo clamore di vocine forti, brevi e pungenti, sempre di una misura. Passeri, certo; e devono convenire qui da tutte le grondaie del vicinato come i bimbi in un pubblico giardino. Però fra loro c’è anche qualche uccello forestiero, venuto chissà da dove; questo che gracida asprigno a modo di  raganella, quest’altro che tenta un gorgheggio d’acqua sorgiva… (D. Valeri)

Le uova

Sono assai nutrienti, come lo è la carne. Sono un alimento animale perchè ci vengono fornite dalle galline. Nelle uova vi sono due parti: il tuorlo e l’albume. Il tuorlo giallo e denso, è la parte migliore. Assai buone sono le uova fresche, cioè appena deposte. Si possono però conservare per parecchie settimane mettendole nella sabbia o nella calce.

I passeri

E il nido del passero lo si trova da per tutto, vicinissimo alla casa dell’uomo in cui confida; sotto le tegole del tetto, tra le balle di paglia di un fienile, entro una piccola crepa del muro di cinta. Il passero è sempre lieto. Trova quasi sempre il chicco di grano o la briciola di pane che lo nutre, anche d’inverno: e quando sente la massaia chiamare i suoi polli per la quotidiana distribuzione del becchime, sempre il passero viene a rubacchiare qualcosa tra le zampe delle galline.

Il nido vuoto

Sotto la gronda c’è un piccolo nido in rovina. Pare una casina senza porta, una casina abbandonata. La famigliola che la abitava è andata lontano. E’ andata in cerca di sole. Fa freddo, ora, da noi. Le giornate sono brevi, la campagna è senza verde e senza fiori. Piove spesso. L’acqua penetra dalle tegole sotto la gronda. E il piccolo nido fradicio, abbandonato, si sfascia a poco a poco. (C. Dossi)

Gli uccelli nel periodo della cova

Durante il periodo della cova, la femmina rimane quasi sempre nel nido; se ne allontana solo per andare in cerca di cibo. Il maschio le rimane vicino, pronto a difenderla da ogni pericolo; e quando tutto intorno è tranquillo, esso canta per tenere allegra la sua compagna, per farle sentire la sua vicinanza. Finalmente, le uova si schiudono: i piccoli sono nati. Ma come sono brutti! Il loro corpicino è nudo, senza piume; gli occhi sono chiusi; la testa sembra enorme, in confronto all’esile collo; le zampe sono inerti. Però hanno un grosso becco ben aperto, dentro cui il padre e la madre si alternano ad introdurre il cibo: piccoli insetti, moscerini, che la madre prima frantuma col suo forte becco. Quei piccini sono affamati: come sono  buffi, coi loro testoni ritti, e coi beccucci spalancati… Ma, dopo pochi giorni, i piccoli prendono forza; il corpo si copre di leggere piume, ed essi possono cominciare a spiccare i primi voli, guidati, assistiti, protetti dalla madre, che ha un grido particolare per chiamarli quando ha trovato il cibo.

Se qualcuno, animale o uomo, assale i suoi piccini, essa li difende accanitamente, con un’abnegazione commovente. Alle volte, arriva ad offrirsi vittima di un nemico, pur di salvare i suoi piccini.

Dicono che quando scoppia un incendio in una casa di campagna, in primavera, i gemiti, le grida della rondine il cui nido è attaccato alla casa in fiamme, sono veramente impressionanti… La povera bestia non teme di attraversare le fiamme per volare in aiuto dei suoi piccoli: vuole salvarli, o morire con loro.

Quando i piccoli sono abbastanza forti per volare via, sfuggono ai legami della famiglia… e, poco curanti dei genitori, se ne vanno in qualche altra parte del mondo. Ma i genitori non si amareggiano per questo: riformano una nuova covata e ricominciano le cure, le sollecitudini, i sacrifici, che saranno ricambiati con così scarsa riconoscenza.

Nidi di uccelli

Molte sono le forme e diversi i tipi di nidi, che gli uccelli costruiscono con destrezza ed abilità. La starna e la quaglia si accontentano di semplici buche nel terreno, con qualche sterpo. Invece, presso i corsi d’acqua, il pendolino si fabbrica il nido a forma di fiaschetto e con finissima arte, intrecciando fibre vegetali all’estremità di un ramo sottile e pieghevole. Il picchio muratore non vuol essere da meno del suo nome: cerca una cavità del tronco di un albero, intonaca l’entrata con fango, lasciandovi solo una piccola apertura, e il nido è pronto. L’aquila, regina delle vette, naturalmente lo costruisce in alta montagna, nelle fessure tra le rocce. Le folaghe fanno i nidi galleggianti sull’acqua; le cicogne sui comignoli e sui rami nudi degli alberi. Chi si dà poca cura di fabbricarlo è il cuculo. Depone le uova nei nidi dei cardellini, dei merli e degli usignoli; e affida la covatura, la nascita e l’assistenza dei suoi grossi figli alle mamme degli altri piccoli uccelli cantori.

Tornano gli uccelli migratori

Nelle terre calde dell’Africa settentrionale le rondinelle, tutte chiuse nel loro bell’abito nero e bianco, si preparano a partire per il viaggio di ritorno, ora che è tornata la primavera.
Le rondini voleranno sopra deserti, mari, pianure, montagne. Un istinto meraviglioso le guiderà per migliaia di chilometri, e farà sì che esse riconoscano i nidi che ogni anno le aspettano.
Anche le gru, le anatre e le oche selvatiche, gli stornelli, i chiurli, le cicogne, le allodole, i vanelli e i falchi sono uccelli migratori.
Le gru cinerine, cioè di color cenere, volano formando nel cielo una grande V. Il loro volo è lento e maestoso. Lo sai che possono raggiungere perfino i 9.000 metri di altezza? Potrebbero cioè da sole, con il solo battito delle forti ali, posarsi sulla più alta montagna della Terra.
Le anatre selvatiche invece hanno un volo rapidissimo. Possono compiere in un’ora anche centoventi chilometri, quanti cioè ne fa un’automobile.
Gli storni invece formano in cielo delle grosse nubi nere, poichè volano in gruppi foltissimi e molto serrati.
Mettendo attorno alle zampe di alcuni uccelli migratori degli anellini di alluminio, con le indicazioni del luogo da cui ebbe inizio il volo, si è saputo, per esempio, che le cicogne dei paesi del nord Europa passano l’inverno nell’Africa del sud, dopo aver compiuto un viaggio di ben diecimila chilometri, senza neppure l’aiuto dei punti cardinali.

Come fanno ad orientarsi gli uccelli migratori?

Cose veramente straordinarie sanno fare gli uccelli migratori: si è notato per esempio che la rondine torna non solo nello stesso luogo, ma persino nello stesso nido che ha abbandonato l’anno precedente.
Come fa ad orientarsi in un percorso che è spesso di migliaia di chilometri?
Purtroppo non si è ancora in grado di rispondere con esattezza, e il problema dell’orientamento degli uccelli migratori rimane tuttora uno dei più appassionanti per la scienza moderna.
Si è supposto che gli uccelli sappiano calcolare per istinto l’angolo che la  loro strada deve avere in ogni istante rispetto alla direzione della luce solare.

Nidi

Non esiste tanta varietà di tipi nelle case degli uomini quanta ce n’è nei nidi degli uccelli.
C’è chi costruisce il nido sui rami sporgenti degli alberi, chi lo scava tra le zolle del terreno;  c’è chi si sceglie una cavità di un tronco, chi lo pone a galleggiare sull’acqua, tra i  canneti.
C’è anche chi, in mancanza di meglio, si fa il nido in una vecchia brocca o in una latta di benzina abbandonata; si sono visti nidi posti all’interno di cassette della posta o di pompe idrauliche usate poco di frequente.
Anche i materiali usati sono i più vari: da quelli di origine vegetale (muschi, pagliuzze, rametti, fili d’erba, pappi e semi lanosi) o animale (bioccoli di lana, peli, crini, tele di ragno) a quelli prodotti dalle attività dell’uomo (fili di cotone e di lana, straccetti, trucioli, pezzetti di carta).

Come nasce il nido di una rondine

Anche quest’anno, con l’arrivo della primavera, sono tornate le rondini e riempiono l’aria di allegri stridi e di voli. Sotto le gronde  dei tetti, nelle stalle, nei cortili, ritrovano i vecchi nidi, o li costruiscono nuovi se sono stati guastati dalle piogge invernali o dagli uomini, tanto che non vale più la pena di ripararli.
Hai mai osservato di che cosa sono fatti e come sono costruiti questi nidi? Vieni a vedere: una coppia di rondini sta costruendone uno proprio sopra la nostra finestra, sotto la grondaia. Le ho viste poco fa ispezionare il muro attentamente, tenendosi aggrappate ad una piccola sporgenza, e poi sono volate via. Eccole di ritorno. Ciascuna ha nel becco una pallina di fango molle, presa sul bordo di qualche pozzanghera. Hanno impastato il fango con la saliva ed ora, con abili colpi di becco, lo applicano al muro come farebbe un muratore con cazzuola e cemento. Attaccano una pallina dopo l’altra, inserendo fili di paglia e di erba nella malta per renderla più resistente.
A poco a poco il nido prende forma e, quando sarà ultimato, sembrerà una mezza tazza.  Non sarà molto bello, ma potrà resistere per anni e contenere la rondine quando cova i molti rondinini. (M. Leale Anfori)

La prima rondine

Verso la fine di marzo la prima rondine giunse sotto il tetto. Si aggrappò al nido, sbattè più volte le ali, poi riprese a volare nel cielo disegnando nell’aria ampi cerchi. Passò sul melo dell’orto, e subito dai piccoli rametti brulli sbucarono alcune gemmule. In un baleno, dai cartoccetti che bucavano l’aria come ditini, si svolsero i bianchi fiori, e il melo sembrò a tutti una bella nuvola caduta dal cielo nell’orto.
La rondine passò a volo sul pesco, che era nell’angolo dell’aia e sembrava avere addosso ancora tutto il freddo dell’inverno, e anche il pesco si ingemmò, giunse perfino sul mandorlo, là verso la collina, e col suo grido acuto la rondine lo risvegliò.
Poi sfiorò i prati e l’erba cominciò a tremare nell’aria col suo filo di un verde tenero; sfiorò le prode, e l’acqua sei ruscelli cominciò a scorrere tra i sassi; e le viole, sotto le larghe foglie, si destarono come per incanto, spandendo nell’aria il loro delicato profumo.
Volava, volava, la rondine, e cinguettava felice. (C. Bucci)

Tipi di nidi

Per covare le loro uova in tutta tranquillità e per assicurare ai loro piccoli una protezione efficace contro le intemperie e anche contro gli animali da preda, gli uccelli si costruiscono, con arte meravigliosa, un rifugio, caldo e sicuro, solido e confortevole, spesso elegante: il nido. I materiali con cui viene costruito, come pure la sua forma, variano notevolmente a seconda delle specie. Pezzettini di legno, festuche, muschio, crini di cavallo, lana, fibre di cotone, terra argillosa e altro, possono servire per la sua costruzione. E’ interessante notare che ogni specie ha, in una certa misura, la possibilità di adattarsi alle circostanze e di servirsi di materiali dei quali di solito non fa uso. Infatti, un uccello che costruisce generalmente il suo nido con fili di paglia e con muschio è capace, se non trova questi materiali nelle vicinanze, di usare licheni, stracci, pezzi di carta e perfino fil di ferro o addirittura molle di orologio. Esso può anche fissare il nido in luoghi insoliti: l’upupa, per esempio, che lo costruisce di regola nel cavo degli alberi tarlati, può all’occasione nidificare nelle cavità delle rocce, nei buchi dei muri e perfino nelle carcasse degli animali morti.
Tuttavia, come vedremo, ogni gruppo di uccelli si serve, solitamente, di materiali ben determinati, dà al suo nido una forma precisa, e lo costruisce in un posto definito.

Nidi a coppa e a cestino
Esistono nidi a forma di cestino: come i cestai, gli uccelli intrecciano fuscelli, crini o erbe, in modo da formare una specie di coppa, una cavità accogliente. Nella maggior parte dei nidi, tre strati ne formano le pareti: uno esterno, abbastanza grossolano, uno interno, morbido, fatto con erbe sottili, muschio, cotone, peli, piume, e un terzo, fra i due, costituito da materiali diversi. Il nido dei cardellini, per esempio, è rivestito all’esterno di muschio bianco e fili di ragnatela, mentre la rivestitura interna è costituita da crine, cotone di diverse piante, peli di cardo, erbe sottili e peluria.
I nidi a forma di coppa sono posti per la maggior parte sugli alberi o sugli arbusti e sono nidi di fringuello, di usignolo, di cardellino, di ciuffolotto, di capinera, di merlo, di canarino, di verdone, di fanello e di altri ancora. Il loro colore è tale che si confondono spesso con la scorza dell’albero e talvolta è molto difficile distinguerli dai nodi dell’albero o dei rami.
Alcuni nidi sono posti al livello del suolo, come il nido della gentile allodola, che consiste in una semplice buca scavata nei campi di grano o nei prati e rivestita di fili d’erba, di steli secchi e di radici. Altrettanto fanno la quaglia, la pernice e il fagiano. Talora, il nido è costruito in mezzo a piante acquatiche e perfino su una specie di piccola zattera: il nido della folaga nera, ad esempio, galleggia liberamente sulla superficie dell’acqua.

I nidi dei passeri e delle gazze
Alcuni uccelli costruiscono nidi a forma di palla, con una o due aperture laterali, che proteggono dalla pioggia e dal freddo meglio dei precedenti. Di tale tipo sono il nido del passero e quello della gazza. Il primo è una specie di palla voluminosa, un po’ grossolana, fatta di paglia, di fieno, di ramoscelli, di stracci, di lana, di pezzi di carta, con l’interno più soffice, tappezzato di piume. Quando però il nostro passero lo costruisce sotto una tegola o sotto il davanzale di una finestra, non si preoccupa più del tetto della sua abitazione, sentendosi, forse, protetto a sufficienza. Più complicato è il nido della gazza: la sua base, a forma di coppa profonda, è costruita con robuste bacchette (che possono raggiungere il metro di lunghezza e che talvolta sono piegate), con calcina, con fuscelli e con sottili radici; la cupola è composta di ramoscelli che si incrociano in modo da formare una volta a grata, che, però, è molto sicura perchè costruita sempre con rami muniti di uncini e di spine. Due aperture, abbastanza strette, permettono all’uccello di entrare e di uscire, ma sono insufficienti per difenderlo dai nemici di grosse dimensioni, come il corvo, la cornacchia  o il falco. A una certa distanza, questa costruzione di confonde con i numerosi rami della cima degli alberi e ciò contribuisce a proteggere i suoi abitanti. La gazza, inoltre, ha l’abitudine di cominciare molti nidi contemporaneamente, ma ne termina solamente uno, nel quale depone le uova; certamente fa ciò per sviare i nemici.

Gli uccelli tessitori
I nidi più stupefacenti sono senz’altro quelli costruiti dai cosiddetti tessitori, una specie di passeracei, i quali tessono i loro nidi con erbe molto flessibili, con piccoli rami, con radici, che intrecciano in modo da comporre un tutto molto solido, una specie di tessuto le cui maglie vengono incollate con saliva o con terra. La forma di questi nidi varia a seconda della specie, ma hanno sempre forma di una borsa con l’apertura in basso o sul fianco, e sono sospesi si rami di un albero, che ne può portare anche una quarantina. Il nido dei passeri del genere Cassicus, uccelli grandi come un corvo che vivono in Amerca, misura circa 1,20 m di lunghezza; è così solido che lo si può rompere a fatica, e tuttavia le sue pareti sono tanto sottili che lasciano scorgere le uova o i piccoli. Le fibre che lo costituiscono vengono strappate agli alberi dall’uccello stesso. Esso si posa su un ramo, ne pizzica la corteccia col becco, la stacca per qualche centimetro, afferra l’estremità così sollevata e vola via di fianco in un modo tutto speciale, in maniera da strappare delle fibre di una lunghezza da tre a quattro metri. Talvolta le fibre vegetali sono sostituite da crini di cavallo. Per la fabbricazione di tali nidi il passero impiega molto tempo e perciò questi uccelli utilizzano lo stesso nido per molti anni di seguito, riparandolo dopo ogni covata. La maggior parte degli uccelli tessitori abita le regioni molto calde; non di meno, se ne possono trovare anche nei Paesi piuttosto freddi o temperati. Così, nell’Europa orientale, vive un uccellino, il pendolino, il cui nido, sospeso sopra l’acqua, è una specie di borsa alta da 16 a 22 cm, col diametro da 11 a 14 cm e con un’apertura sul fianco che ricorda il collo di una bottiglia, per cui è detto anche “fiaschettone”. Per costruirlo, il pendolino sceglie un ramo sottile, inclinato verso il basso, che presenta una o più biforcazioni a poca distanza dal punto di origine; lo circonda di lana e talvolta di peli di diversi animali, capra, lupo, cane, o anche di filamenti di corteccia, poi tesse le pareti del nido fra le biforcazioni. Il pendolino è frequente anche nelle zone acquitrinose dell’Italia.

I nidi meno raffinati
Vi sono altri uccelli che semplificano il loro lavoro, accontentandosi di intrecciare semplicemente sterpi e rami d’albero. Così fanno le aquile, le cicogne e i corvi. Il nido dell’aquila reale è costruito con rami, alcuni dei quali hanno lo spessore di un braccio; il centro è occupato da fuscelli, da cortecce e da erbe secche. Appena completato, non oltrepassa i 25 cm, ma aumenta di volume col passare degli anni per l’apporto di nuovi materiali, così che può raggiungere le dimensioni di un metro e mezzo.
Anche il nido delle cicogne è grossolano. E’ costruito sui tetti, sui camini e sulle rocce con rami della grossezza di un dito, spine e zolle di terra più o meno erbose. La parte intermedia è fatta di fuscelli più sottili e di foglie di canna; l’interno, di erbe secche, di letame, di stracci, di paglia, di piume. Il maschio e la femmina raccolgono insieme i materiali, ma è la femmina che dirige il lavoro.
Il nido del corvo è abbastanza simile a quello della cicogna, ma più piccolo. Da lontano, assomiglia a una fascina: oltre ai rami, che possono raggiungere 40 cm di lunghezza, vi si trovano i materiali più vari: fili di paglia, lana, muschio, stracci e così via. La costruzione è molto solida e dura parecchi anni; così, quando il corvo l’abbandona, viene occupata da altri uccelli, come le poiane, i falconi, gli sparvieri. Alcuni uccelli, infine, come la cinciallegra, utilizzano i buchi degli alberi; altri, come l’usignolo, le cavità dei muri. Lo struzzo scava, semplicemente, una fossa nel suolo, cova le uova di notte, e le abbandona di giorno, dopo averle ricoperte di sabbia, che le nasconde e le protegge dall’intenso calore tropicale.
Una semplice cinta di  ciottoli costituisce il nido dei pinguini. Il cuculo, poi, depone le uova nel nido di altri uccelli e affida loro le cure della figliolanza.

Il nido dell’allodola

Eugenio, Riccardo e Silvio hanno scoperto un nido di allodola.
La madre era lassù in alto come perduta nel gran cuore azzurro del cielo; e cantava.
I tre monelli strisciavano nell’erba fino al nido.
La madre si precipitò su di loro come un sasso. Poi ebbe paura. Si fermò, cantando di dolore, sul loro capo.
Se ne andarono via a testa bassa, nascondendosi in seno i cinque pulcini caldi, pigolanti.
“Li nutriremo meglio noi”, disse Eugenio come per giustificarsi.
Sull’uscio di casa, li incontrò Rossana, la sorellina.
“Che portate?”
Ma Rossana non era tipo da perdersi d’animo. Li vide prendere l’ovatta, scendere in cantina, preparare una specie di nido, deporvi i cinque implumi.
“Ah, cattivi!” esclamò fra sè, “Il nido della mia allodola…”
Lasciò che i fratellini uscissero, scese in cantina, prese delicatamente i pulcini che pigolavano piano piano, e via di corsa per filari, finchè giunse al prato e al nido.
L’allodola volava come impazzita e cantava dolorosamente.
“Vedi, allodola, eccoli i tuoi bambini!” gridò Rossana, protendendo le manine al di sopra dei fiordalisi.
Si allontanò e l’allodola scese sui suoi piccini, a coprirli con le ali.
Rossana corse a casa.
I fratellini erano sempre fuori a caccia di mosche e di bruchi.
Quando si accorsero della scomparsa dei pulcini dell’allodola, cominciarono a strepitare.
“Chi ha preso gli uccellini? Chi è stato?”
“Il gatto” rispose Rossana, che era accorsa alle loro grida.
“Quale?”
“Quello nero”
“Ah, gattaccio!” e i tre fratellini cominciarono a inseguire il gatto, che scappò, spaventatissimo, soffiando.
Passarono i giorni.
Era una bella mattinata di sole; e delle allodole trillavano liete nel cielo
“Eugenio, Riccardo, Silvio, venite!” gridò Rossana.
I tre fratellini accorsero.
“Vedete quelle allodole?”
“Certo”
“Sono gli uccellini che voi avreste fatto morire. Sì, non era stato il gatto nero. Sono stata io a riportarli alla loro mamma”.
Le allodole continuarono a cantare; e i tre fratellini le guardavano, contenti che una sorellina gentile avesse loro impedito di distruggere un nido. (M. Lauri e G. Neri)

Nidi

Com’è piena di bisbigli l’aria di primavera! Hanno bisbigli le siepi in cui fiorisce il biancospino, con il buon profumo amarognolo che invita le api; hanno bisbigli gli alberi tutti rivestiti di foglie tenere e che non sanno resistere al vento… Quei bisbigli così miti, quei frulli d’ali improvvisi, dicono che, nei nidi, dei beccucci si aprono avidi in attesa dell’imbeccata materna. (A. S. Novaro)

La cova

Durante il periodo della cova, la femmina dell’uccello resta quasi sempre nel nido; se ne allontana soltanto per andare alla ricerca del cibo. Il maschio le rimane vicino, pronto a difenderla da ogni pericolo e tenerla allegra, per farle sentire la sua vicinanza. Finalmente, le uova si schiudono: i piccoli sono nati. Aprono subito il becco e la mamma e il padre si alternano per introdurvi il cibo e saziare quei piccoli affamati. (M. Menicucci)

Rondini

Quante sono quest’anno le rondini! All’alba e più al tramonto, fanno come una nobile trama nera in questo rettangolo di cielo. Sono pazze di volo, di allegrezza, di canto. Tagliano via l’aria, stridendo, con le ali tese e ferme: si riabbassano, riprendono respiro, indugiano; e poi si rovesciano, si tuffano a capofitto, scompaiono. (M. Valgimigli)

Le rondini

Le rondini fulminee saettavano il cielo, di cui sono navigatrici eterne. Vanno ora radendo il suolo, ora perdendosi nell’azzurro; volano sempre facendo intorno il vento, e seminando lo spazio di sibili acuti; e poi a un tratto, posano sopra un filo telegrafico o sulla punta di un parafulmine, ciangottando fra loro, senza stanchezza, senza sudore, linde linde e tutte raccolte nelle vele ammainate delle grandi ali e pronte a nuovi voli. (P. Lioy)

Uccelletti

Cinguettano i passerotti, volando vispi dai tetti ai cortili, dai cortili ai campi e nei frutteti dove matura tanta frutta zuccherina. Stridono le rondini, volando a stormi intorno al campanile, o intorno alle grondaie delle vecchie case; là sotto hanno costruito i loro nidi; e vi pigolano i rondinini.
Trilla l’allodola, nella mattina serena, e si alza alta nel sole nascente.
Gorgheggia l’usignolo, soavemente, nell’ombra degli alberi; e specialmente di sera, di notte… Ma allora i bambini dormono e non possono udirlo. (E. Graziani Camillucci)

Chiacchiericcio

Chi sa perchè gli uccelli sono sempre allegri? Cantano, pigolano, cinguettano, non stanno mai zitti. Senti che chiacchierio che fanno lassù, su quegli alberi? Ci deve essere festa a casa loro. Scommetterei che nei loro nidi son nati i piccini o stanno per nascere. Ecco perchè fanno festa!

L’uccellino

Un uccellino scende a volo da un albero dove stava a dondolarsi, fa pochi saltelli e si avvicina alla riva del fossatello dove si son formate delle pozze d’acqua.
L’uccello si accosta ad una di esse e beve, poi entra con le zampette nella pozza, vi tuffa le ali, la testina, una volta, due volte. Ora si risolleva e scuote le piume: si è pulito, si è rinfrescato. Prima di volar via dice grazie al fossatello con un garrulo cip cip.

Tempo di migrare

Ed ecco, se ne vanno. Malinconia di queste migrazioni, precedute da ripetuti raduni che essi fanno o presso i folti canneti o alle chiare fonti, o intorno al campanile della parrocchia, con chiacchiericci sommessi e commossi, che sono cenni d’intesa. Finchè un bel giorno, divisi per famiglie, fiutando vento valido, di mattina per tempo o sul far della sera, al comando di un capo che s’è guadagnata la fiducia, il raduno si leva, volteggia, si scompone, si ricompone, si serra, s’innalza, prende alta quota, altissima, e va. Chi sta sotto a guardarlo, vede la meraviglia di quel convoglio aereo. E il convoglio va, va finchè si perde come una nuvola vivente all’orizzonte. (C. Angelini)

Partono le rondini

Partite, rondini? Sembrate allegre, riunite a stormi e mai come stasera canterine! Il sole del tramonto vi bacia le lucide ali come a dirvi: “Arrivederci a domattina, in un altro cielo!”
E volate e rivolate intorno ai nidi che lasciate là, vuoti sotto la grondaia; e i vostri stridi sono di gioia, simili a trilli di bimbi che per la prima volta fanno un viaggio insieme al babbo. Di voi, infatti, molte sono al loro primo andare lontano, altre hanno già fatto più volte la strada, guidate dalle aurore rossastre dei mari. E chissà se queste torneranno ancora! La gioia dei rondinotti, assetati di fughe e di lontananze, è forse malinconia per le rondini anziane: la stessa malinconia di noi che siamo qui a salutarvi, a vedervi volare per l’ultima sera nel nostro cielo più terso che mai.
Salutiamoci, dunque, senza esser tristi. (G. Giusti)

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Racconti per la primavera

Racconti per la primavera – una collezione di racconti, di autori vari, per bambini della scuola d’infanzia e primaria…

Racconti per la primavera – Storia del bruco Morbidone
C’era una volta una farfallina azzurra, molto graziosa nel suo vestito di seta celeste. Volava insieme a tante altre farfalline azzurre. Disse: “Conosco un magnifico posto per deporre le uova. I nostri piccini avranno una culla da re”.
Questo magnifico posto era un melo in fiore e le farfalline deposero un piccolo uovo in ogni fiore, poi morirono, perchè le farfalle, quando hanno pensato ai piccolini che debbono nascere, non hanno più nulla da fare.
I fiori del melo perdettero i petali e pian piano si trasformarono in frutti. Ma in ognuna di quelle piccole mele che il sole coloriva e faceva diventare sempre più grosse, c’era un bacolino appena nato dall’uovo deposto dalle farfalline azzurre, un bacolino che aveva trovato la casa e insieme la polpa saporita da mangiare.

Il bruco Morbidone era uno di questi bacolini, e poichè era dotato di grandissimo appetito, in breve era diventato grasso e ben pasciuto. Anche la mela diventava grossa e si coloriva al sole, ma non era allegra perchè non aveva nessun piacere di sentirsi divorare tutta la polpa da quel ghiottone di bruco.
Morbidone si era aperta una finestrina nella buccia della mela e ogni mattina vi si affacciava per prendere il fresco e per scambiare qualche chiacchiera con i suoi compagni. Ma un giorno sentì uno strattone che lo mandò a ruzzolare in fondo alla casetta.
“Che maniera!” strillò. Ma non aveva finito di gridare che sentì dei denti entrare profondamente nella mela e mancò poco che venisse schiacciato.
“Puah, c’è il verme!” disse una voce e la mela venne scagliata lontano.
Il bruco Morbidone, non appena si fu riavuto dal colpo, si affacciò alla finestrina e con voce soffocata dall’indignazione, si mise a strillare: “Chi è questo ignorante che mi chiama verme? Verme sarà lui e tutti i suoi discendenti! Non lo sa che io appartengo alla specie dei bruchi e con i vermi non ho proprio nulla in comune?”.
“Ah, non sei un verme?” disse una coccinella che si lustrava la corazza. “Ma gli somigli!”.
“Non gli somiglio nient’affatto!” gridò il bruco Morbidone, che aveva un carattere piuttosto irascibile. “Il verme ha forse le zampe? Non hai mai visto un lombrico? Quello sì che è il campione di tutti i vermi! E ti pare che abbia le zampe? Io, invece, ne ho ben cinque paia, anche se due paia le perderò strada facendo”.

“Uh, perdi le zampe!” sghignazzò la coccinella, “E quando succederà?”
Ma il bruco Morbidone, indignato, aveva sbattuto la finestrina borbottando: “Che razza d’ignorante!”.
Si guardò intorno e si sentì improvvisamente molto triste e malinconico. Neppure la polpa della mela gli piaceva più.
“Forse ho fatto indigestione”, pensò. “E’ meglio che vada a fare una passeggiata”.
Si attaccò a un filo di seta, finissima produzione propria, e si calò dalla finestrina. Un soffio d’aria lo fece dondolare dolcemente, e i fiori gli mandarono un’ondata di profumo.
“Come è bello il mondo!”, mormorò il bruco Morbidone, e si addormentò.
Quando si destò, era primavera. Le violette odoravano dolcemente fra l’erba novella.
“Buongiorno, farfallina azzurra!” disse una lumachina che si arrampicava sullo stelo di un rosaio.
“Dici a me? Ma io sono il bruco Morbidone!”
“Forse lo eri”, disse la lumachina ritirando maliziosamente un cornino. “Ma ora sei una bella farfallina vestita di velo celeste. Puoi specchiarti in una goccia di rugiada”.
“E’ vero, è vero!” esclamò il bruco Morbidone diventato farfallina, dopo esseri specchiato. “Questa è una bellissima sorpresa”.
Pazza di gioia, la farfallina si mise a volare nell’aria tranquilla e si mescolò a uno sciame di farfalline simili a lei, che svolazzavano sopra i fiori. E allora, un ricordo lontano affiorò nella sua piccola mente, il ricordo di un buon sapore di mela…
“Conosco un posto” disse alle compagne, “un magnifico posto per deporre le uova…”
E la storia ricominciò.
(Mimì Menicucci)

Racconti per la primavera – La rosa più bella del mondo

Quando la Rosa Bella aprì gli occhi alla luce del mattino, fu molto contenta di essere sbocciata.
“Buongiorno!” le disse un petulante Garofano Rosso. “Sei la Rosa Bella?”
“Sì, ma non mi basta. Voglio essere la rosa più bella del mondo.”.
Il Garofano la guardò stupefatto.
“Accipicchia!” esclamò “Accipicchia!” e non seppe aggiungere altro.
Lo Gnomo Puc, che si era svegliato di ottimo umore perchè aveva dormito sotto una pianta di papavero che gli aveva conciliato il sonno, finì di pettinarsi la barba, poi disse: “E’ facile. E’ una cosa facilissima”.
Subito la rosa diventò tutta d’oro, petali, foglie, tutto, e si ritrovò fra le mani del re, perchè soltanto i re posso avere delle rose d’oro.

“E’ una rosa bellissima” disse il re contemplandola “un vero capolavoro. Ma io, oltre a essere re sono anche poeta e preferisco le rose dai petali di velluto”.
“Gnomo Puc!” chiamò la Rosa Bella, e lo gnomo Puc venne subito, a cavalcioni della sua pipa.
“Che c’è?”
“Credevo che la rosa d’oro fosse la rosa più bella del mondo. Invece non è vero. Voglio essere una rosa di velluto”.
Lo gnomo Puc la toccò con la cannuccia della sua pipa e subito la Rosa d’oro divenne di velluto e si trovò appuntata sulla pelliccia di una signora.
“Bellissima questa rosa di velluto!” disse qualcuno toccandola con un dito.
“Sì” rispose la signora “ma, come tutte le rose di velluto, non ha odore. Il più umile fiorellino di campo odora più di questa rosa artificiale. E perciò non ha nessun valore.”
“Gnomo Puc!” gridò la rosa di velluto.
“Che cosa succede?” chiese questi, accorrendo.

“Mi hanno chiamato una rosa artificiale e hanno detto che non ho nessun valore. Che cos’è che ha più valore di tutto, per gli uomini?”
“Lasciami pensare cinque minuti” disse lo gnomo Puc. Si mise a pensare con la testa tra le mani, poi guardò l’orologio e disse: “Ecco fatto. Più valore di tutto, per gli uomini, ce l’ha il diamante.”.
“Bene!” esclamò la Rosa “Fammi diventare una rosa di diamanti”.
Lo gnomo Puc la contentò. La Rosa sfolgorò e mandò sprazzi di luce dalle gemme di cui era composta. Un uomo la guardava attentamente con la lente nell’occhio.
“Perfetta…” mormorò “un valore inestimabile.”
Poi la mise in un astuccio di raso e la ripose nella cassaforte.
La Rosa si trovò al buio.
“Dove sono?” gridò.
Le rispose un tintinnio che sembrò una risata beffarda.
“Sei nella cassaforte di un avaro” disse una voce sottile.
“Chi ha parlato?”
“Siamo delle monete d’oro, condannate, come te, a un brutto destino: non vedere mai il sole”.
“Gnomo Puc!” gridò la Rosa “Vieni subito d’urgenza!”.
“Eccomi!” disse lo gnomo Puc, che poteva entrare anche nelle casseforti. “Com’è, non sei contenta?”
“Nient’affatto!” disse la Rosa “Voglio ritornare dov’ero quando sono nata”.
E subito tornò ad essere la Rosa Bella del giardino.

Tutti le fecero festa e la riempirono di complimenti.
Poi scesero in giardino due bambine e si misero a cogliere i fiori. Colsero molti fiori, anche il Garofano Rosso e la Rosa Bella che misero proprio al centro del mazzo. Poi andarono dalla mamma e glielo regalarono.
“Oh, come sono brave le mie bambine!” esclamò la mamma” Mi hanno regalato un mazzolino stupendo. Questa rosa, poi, è certo la più bella rosa del mondo”.
Lo gnomo Puc, che ascoltava dietro la porta, si stropicciò le mani, soddisfatto.
Mimì Menicucci

Racconti per la primavera – Il pettirosso di mamma Orsa

Un giorno di primavera, quando mamma Orsa era piccola, trovò un piccolo pettirosso in giardino, troppo piccolo per volare.
“Oh, come sei carino” disse, “Da dove vieni?”
“Dal mio nido” rispose il pettirosso.
“E dov’è il tuo nido, piccolo pettirosso?”, domandò mamma Orsa.
“Credo che sia lassù” rispose il pettirosso.
“No, quello era il nido del passerotto”
“Forse è più in là” disse il pettirosso.
“No, quello era il nido del merlo”.
Mamma Orsa guardò da tutte le parti, ma non riuscì a trovare il nido del pettirosso.
“Puoi vivere con me” disse, “sarai il mio pettirosso”.
Portò il pettirosso a casa e gli preparò un nido.
“Mettimi vicino alla finestra, per favore” disse il pettirosso. “Mi piace guardar fuori e vedere gli alberi e il cielo”
Mamma Orsa lo mise vicino alla finestra.

“Oh” disse il pettirosso “dev’essere divertente volare lì fuori”
“Sarà divertente anche volare qui dentro” rispose mamma Orsa.
Il pettirosso mangiava, cresceva, cantava. Presto imparò a volare. Volava in giro per la casa e si divertiva, proprio come mamma Orsa aveva detto.
Ma un giorno che era triste, mamma Orsa gli domandò: “Perchè sei triste, piccolo pettirosso?”
“Non lo so” rispose il pettirosso, “il mio cuore è triste”.
“Prova a cantare una canzone” disse mamma Orsa.
“Non posso” rispose il pettirosso.
Gli occhi di mamma Orsa si riempirono di lacrime. Portò il pettirosso in giardino.
“Ti voglio bene, piccolo pettirosso” disse “e voglio che tu sia felice. Vola via, se vuoi. Sei libero”.
Il pettirosso si alzò alto in volo nel cielo azzurro.
Cantò una canzone dolce e acuta.
Poi tornò giù, dritto verso mamma Orsa.
“Non essere triste” disse il pettirosso, “anch’io ti voglio bene. Devo volare per il mondo, ma ritornerò. Ogni anno, ritornerò”.
Allora mamma Orsa gli dette un bacio, e il pettirosso volò via.
(Else Holmelund Binarik)

Racconti per la primavera – La rondine
Il primo stormo di rondinelle arriva fra le vecchie case del borgo. Ciascuna cerca il suo nido, e se lo trova sciupato dal vento, dalla pioggia, dalla neve, la rondine va in cerca di fuscelli, di bioccoli sulla siepe, per ripararlo.
C’è una rondinella che arriva un po’ in ritardo.
Alcune compagne curiose e pettegole le volano incontro, la circondano:
“Sai, il tuo nido è occupato”
“C’è dentro una pesseretta”
“Quando ci ha viste s’è avventata col becco spalancato”
“Non vuole uscire”
“Dobbiamo scacciarla”
“E’ una prepotente”
“E’ un’intrusa”
“Andiamo a vedere” fa la rondine, già sdegnata, perchè è stato occupato il suo nido.”Vedrete, ci penso io!”
E vola verso il campanile.

Eccolo il suo nido, sotto l’arcata.
La rondinella si lancia a volo presa dall’ira… ed ecco, trova tre testoline ancora implumi, tre beccucci spalancati, tre passerini affamati.
“Andiamo” dice la rondine alle compagne “Mi aiuterete a costruirmi un nido nuovo”
“Come? Come? Vorresti…”
“Poveri passerotti, sono tanto piccini…” dice la rondine con un cinguettio commosso.
(Eugenia Graziani Camillucci)

Racconti per la primavera – Marzo e il pastore
Una mattina, sul cominciare della primavera, un pastore uscì con le pecore e incontrò Marzo per la via. Disse Marzo: “Buongiorno, pastore, dove le porti oggi le pecore?”
“Eh, Marzo, oggi vado al monte!”
“Bravo pastore, fai bene, buon viaggio!” E fra sè disse “Lascia fare a me; oggi i innaffio io per bene!”
Il pastore, però, che l’aveva squadrato ben bene in viso, aveva fatto tutto il contrario. La sera, nel tornare a casa, incontrò di nuovo Marzo.

“Ehi, pastore, com’è andata oggi?”
“E’ andata benone. Sono stato al piano: una bellissima giornata, un sole che scottava.”
“Ah, sì? Ci ho gusto!” (e intanto si morse un labbro) “E domani dove andrai?”
“Domani tornerò al piano. Con questo bel tempo…”
“Bravo, addio!”
E partirono. Ma il pastore, invece di andare al piano, andò al monte; e Marzo giù acqua e vento e grandine al piano. La sera trovò il pastore.
“Oh pastore, buonasera! E oggi com’è andata?”
“Benone! Sai, sono andato al monte. E’ stata una giornata d’incanto. Che cielo! Che sole!”
“Bravo pastore… e domani dove andrai?”
“Eh, domani andrò al piano!”
Insomma, per farla corta, il pastore gli disse sempre il contrario, e Marzo non ce lo potè mai beccare. Si arrivò così alla fine del mese.

L’ultimo giorno Marzo disse al pastore: “Eh beh pastore, come va?”
“Va bene,ormai è finito Marzo e sono a cavallo. Non c’è più paura e posso star tranquillo…”
“Dici bene,e domani dove andrai?”
“Domani vado al piano, faccio più presto”
“Bravo, addio!”
Allora Marzo in fretta e furia andò da Aprile, gli raccontò la cosa e, infine, gli disse: “Ora avrei bisogno che tu mi prestassi un giorno”.
Aprile, senza farsi pregare, gli prestò un giorno.
La mattina dopo, il pastore fece uscire le pecore e andò al piano come aveva detto. Ma, quando fu una certa ora e il gregge era sparso per i prati, cominciò una ventipiova da fare spavento; acqua a ciel rotto, vento e neve e grandine. Il pastore ebbe da fare e da dire a riportare le pecore all’ovile.
La sera Marzo andò a trovare il pastore, che era là nel canto del fuoco, senza parole, tutto malconcio, e gli chiese ironico: “Oh pastore, buona serata! Oggi com’è andata?”
“Ah, Marzo mio, sta’ zitto, sta’ zitto, per carità! Oggi è stata proprio nera. Peggio di così neanche a mezzo gennaio; si sono scatenati per aria tutti i diavoli dell’inferno.”
E’ per questo che marzo ha trentun giorni; perchè ne ha preso in prestito uno da aprile.
(I. Neri)

Racconti per la primavera – La leggenda del tuono
Una mattina, Nube Bianca, una graziosa bimba pellirossa, mentre si chinava al allacciare un sandalo, notò ai suoi piedi una lumaca.
Infastidita, con un calcio la buttò lontano e riprese il suo cammino. Passarono molte ore e Nube Bianca non fece ritorno a casa.
I fratelli l’attesero a lungo; poi, preoccupati, incominciarono a chiamarla: “Nube Bianca, dove sei? Nube Bianca, rispondi!”
Corsero a destra e a sinistra, e finalmente la videro. Stava immobile sulla cima di una rupe.
“Scendi, Nube Bianca! Cosa fai lassù?”
“Non posso muovermi” rispose tristemente la sorellina “sono stata punita per aver maltrattato una lumaca. Potrò scendere solo se venite a prendermi”.

“Proviamo a salire” propose il maggiore dei fratelli “dobbiamo salvarla”.
Purtroppo la roccia era troppo ripida e i quattro ragazzi, ad ogni tentativo di arrampicarsi non facevano che scivolare indietro.
“E se ci costruissimo delle ali con il legno di quel cedro laggiù?” propose il fratello maggiore.
Corsero a staccare i rami, li intrecciarono, e se li legarono sulle spalle. Ma fecero solo qualche metro e ripiombarono a terra.
“Proviamo a costruirle più leggere” disse uno dei fratelli.
Tornarono tutti e quattro di corsa al villaggio, raccolsero le lische dei salmoni lasciate sulla riva da alcuni pescatori e le legarono con striscioline di pelle.

“Facciamo presto! Tu lega le ali alle mie spalle. Io aiuto Freccia Rossa, che è troppo piccolo per arrangiarsi da solo. Siamo pronti? Alziamoci in volo insieme!”
Il vento che vide i loro sforzi, si commosse e soffiò forte. I ragazzi non fecero che un lieve movimento. Esso li sollevò e li accompagnò fino alla capanna.
Ma appena i quattro fratelli ebbero deposto Nube Bianca a terra, un nuovo colpo di vento li alzò e li portò lontano nel cielo.
“Addio… addio…” ripeterono a lungo, finché svanirono per sempre. Ammirato dal loro coraggio, il vento li aveva trasformati in tuoni.
Da allora i pellirosse della costa del Pacifico, quando si scatenano grossi temporali, riconoscono nei tuoni i quattro fratelli coraggiosi.

Racconti per la primavera – Marzo irrequieto
Tre erano i figlioli della Primavera: Marzo, Aprile e Maggio. A questi tre ragazzi la Primavera delegava, per un mese ciascuno, il governo dei venti e, quando le cose erano nella mani di Marzo, la prima a tremare era la madre.
Delle cose del cielo in quel mese non se ne capiva nulla: ora il cielo scottava come in giugno, ora una tramontana gelata scendeva dai monti e faceva rabbrividire i germogli; ora il cielo si copriva di nubi come in gennaio e quel pazzo monello, dopo aver raccolto sulle montagne burrasche di neve e di tempesta, le scagliava per la campagna, facendo strage di fiori e di gemme.

Un giorno sua madre gli disse: “Senti, Marzolino mio, tu sai: in tutto l’inverno ho accumulato un subisso di nuvole sporche che ora vorrei lavare. Ti prego di farmi qualche giorno di bel tempo, con un bel sole forte, perchè voglio fare il bucato di tutto ed asciugarlo il più rapidamente possibile”.
Marzo, naturalmente, si diede a rassicurare compiutamente la madre e l’indomani la Primavera, in gran faccende, a mezzogiorno aveva già steso al sole, che splendeva magnifico in cielo, una gran quantità di panni candidi.

Tutto andava per il meglio, quando Marzo, affacciatosi da un angolo dell’orizzonte, vedendo quel candido bucato disteso sui monti e la mamma tutta intenta a sciabordare nelle acque profonde, fu preso da uno di quegli irresistibili impeti di monelleria che sono il meglio e il peggio del suo carattere.
“Che bella cosa” disse tra sè “portare un po’ in giro tutto quel bucato! Mia madre è tanto, tanto carina quando corre qua e là, coi capelli in aria, a raccattare i suoi panni!”

Detto fatto, apre l’otre dei venti ed ecco un furioso maestrale mettersi a correre come un matto verso la pianura. Solleva nuvole di polvere, scavezza ramoscelli, sbatacchia rabbiosamente le chiome degli alberi e finalmente si precipita sul bucato: lenzuoli, tovaglie, camicie, tutto all’aria! Qualche lenzuolo si straccia sui cespugli della montagna, altri vengono sollevati e trasportati a precipizio nell’azzurro e sul mare: il cielo è tutto pieno di stracci variopinti, sbattuti qua e là dalla furia del vento.

La povera Primavera, disperata, coi capelli all’aria, corre per i campi cercando di agguantare a volo quei panni volanti, e grida e chiama e si aggrappa agli alberi per non essere sbattuta via anche lei dalla tempesta.
E intanto uno squillo di risa argentine risuona per le campagne: ridono rombando gli alberi dei boschi, ridono le fontane, e ride pazzamente Marzo, con i grandi occhi azzurri spalancati dietro le cime dei monti.
(M. Spano)

Racconti per la primavera – Gli uomini di burro

Giovannino Perdigiorno, gran viaggiatore e famoso esploratore, capitò una volta nel paese degli uomini di burro. A stare al sole si squagliavano, dovevano vivere sempre al fresco, e abitavano in una città dove al posto delle case c’erano tanti frigoriferi. Giovannino passava per le strade e li vedeva affacciati ai finestrini dei loro frigoriferi, con una borsa del ghiaccio in testa. Sullo sportello di ogni frigorifero c’era un telefono per parlare con l’inquilino.
“Pronto”
“Pronto”
“Chi parla?”
“Sono il re degli uomini di burro. Tutta panna di prima qualità. Latte di mucca svizzera. Ha guardato bene il mio frigorifero?”
“Perbacco è d’oro massiccio. Ma non esce mai di lì?”
“D’inverno, se fa abbastanza freddo, in un’automobile di ghiaccio.”
“E se per caso il sole sbuca d’improvviso dalle nuvole mentre la vostra maestà fa la sua passeggiatina?”
“Non può, non è permesso. Lo farei mettere in prigione dai miei soldati”.
“Bum” disse Giovannino. E se ne andò in un altro paese.
(G. Rodari)

Racconti per la primavera – Il fiore
C’era un bocciolo che faticava ad aprirsi. Era duro, piccolo, verde e pareva che non dovesse sbocciare mai. Allora disse alla pianta: “Succhia forte il buon nutrimento dalla terra, così io potrò diventare più grosso”.
La pianta succhiò con tutte le sue radici e il bocciolo ingrossò, ma rimaneva verde e duro. Allora disse alle nuvole:”Mandate giù una pioggerella, ma non tanto forte, altrimenti mi sciupate”.
E le nuvole mandarono giù una spruzzatina sulla terra, ma con molta educazione.

Poi il bocciolo disse al sole: “Per piacere, riscaldami coi tuoi raggi, ma non mi bruciare, sarebbe un peccato”. E il sole lo accarezzò col suo tepore.
Finalmente in una bella mattina di primavera, il bocciolo si aprì e ne venne fuori un magnifico fiore rosso che pareva di seta.
Una farfalla disse: “Che bellezza! Un fiore così bello non si è mai visto in questo giardino!”. E vi si posò sopra con delicatezza.

La terra, le nuvole, il sole ne furono molto orgogliosi. Le campanelle bianche, screziate di rosa, si misero a suonare a festa.
Verso sera arrivò un bambino. Vide il bellissimo fiore rosso e lo colse. Poi lo strappò.
Le campanelle smisero di dondolarsi e chinarono le corolle con molta malinconia.
Il giardino pianse per tutta la notte.
(Mimì Menicucci)

Racconti per la primavera – La cameriera della Primavera
C’era una donnina che si chiamava Sigismonda e stava al servizio della Primavera. Qualche giorno prima che questa scendesse sulla terra per il solito viaggio, Sigismonda si metteva a cavalcioni della scopa e si calava giù per le azzurre vie del cielo. Veniva a vedere se, sulla terra, tutto era in ordine.
“Benvenuta, Sigismonda!” gridavano i merli che la vedevano per primi dall’alto degli alberi.
“Come va, come va?” chiedeva Sigismonda, soddisfatta di quella festosa accoglienza, “Avete preparato la nuova canzone?”
“Si capisce”, dicevano i merli, “La vuoi sentire?”
“Grazie, no, io non me ne intendo!” rispondeva Sigismonda. Era un po’ sorda e si vergognava a dirlo. Ma i merli erano così impazienti di cantare la loro nuova canzone che chiudevano gli occhi e si mettevano a fischiettare. Sigismonda approfittava della loro distrazione e scendeva sui teti a salutare i passeri.

“Sigismonda, abbiamo già fatto i nidi!” gridavano quelli, tutti insieme, con gran baccano.
“Mi compiaccio! Primavera sarà molto contenta!”
“Quando arriverà, troverà già i piccini”.
E i passeri, dalla gioia, si buttavano giù a precipizio, poi tornavano su velocissimi e Sigismonda doveva andarsene perchè le veniva il capogiro.
Le campanelle azzurre cominciavano a suonare dolcemente non appena la vedevano. Gli uomini non sentivano nulla, ma i grilli e gli insetti del prato godevano molto di quella musica e la stavano ad ascoltare estasiati.

“Sigismonda, un concerto così, Primavera non l’ha mai sentito!”
“Oh, che piacere sarà per lei! Ha sempre tanta voglia di ballare!”
“Io le ho preparato una serenata coi fiocchi. La vuoi sentire, Sigismonda?”
E il grillo cominciava a suonare e Sigismonda si addormentava e faceva dei bellissimi sogni. Quando la serenata era finita, il grillo la pizzicava dolcemente sotto la pianta dei piedi e Sigismonda si svegliava.

“E’ bellissima questa serenata! Beata Primavera che potrà sentirla tutte le sere!”
E poichè si faceva tardi, la donnina si affrettava a guardare se tutto era in ordine. Ma tutto era in ordine, sempre. Nessuno mancava mai all’appello della Primavera e tutti erano puntuali come orologi di precisione. I bocciolini si tenevano pronti ad aprirsi tutti insieme non appena Primavera li avessi sfiorati col piede, le erbette erano nuove e lustre, i ruscelletti ridevano sommessamente, correndo tra i sassi puliti.
“Mi pare che tutto sia pronto!” diceva finalmente Sigismonda, e rideva anche lei, giocondamente, perchè era sempre allegra come si conviene alla cameriera della stagione più bella dell’anno.

Poi diceva agli scoiattoli che si spazzolassero bene la coda, cosa che questi facevano con grande piacere, dava un ultimo colpo di scopa ai mucchi di neve rimasti nei crepacci, pettinava i prati che il vento si era divertito a scapigliare e infine, guardandosi intorno diceva:”Che bellezza!”.

Si metteva di nuovo a cavalcioni della scopa e, dopo aver salutati tutti festosamente, tornava per le azzurre vie del cielo e le stelle le facevano l’occhiolino, molto contente di rivederla.
Mimì Menicucci

Racconti per la primavera – Tutte le opere contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.

Guest post: Perchè insegnare la Preistoria ai bambini?

Archeologia per bambini.

Guest post: Perchè insegnare la Preistoria ai bambini?

La domanda è molto semplice, e forse anche la risposta può esserlo. Perché i bambini saranno adulti. Perché insegnando loro, si può sperare che certe forme di oscurantismo del nostro tempo, tra qualche decennio saranno finite. Out. Over.

Perché qualche giorno fa una ragazza universitaria che stimo molto, mi ha chiesto “Ma tu sei creazionista o evoluzionista?”.

E poi anche per ragioni più ludiche. Perché studiare scienza è nutrimento per la fantasia, e non è mai troppo presto.

Perché con lo studio della storia della nostra specie ci si può sporcare le mani. Gli archeologi sono una delle poche categorie di adulti ai quali è consentito sguazzare nel fango, infilare le mani in buchi terrosi, scalare un pendio cercando grotte.

Perché i viaggi sono garantiti, non solo in luoghi lontani dai nomi oscuri ed evocativi, ma anche nel tempo, e proprio nel giardino di casa. Scoprire dove c’è oggi la nostra casa un giorno ci pascolavano gli ippopotami o cacciavano le tigri dai denti a sciabola è impagabile.

Perché abbiamo il frigo, il fornello, ed il forno. E se non li avessimo? E se provassimo a vivere una giornata senza elettricità? Ed una senza acqua corrente? E senza cibi confezionati?

Perché quel signore li, vestito con pochi pezzi di stoffa, con una grossa barba ed una lunga lancia, non è un “selvaggio”, è un Aborigeno. Il suo popolo abita l’Australia da 80.000 anni. Il suo popolo non ha mai coltivato la terra. Non ha mai posseduto la terra. Non ha mai rinchiuso un animale in gabbia. Quel signore lì conosce canti sull’inizio del tempo, e se stiamo attenti e sappiamo ascoltare potrebbe anche decidere di cantarceli, un giorno.

Per fare i saputelli con gli zii ed i nonni e spiegar loro con aria annoiata che no, i dinosauri e gli esseri umani non si sono mai incontrati.

Perché siamo tutti fratelli, e non come progenie di Adamo ed Eva, e rassicuratevi, nessuno ci ha mai scacciato a causa di una mela. Ma siamo i discendenti di un piccolo gruppo di persone che un giorno hanno deciso di andare un po’ più in là dell’orizzonte. E non ci siamo mai fermati, e continuiamo ad andare su e giù, in qua e in là, perché’ fa parte della nostra natura.

Enza Spinapolice

Enza Spinapolice e’ un’archeologa del Paleolitico e lavora all’Istituto di Antropologia Evoluzionista Max Planck, di Leipzig. Ha studiato Preistoria a Roma, poi ha conseguito un dottorato Europeo tra Roma e Bordeaux, e da tre anni fa ricerca in Germania. Si interessa in particolare all’origine biologica e culturale della nostra specie, all’estinzione dei neandertaliani ed alle società di cacciatori raccoglitori passate e presenti. Oltre a girare il mondo e studiare il passato, Enza ha una famiglia multiculturale, ed un bimbo di due anni e mezzo, a cui spera di insegnare molto presto la preistoria.

Tutorial: libretto fatto a mano con le impronte digitali

Impronte digitali. Tutorial: libretto fatto a mano con le impronte digitali. Trovo molto interessanti le immagini che si possono creare aggiungendo pochi tratti stilizzati alle impronte digitali; sicuramente i bambini più grandi possono inventare vere meraviglie anche da soli, ma coi più piccoli la proposta si fa più complicata…

…ho pensato questo libretto per loro. Lo consiglio perchè per l’adulto che lo prepara è tempo dedicato alla creatività e ai pensieri felici sul proprio bambino, e per il bambino perchè anche da queste piccole cose può nascere l’amore per i libri e la lettura: facendo leva sulla meraviglia gli diciamo che un libro è una cosa che nasconde sorprese belle e che…le cose non sono le cose. Ed ecco il risultato:

Nelle pagine a sinistra ci sono le impronte digitali colorate, nella pagina a destra, nascosta sotto la carta velina colorata, c’è una paginetta trasparente che contiene i segni che completano la figura: si apre la velina, si gira la pagina trasparente…

… e appare l’immagine completa:

Materiale occorrente:

– fogli A4 bianchi da stampante
– cartoncino colorato
– carta velina colorata
– fogli trasparenti di carta da regalo (quella da fiorista)
– un pennarello nero indelebile
– tempera o pittura da dita in colori vari (io ho usato la pittura per vetrofanie, che una volta asciutta resta lucida e gommosa, e facilita la sovrapposizione del foglio trasparente, che rimane aderente)
– forbici e colla da carta
– nastro adesivo trasparente
– se non siete bravi disegnatori, possono essere utili dei modelli da copiare; i miei, in formato pdf pronti per la stampa, se volete sono qui:

impronte digitali

Come si fa:

Preparate le impronte, fatele asciugare e ritagliatele. Preparate nel frattempo la prima pagina piegando un foglio A4 a metà: la prima facciata sarà la copertina del libretto, e nella prima facciata interna potete incollare le prime impronte.

Per tutte le pagine formate dal foglio A4 piegato a metà, procedete così:

Tagliate a misura un pezzo di carta trasparente e fermatela sulla piegatura della metà col nastro adesivo trasparente, con le dita premete bene, aprite e chiudete più volte questa pagina trasparente aggiunta per fare in modo che si muova agevolmente, poi procedete col disegno:

Incollate al margine destro del foglio bianco la carta velina e ripiegatela in modo che si possa aprire e chiudere, così:

Infine incollate un cartoncino colorato, così:

Piegate il foglio trasparente sul cartoncino (in questo caso giallo) e coprite chiudendo la velina (in questo caso il foglietto rosa):

Per la pagina successiva chiudiamo tutto, la quarta facciata sarà quella dove incolleremo le nuove impronte, poi avremo bisogno un altro foglio A4 piegato a metà, sempre col nastro adesivo trasparente, poi procediamo come sopra: foglio trasparente, disegno, velina e cartoncino…

Per la copertina scegliete del cartoncino e decoratelo a vostro gusto; naturalmente fate in modo che il bambino piccolo capisca facilmente qual è il dritto del libro ed il davanti… la copertina dovrebbe dare questo messaggio.

Qui i dettagli delle mie impronte, ma si può fare decisamente di meglio:

I modelli di riferimento li ho trovati qui:

– http://blog.gummylump.com/2011/04/eric-carle-inspired-fingerprint-craft.html

– http://www.thechocolatemuffintree.com/2011/05/ant-art-projects.html

– http://kids4crafts.blogspot.it/2009/03/fingerprint-bug-bookmarks-at-bookmans.html

– http://www.example.pl/odciski-palcow-12535.htm

Dettati ortografici MAGGIO

Dettati ortografici MAGGIO – Una collezione di dettati ortografici sul mese di maggio, di autori vari, per la scuola primaria.

Maggio, bel maggio, maggio amor dei fiori! Ogni pianta, a maggio, ha il suo fiore, ed ogni fiore farà il seme e il seme darà la vita a una nuova pianta.

Maggio è forse, il più bel mese dell’anno. Tutte le piante sono in fiore, qualche albero già prepara il suo frutto. Il grano ha messo il suo fiorellino. Il cielo è quasi sempre azzurro, la temperatura è mite, il sole splende e manda i suoi raggi a riscaldare la terra.

Quante rose a maggio! Rose semplici con cinque petali,  rosi grandi, doppie, rose rosse, rosa, bianche, gialle. Rose nei cespugli, arrampicate sui cancelli, rose nei giardini e sulle siepi.

Sopra il muretto del giardino fa capolino una rosa. E’ una rosa rossa, profumata, che si dondola nell’arietta tiepida. Bella rosa,  tu sei la regina di maggio!

Il grano ha fatto la spiga. E’ ancora una spiga verse, senza granelli, ma presto diverrà piena, pesante e sotto il sole caldo sarà tutta d’oro. E’ il pane di domani.

Fra il grano verde c’è tutto uno sfarfallio di rosso: sono i rosolacci che crescono fra le spighe. E fra i rosolacci c’è anche qualche macchia azzurra: sono i fordalisi che hanno il colore del cielo di maggio.

Fra i rami del ciliegio già rosseggiano i rossi frutti che sembrano tanti cuoricini appesi ai rami. Le ciliege sono buone, piacciono ai bambini, ma piacciono anche ai passeri che vanno a beccarle, golosamente.

Le rose sono sbocciate. Fioriscono sulla siepe, sui cespugli, sui muri. La rosa è la regina di maggio. Tutta l’aria è piena del profumo delle rose.

Ancora una! Ancora un’altra! Invincibile tentazione… La ciliegia ride scaltra: mangia, mangiami, ghiottone!

Le rose fioriscono sulle siepi, nei giardini, nei vasi che si tengono sui davanzali. Sono rose rosse dai petali di velluto, rose di color rosa come le guance dei bambini, rose bianche come la cera, che stanno bene sulla tavola apparecchiata.

Maggio è il mese delle rose e ogni pianta di rosa mette il suo bocciolino e fa sbocciare il suo fiore profumato.

Maggio è il mese più bello dell’anno. La campagna è piena di fiori, le spighe diventano dorate, il  cielo è azzurro e solo qualche nuvolone bianco, talvolta, vi naviga lento.

Sulla siepe sbocciano le rose; gli uccellini cantano armoniosamente e afferrano al volo fiocchi di bambagia e di lanuggine per fare il nido più morbido e caldo.

 Com’è bello il mese di maggio! Quanti fiori, quante rose! Si sente una gran gioia nel cuore, un gran bisogno di correre e di saltare all’aperto, di respirare l’aria pura a pieni polmoni. (G. Ugolini)

Maggio è il mese più bello dell’anno: la campagna è piena di fiori, le spighe sembrano  un mare verde, il cielo è azzurro e il sole caldo, ma non ardente. Sulla siepe sbocciano le rose; gli uccellini cantano armoniosamente e afferrano, a volo, fiocchi di bambagia per fare il nido più morbido e più caldo. (G. Vaj Pedotti)

Dai folti e verdi cespugli, le rose mandano il loro intenso profumo nell’aria scossa dai dolci rintocchi delle campane. Trionfo di giovinezza e di colori, di fiori e di sole. I ciliegi piegano i loro rami gremiti di frutti vermigli; i bambini, chini sui libri per l’ultima fatica,  guardano invidiosi i garruli voli delle rondini e le danze delle farfalle in pieno sole. Di maggio la gioia canta anche tra le ombre notturne: sotto il cielo inghirlandato di stelle, l’aria è densa di molti profumi e di armoniosi pigolii. L’albero del melo, ultimo a fiorire nell’orto, si ingemma, tra le corolle bianche venate di rosso, di vivide lucciole. (L. Rini Lombardini)

Maggio è il mese in cui più attivo e quasi febbrile si fa il lavoro: nel campo continuano le sarchiature e si iniziano le rincalzature e i trapianti, mentre nei prati comincia la falciatura delle erbe foraggere; si vedono vigne ordinate, orti sistemati con arte e pazienza. Il grano è ormai alto e in qualche luogo si comincia già a vedere la spiga e si odono i canti dei contadini al lavoro: è la primavera che fa cantare gli uomini mettendo loro la gioia nel cuore.

A maggio l’orticello è una bellezza. L’insalatina ha disteso il suo tappeto di un verde tenero. Le cipolline, a due a due, fanno compagni alle piante che ingrossano sottoterra. I piselli dall’alto della pianta mostrano i baccelli già maturi che si nascondono tra le foglie. Il prezzemolo, la salvia, il basilico confondono i loro odori: e su per il muricciolo le piante dei fagioli a fiori bianchi e rossi. Intanto in un angolo, tra le foglie, le fragole sono già mezzo rosseggianti. Una capinera sulla cima di un gran pesco canta ai piccini la canzone di maggio. (Bollini)

A maggio i giardini sono tutti in fiore, sono tutti una festa di forme, di colori, di profumi. Le rose sono le grandi regine: rose rosse, bianche, gialle; rose dai petali vellutati, rose ancora in bocciolo, rose tutte fiorite, che piano si sfogliano, esalano nell’aria il loro profumo e, un poco superbe, si difendono con le spine. I giacinti bianchi, azzurri, rosei, color lilla levano gli steli robusti e portano fiori fitti fitti. Gli anemoni hanno tinte così vivaci che tutta l’aiuola sembra un invito alla gaiezza. Sul muro, dove cresce rampicante, già odora il delicato gelsomino e i gigli sono già alti, già mostrano al sommo i boccioli duri, ancora un poco verdastri, da cui presto sbocceranno i fiori dal purissimo candido colore.

Non c’è rosa che a maggio non sbocci: rose grandissime nei giardini, fortemente profumate, semplici rose di siepe che subito si sfogliano. Ce ne sono di tanti colori, dal rosso così cupo che sembra quasi nero, al bianco così candido che sembra neve. E tra questi due colori, tutte le tinte, dal rosa camicino al giallo zafferano, dal rosso violento, al bianco cereo. Rose nei giardini, nelle siepi, nei cespugli, rose ad alberello, a spalliera, rose rampicanti che arrivano sul tetto. E profumi d’ogni intensità. (M. Menicucci)

E’ bello sostare sul prato di maggio. Il profumo dell’erba novella e dei fiori freschi ti riempiono di fragranza: la vista delle pecore mansuete che brucano e il pastore che zufola o intaglia ti allieta e ti fa amare la vita. Bisogna sostare sul prato di maggio per temprarsi le membra e per rinfrancarsi l’anima. Questo è il mese più adatto. Beato chi se lo può godere sui prati fioriti e festosi. (G. Fanciulli)

Era il mese di maggio. Ed era così sull’imbrunire. Il vecchio pastore, sdraiato sull’erba, guardava le sue capre, tutte raccolte entro il cerchio di pietroni che, là, a mezza valle, servivano per l’addiaccio dei greggi migranti. Alcune dormivano già; altre, accosciate, volgevano il capo, tendevano il muso pigramente di qua e di là, a fiutare gli odori della sera; poche erano ancora in piedi, ma tranquille, mansuete, e come attonite nell’incantata immobilità dell’aria azzurra, venata d’oro. Il cane spinone, fatto il suo ultimo giro, veniva ora ad accucciarsi ai piedi del padrone, fissandolo coi suoi caldi occhi d’ambra e d’amore.

E’ spiovuto. La natura è tutta fresca, raggiante. La terra sembra assaporare con voluttà l’acqua che le dà la vita. Si direbbe che la pioggia ha rinfrescato anche la gola degli uccelli. Il loro canto è più puro, più vivo: tutto uno squillo. Vibra a meraviglia nell’aria, divenuta anch’essa tutta sonora. Gli usignoli, i fringuelli, i merli, i tordi, i rigogoli, i reattini cantano a gara, come pazzi di gioia. Lo strillo di un’oca, stridulo come trombetta, accresce, per contrasto, l’incanto. Innumerevoli meli fioriti appaiono, di lontano, sfere di neve. I ciliegi, candidi anch’essi, scattano su in piramidi o si spiegano in ventagli di fiori. A volte, gli uccelli sembrano come intesi a produrre quegli effetti d’orchestra, in cui tutti gli strumenti si confondono in una massa di armonia. (T. Gautier)

Al crepuscolo appaiono i pipistrelli, razziatori di insetti notturni dal volo rapido, fulmineo. Il grillo tenta i suoi primi accordi che dureranno intensi e continui tutta la notte. I ranocchi iniziano i loro notturni richiami mentre la lucciola, accesa la sua lampada,  perlustra le rive in cerca di lumache. L’aria si fa fresca: la rugiada scende a ristorare animali e vegetali; le stelle guardano dagli alti silenzi del cielo. E’ la notte. (P. Segnali)

In maggio si fa il primo taglio dell’erba per ottenere il fieno maggengo. L’erba dei prati è alta e basta un soffio di vento perchè si pieghi, scompigliandosi. Farfalle e api volano di fiore in fiore in cerca di nettare. Poi un mattino il contadino falcia il prato. In pianura, dove i prati sono vasti, si adopera la falciatrice, una macchina; in collina e sulle montagne, nelle zone non troppo alte, coltivate, dove i prati sono irregolari, talvolta su pendii ripidi, il contadino adopera la falce. Ogni tanto l’affila… L’erba viene recisa, stride, cade e vien lasciata seccare. Cadono anche i fiori, grandi e piccini e, seccando, perdono i loro bei colori, si fanno spenti, quasi grigi. L’erba diventa fieno e quando il fieno è ben asciutto, viene ammucchiato con i rastrelli e raccolto sui carri.

A maggio la spiga è già formata; la piantina si alza esile e diritta con le foglie strette, verdi. E’ così dritta perchè i chicchi non sono ancora maturi. Osserviamoli: sono molli, bianchicci, lattiginosi. Ci penserà la terra con i suoi umori che le radici della piantina succhiano continuamente a renderli grossi, gonfi, turgidi, e il sole, che si fa sempre più caldo, a renderli dorati. Allora, nel mese di giugno, la spiga non potrà più tenersi diritta, si curverà, contenta, per il peso dei chicchi.

Tutto il grande campo di grano color verderame era zeppo di spighe diritte; lassù, nel cielo azzurro, c’era il sole raggiante e tutte le allodole cantavano dallo spuntare dell’alba fino a sera. Dopo il tramonto, la rugiada cadeva dolce come un’onda rinfrescante sul grano infiammato dal sole e la grande luna d’oro splendeva mitemente sui campi che maturavano. (G. Joergensen)

Con gli uccellini che frequentano a primavera inoltrata il  vecchio pino dell’orto credo che si potrebbe popolare un bel boschetto. Dall’alba all’ora di notte un turbinio continuo d’ali e un solo clamore di vocine forti, brevi e pungenti, sempre di una misura. Passeri, certo; e devono convenire qui da tutte le grondaie del vicinato come bambini in un giardino pubblico. Però tra loro c’è anche qualche uccello forestiero, venuto chissà da dove; questo che gracida asprigno a modo di raganella, quest’altro che tenta un gorgheggio d’acqua sorgiva, o quest’altro ancora che cigola acuto e monotono. Lanciano ogni tanto il loro verso strano tra l’interminabile gridio dei passeri, ma subito tacciono, sopraffatti e confusi. (Diego Valeri)

A maggio non basta un fiore! Ne vuole tanti sulla siepe, sui cespugli, nei prati, fra le fessure dei muri. Tutto è in fiore a maggio: la pianta curata dal giardiniere e la piantina che si sforza di crescere sul bordo della strada. La fioritura a maggio è legge per tutte le piante. Perchè una pianta nasce, cresce, si nutre? Per fiorire, per obbedire alla gran legge della natura. Credete che il fiore sia soltanto bellezza? Se fosse così, la pianta potrebbe forse farne a meno. Invece no, deve fiorire per preparare il seme. Deve pensare alla discendenza, e suo dovere è quello di far sbocciare il gran fiore e il minuscolo fiore di campo che solo un’ape operosa conosce. (M. Menicucci)

Ora che siamo in maggio e le rose sono tutte in fiore, nell’aria si sente un gran brusio. Le api vanno e vengono frettolose, infaticabili; e sembrano d’oro nel sole d’oro. Vanno a fare il loro bottino di polline e di nettare nei calici dei fiori che portano alle loro casette, dove lo trasformano in cera e in miele, il bel miele biondo in cui pare siano racchiusi tutti i profumi e tutta la luce di un giorno di primavera. (G . Zanetti)

Maggio è il mese più bello dell’anno. La campagna è piena di fiori, i campi di frumento sembrano un mare verde, il cielo è azzurro e il sole caldo, ma non ardente. Sulla siepe sbocciano le rose; gli uccellini cantano armoniosamente e cercano e afferrano a volo fiocchi di bambagia per rendere il nido più morbido e caldo. (M. Menicucci)

Maggio si presenta inghirlandato di rose. Non vi è giardino che non offra al nostro occhio la splendida fioritura della regina dei fiori. Rosse, ardenti come il fuoco, scarlatte come i tramonti sereni, rosa come pallide aurore, bianche come le nevi splendenti dell’inverno, gialle carnicine, le rose presentano una ricca tavolozza. La primavera vi attinge i colori più belli per dipingere i sogni dei bambini felici. (G. G. Moroni)

Tutto è in fiore a maggio. La pianta ha atteso tanti mesi, ha succhiato l’umore della terra, ha respirato tanto ossigeno dall’aria, si è fatta grande, robusta, bella. Perchè? Per dar vita al fiore. E’ venuto maggio e il fiore è sbocciato. Gli insetti sono accorsi, hanno succhiato, ingordi, il dolcissimo nettare e, così facendo, hanno trasportato il polline da un fiore all’altro. Il miracolo si è compiuto. Il fiore diventerà frutto, seme, vita! E maggio, ridente e rigoglioso, passa sui campi, sui giardini, sulle siepi e dappertutto lascia un fiore, il profumato segno del suo passaggio. (M. Menicucci)

Maggio è il mese dei nidi, le piccole case degli uccelli. Forse ci domandiamo come le piccole creature alate riescano a costruire case tanto perfette. Il fatto è che più che con le ali, con il becco e con petto, gli uccelli costruiscono il loro nido con il cuore, perchè è destinato ad accogliere i loro piccoli nati. Essi amano i loro figlioletti ancora prima che nascano: come le mamme ed i papà di tutti i bimbi che vivono sulla terra. (G. G. Moroni)

Maggio è forse il più bel mese dell’anno. L’aria è tiepida e profumata, i prati sono fioriti, le siepi non mostrano più i loro rami spinosi. Gli uccellini gorgheggiano. E’ ora di fare il nido. E se talvolta qualche nuvolone soffice e candido vela l’azzurro del cielo, è un broncio che passa presto: il cielo torna subito a sorridere. (M. Menicucci)

Nelle risaie a maggio  incomincia la monda. I campi si sono riempiti di erbacce ed è necessario strapparle perchè non danneggino gli steli preziosi. E’ un lavoro pesante, che obbliga a stare per parecchie ore chini, con le gambe immerse nell’acqua. Per lo più viene espletato da giovani donne reclutate per questo lavoro nelle regioni vicine. (G. G. Moroni)

La rosa è celebrata tra i fiori come la regina della bellezza. Nella rosa c’è tutto: forma, colore, odore. Anche gli altri fiori sono belli: non esiste un fiore brutto, ma nessuno è bello come la rosa, bello e perfetto. A qualche fiore, che pure sopravanza la rosa per bellezza, manca il profumo; a qualche altro che ha un soave profumo, manca il colore. Qualcuno ha un odore acutissimo, ma un aspetto modesto: solo la rosa è perfetta, completa, regina. (M. Menicucci)

Una nota di rosso tra il verde delle erbe e delle foglie: sono le ciliegie che abbiamo guardato maturare, pregustando la gioia di coglierle. Se ne sono accorti i passeri, che vanno a beccare golosamente le palline pienotte e rilucenti per essere i primi a godere della primizia. Vorremmo seguire il loro esempio, ma noi… non abbiamo le ali. (G. G. Moroni)

La campagna è tutta in fiore. Gli alberi si sono ormai rivestiti di foglie, il grano è già alto e fa la spiga. Sulle siepi sbocciano le rose selvatiche, di un colore delicato e gentile. Maggio è, forse, il più bel mese dell’anno. (M. Menicucci)

Maggio è il mese delle rose e delle fragole. Negli orti prorompono i piselli, le fave, le prime zucchine, e spandono i loro aromi casalinghi e buoni il prezzemolo, il basilico, la salvia, la maggiorana. Ronzano le api. le cetonie. le libellule. le coccinelle: tutti gli insetti, insomma. che sembrano gioielli smaltati che volano. (F. Palazzi)

Gli alberi hanno perduto tutti i loro fiori. Ma se guardate attentamente fra i rami, al posto dei fiori vedrete certi piccoli frutti verdi, duri, che chiedono solo un po’ di sole e un po’ di caldo per diventare grossi, morbidi, succosi. Il fiore è bello, ma il frutto è bello e buono e ognuno di essi ha la sua stagione. (M. Menicucci)

Mattino di  maggio. A poco a poco le stelle si spengono nella luce del giorno nascente, il cielo luminoso s’inarca, piccole palle di nuvole volano alte nella luce; nuvolette rosee e tonde sopra gli oscuri corpi dei monti. Anche gli uccelli si mettono a cantare, cinciallegre e zigoli; tutt’ a un tratto c’è una quantità di uccelli fra i rami dei cespugli. Altri s’innalzano dai campi; le loro piume improvvisamente s’accendono nella luce; cantano, ricadono a terra. Poi il sole alza il suo capo abbagliante sopra la montagna e incede maestoso, e tutta la vastità del cielo si riempie del suo splendore, cielo e terra. (K. Waggerl)

Fiori di maggio. I contadini hanno approfittato dei giorni asciutti per tagliare il maggese; il frumento s’è legato alto, mettendo la spiga: ai lati delle strade ha fatto ritorno la capricciosa ombra delle robinie; e ogni albero di gran fruscio palpita, frulla, cinguetta, per via degli uccelli indaffarati a preparare  i nidi. Che respiro, che gioia, quando maggio sta per entrare in giugno… Rose ne trovo dovunque; ben condotte lungo fili di ferro sui muretti delle casine rustiche, ben curate negli orticelli, fra le lattughe, i porri e le camomille: quasi tutte di quel roseo vinoso proprio delle vere rose di maggio, che tengono sempre, ronzante tra i petali, una cetonia vorace. Il loro odore si mescola a quello dei fieni di fresco recisi, riposanti in ondulate strisce sui prati nell’attesa di venir raccolte sui carri; e ad un altro, che non so definire, di polvere della strada, di siepi selvatiche, di more acerbe, di snelli corpi infantili in corsa: di terra, d’aria, di sole: non so. (A. Negri)

Comincia a far caldo. Il sole si alza sempre più presto e tramonta sempre più tardi. L’aria è piena di profumi. E’ la festa dei fiori e della loro regina che è la rosa.  Le spighe del grano già ondeggiano e si piegano sotto il peso dei chicchi. Le viti sono fiorite e cominciano a mettere in mostra i grappoli ancora acerbi.
Talvolta si ode brontolare il tuono e scoppiano improvvisi i primi temporali. (S. Pezzetta)

Nessun mese è così verde e così fiorito come il dolce mese di maggio. L’erba è già alta, piena di fiori, di profumati odori, di api, di vespe, di calabroni, di grilli, di coccinelle. Pare che il prato parli, danzi e canti. Ma, soprattutto, il campo è in gran lavoro. Tutte le piante sono coperte di foglie, che catturano i raggi del sole, fabbricano zucchero e lo spingono verso i mille e mille piccoli frutti verdi che devono maturare.
Le ciliegie rubizze, le profumate fragole sono già mature. Sugli alberi dei frutteti e dei boschi sono nascosti mille nidi, ove le madri covano silenziose. E tutta la campagna canta. (M. Comassi)

Dettati ortografici MAGGIO – Tutte le opere  contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.

Canto: La mamma

Canto: La mamma. Con testo, spartito scaricabile e stampabile gratuitamente e file mp3. Per flauto dolce e canto.

Canto: La mamma
La mamma: testo

Ci sono al mondo tante cose belle
i fiori il mare il cielo con le stelle
il sorriso del sole d’oro che dà luce e dà calor.
Ma per me più che il cielo e il mar
più del sole che ci dà calor
c’è la fiamma del focolare
c’è la mamma col suo amor.

Spartito e file mp3 QUI:

Canto: La mamma

La mamma

Festa della mamma – ebook – Libretto d’auguri illustrato con tisane, tè, sale grosso e collage…

Festa della mamma – ebook – Libretto d’auguri illustrato con tisane, tè, sale grosso e collage… In realtà è quasi un libro tattile e non ha molto senso come ebook, ma lo condivido volentieri sperando possa essere di ispirazione per inventare lavoretti simili coi vostri bambini.

Festa della mamma – ebook – Libretto d’auguri illustrato con tisane, tè, sale grosso e collage…

Si tratta della poesia “Alla mamma” di Luisa Nason, illustrata con tecniche varie:

Alla mamma
Mamma, per la tua festa
io ti offro
una cesta di baci
e un cestino di stelle.
Ti offro un cuscino di fiori
su cui posare la testa
quando sei stanca;
una fontana di perle lucenti
color della luna,
una ghirlanda di rose
e una montagna
di cose gentili
un cuore tanto piccino
e un amore grande così:
mamma per questo dì. ( L. Nason)

file pdf del libretto:

Festa della mamma – ebook – Libretto d’auguri illustrato con tisane, tè, sale grosso e collage…

Questo articolo fa parte dell’Album di Vita pratica:

Tutti gli album

Tutorial fiori in feltro

Tutorial fiori in feltro – Un tutorial fotografico per imparare a realizzare fiori di feltro con la tecnica dell’infeltrimento con acqua e sapone. Non si tratta di un fiore in particolare, ma di “un’idea di fiore” che si costruisce, come avviene davvero anche in natura, con la luce ed  il calore che insieme portano alla formazione prima del bocciolo, e poi del fiore.

Con questi fiori possiamo realizzare fermacapelli, spille per giacche, collane, braccialetti, segnalibri, ferma tende, cinture, coroncine da principessa per le bimbe ecc… o anche semplicemente fiori sullo stelo per il tavolo delle stagioni.

Anche a prescindere  dal valore che può avere l’oggetto finito, e ci sono veri artisti del feltro,  penso che la manualità creativa che porta a realizzare piccole cose non in serie sia anche per gli adulti  un’importante esperienza sensoriale e meditativa, e per questo il tutorial punta a creare una situazione da risolvere solo nel momento non prevedibile dell’apertura del bocciolo: dipenderà dai colori scelti, dalla grandezza e dalla forma  assunta dalla lana nel bocciolo, dallo spessore, dai bordi regolari o irregolari,  dal vostro modellare e tirare il feltro in un modo o nell’altro, quale fiore avrete creato.

Considerare solo il  tempo che richiede realizzare un fiorellino così, può farci capire quale ne sia il vero valore per chi si è cimentato.

Materiale occorrente:

– lana cardata colorata verde, gialla ed in altri colori a scelta
– sapone di marsiglia meglio se all’olio d’oliva (ma si può usare anche detersivo per piatti) e acqua bollente
– una stuoietta (tipo quelle da sushi, ma si può usare anche un pezzo di arella rotta o simili, o in alternativa anche un pezzo di plastica a bolle) e un asciugamano
– mattarello
– una matita
– eventualmente fil di ferro, elastico per capelli, spilla, ecc..
– ago e filo per assemblare fiori e foglie, e altri eventuali elementi

__________________________

Come si fa:
Mettere sulla stuoia delle nuvolette di lana asciutta nei colori che preferite (io ho scelto verde, rosso, arancione e giallo). La nuvoletta può essere di qualsiasi dimensione, e tenete presente che con l’infeltrimento diventerà molto più piccola; la mia era all’inizio circa 20 cm, ed al termine circa 11cm:

Cominciate a massaggiare coi polpastrelli, con movimenti circolari, bagnando le mani con l’acqua calda ed insaponandole più volte:

Ripete da entrambe le facce, rivoltando la nuvoletta più volte; questo lavoro può richiedere 3 minuti circa:

Ora arriva la fase della follatura, che può richiedere 15 – 20 minuti (tenendo presente che più si lavora, più il feltro sarà di buona qualità.
Alternativamente facciamo le seguenti operazioni, e durante ognuna di questa operazioni spostiamo la nuvoletta in ogni senso (vedrete infatti come la lana “si accorcia” sempre nel senso in cui la arrotoliamo, quindi se variamo i sensi, avremo un feltro omogeneo):

rulliamo la lana nella stuoia, premendo, prima con leggerezza per non spostare i colori, poi via via sempre più forte

premiamo sulla stuoia ruotando il mattarello, sempre prima con leggerezza per non spostare i colori, poi via via sempre più forte

usiamo come mattarello una matita, avvolgiamo la nuvoletta e ruotiamo premendo con forza.

E’ anche importante, di quando in quando, tirare la nuvoletta lungo i bordi, per ottenere un feltro più compatto, prezioso e sottile:

Questo è il mio fiore dopo tutti i maltrattamenti subiti:

Ora possiamo accartocciare la nuvoletta come a formare un germoglio, poi la ruotiamo tra le mani e premendo leggermente, rigirandola molto velocemente (attenzione a non esagerare, altrimenti vi sarà impossibile aprirlo…):

Passiamo alla fase più divertente e creativa; apriamo il germoglio e (il trucco è pensare a un fiore) per prima cosa inseriamo il pollice all’interno e tiriamo i petali; poi osservando attentamente, possiamo decidere come aprire, tirare o arricciare i petali, accentuare il calice (si può inserire la matita e premere) ecc…

Mentre il fiore si asciuga, facciamo utilizzando la stessa tecnica qualche foglia:

Ed ora possiamo decidere cosa fare del nostro fiore…
Per realizzare un fiore sullo stelo, avvolgiamo la lana verde asciutta intorno a del fil di ferro modellato a piacere (avvolgendo fino all’ultimo peletto finale, la lana si blocca da sola). Poi, se volete, passare su tutto lo stelo dell’acqua e sapone, massaggiando leggermente

Montate a vostro gusto, fissando gli elementi con punti invisibili dati con ago e filo:

Per realizzare una semplice decorazione, una spilla, un fermacapelli create la composizione di fiori e foglie, fissate con ago e filo, e aggiungete sul l’eventuale elastico, cerchietto, molletta, spilla scelta:

La composizione può essere puoi cucita su una corda di feltro, che si prepara così:

– predisponete una lunga striscia di lana asciutta, ricordando che tutte le aggiunte in lunghezza possono essere fatte solo finchè la lana è asciutta.

– bagnando ripetutamente le mani con acqua calda e sapone, cominciare a ruotare la lana sulla stuoia, con leggerezza e calma, fino a bagnare tutta la lunghezza. Tornare all’inizio della striscia e ricominciare, e così più volte, aumentando progressivamente la pressione. Ogni tanto appallottolare tra le mani, girare premendo, poi distendere e tirare la striscia con forza… almeno un quarto d’ora di lavoro, per un  buon feltro.


Montando i  fiori sulla corda di feltro, come già detto, potrete realizzare svariati oggetti ed accessori…

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Recita per la festa della mamma – Con lo stesso amore

Recita per la festa della mamma – Con lo stesso amore – una semplice recita adatta a bambini della scuola d’infanzia e primaria.

Personaggi
Due presentatori e tredici mamme. Ogni mamma ha un bambino (una bambola) tra le braccia e rappresenta un’epoca e un paese diverso. I presentatori sono ai due lati della scena sulla quale man mano arriveranno le varie mamme.

Primo presentatore
In tutti i tempi le mamme hanno cullato i loro bambini

Secondo presentatore
In tutte le epoche e in tutti i paesi del mondo le mamme hanno cantato la ninna nanna

Primo presentatore
Con lo stesso cuore…

Secondo presentatore
Con lo stesso amore…

Primo presentatore
Quando gli uomini vivevano nelle caverne c’era talvolta un bimbo che non voleva dormire. Ascoltate!

(Avanza nel mezzo della scena la mamma della preistoria)
Mamma dell’età preistorica
Perchè piangi? Hai paura? Il sole si è spento, ma il fuoco è acceso e fa fuggire le fiere. Dormi… L’orso non si può avvicinare, il lupo fugge lontano. Sei tra le braccia della mamma, non temere, bambino!

Secondo presentatore
(Mentre la mamma dell’età preistorica si allontana). Nell’antico Egitto, dove regnavano i Faraoni e si costruivano le piramidi… (Entra la mamma egiziana)

Mamma egiziana
Il tempio del sole è chiuso: le stelle aspettano la luna; il Nilo va e va. Le mie braccia come l’onda sulla riva, la mia voce come il vento tra le canne… Qui, sul cuore della mamma, fa’ la nanna, fa’ la nanna…

Primo presentatore
A Sparta, la città greca degli eroi. (Entra la mamma spartana, mentre l’altra si ritira)

Mamma spartana
Il carro del sole si è tuffato nel mare. Dormi, bambino. Un giorno sarai lo scudo della tua patria: il tuo petto sarà saldo come il bronzo, il tuo braccio sarà il terrore di ogni nemico. Dormi intanto tra le braccia della mamma.

Secondo presentatore
A Roma, al tempo degli Imperatori, quando i cristiani vivevano nelle catacombe. (Entra la mamma romana e prende il posto della spartana)

Mamma romana
Ti segno sul petto con la croce; nulla potrà farti male, bambino mio. Sarai seguace di Cristo e come tuo padre non rinnegherai la tua fede. Dormi dolcemente sul mio cuore, bambino; oggi, questo cuore, laggiù sotto le volte delle catacombe al lume delle fiaccole, ha ricevuto la visita del Signore. Ninna nanna con Gesù. Con la tua mamma…

Prima presentatrice
Nel Medioevo, l’età dei castelli, dei cavalieri, delle lotte e dei tornei. (Mentre si allontana la mamma di Roma, avanza la castellana)

La castellana
Perchè piangi? Il ponte levatoio è stato alzato, le guardie vegliano sugli spalti, le mura ti difendono e se ancor non bastasse, c’è il cuore della mamma. Fa’ la nanna… non senti? Un suono di mandola ti dice: “Dormi… dormi…”. E’ spuntata la luna ed io voglio filare i suoi raggi per farti una coltre d’argento. Ninna nanna, mio tesoro.

Secondo presentatore
All’epoca delle scoperte, quando i navigatori andavano lontano alla ricerca di terre sconosciute. (Entra una donna della fine del ‘400)

Donna del ‘400
Il babbo se n’è andato. Oltre il mare, lontano, che terra ci sarà? Anche tu, bimbo mio, un giorno te ne andrai: già ti corre nel sangue l’ansia di navigare. Sogna tra le mie braccia! Sogna di dondolare in una bella nave. Il vento apre le vele, l’onda ti culla piano. E’ tanto grande il mare! Piano piano, così…

Primo presentatore
Venne l’età del nostro Risorgimento: gli Italiani combattevano per l’indipendenza e avevano a cuore il tricolore (Entra una donna dell’800)

Donna dell’800
Ti voglio fare una culla di fiori, tutta tessuta di gigli bianchi, di verdi foglie, di vermiglie rose. Sono tre colori da portare in cuore: ninna nanna, mio tesoro.

Secondo presentatore
(Mentre si allontana la donna dell’800). Vedete? In tutti i tempi è sempre stato lo stesso cuore di mamma; cambia la foggia del vestito, cambiano le case e le abitazioni degli uomini, ma l’amore di una mamma che cullo il suo bambino non può mutare.

Primo presentatore
E non solo, lo stesso è sempre avvenuto in ogni tempo in ogni luogo della terra. Così in Giappone…

Mamma giapponese
Come sei bello, bambino mio! Il tuo vasino è più dolce del glicine. Chiudi gli occhietti: domani, quando li aprirai, fioriranno i ciliegi. Giocheremo con la pioggia dei petali. Chiudi gli occhietti, amore mio.

Secondo presentatore
E così nel cuore dell’Africa

Mamma africana
La notte batte le ali sulla foresta; urlano le belve. Ma non temere: tra le braccia nessuno potrà farti male, neppure il leopardo, la pantera, il serpente. Ti preparerò, domani mattina, un frutto dolcissimo.

Primo presentatore
E lassù, nelle terre polari…

Mamma eschimese
Com’è lunga la notte, lunga… lunga… Com’è fredda la notte, fredda… fredda… Ma il nostro igloo è caldo… caldo… Il cuore della mamma lo riscalda. Dormi bene, bambino. Dormi… dormi…

Primo presentatore
E così tutte le nostre mamme: per ogni bambino una canzone, per ogni culla una stella, per ogni cuore piccino il cuore di una mamma.

Entrano tre mamme di oggi e cantano in coro e recitano una dopo l’altra qualche ninna nanna popolare e tradizionale. Alla fine tornano in scena le mamme di tutti i tempi e di tutti i paesi; tutte cullano i loro bambini.

Tutte le mamme
Ninna nanna, ninna nanna…

Primo presentatore
Vedete, con lo stesso amore…

Secondo presentatore
Con lo stesso cuore…

Primo presentatore
Ogni cuore che è più grande del mare…

Secondo presentatore
Più splendido del sole…

Primo presentatore
Più ardente della fiamma…

Secondo presentatore
Il cuore della mamma!

(recita per la festa della mamma da “I giorni più belli”, edizioni CEM)

Dettati ortografici FESTA DELLA MAMMA

Dettati ortografici FESTA DELLA MAMMA – Una raccolta di dettati ortografici di autori vari sulla mamma e la sua festa, per la scuola primaria.

La mamma
Ogni volta che temo di rintracciare nel passato le impronte della beatitudine, mi rivedo accanto alla mamma nei pomeriggi d’inverno quando calava presto la notte, seduti a una stessa tavola, sotto la luce quieta che veniva dal globo di vetro appannato del lume a petrolio. Lei, tutta rinvoltata in uno scialle di lana celeste, cuciva con l’ago o con la macchina; io appiccicavo sopra un foglio grandi farfalle azzurre di carta… La strada era silenziosa, in casa non c’è nessuno all’infuori di noi due, soli, soli, vicini vicini, al riparo dal vento, dal freddo, dal buio, e io mi sentivo salvo e sicuro sotto la protezione della luce colma della lampada e degli occhi potenti e lucenti di mia madre. (G. Papini)

La mamma
Mi rammento che, quando ero stanco di correre, andavo a sedermi dinanzi alla tavola del tè sul mio alto seggiolino. Era già tardi… e gli occhi mi si chiudevano dal sonno; ma non mi muovevo: restavo lì fermo e ascoltavo. Come non ascoltare? La mamma parla con alcune persone… La guardo fisso fisso con gli occhi offuscati dal sonno e ad un tratto ella diventa piccina piccina: la sua faccia non è più grande di uno dei suoi bottoni, ma la distinguo nettamente e vedo che mi guarda e mi sorride… Chiudo ancor più le palpebre ed ella diminuisce, diminuisce… Ma, ecco, mi sono mosso e l’incanto è rotto. (L. Tolstoj)

La mamma
Vi è un nome soave in tutte le lingue, venerato fra tutte le genti; il primo che suona sulle labbra del bambino; un nome che l’uomo maturo e il vecchio invocano con tenerezza di fanciulli nelle ore solenni della vita, anche molti anni dopo che non è più sulla terra chi lo portava. E’ il nome della mamma. (E. De Amicis)

La mamma
La mamma! Dicono che sia buona. Sarà. Per me si tratta della donna più misteriosa del mondo. Quando dorme?  Mah. Entro in casa dopo la mezzanotte e la trovo che fruga nei cassettoni. Se mi sveglio, anche prima dell’alba, la sento camminare leggera nella stanza o parlare sottovoce col mio fratellino.
Fa, inoltre, della magia: prepara, poniamo, la valigia.
“Ho messo  le maglie, i fazzoletti, le camicie…”.
Guardo, prima di chiuderla, e vedo le maglie, i fazzoletti, le camicie… e una grossa ciambella. Come? Quando?
Insomma questo agire nascosto a lungo andare impensierisce. Di giorno sta ore e ore in mezzo a cumuli di calze. Chi rompe tante calze? Non esageriamo, i buchi ce li fa lei per restare pomeriggi interi vicino alla finestra. (C. Zavattini)

La mamma
L’aringa fu ripulita, messa in un piatto, cosparsa di olio e io e mia madre ci mettemmo a tavola. In cucina, dico, col sole alla finestra dietro le spalle di mia madre avvolta nella coperta rossa e i capelli castani molto chiari. La tavola era contro la parete e io e mia madre seduti l’uno di fronte all’altro col braciere sotto e il piatto dell’aringa sopra, quasi colmo di olio. E mia madre mi gettò un tovagliolo, mi allungò un piattino e una forchetta, tirò fuori dal cassetto un grosso pane consumato a metà.
“Non ti importa se non stendo la tovaglia?” chiese.
“Oh, no” dissi io.
E lei: “Non posso lavare ogni giorno… Sono vecchia ora.” (E. Vittorini)

La mamma
Mamma. Nessuna parola è più bella. La prima che si impara, la prima che si capisce e che si ama. La prima di una lunga serie di parole con cui si è risposto alle infinite, alle amorose, timorose domande della maternità. E anche se diventassimo vecchi, come chiameremmo la mamma più vecchia di noi? Mamma. Non c’è un altro nome. (M. Moretti)

La mamma
Le mani della mamma sono belle e buone. Le mani della mamma sono laboriose e carezzevoli. Le mani della mamma sono utili e umili, amorose e infaticabili. Sono utili perchè compiono tanti lavori. Umili perchè non rifiutano di fare qualsiasi servizio…Infaticabili perchè sono sempre attive. Guidano e sorreggono; ammoniscono e accarezzano; insegnano a bere e a mangiare, a leggere e a scrivere. (N. Salvaneschi)

La mamma
Nelle circostanze più terribili della mia vita, quando l’oceano ruggiva sotto la carena, contro i fianchi della mia nave, sollevata come un sughero; quando le palle fischiavano alle mie orecchie e piovevano a me d’intorno fitte come la gragnola, io vedevo sempre mia madre inginocchiata, immersa nella preghiera, ai piedi dell’Altissimo. Ed in me, quello che trasfondeva quel coraggio, di cui anch’io rimanevo stupito, era la convinzione che non poteva cogliermi alcuna disgrazia, mentre una così santa donna, un tale angelo pregava per me. (Giuseppe Garibaldi)

La mamma
Ogni parola diretta a tua madre sia una carezza; ogni tuo  nobile pensiero sia pensato in nome di lei; ogni tua opera buona e bella sia fatta per lei; perchè nessuno ti amerà  mai a questo mondo come ti ha amato e ti ama la mamma. (V. Guerrazzi)

La mamma
Tu ammiri gli sportivi; pensa al lavoro che compie la tua mamma ogni giorno, ai pesi che solleva, ai chilometri che percorre in casa e fuori. Tu ammiri gli eroi che sanno affrontare il sacrificio col sorriso sulle labbra: pensa alle fatiche che tua madre sopporta sorridendo. Tu sei ancora un ragazzo, ma senti che gli adulti discutono spesso di giustizia sociale, di fatiche degli operai, di paghe più o meno scarse, di orari pesanti di lavoro…Ammira la tua mamma che lavora solo per il tuo amore, ad ogni ora del giorno e della notte, ricompensata solo da un tuo abbraccio e dalla tua bontà, dal tuo sorriso e dalla tua felicità.

La mamma
Indovinate chi amo più di tutti sulla terra? Io amo mia madre. Povera mia madre! Se voi la conosceste, forse non ci capireste nulla. E’ una donna quieta come un cielo sereno, una donna alla buona, che ama il suo figliolo, come voi amate voi stessi. Quando mio padre talvolta mi sgridava, ella mi consolava, mi asciugava le lacrime, mi baciava, mi dava un trastullo, mi riconduceva alla gioia. Quando andavo a scuola, e mi ero innamorato dei libri, mia madre mi dava il denaro per comprarmeli. Ella mi ama come il suo cuore: io sono il suo cuore. (C. Bini)

La mamma
Il sorriso della mamma è più luminoso del primo raggio di sole, quando il bambino riapre gli occhi al mattino e vi trova dentro la sicurezza del suo nido. Il sorriso della mamma è un’ultima carezza quando saluta e dice ciao dal davanzale della finestra, accompagnando il bambino, che va a scuola, fino alla svolta della strada. E il bambino lo porta con sè, nel cuore, come un caro segreto: la strada gli sembra più amabile, il mondo più roseo, la vita più buona. Il sorriso della mamma è soave fino alle lacrime, quando attende sull’uscio il ritorno del bimbo; e il bimbo lo riceve come un premio alla sua fatica, come una benedizione e un augurio. (A. Novaro)

La mamma
La mamma è l’angelo di questa terra che ci protegge e ci guida. Chi veglia sui bambini quando dormono? La mamma! Chi pensa ai vestiti, a tenere i bambini lindi e puliti? La mamma… sempre la mamma!  E i bambini cosa possono fare per ricompensarla? Una cosa sola: essere buoni. (U. Nocentini)

La mamma
Agli uomini sono dati molti doni: l’acqua limpida e fresca per dissetarsi; la terra fertile che dà il pane quotidiano; gli animali docili che ci aiutano e ci nutrono; il sole che ci riscalda e dà luce; le stelle e la luna che ci rallegrano la notte; il buio che ci riposa; il canto degli uccelli; gli smaglianti colori dei fiori; i profumi meravigliosi della terra. Ma il dono più bello, che l’inverno e il mal tempo o la carestia non riescono a portar via, è il dono che ha ogni bambino: l’amore della mamma. (L. Giovinazzi Oliva)

La mamma
Tu sai comprendere che cosa vuol dire avere una mamma? Sai tu comprendere ciò che vuol dire essere un fanciullo, un piccolo povero bambino, debole, nudo, misero, affamato, solo al mondo e sentire che hai vicino a te, intorno a te, sopra di te, una donna che cammina se tu cammini, che si arresta se tu ti fermi, che sorride se tu piangi? No, non è una donna, è un angelo che ti guarda, che ti insegna a parlare, che ti insegna a leggere, che ti insegna ad amare! Ella riscalda le tue dita nelle sue mani, il tuo corpo fra le sue braccia, la tua anima sul suo cuore! Ti dona il suo latte quando sei piccolo, il pane quando sei grande, la sua vita sempre! Com’è dolce poter dire: “Oh, mamma!”. E sentirsi rispondere: “Oh, figlio mio!”. (Victor Hugo)

Così parlava il ragazzo eschimese
Le nostre mamme raccolgono le poche bacche di mirtillo e di ginepro che incontrano nei boschi di confine, per farci marmellate; pescano salmoni, scuoiano le pelli, seccano i pesci, fabbricano collane di ossicini, badano a non far spegnere la lucerna, remano, quando tutta la famiglia si sposta sull’imbarcazione, badano all’igloo, cucinano, lavano, cuciono i vestiti di pelliccia e si prendono cura di noi bambini.

Così parlava il ragazzo del deserto
Prima del tramonto, ci fermiamo: le nostre mamme alzano le tende, disponendole a fila o in cerchio, col bestiame al centro; noi bambini andiamo a cercare legna per il fuoco e i padri vanno a caccia o riposano nelle tende. E’ una grande responsabilità quella dei nostri padri, che devono guidarci nel deserto per la via giusta, senza che ci siano indicazioni; e guai sbagliarla. Tirati fuori gli utensili per cucinare, munto il bestiame, acceso il fuoco, le nostre mamme preparano il “cous cous” che è il nostro saporito cibo quotidiano.

Così parlava il ragazzo africano
Torniamo dalla pesca; è mattino e la marea ci risospinge sulla spiaggia. La mamma, che ha atteso a riva, scaricherà i gamberoni e comincerà subito a dividerli. E’ la mamma che macina sulla pietra il granoturco per fare la polenta e il grano per fare il pane e le focacce, e anche il sorgo per ricavarne la birra. Dal babbo e dalla mamma ho imparato ad essere cortese e gentile verso tutti, specialmente verso gli ospiti. Ho una bella capanna, perchè il babbo è molto abile ad innalzarle e la mamma è bravissima ad intrecciare stuoie. Tra poco avrò un fratellino al quale insegnare tutte quelle cose che ho imparato; per ora è piccolo ed è nel “tari”, dietro le spalle della mamma.

Così parlava la ragazza pellirossa
Nel nostro “tee pee” sulle rive del fiume Mississipi, siamo in sette; la nonna, il babbo, la mamma, un frate,,o e una sorella maggiori di me, io – Germoglio di Rosa – e Piccolo Daino, il fratellino nato da poco. Vedeste com’è simpatico! Di solito sta in una cestina di vimini intrecciata dalla mamma. Se usciamo al lavoro ce lo portiamo dietro in una culla di legno, che è già servita per tutti noi, alla quale Piccolo Daino è legato stretto, in modo che la culla può stare anche diritta, appoggiata ad un albero, e lui non può cadere.

Così parlava una ragazza indiana
Abito in un villaggio, vicino a Benares, la nostra città santa, sul sacro fiume Gange. Il mio babbo è orafo. La mia casetta si trova al centro del villaggio, tra quelle dei Bramini, che sono i nostri sacerdoti. Io sto scrivendo mentre la mia mamma, nel cortile che è in ogni casa, sta preparando il pranzo. Più tardi preparerò l’acqua, perchè la mamma, nel pomeriggio, laverà e per domani mattina sarà tutto in ordine.

Così parlava un ragazzo australiano
Abito, con la mia tribù, nel nord dell’Australia. Tra noi gli uomini di fanno tatuare. I più anziani si mettono anche ossi di animali attraverso il naso. La mamma si fabbrica, da sola, le collane e i braccialetti di denti e di ossicini, e si mette conchiglie sui capelli; costruisce la capanna, porta le provviste e gli utensili nelle marce di trasferimento, provvede la legna, cucina, ha cura di noi bambini. Il babbo ha tutte le responsabilità della famiglia, perchè spetta a lui provvedere il vitto per tutti, difenderci dai pericoli e guidarci nella foresta; perciò la mamma lo fa riposare, quando torna a casa, e pensa lei a tutti gli altri lavori.

Idee per la composizione:
La compagnia della mamma
Un momento divertente con la mia mamma
Un momento felice con la mia mamma
Penso alla mia mamma
Ricordo della mamma
Giochi con la mamma
Faccio il ritratto della mia mamma.

Dettati ortografici FESTA DELLA MAMMA – Tutte le opere contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.

Tongue twisters

[wpmoneyclick id=88190 /]Tongue twisters per giocare con l’Inglese coi bambini.

Six sick slick slim sycamore saplings.

A box of biscuits, a batch of mixed biscuits.

A skunk sat on a stump and thunk the stump stunk, but the stump thunk the skunk stunk.

Peter Piper picked a peck of pickled peppers. Did Peter Piper pick a peck of pickled peppers? If Peter Piper picked a peck of pickled peppers, where’s the peck of pickled peppers Peter Piper picked?

Red lorry, yellow lorry, red lorry, yellow lorry.

Unique New York.

Betty Botter had some butter, “But,” she said, “this butter’s bitter. If I bake this bitter butter, it would make my batter bitter. But a bit of better butter– that would make my batter better.” So she bought a bit of butter, better than her bitter butter, and she baked it in her batter, and the batter was not bitter. So ‘twas better Betty Botter bought a bit of better butter.

Six thick thistle sticks. Six thick thistles stick.

Is this your sister’s sixth zither, sir?

A big black bug bit a big black bear, made the big black bear bleed blood.

The sixth sick sheik’s sixth sheep’s sick.

Toy boat. Toy boat. Toy boat.

One smart fellow, he felt smart. Two smart fellows, they felt smart. Three smart fellows, they all felt smart.

Pope Sixtus VI’s six texts.

I slit the sheet, the sheet I slit, and on the slitted sheet I sit.

She sells sea shells by the sea shore. The shells she sells are surely seashells. So if she sells shells on the seashore, I’m sure she sells seashore shells.

Mrs. Smith’s Fish Sauce Shop.

“Surely Sylvia swims!” shrieked Sammy, surprised. “Someone should show Sylvia some strokes so she shall not sink.”

A Tudor who tooted a flute tried to tutor two tooters to toot. Said the two to their tutor, “Is it harder to toot or to tutor two tooters to toot?”

Shy Shelly says she shall sew sheets.

Three free throws.

I am not the pheasant plucker, I’m the pheasant plucker’s mate. I am only plucking pheasants ‘cause the pheasant  lucker’s running late.

Sam’s shop stocks short spotted socks.

A flea and a fly flew up in a flue. Said the flea, “Let us fly!” Said the fly, “Let us flee!” So they flew through a flaw in the flue.

Knapsack straps.

Which wristwatches are Swiss wristwatches?

Lesser leather never weathered wetter weather better.

A bitter biting bittern Bit a better brother bittern, And the bitter better bittern Bit the bitter biter back. And the bitter bittern, bitten, By the better bitten bittern, Said: “I’m a bitter biter bit, alack!”

Inchworms itching.

A noisy noise annoys an oyster.

The myth of Miss Muffet.

Mr. See owned a saw. And Mr. Soar owned a seesaw. Now See’s saw sawed Soar’s seesaw . Before Soar saw See, Which made Soar sore. Had Soar seen See’s saw Before See sawed Soar’s seesaw, See’s saw would not have sawed
Soar’s seesaw. So See’s saw sawed Soar’s seesaw. But it was sad to see Soar so sore Just because See’s saw sawed
Soar’s seesaw!

Friendly Frank flips fine flapjacks.

Vincent vowed vengeance very vehemently.

Cheap ship trip.

I cannot bear to see a bear Bear down upon a hare. When bare of hair he strips the hare, Right there I cry, “Forbear!”

Lovely lemon liniment.

Gertie’s great-grandma grew aghast at Gertie’s grammar.

Tim, the thin twin tinsmith

Fat frogs flying past fast.

I need not your needles, they’re needless to me; For kneading of noodles, ‘twere needless, you see; But did my neat knickers but need to be kneed, I then should have need of your needles indeed.

Flee from fog to fight flu fast!

Greek grapes.

The boot black bought the black boot back.

How much wood would a woodchuck chuck if a woodchuck could chuck wood? He would chuck, he would, as much as he could, and chuck as much wood as a woodchuck would if a woodchuck could chuck wood.

We surely shall see the sun shine soon.

Moose noshing much mush.

Ruby Rugby’s brother bought and brought her back some rubber baby-buggy bumpers.

Sly Sam slurps Sally’s soup.

My dame hath a lame tame crane, My dame hath a crane that is lame.

Six short slow shepherds.

A tree toad loved a she-toad  Who lived up in a tree. He was a two-toed tree toad But a three-toed toad was she. The two-toed tree toad tried to win The three-toed she-toad’s heart, For the two-toed tree toad loved the ground That the three-toed tree toad trod. But the two-toed tree toad tried in vain. He couldn’t please her whim. From her tree toad bower
With her three-toed power The she-toad vetoed him.

Which witch wished which wicked wish?

Old oily Ollie oils old oily autos.

The two-twenty-two train tore through the tunnel.

Silly Sally swiftly shooed seven silly sheep. The seven silly sheep Silly Sally shooed shilly-shallied south. These sheep shouldn’t sleep in a shack; sheep should sleep in a shed.

Twelve twins twirled twelve twigs.

Three gray geese in the green grass grazing. Gray were the geese and green was the grass.

Many an anemone sees an enemy anemone.

Nine nice night nurses nursing nicely.

Peggy Babcock.

You’ve no need to light a night-light On a light night like tonight, For a night-light’s light’s a slight light, And tonight’s a night that’s light. When a night’s light, like tonight’s light, It is really not quite right To light night-lights with their slight lights On a light night like tonight.

Black bug’s blood.

Flash message!

Say this sharply, say this sweetly, Say this shortly, say this softly. Say this sixteen times in succession.

Six sticky sucker sticks.

If Stu chews shoes, should Stu choose the shoes he chews?

Crisp crusts crackle crunchily.

Give papa a cup of proper coffee in a copper coffee cup.

Six sharp smart sharks.

What a shame such a shapely sash should such shabby stitches show.

Sure the ship’s shipshape, sir.

Betty better butter Brad’s bread.

Of all the felt I ever felt, I never felt a piece of felt which felt as fine as that felt felt, when first I felt that felt hat’s felt.

Sixish.

Don’t pamper damp scamp tramps that camp under ramp lamps.

Swan swam over the sea, Swim, swan, swim! Swan swam back again Well swum, swan!

Six shimmering sharks sharply striking shins.

I thought a thought. But the thought I thought wasn’t the thought I thought I thought.

Brad’s big black bath brush broke.

Thieves seize skis.

Chop shops stock chops.

Sarah saw a shot-silk sash shop full of shot-silk sashes as the sunshine shone on the side of the shot-silk sash shop.

Strict strong stringy Stephen Stretch slickly snared six sickly silky snakes.

Susan shineth shoes and socks; socks and shoes shines Susan. She ceased shining shoes and socks, for shoes and socks shock Susan.

Truly rural.

The blue bluebird blinks.

Betty and Bob brought back blue balloons from the big bazaar.

When a twister a-twisting will twist him a twist, For the twisting of his twist, he three twines doth intwist; But if one of the twines of the twist do untwist, The twine that untwisteth untwisteth the twist. Untwirling the twine that untwisteth between,
He twirls, with his twister, the two in a twine; Then twice having twisted the twines of the twine, He twitcheth the twice he had twined in twain. The twain that in twining before in the twine, As twines were intwisted he now doth untwine; Twist the twain inter-twisting a twine more between, He, twirling his twister, makes a twist of the twine.

The Leith police dismisseth us.

The seething seas ceaseth and twiceth the seething seas sufficeth us.

If one doctor doctors another doctor, does the doctor who doctors the doctor doctor the doctor the way the doctor he is doctoring doctors? Or does he doctor the doctor the way the doctor who doctors doctors?

Two Truckee truckers truculently truckling to have truck to truck two trucks of truck.

Plague-bearing prairie dogs.

Ed had edited it.

She sifted thistles through her thistle-sifter.

Give me the gift of a grip top sock: a drip-drape, ship-shape, tip-top sock.

While we were walking, we were watching window washers wash Washington’s windows with warm washing water.

Freshly fried fresh flesh.

Pacific Lithograph.

Six twin screwed steel steam cruisers.

The crow flew over the river with a lump of raw liver.

Preshrunk silk shirts

A bloke’s back bike brake block broke.

A pleasant place to place a plaice is a place where a plaice is pleased to be placed.

I correctly recollect Rebecca MacGregor’s reckoning.

Good blood, bad blood.

Quick kiss. Quicker kiss.

I saw Esau kissing Kate. I saw Esau, he saw me, and she saw I saw Esau.

Cedar shingles should be shaved and saved.

Lily ladles little Letty’s lentil soup.

Amidst the mists and coldest frosts, with stoutest wrists and loudest boasts, he thrusts his fist against the posts and still insists he sees the ghosts.

Shelter for six sick scenic sightseers.

Listen to the local yokel yodel.

Give Mr. Snipa’s wife’s knife a swipe.

Whereat with blade, with bloody, blameful blade, he bravely broached his boiling bloody breast.

Are our oars oak?

Can you imagine an imaginary menagerie manager imagining managing an imaginary menagerie?

A lusty lady loved a lawyer and longed to lure him from his laboratory.

The epitome of femininity.

She stood on the balcony inexplicably mimicing him hiccupping, and amicably welcoming him home.

Kris Kringle carefully crunched on candy canes.

Please pay promptly.

On mules we find two legs behind and two we find before. We stand behind before we find what those behind be for.

What time does the wristwatch strap shop shut?

One-One was a racehorse. Two-Two was one, too. When One-One won one race, Two-Two won one, too.

Girl gargoyle, guy gargoyle.

Pick a partner and practice passing, for if you pass proficiently, perhaps you’ll play professionally.

Once upon a barren moor There dwelt a bear, also a boar. The bear could not bear the boar. The boar thought the bear a bore. At last the bear could bear no more Of that boar that bored him on the moor, And so one morn he bored the boar-
That boar will bore the bear no more.

If a Hottentot taught a Hottentot tot To talk ere the tot could totter, Ought the Hottenton tot Be taught to say aught, or naught, Or what ought to be taught her? If to hoot and to toot a Hottentot tot Be taught by her Hottentot tutor, Ought the tutor get hot If the Hottentot tot Hoot and toot at her Hottentot tutor?

Will you, William?

Mix, Miss Mix!

Who washed Washington’s white woolen underwear when Washington’s washer woman went west?

Two toads, totally tired.

Freshly-fried flying fish.

The sawingest saw I ever saw saw was the saw I saw saw in Arkansas.

Just think, that sphinx has a sphincter that stinks!

Strange strategic statistics.

Sarah sitting in her Chevrolet, All she does is sits and shifts, All she does is sits and shifts.

Hi-Tech Traveling Tractor Trailor Truck Tracker Ned Nott was shot and Sam Shott was not. So it is better to be Shott
than Nott. Some say Nott was not shot. But Shott says he shot Nott. Either the shot Shott shot at Nott was not shot,
or Nott was shot. If the shot Shott shot shot Nott, Nott was shot. But if the shot Shott shot shot Shott, then Shott was shot, not Nott. However, the shot Shott shot shot not Shott — but Nott. Six slippery snails, slid slowly seaward.

Three twigs twined tightly.

There was a young fisher named Fischer Who fished for a fish in a fissure. The fish with a grin, Pulled the fisherman in;
Now they’re fishing the fissure for Fischer. Pretty Kitty Creighton had a cotton batten cat. The cotton batten cat was bitten by a rat. The kitten that was bitten had a button for an eye, And biting off the button made the cotton batten fly.

Suddenly swerving, seven small swans Swam silently southward, Seeing six swift sailboats Sailing sedately seaward.

The ochre ogre ogled the poker.

If you stick a stock of liquor in your locker, It’s slick to stick a lock upon your stock, Or some stickler who is slicker Will stick you of your liquor If you fail to lock your liquor With a lock!

Shredded Swiss chesse.

The soldiers shouldered shooters on their shoulders.

Theophiles Thistle, the successful thistle-sifter, in sifting a sieve full of un-sifted thistles, thrust three thousand thistles through the thick of his thumb. Now…..if Theophiles Thistle, the successful thistle-sifter, in sifting a sieve full of un-sifted thistles, thrust three thousand thistles through the thick of his thumb, see that thou, in sifting a sieve full of un-sifted thistles, thrust not three thousand thistles through the thick of thy thumb. Success to the successful thistle-sifter!

Thank the other three brothers of their father’s mother’s brother’s side.

They both, though, have thirty-three thick thimbles to thaw.

Irish wristwatch.

Fred fed Ted bread, and Ted fed Fred bread.

Cows graze in groves on grass which grows in grooves in groves.

Brisk brave brigadiers brandished broad bright blades, blunderbusses, and bludgeons — balancing them badly.

Tragedy strategy.

Selfish shellfish.

They have left the thriftshop, and lost both their theatre tickets and the volume of valuable licenses and coupons for free theatrical frills and thrills.

Tongue twisters

Tutte le opere contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.

Dettati ortografici LA PIOGGIA

Dettati ortografici LA PIOGGIA – una collezione di dettati ortografici di autori vari sulla pioggia, per la scuola primaria.

La pioggia viva
La pioggia cadeva con forza crescente e assorbiva ogni altro rumore, e non si vedeva più altro. Prendevo una scatola di latta, la posavo subito fuori, davanti alla porta di casa e, sull’istante, l’acqua mi scorreva sulle mani, sui polsi, mi colava nelle maniche; in breve la scatola era piena: guardavo l’acqua cadere nell’acqua e ascoltavo e riuscivo a distinguere il rumore che faceva. Sentivo anche, la pioggia crepitare sul legno e dappertutto vedevo l’acqua corrodere il suolo, rubargli la terra, portarla via e formare ruscelli sui pendii. Guardavo l’acqua scorrere cadere rimbalzare e correre. Impregnava le vegetazioni squassate, imbevute. Guardavo lo stirarsi eccessivo degli alberi, delle piante abbattute e risollevate e riabbattute a colpi bruschi; l’acqua riempire, velare, confondere il paesaggio; accanto a me appannare il minuscolo vetro, tremarvi su, rotolare su se stessa. Alla fine tutto il temporale se n’è andato. La pioggia continua senza tregua, ora la rete si dirada. E finalmente, altri rumori, un’automobile, una frase si sentono.
Non c’è dubbio continuerà a piovere così con uguale violenza nè più nè meno fino al primo pomeriggio.
(I. Thibaudeau, da “Ouverture”)

Pioggia di primavera
La pioggia, picchiettandola con le lunghe dita leggere, faceva il solletico alla terra e le diceva piano piano: “Svegliati”. E mormorava: “Destati!”. E poi: “Su, su, è l’ora, vestiti!”. E la terra fingeva ancora di dormire perchè nulla era più dolce di quella carezza leggera e di quel dormiveglia! Alla fine aprì gli occhi delle margherite e nei giardini restò un odore di terra bagnata. (Achille Campanile)

Che gioia camminare sotto l’ombrello, se la pioggia è leggera, ridarella, canterina. La pioggia ti aspetta una mattina sulla porta e c’è quasi il sole. Nell’aria c’è odore di strada bagnata, odore di terra da fiore. E’ più musica che pioggia. Tutto si lava, si fa bello: l’albero, il tetto, il marciapiede. Questa sì che è pioggia felice! (R. Pezzani)

Piove

Piove, e sembra un gran pianto del cielo. L’asfalto delle strade cittadine luccica; e luccicano gli ombrelli, i cappucci dei cappotti impermeabili. Nei campi, i fossi gonfi di acqua borbottano, I fiumi corrono limacciosi in piena e portano innanzi quanto hanno rapinato alle prode.
Le case quasi spariscono tra i veli della pioggia, tra i vapori che salgono dalla terra e lentamente vanno a confondersi con le nuvole grige. (G. Fanciulli)

Pioggia nel bosco

Quando piove, l’acqua colpisce le fronde degli alberi, si rompe in tante goccioline, che rimbalzano tra le foglie. La pioggia giunge a terra a stilla a stilla, scorrendo anche lungo i rami e lungo i tronchi.
In terra trova uno strato di foglie morte. Le inzuppa pian piano, le fa marcire e finalmente penetra sotto terra dove trova una falda di argilla che la porterà a scaturire in una limpida sorgente. (P. Bargellini)

Dopo un acquazzone

L’aria, lavata e fresca, odorava di terra e di verdure, e la terra inzuppata, più bruna, pareva ribollire ai raggi del sole già alto. Le piante, ancora grondanti di pioggia, stormivano leggermente, facendo fiammeggiare come diamanti le goccioline d’acqua sospese alle foglie lustre. Una luce dorata bagnava dolcemente i campi, le facciate, le siepi; filtrava tra i rami scuri, rompeva e chiazzava l’ombra verde e umida delle aiuole. (A. Soffici)

Pioggia in città

La gente è stizzita e guardinga; torme nere di ombrelli si buttano contro i muri quando rasentano le automobili e tranvai sventaglianti spruzzi gialli e lunghi dalle ruote. Solo i vigili, nei loro impermeabili neri a mantellina, raccolgono pazienti e sacrificati le acque del cielo e della terra. Un nembo livido avvolge i quartieri della periferia dai viali vastissimi e deserti di bambini, guardati da palazzi torvi tutti chiusi nei loro vetri come ammalati nei loro cappotti, forse sorpresi di sentire la pioggia precipitare nei tubi delle grondaie e pulsare, quasi sangue, nelle vene. (G. B. Angioletti)

Pioggia
Ad ogni attimo un lampo violetto o verdastro palpita, seguito immediatamente da un tuono formidabile che fa rintronare i vetri. L’acqua cade rabbiosamente; il vento la spinge di traverso e i suoi fili sono come frecce di vetro scagliate obliquamente dall’alto. Gli alberi si divincolano sotto il turbine. L’orizzonte si perde in una nebbia folta, cieca. (A. Soffici)

Pioggia nel bosco
Quando piove, l’acqua colpisce le fronde degli alberi, si rompe in tante goccioline, che rimbalzano tra le foglie. La pioggia giunge a terra a stilla a stilla, scorrendo anche lungo i rami e lungo i tronchi. In terra trova uno strato di foglie morte. Le inzuppa pian piano, le fa marcire e finalmente penetra dotto terra dove trova una falda di argilla che la porterà a scaturire in una limpida sorgente. (P. Bargellini)

Piove
Piove, e sembra un gran pianto del cielo. L’asfalto delle strade cittadine luccica; e luccicano gli ombrelli, i cappucci dei cappotti impermeabili. Nei campi, i fossi gonfi di acqua borbottano. I fiumi corrono limacciosi in piena e portano innanzi quanto hanno rapinato dalle prode.
Le case quasi spariscono tra i veli della pioggia, tra i vapori che salgono dalla terra  e lentamente vanno a confondersi con le nuvole grigie. (G. Fanciulli)

L’alluvione
Grandi, sparuti, lamentosi muggiti venivano dalla campagna allagata, dalle stalle che il boaro non aveva fatto in tempo ad aprire, dai campi, dove il bestiame errava con l’acqua al ginocchio, al ventre, al petto, sperduto e impantanato. Voce spiegata all’angoscia comune davano le campane a stormo: Ro rispondeva alla Guarda, martellando: e in tanti anni il vecchio campanile della Guarda non aveva ancora mai rintoccato così alla disperata: pareva l’ultima volta prima di dare il crollo. (R. Bacchelli)

Prime piogge
Da tre giorni e da tre notti cadeva sulla campagna una pioggia minuta e uguale. Era la prima pioggia d’autunno. Gli alberi del frutteto ne grondavano, ne grondavano i tetti e il suo rumore lieve e diffuso, simile al ronzio di un immenso arcolaio, senza pause, ininterrotto, era la musica dell’autunno pieno di sonno e di malinconia. Tutti nel villaggio l’ascoltavano dal chiuso delle nere stalle, delle nere cucine. (U. Fracchia)

La pioggia
Cade, cade monotona e sempre uguale. Sembra che non debba smettere più. Batte sulle strade, sui tetti,  sugli ombrelli dei passanti. Dov’è il bel sole d’oro, dove sono le nuvole candide e morbide? Piove piove e sulla strada si formano larghe pozzanghere fangose. Ma anche la pioggia è necessaria e la terra e le piante la bevono avidamente.

Dopo un acquazzone
L’aria, lavata e fresca, odorava di terra e di verdure, e la terra inzuppata, più bruna, pareva ribollire ai raggi del sole già alto. Le piante, ancora grondanti di pioggia, stormivano leggermente, facendo fiammeggiare come diamanti le goccioline d’acqua sospese alle foglie lustre. Una luce dorata bagnava dolcemente i campi, le facciate, le siepi; filtrava tra i rami scuri, rompeva e chiazzava l’ombra verde e umida delle aiuole. (A. Soffici)

La pioggia
Ecco, l’aria immota si scuote. Sembra proprio che il dio dei venti, Eolo, abbia aperto la caverna dei venti furibondi. Le foglie degli alberi spasimando si contorcono. Ecco le prime gocce, grandi, chiazzate, furenti. Qualcosa balza nell’aia: un chicco di grandine. Si attende col cuore sospeso. Nulla, non è nulla. Cessa il vento: la pioggia scende ora in pace, dolce, sonora. Se dura un’ora i pomodori si faranno turgidi; l’erba medica crescerà per un nuovo taglio, l’uva rachitica si gonfierà. (A. Panzini)

Quando piove
Fango in terra e fango in cielo, stillanti, grondanti, chiazzati di tetra umidità i tetti, le case, i muri: cinereo e grigio lutto; e dalla monotona deformità delle nubi filtra un acquerugiola lenta, fredda, ostinata, che non si vede e immola l’anima, che non si sente ed empie le strade di una poltiglia mobile e appiccicosa, lubrica e attaccaticcia e impacciante. (G. Carducci)

Storia dell’ombrello
Sapete chi fu il primo uomo che usò l’ombrello in Europa? Il signor Giona Hauway, di Londra.
Questo signore aveva viaggiato molto. Era stato in Russia, in Persia, in Cina e chissà in quanti altri posti ed aveva visto chissà quante belle cose. Poiché l’ombrello ha un’origine che si perde nella notte dei tempi, avrà visto anche che esso veniva usato da molti popoli, quale segno di distinzione o potenza. Del resto gli ombrellini erano già usati in Europa, come segno di femminilità ed eleganza, dalle signore. Ma che si fosse mai visto un uomo in giro con l’ombrello!
Invece in una giornata piovosissima dell’anno di grazia 1752, il signor Giona pensò che sarebbe stato molto utile uscire di casa al riparo di un grosso ombrello, e così fece.
Non lo avesse mai fatto! Le vie di Londra furono per lui come tante sale da… concerto o campi di esercitazioni di tiro a segno.
Infatti tutte le persone… per bene lo dileggiarono, lo fischiarono, ed i ragazzi andavano a festa nel bersagliarlo di torsoli, di patate, di uova…
Si incrociarono discussioni a non finire, sotto la pioggia s’intende e… senza riparo; chi diceva che era semplicemente ridicolo che un uomo, segno di forza e di sapienza, andasse in giro a quel modo; chi diceva, e questi era interessato, che l’ombrello avrebbe fatto morire di fame i poveri vetturini; chi infine, timorato di dio, affermava essere un insulto sacrilego verso il supremo fattore dell’universo, perchè se Lui mandava la pioggia, voleva dire che aveva intenzione che le persone si bagnassero e nessuno aveva il diritto di ripararsi!
Sotto tutto quel diluvio: pioggia, torsoli, patate, invettive d’ogni genere, il signor Giona continuò a passeggiare, riparandosi fa tutte le cose materiali che gli cadevano addosso, col suo ombrello, e dalle invettive con la sua imperturbabile flemma.
Sapete quanto ci volle perchè i londinesi e gli europei comprendessero l’utilità dell’ombrello? Trent’anni.
Nel 1782, infatti, l’ombrello era già di uso comune!
(A. M. Giannini)

Dettati ortografici LA PIOGGIA – Tutte le opere contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.

Dettati ortografici APRILE

Dettati ortografici APRILE – Una collezione di dettati ortografici (difficoltà miste) sul mese di aprile, per la scuola primaria.

Aprile
Prati verdi, agnellini saltellanti, uccelli che preparano il nido amorosamente, ruscelli canori che scorrono tra sponde fiorite, lucertole che si scaldano al sole, farfalle dalle ali screziate: ogni cosa graziosa e gentile allieta questo mese, che è uno dei più belli dell’anno. “Aprile dolce dormire” dice il proverbio, ed è anche vero; ma è dolce anche vivere in questo mese. Talvolta piove, sì, “aprile ogni giorno un barile”,  ma è pioggia benefica. I campi, gli orti, i prati se la bevono con avidità. Gli alberi hanno indossato il vestito nuovo di fronde tenere e verdi e se ne compiacciono. Il mondo sembra tutto nuovo, tutto lustro, vivido e luminoso. (Palazzi)

Aprile
In Italia il primo aprile è un giorno particolare. I ragazzi si divertono a fare le burle e gli scherzi più strani che chiamano pesci d’aprile. Per esempio, se ti dicono: “Hai una mosca sul naso” e tu ci credi,   ti hanno fatto un pesce d’aprile. Si attribuisce l’invenzione del pesce d’aprile al popolo di Firenze: pare infatti che un tempo, in quella città, il primo d’aprile ci fosse l’usanza di mandare i semplicioni a comperare, in una certa piazza, del pesce che era soltanto raffigurato. Altri pensano che questa tradizione abbia avuto origine in Francia: forse perchè tanto tempo fa, in alcune città l’anno ufficiale cominciava il primo aprile. In seguito, quando si adottò il nuovo calendario, il capodanno cadde il primo di gennaio; ma alcune persone lo dimenticarono e continuarono a festeggiarlo come prima: per questo furono chiamati sciocchi o pesci d’aprile.

Aprile
Il nome di questo mese viene da “aprire” perchè la terra si apre sotto l’impeto della vegetazione, i fiori si schiudono, gli insetti escono dal loro involucro per mettere le ali. Durante questo mese, in genere, si celebra la Pasqua. Non vogliamo dimenticare inoltre il pesce d’aprile, a cui è scherzosamente dedicato il primo giorno di questo mese. Sempre in questo mese cade l’anniversario della Liberazione. Uno dei fiori caratteristici di aprile è il glicine.

Aprile
Aprile è un mese gentile, odoroso di fiori, tiepido di sole. Le siepi sono tutte in veste bianca: fra l’erba odorano le viole, il cielo è dolcemente azzurro. La campagna è ormai tutta verde. Le rose sono in boccio e sono pieni di fiori anche gli alberi da frutto: meli, peri, susini e ciliegi.

Aprile
In aprile anche la pioggia è piacevole e lietamente accolta. Le pioggerelle frequenti ed insistenti di questo mese rendono  meno dure le zolle disseccate dai venti freddi di marzo, saziano la sete delle erbe e degli alberi, permettono alle radici di succhiare avidamente dal terreno gli umori necessari alla vita. (G. G. Moroni)

Aprile
Aprile, ce lo dice il suo nome, apre la porta all’ingresso trionfale della stagione dei fiori, degli uccelli, dei cieli sereni e splendenti d’azzurro. Il fremito di vita nuova, che sembra animare ogni zolla, è avvertito intimamente anche da noi: si rivela nel desiderio di godere in pace questo sole giocondo, di giocare fuori all’aperto, di contemplare lietamente ciò che avviene attorno a noi. (G. G. Moroni)

Aprile
D’aprile si ammirava il felice fiorire della campagna. Gli alberi erano vividi di foglie, il campo era verde di grano. La vite cominciava a gettare le prime aguzze foglioline. Accanto al campo passava un gregge di pecore guardate dal cane, ch’era il più alto di tutte; e il pastore con la mazza alzata le spingeva sulla strada perchè non mangiassero il grano tenero, ch’era stato tanto tempo sotto la neve. (G. Titta Rosa)

Aprile
Aprile è un bel mese, nè caldo nè freddo, con un cielo dolcemente azzurro, gli alberi in fiore, il canto degli uccelli. Le rondini, ormai tutte tornate dai lontani paesi, hanno ritrovato il loro nido dove, presto, cinguetteranno i rondinini.

Aprile
Aprile, dolce dormire. E tu, la mattina, resteresti tanto volentieri fra le lenzuola. Non essere pigro, non senti gli uccellini che cantano, le rondini che garriscono, le campane che suonano? Tutti sono già al lavoro, uomini e animali. Aprile ti chiama, col suo bel cielo azzurro, con gli alberi fioriti, col dolce venticello che fa frusciare le foglie. Non lasciare senza risposta il suo appello.

Aprile
Aprile, ogni giorno il suo barile. E quasi ogni giorno il cielo si vela di nuvolette leggere, manda sulla terra una pioggia gentile che ristora la campagna, disseta le piante, rinfresca l’aria. E, a ogni goccia di pioggia che cade, è un fiore che sboccia, una gemma che si apre, una foglia che ingrandisce. Aprile è, forse, il più bel mese dell’anno.

Aprile
La campagna è ormai tutta verde. Gli alberi sono pieni di foglie e di fiori, le siepi sono ammantate di bianco, l’erbetta tenera e verde copre la terra, gli uccellini cinguettano allegramente. Ogni balcone ha una pianta fiorita. Il cielo è dolcemente azzurro, il vento fa frusciare le foglie degli alberi. Benvenuto, aprile!

Aprile
Avanti, bel mese sorridente! Tu fai sbocciare, ogni giorno, cento e cento fiori profumati, rose di macchia, convolvoli, campanelle, glicini e lillà. Il tuo venticello è tiepido e profumato, nei tuoi occhi si rispecchia l’azzurro del cielo. Benvenuto, aprile!

Aprile
Aprile arrivò e aveva in mano un ramo fiorito. Vide che marzo, quel fratellino pazzerello, aveva fatto il suo dovere, ma non troppo. C’era, sì, qualche fiore, c’era, sì, qualche spicchio di cielo azzurro, ma per aprile non bastava. Spazzò il cielo e subito tutte le nuvole si allontanarono. Toccò, col suo ramoscello, gli alberi e subito questi misero tanti fiori e tante foglie. Aprile non si stancava: la sua fatica era leggera e dolce.

Aprile
Aprile è arrivato. La gente apre le finestre e invita l’aria tiepida ad entrare; le ragazze cantano felici. Fiori dappertutto. Perfino le piantine che crescono sulla strada e che tutti, camminando, schiacciano col piede, mettono un fiorellino, piccino, ma coraggioso. Gli insetti escono dalla terra e si mettono a volare.

Aprile
Qualche volta il cielo si vela, ma è un velo di pioggerella leggera: dà un’annaffiatina ai fiori e sparisce. Quando aprile si avanza tra i fiori, le farfalle e gli insetti ronzanti, tutto rinasce a nuova vita. Gli alberi sono in fiore, il cielo è dolcemente azzurro, nei prati odorano le violette e sui vecchi muri si arrampica il glicine profumato.

Aprile
Quanti fiori nei giardini, ad aprile! Nascoste, fra l’erba, sbocciano le violette profumate, sulla siepe, le rose di macchia. Ecco i garofani rossi di fiamma, le campanelle azzurre, le margherite fatte a stella. Ogni pianta ha il suo fiore. Anche le piantine che non si sa come si chiamano, hanno messo il loro bocciolino. Le api volano sui fiori e visitano il fiorellino più modesto come il fiore più splendente.

Aprile
Aprile deriva da “aprire”, perchè con questo mese comincia la bella stagione, si schiudono gemme e fiori, e la terra si apre alla vegetazione.
La natura è nel suo pieno rigoglio. Quali sono i fiori tipici dell’aprile? Il glicine, che ammanta con la sua veste smagliante i vecchi muri e le terrazze; il lillà, i cui fiorellini sono golosamente visitati dagli insetti che ne cercano la gocciolina di nettare nascosta in fondo ai calici; gli alberi da frutto, meli, peri, ciliegi, tutti in fiore.

Gli insetti sono ormai tutti in piena attività: farfalle di tutti i colori, vespe, calabroni, api… Tutti gli animali che erano caduti in letargo nella cattiva stagione si sono ormai risvegliati: bisce, lucertole, tassi, ghiri e pipistrelli. Inoltre sono tornate le rondini che hanno già cominciato a riattare il nido.

Nel cielo intensamente turchino qualche nuvola leggera sdrucciola lentamente. Il sole sparge sui campi il suo calore tiepido e dolce. Gli uccelli, ebbri di gioia, cantano. Nei prati, le primule e le margherite sollevano le timide testine al sole che le ha risvegliate. I boschi si ravvivano di profumi e di canti. Il ruscello inargentato rinnova la sua musica antica, fra sorrisi azzurri di mammole e di pervinche. Nei campi, i susini ed i ciliegi in fiore sembrano lunghe sciarpe rosee e bianche. La primavera! Dappertutto ha diffuso la sua giovinezza, il suo riso, la sua bellezza, la sua luce. (G. Barbetti)

Aprile
Aprile è un bel mese di primavera. Il cielo è dolcemente azzurro e soltanto qualche nuvoletta bianca vaga qua e là sospinta da un venticello lieve. I prati sono fioriti. Sbocciano, fra l’erba, le margherite bianche che sembrano stelline, le primule, le viole; i bambini le colgono e ne fanno mazzetti che offrono alla mamma e alla maestra. Aprile, dolce dormire. I bambini, la mattina, non vorrebbero aprire gli occhietti pieni di sonno, ma la mamma li bacia in fronte e dice: “Sù, è tardi!”.

Il mese di aprile

La primavera avanza lentamente; l’accompagnano molte fioriture, molti risvegli, un buon tepore ed anche la benefica pioggia o il vento  che trasporta i semi. La campagna si anima notevolmente poichè si lavora da per tutto. Sui pascoli montani tornano gli armenti che sono stati a svernare nelle pianure.
I contadini impiegano bene il mese di aprile con l’intensa ripresa dei loro lavori: completano la semina di patate, fagioli, lenticchie, granoturco, riso; nelle vigne spargono lo zolfo ramato, disinfettano i tralci ed i tronchi contro la peronospora. Intanto nei frutteti proseguono la potatura delle piante e gli innesti. Grandi lavori si fanno nell’orto dove si rinnovano trapianti e semine di cardi, carote, lattughe, rape, cetrioli, zucchine, trifogli, mentre si raccolgono i primi asparagi, i piselli, le insalate. Anche il giardino vuole semine e trapianti: garofani, astri, violaciocche, verbene e tanti altri fiori daranno alla primavera la gioia dei loro profumi e dei loro colori.
Aprile anticamente era consacrato a Cibele, madre degli dei. Il suo nome deriva dal latino “aperire”, che vuol dire aprire; infatti, in questo mese, tutto si apre a nuova vita.

Canzone d’aprile

Cielo d’aprile, fresco come acqua viva, canta: la rondine è tornata. Nubi bianche e nere, scendete: il pesco è appena fiorito. Venti del sud, correte: gli agnelli sono sul prato. Sole, per te si è aperto il primo fiore: bacia la terra. Lampi, lucidi come fuoco, brillate: i pampini inverdiscono la vite. Tuoni duri come rombi di battaglia, squarciatevi sopra il grano: ha sete. E voi grilli e farfalle, allodole e merli, tenete compagnia al contadino che lavora. E voi bisce acquaiole che giocate con le rane dagli occhi pendule: uscite. E voi, semi, piante, fiori, gioia della terra, rallegrate il cuore degli uomini. (L. Davanzo)

Aprile

Aprile arrivò e aveva in mano un ramo fiorito. Vide che marzo, quel fratellino pazzerello, aveva fatto il suo dovere, ma non troppo. C’era sì qualche fiore, c’era sì qualche spicchio di cielo azzurro, ma per aprile non bastava. Spazzò il cielo e subito tutte le nuvole si allontanarono. Toccò, col suo ramoscello, gli alberi e subito questi misero tanti fiori e tante foglie. Aprile non si stancava: la sua fatica era leggera e dolce. (M. Menicucci)

Così è aprile

Ogni albero è una nuvola verdognola di foglie che incupiscono ad ogni bacio del sole, a ogni scossa di vento.
E nel vento, che odore! Odore di peschi e di ciliegi e di meli e di albicocchi e d’ogni grazia di dio. Un frullo da una siepe: c’è un nido; e la mamma covava. Eccola lì che si lamenta, ci dice che ci leviamo subito di torno, che le facciamo paura.
Guardate il grano come cresce: par che non veda l’ora di buttar fuori la spiga. E le viti non piangono più: sventolano i pampini teneri e tra i pampini è il piccolissimo grappolo.

E’ una mattina di aprile

Dal cielo grigio cominciano a cadere le prime gocce di pioggia. Esse si fanno sempre più fitte e l’aria sembra intessuta di fili d’argento. Vero è il proverbio: “Aprile ogni giorno un barile”.
Le persone che passano per la strada cercano un rifugio. I tetti delle case, gli asfalti delle strade, le piante luccicano sotto la pioggerellina fine ed insistente.

Aprile in campagna

Ti viene incontro il verde tenero dei prati che appaiono così morbidi che si ha la tentazione di sdraiarvisi dentro, di sentire sul viso, sulle mani, ovunque, la freschezza di quell’erba nuova.
E poi gli alberi in fiore che danno una improvvisa emozione: quel delicato e gentile pesco rosa che pare una nuvola illuminata dal sole al tramonto, quel vaporoso albero bianco che appare come incappucciato di neve.

Aprile sui monti

In alto c’è ancora neve, ma sotto i verdi pascoli si sono fatti più verdi, più intensamente colorati. Le mandrie escono dagli stalli e vanno lentamente da un prato all’altro, da un pendio all’altro; il suono dei campanacci porta una acuta malinconia nel cuore di chi ascolta, come di voce che si perde lontano nel silenzio dei boschi. Appaiono siepi in fiore, una festa multicolore fatta di innumerevoli fiori che sembrano gocce di cielo, immagini di paradiso.

Fiori d’aprile

Fra i fiori selvatici, aprile dona l’azzurra pervinca, lungo le siepi, e nei fossi, riuniti in grappoli, i fiorellini delicati del nontiscordardime. Adornano i prati innumerevoli ranuncoli dai fiori giallo – oro, e le graziose pratoline.
Nei giardini fioriscono le fresie, le giunchiglie, l’anemone e il giaggiolo; da balconi, da muri, da cancellate pendono ricchi grappoli del fiore del glicine… mentre nell’aria appaiono le prime farfalle e arrivano gli uccelli migratori.

Arrivano gli usignoli

Siamo alla metà di aprile. Si susseguono giornate limpide e chiare e notti palpitanti di stelle. Il biancospino ha lasciato cadere gli ultimi petali di immacolato candore e si sta rivestendo di un tenero verde.
Eccoli, arrivano gli usignoli. Vengono di notte alla spicciolata. Arrivano prima i maschi, cercano il posto ove hanno formato il loro nido l’anno scorso, e cantano per richiamare le spose.
L’usignolo sceglie per il suo impareggiabile canto le ore del tramonto, della notte, dell’alba. (T. Bettolo)

Un giorno d’aprile

Un giorno d’aprile il vento disse al sole: “Proviamo a fare un bel disegno nel cielo?”
“Ebbene, comincia tu”, rispose il sole.
Il vento cominciò. Scese nel mare, si caricò di nuvole e andò a stenderle nel cielo. Che bei disegni! Parevano fiori, alberi, animali, montagne. Ma le nubi erano quasi tutte dello stesso colore.
“Ora tocca a te!” disse il vento.
Il sole, zitto zitto, si fece prestare tante goccioline dalle nuvole e tra quelle goccioline mandò i suoi raggi. Oh, che bellezza! Subito nel cielo si disegnò un bell’arco di sette colori: rosso, arancione, giallo, verde, azzurro, indaco e violetto.
Tutti gli uomini e gli animali che lo videro stettero lì incantati a guardare. (E. Nuccio)

Profumi e colori

Verso la fine di aprile le viole, i giacinti, i narcisi, i tulipani, i nontiscordardime traboccano dalle aiuole. Il glicine si veste di grappoli violacei. Il caprifoglio è tutto un mazzetto color miele. Le serenelle folte di corimbi bianchi e lilla profumano l’aria. Tra poco sbocceranno le rose: a maggio.

Due pesci d’aprile famosi

Famoso è rimasto lo scherzo preparato a Roma dal sarto Pasquino ai danni di un avaro signore. Un anno, ai 31 di marzo, parecchi romani si videro recapitare un biglietto d’invito a pranzo per l’indomani da parte del ricco signore. E il giorno dopo, tra lo stupore generale, tutti si presentarono puntualmente a palazzo. Rimandare tanta gente indietro sarebbe stato uno scandalo; così il pranzo dovette essere preparato e gli ospiti dovettero essere accolti, sia pure a malincuore. Ma che lezione fu quella per l’avaro!
Qualche anno fa a Verona furono annunciati i balli svedesi, nell’Arena, per il primo di aprile. Oltre duemila persone acquistarono i biglietti. Aspetta, aspetta… i balli non cominciavano mai… Ad un certo momento gli spettatori videro apparire in mezzo all’Arena un enorme pesce di carta, mentre un ragazzetto si presentava alla folla facendo ballare sulle dita… i fiammiferi svedesi. L’incasso fu destinato a pubblica beneficenza.

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Dettati ortografici LE ERBE DEL PRATO

Dettati ortografici LE ERBE DEL PRATO – Una collezione di dettati ortografici sul tema “le erbe del prato”, di autori vari, per la scuola primaria.

Il prato
In primavera il prato si riveste di erba verde e profumata. Fra l’erbetta tenera sbocciano le prime margheritine, le calendule, tutti i piccoli, variopinti giori di cui pochi conoscono il nome, ma che fanno il prato leggiadro e bello.

Quanti fiori!
Quanti fiori sul prato verde, nuovo. tutto imbrillantato di rugiada! Pratoline bianche con l’orlino rosso, calendule arancione, campanelle bianche e viola che di arrampicano sui cancelli, vilucchi modesti, bianchi, venati di rosso, e poi tutti i piccoli fiori di cui forse pochi sanno il nome, ma che fanno il prato così leggiadro, così variopinto, così profumato!

Sotto la siepe ancora fitta di stecchi spinosi, è spuntata la prima viola. Coraggiosamente ha sfidato i pericoli dell’ultimo freddo ed ha levato la sua testina scura fra un groviglio di foglie secche, di germogli novelli, di fili di paglia, di grumi di terra. Grazie, piccola annunciatrice della primavera.
R. Rompato

Il prato è colmo di fiori: vedi le radichelle gialle, le azzurre corolle della cicoria, le testine piumose della pimpinella, i trifogli bianchi, gialli, rossi, l’oro dei ranuncoli, il bianco rosato delle pratoline… e i fiori della malva, del tasso barbasso, i fiorellini leggeri delle veroniche, gli occhi azzurri delle genziane, i grappoletti della prunella, le creste di gallo, i tralci dell’odoroso pisello… E’ una festa di colori e di aromi; la festa della primavera. (N. A. Oddi)

I fiori
Appena la natura ripalpita ai primi soffi di primavera, ecco i fiori. Fiori dappertutto: nei campi e nei prati, sulle rive dei ruscelli, nelle siepi, nei boschi, nei giardini. Fiori che ornano con ugual grazia i vasi di cristallo e i pentolini sbocconcellati, le case dei ricchi e le modeste dimore dei poveri. (Savini)

La prima viola
E’ spuntata sull’orlo della strada, sotto la siepe, piccola, scura, profumata! E’ venuta a dire alla primavera che tra poco torneranno le rondini a rifare il nido, che tutti gli alberi, uno dopo l’altro, si copriranno di gemme, di fiori, di frutti. (Steiner)

Alla viola
Grazie, piccola annunciatrice della primavera! Tu vieni a dirci che le rondini sono in viaggio per tornare ai loro nidi, che gli alberi si sono già coperti di gemme, che il contadino prepara i lavori dei campi… Tu vieni a dirci la parola della speranza e della gioia, piccola viola che ti dondoli al vento di marzo, con delle perline di brina ancora luccicanti sul lembo delle foglie, ma con la profumata corolla spalancata a bere il calore del pallido sole.
R. Rompato

L’amemone
Fior di vento è il mio nome; e quando, a primavera, tutta la pianura si desta fremente all’alito dei primi venti, io alzo ridente la mia corolla al sole. Mi piace sentirmi curvare da quel manto leggero che piega gli steli e fa ondeggiare gli alti, solenni pioppi. E’ bello fare a rimpiattino con gli aguzzi ciuffi d’erba che, timidi, si affacciano a cercare il sole.
R. Rubatto

Fiori selvatici
In primavera, quando tutto rinasce nella natura, è una gioia osservare il verde delle erbe e del fogliame riprendere la sua rivincita sulla bianchezza delle nevi. Gli steli delle erbe, che possono rivedere la luce, perdono la loro tinta rossastra per diventare di un bel verde. I prati sono screziati da moltitudini di fiori e qui ecco ranuncoli, anemoni e primule sbocciate a mazzi, più lontano il verde scompare sotto il niveo biancore del grazioso narciso.
G. Reclus

Risveglio dei fiori
Al mattino, appena il cielo biancheggia ad oriente e spegne ad uno ad uno i suoi lumi, appena le nuvole cominciano a colorarsi di tinte d’opale, d’argento, d’oro, di porpora, i colori dei fiori cominciano a distinguersi fra le erbe sempre meno scure, e prima i bianchi e i gialli, più tardi i rosei, i cilestrini, i blu. Presto presto, se il cielo non sia nuvoloso o piovoso, le pratoline sciolgono le cuffiette, i vilucchi calano i cappucci, si aprono le campanelle e i gialli soffioni e le cicorie somiglianti a fiordalisi.
Paolo Lioly

Fiori di campo
Sbocciano in piena libertà, all’aria aperta della campagna. Danno un aspetto vago all’erba dei prati, inghirlandano a festa la spalliera delle colline, riempiono di profumo le gole dei burroni e il silenzio delle ombrose valli. (Collodi)

Fiori di campo
Li trovate dappertutto: lungo la strada, lungo i viottoli, lungo i fossi, lungo le prode, su per i greppi, nelle aiuole degli orti e dei giardini. Si direbbe che questi piccoli e graziosi amici stanno a far capolino fra l’erba per sorridere mentre passate, per darvi il bene arrivato e per rallegrarvi la strada. (Collodi)

Fiori di campo
Entrate nel bosco ed ecco venirvi incontro il mughetto con le sue campanelline d’argento e la violetta dal profumo delicato; fra quel ciuffo d’erba verde biancheggia l’elegante margheritina, e in mezzo ai campi di biade, spicca il rosso fiammante del rosolaccio e la tinta azzurra del fiordaliso. (Collodi)

I fiori
I fiori vivono e parlano. Il profumo è il loro respiro, il colore la loro voce. La rosa ho un linguaggio e il garofano dice parole diverse dalla violetta. Così ogni fiore ha la sua voce e dal giardino e dal prato si alza un coro di profumi. (Salvaneschi)

Il prato
Il prato era tutto brullo, con pochi ciuffi di erba inaridita dal gelo. E’ bastata una mattina di sole, è bastata una lieve pioggerellina di primavera ed ecco che il prato si è ricoperto di erbetta tenera e profumata; ecco gli insetti ronzare intorno ai primi fiori, ecco le pratoline aprire gli occhietti meravigliati, ecco le violette esalare il loro delicato profumo.

Il prato
Sul prato cresce l’erba, talvolta così disprezzata che molti la chiamano erbaccia. Non è erbaccia, è il fieno profumato per alimentare il bestiame, è il foraggio per l’inverno, quando il gelo avrà ucciso tutte le piante; è la bellezza del prato, è una meraviglia della natura.

Il prato
Certamente ti piace correre per i prati, sdraiarti fra la verde erbetta, cogliere i fiorellini che sbocciano al tiepido sole di primavera. Ebbene, quando ti sarai sfogato a correre, a saltare, a cogliere fiori, fermati un momento a guardare, da vicino, l’erba dei prati. Vi scoprirai tante cose: vedrai che mondo pieno di meraviglie è quel prato che tutti calpestano senza badarci.

Le piantine del prato
Povere piantine, calpestate da tutti, urtate, lacerate, strappate! Sembrerebbero destinate a morire appena nate. E invece, la natura, materna anche con loro, le ha dotate di tessuti resistenti, capaci di guarire dalle ferite più profonde. Osserva queste piantine e vedrai come si sono adattate a vivere dovunque hanno trovato un po’ di terra, un po’ di sole, una goccia d’acqua.

Le piante del prato
Chi le ha seminate? Forse è stato il vento, un rivolo d’acqua, un uccellino, che hanno trasportato un piccolo seme; e il piccolo seme ha germogliato, ha messo foglioline e radichetta, ha fatto persino il fiore, il seme.

La portulaca

E’ una piantina di prato che forse avrai vista tante volte. Ha le foglioline grasse e un fusto cilindrico e fragile. Si spezza facilmente, ma la portulaca è dura a morire. E’ sottoposta a ogni specie d’ingiuria: piedi, ruote, zoccoli. Il fusto della piantina si spezzerà, ma se tornerai dopo qualche giorno, vedrai che la coraggiosa piantina ha rimarginato la sua ferita ed è viva e vegeta come prima.

Il soffione

Tutti lo conoscono. E’ quel piccolo ciuffo di peli che a soffiarci sopra sparisce, come sparisce la fiamma del lumino, sotto un soffio vigoroso. In fondo a ciascuno dei peluzzi, che si chiamano pappi, c’è un semino. E basta un soffio di vento perchè questi semini, portati dal loro paracadute che è, insieme, ala, se ne vadano alla ventura per cadere lontano e dar vita a una nuova pianta.

La cicoria

Hai visto, chissà quante volte, i prati fioriti dell’azzurro fiore della cicoria. E’ una pianta amara che forse non ti piace, quando la mamma la cuoce per fartela mangiare. Ma è una piantina preziosa perchè la sua radice, tostata e macinata, è buona per fare il caffè, che non è caffè ma un surrogato adatto ai bambini, certamente più del caffè vero.

Il trifoglio
E’ bella la fogliolina del trifoglio che è, insieme, una e tre: tre cuoricini venati di rosso, una fogliolina sola. Il fiore del trifoglio non è un fiore solo, ma sono tanti fiorellini uniti insieme che odorano acutamente di miele. Lo sanno le api e gli altri insetti che accorrono, avidi, a succhiarne il dolcissimo nettare.

Le piante del prato
Le piante del prato sono tante, tante, che non arriveremo mai a conoscerle tutte. In genere sono molto modeste, senza pretese, ma molte di esse potrebbero avere anche un po’ di superbia, perchè sono lontane cugine del grano. E tutte insieme formano il profumato fieno, quello che serve a nutrire il bestiame e che, per un miracolo che solo la natura sa fare, si trasforma in latte, lana, carne.

Le erbe del prato
I bambini amano i terreni erbosi e preferiscono camminare sul prato invece che sulla strada. E’ bello imparare ad osservare l’erba del prato, questa erba così calpestata, così trascurata, da meritare talvolta il nome di erbaccia.

Alcune di questa piante hanno una grossa radice a fittone, profondamente e solidamente conficcata nella terra, tanto che è difficile strapparla. E’ una delle difese che la pianta mette in opera per salvaguardare la sua esistenza. Altre piante hanno le foglie disposte a rosetta. Poichè le annaffia la natura, le piantine sono fatte così per poter raccogliere più acqua e quindi portarla alla radice. In genere l’erba del prato è resistente, non facile ad essere strappata, oppure il tessuto delle foglie è tale da rimarginarsi ad ogni lacerazione.

Chi ha seminata l’erba del prato? Nessuno (quando non si tratti di prati artificiali). Le piantine hanno lasciato cadere il seme, tanti semi che sono sbocciati spontaneamente formando così il verde tappeto. Il vento ha trasportato lontano molti di questi semi, e il prato si è esteso, l’erba ha invaso l’orlo dei fossati, il margine della strada.

Guardiamo in particolare qualcuna di queste piantine. La petacciola, o meglio la piantaggine, ha le spighe verdastre, rigide, diritte. Si lascia svellere con una certa difficoltà.

La portulaca ha delle foglioline grasse che talvolta si mangiano anche in insalata. Il suo fusto è rossastro, cilindrico, fragile. Contrariamente alla piantaggine, si spezza con facilità, ma ha la proprietà di rimarginare prontamente le sue ferite. Sottoposta, com’è, ad ogni sorta di ingiurie, usa questa sua proprietà per resistere e vivere.

Noto a tutti i bambini è il soffione, il quale da quel piccolo globo di pelo che vediamo volar via ad ogni lieve soffio di vento. I piccoli fiocchi che lo compongono sono chiamati pappi e in fondo a ciascuno di essi c’è il semino. Trasportato dal vento, il seme del soffione può così andare anche molto lontano dalla pianta madre.

L’erba del prato costituisce un ottimo pascolo per le pecore. I prati sono talvolta seminati appositamente perchè l’erba dovrà servire da mangime al bestiame. Il contadino vi semina allora il trifoglio, la lupinella e l’erba medica, che andranno poi a costituire il profumato fieno, il foraggio, così necessario all’allevamento del bestiame.

Anche molte erbe medicinali crescono spontaneamente fra l’erba del prato: camomilla, arnica, malva, ecc…

Fiori del prato
Qui, lungo il rivo, a specchio dell’acqua bruna, fioriscono i miosotis. Dalle umili foglioline sugli steli emergono i fiori; sono frammenti di cielo azzurro, e in mezzo ad ognuno splende un grano d’oro, come il riflesso di un sottile raggio di sole. Sulla riva ancora fioriscono le primule. Dal cesto verde, rotondo, aderente alla terra, s’alzano le delicate corolle gialle, pallide e trasparenti, come se dentro brillasse un tenue lume. (G. Fanciulli)

Fiori del prato
Si stendono in file bianche e rosate le pratoline, modeste come bimbe. Le guardano, appena reclinandosi, le nobili genziane, dalla veste mirabilmente turchina. Azzurri sono anche i fiori della borrana, e più teneri sembrano, affacciandosi dal viluppo delle foglie villose e pungenti. Larghe macchie d’un rosso cremisino, o d’un bianco giallognolo, stendono sul verde i trifogli. Dove l’erba è più alta, emergono i giallo-lucidi bottoni d’oro, penduli ad ogni soffio d’aria; e le più gravi margherite, dal tondo occhio stupito in mezzo alla candida raggera. (G. Fanciulli)

Le erbe del prato
A primavera, dopo che le ultime nevi sono scomparse, le erbe germinano in fretta e si fanno alte. Sembrano tutte uguali al piede che le calpesta; ma non agli occhi che le guardano con amore, nè alle mani che a dita aperte vi affondano per una carezza. Quale innumerevole famiglia! Steli, foglie, fiori, sembrano messi lì a far folla, hanno ciascuno un disegno, un’armonia di colore, un carattere individuale rivelato in minutissimi particolari. (G. Fanciulli)

Il piccolo fiore di prato non si sente mai solo: l’erba verde lo circonda, l’aria lo culla e lo accarezza dolcemente, l’ape si posa sulla sua corolla per succhiarne il nettare, gli insetti gli ronzano intorno. La sua vita è semplice e bella. Egli saluta l’alba spalancando la corolla alla luce, accoglie l’ora del tramonto chiudendo i suoi petali o reclinando la testina. Quando la falce dell’uomo taglia il suo stelo, giace tra le erbe e spande ancora intorno un sottile aroma: è l’odore del fieno fresco. (M. Cera)

I campi ormai sono un trionfo di colori:  il frumento cresce a vista d’occhio  e comincia a spigare; i prati di ravizzone e di trifoglio sono fatti di porpora e d’oro; le rive dei fossati e dei fiumi si sono ricoperte di fiori dai colori tenui e soavi; le piante da frutto tendono al cielo i rami carichi di fiori, tra i quali, con un ronzio monotono ma vivo, volano leggere le api dall’alba al tramonto. (G. G. Moroni)

Era un breve spazio rettangolare che una cancellatina separava dal giardino più vero. In due lati del rettangolo una strisciolina aveva la bellezza di un nespolo, di un rosaio che distendeva la sua capigliatura per tutta l’estensione della cancellata… Odorosa fioritura di ciocchette bianche, bocche di lupo, bocche di leone, vilucchi, convolvoli; stupori dei bocci, dei semi, delle bacche che schioccavano e lanciavano il seme. Vita dei bruchi, delle larve, amori e nozze dei minuscoli esseri: un mondo di stupori quella strisciolina di terra. (B. Cicognani)

I vecchi muri hanno una particolare poesia: dalle screpolature, dai piccoli antri bui escono le erbe, quali piccole e timorose della luce, quali vigorose e ricche di foglie e di fiori. Alcune ricoprono il muro con una leggiadra cortina di un verde tenero sulla quale scherza il vento, che la agita vivacemente suscitando fruscii sommessi e improvvisi, mentre il sole vi accende luci ed ombre, bagliori di perle e riflessi di seta. (P. Boranga)

Le viole sono state le prime a sbocciare sulle rive dei fossi e vicino ai cespugli, pronte a rispondere al richiamo del sole. Le hanno seguite poi le pervinche, le primule, le pratoline: ora, bottoncini di luce, rallegrano le zolle. Ci annunciano la primavera che sta arrivando e noi accogliamo nel cuore la dolce promessa.

Le primule sono fiori da nulla, piccoli, gialli come lo zolfo. Tutti gli anni, appena marzo ride un pochino, si mettono di impegno. Spuntano a ciuffi da una modesta rosetta di foglie ruvide e si accontentano di un pugnetto di terra, di una goccia d’acqua, di un raggio di sole. Vogliono essere tra le prime ad annunciare il ritorno della bella stagione. Chi le vede pensa: “La primavera è qui” e si rallegra. Le primule lo sanno bene ed hanno fretta.  Non importa se, poi,  la neve le farà morire. Non importa. Hanno annunciato la fine dell’inverno, il ritorno della primavera e… sono contente. (L. Davanzo e D. Scotti)

La campagna conserva ancora l’aspetto invernale. I rami degli alberi cominciano appena a mostrare le prime gemme e l’aria è ancora umida e fresca. La primavera è vicina. Ecco i primi fiori: le viole mammole. Sbocciano ai margini delle strade di campagna, lungo i viottoli e lungo i fossi, nei prati, là dove comincia il bosco, ai piedi delle vecchie querce, tra le foglie secche dell’autunno.

La prima viola è spuntata sull’orlo della strada, sotto la siepe, piccola, scura e profumata! E’ venuta a dire che è primavera, che tra poco torneranno le rondini a rifare il nido. E’ venuta a dire al contadino che i lavori del campo lo aspettano. E’ venuta a dire ai poverelli, che questo inverno soffrivano tanto, che non farà più freddo. (L. Steiner)

Fienagione

L’erba ben presto diverrà fieno odoroso. Poi verrà il gran carro e il fieno vi sarà  ammonticchiato; e il carro se ne andrà traballando col suo carico profumato.
Il prato resterà silenzioso e spoglio del suo bel manto. E le cavallette, le formiche, le coccinelle, le chioccioline, tutte le creature minuscole che vivono sotto le erbe folte, vedranno distrutta la grande boscaglia.
Addio ombra, addio frescura, addio protezione.
Ma gli steli corti corti assicurano: “La falce taglia? E noi cresceremo di nuovo”.
(E. G. Camillucci)

I fiori di campo

I fiori di campo fanno una figura molto semplice e modesta, ma sono anch’essi graziosi, freschi, odorosi e coloriti con una delicatezza e una varietà di tinte meravigliose. I fiori di campo sbocciano, in pienissima libertà, all’aria aperta della campagna. fuori del muro dei giardini e senza bisogno delle cure del giardiniere. Passeggiando per la campagna si trovano questi fiorellini da per tutto: lungo la strada, lungo i viottoli, lungo i fossi, lungo le prode, su per i greppi. Si direbbe che questi piccolissimi e graziosi amici siano lì per sorriderci e augurarci buona fortuna.

Fiore di prato

Il piccolo fiore di prato non si sente mai solo; l’erba verde lo circonda, l’aria lo culla e lo accarezza dolcemente, l’ape si posa sulla sua corolla per succhiarne il nettare, è semplice e bella. Egli saluta l’alba spalancando la corolla alla luce, accoglie l’ora del tramonto chiudendo i suoi petali o reclinando la testina.
Quando la falce dell’uomo taglia il suo stelo, giace tra le erbe e spande ancora intorno un sottile aroma: è l’odore fresco del fieno. (M. Cera)

Fiori modesti

A tutti i fiori splendidi e superbi preferisco quelli modesti: la selvaggia rosa di macchia, che un raggio di sole appassisce; il caprifoglio, che si arrampica sulle querce o stende sui cespugli le sue braccia aulenti; la  viola del pensiero dagli occhi vellutati e pensosi; la viola mammola timida; la margheritina dei campi; il ranuncolo d’oro; l’erica rosa; il mughetto d’argento; la viola di Pasqua, che nasce, vive e muore negli orti; il biancospino intorno a cui ronzano le api. (F. Dumonteil)

Fiori

Qua e là, cespugli di fiamme vermiglie dei rosolacci; e macchie giallastre e celestognole di tulipani selvaggi, di papaveri e di anemoni; eserciti di spighe e di grappoli tra il bianco della brina e il rosso del sangue; moltitudini di pratoline con gli orli venati e l’occhio d’oro; e qua e là pezzetti di cielo più celeste del vero, caduti tra l’erba: i fiordalisi. Agli orli del prato, cespi alti e squillanti di ginestre. (G. Papini)

Waldorf poems and verses

Waldorf poems and verses – una collezione di poesie, motti e filastrocche, di autori vari, per la lezione di Inglese nello stile della scuola steineriana.

Waldorf poems and verses
Hidden
Deep in the kingdom there spreads a great forest,
Deep in the forest a mountain soars high;
Deep in the mountain a high vaulted cavern,
Secret and solemn, where fools may not pry.
Deep in the cavern there stands a great granite,
Solid and silent and strong as the earth;
Deep in the granite there glistens and gleams
A radiant jewel of wondrous worth.
Paul King

The little brown bulb
The little brown bulb lies quiet and warm,
Sheltered from wind and sheltered from storm.
“Awake, Little Bulb,” call the rain and the sun,
“Wake and unfold
Your green and your gold,
For winter is done.”
Paul King

Winter and Spring
Cruel winter froze the stream,
Made all things hard with ice and snow.
The creatures shivered, the flowers died,
Nothing could live, and nothing could grow.
Then came summer’s kindly warmth,
The sun shone down with love and light.
The hard ice cracked and melted away
And life bloomed again in colours bright.
Paul King

The lighthouse
Out in the bay there’s a lighthouse,
On an island of rock on its own.
The mighty waves buffet its boulders
And the winds howl around it and moan.
But so firmly it stands on the granite,
Undaunted by wind or by sea,
And its bright beam sweeps through the stormy night
To bring the ships safe to the quay.
Paul King

Morning Verse
The sun with loving light
Makes bright for me each day.
The soul with spirit power
Gives strength into my limbs.
In sunlight shining clear
I reverence, O God,
The strength of humankind
Which thou, so graciously,
Hast planted in my soul
That I, with all my might,
May love to work and learn
From thee comes light and strength
To thee rise love and thanks.

Waldorf poems and verses

How Beautiful the World Is
How beautiful the world is,
How blue the sky above,
How green the grass in the morning dew,
How musical the dove.
Eyes to see the colours bright,
Ears for music of delight,Nose to smell the fragrant rose,
Skin to feel the breeze that blows.
How beautiful the world is,
How blue the sky above,
God is there in all creation
Flowing forth in light and love.
Paul King

The song of the stars
The song of the stars resounds in the heavens,
The song of the sun awakens the day,
The song of my heart is the sun in my soul,
And I’ll listen, and listen, to what it can say.
P. King
A head I have for thinking deeply,
Listening, and learning, and looking with care.
Hands I have for work and creating
With fingers skillful to make and repair.
In my heart I can carry the sun
Shining with love for everyone.
Paul King

From Wibbleton to Wobbleton is fifteen miles,
From Wobbleton to Wibbleton is fifteen miles,
From Wibbleton to Wobbleton,
From Wobbleton to Wibbleton,
From Wibbleton to Wobbleton is fifteen miles.

Waldorf poems and verses
Hickory, dickory, dare,

The pig flew up in the air.
A man in brown
Brought him down
Hickory, dickory, dare.
Higglety, pigglety, pop!
The dog has eaten the mop;
The pig’s in a hurry,
The cat’s in a flurry,
Higglety, pigglety, pop!
Hoddley, poddley, puddle and fogs,
Cats are to marry the poodle dogs;
Cats in blue jackets and dogs in red hats,
What will become of the mice and the rats?
Tumbling Jack goes clickety-clack,
Down the ladder and then comes back,
Clickety-clack, rattle and hop,
Over and down again, flipperty-flop!

Waldorf poems and verses
The Robin’s Song

God bless the field and bless the furrow,
Stream and branch and rabbit burrow,
Hill and stone and flower and tree,
From Bristol town to Wetherby –
Bless the sun and bless the sleet,
Bless the land and bless the street,
Bless the night and bless the day,
From Somerset and all the way
To the meadows of Cathay;
Bless the minnow, bless the whale,
Bless the rainbow and the hail,
Bless the nest and bless the leaf,
Bless the righteous and the thief,
Bless the wing and bless the fin,
Bless the air I travel in,
Bless the mill and bless the mouse,
Bless the miller’s bricken house,
Bless the earth and bless the sea,
God bless you and God bless me!
(old English Rhyme)

After the Rain
Drip, drip, drip from the twigs and the leaves,
Drop, drop, drop from the drain-pipe and the eaves,
Plip, plip, plip making dimples in the sand,
Plap, plap, plap in the palm of my hand.
Driplets on the petal tips,
Droplets on the grass,
A-glistening in the sunlight
When the rain cloud has passed. Paul King

Bees
Buzzing bees, buzzing bees,
Buzzing and bumbling from flower to flower,
Sucking sweet nectar out of the bloom,
To fill with gold your honeycomb bower.
Paul King

Waldorf poems and verses
One tired tortoise

Plodding in the Karoo,

He bumped into another one
And that made two.
Two tired tortoises
Resting by a tree,
Along came another one
And that made three.
Three tired tortoises
With feet feeling sore
Along came another one
And that made four.
Four tired tortoises
Just trying to survive,
Along came another one
And that made five.
Five tired tortoises
In a thirsty fix,
Along came another one
And that made six.
Six tired tortoises
Wished they were in Devon,
Along came another one
And that made seven.
Seven tired tortoises
Getting quite irate,
Along came another one
And that made eight.
Eight tired tortoises
Starting to decline,
Along came another one
And that made nine.
Nine tired tortoises
Prayed and said ‘Amen’,
Along came another one
And that made ten.
Ten tired tortoises drinking at a well,
Then each one yawned and said Goodnight
And slipped into his shell.
Paul King

Waldorf poems and verses
Twelve Tiny Tadpoles (adding 2)

2 tiny tadpoles swimming near the shore,
up swam another two and that made 4.
4 tiny tadpoles playing naughty tricks,
up swam another two and that made 6.
6 tiny tadpoles in a giddy state,
up swam another two and that made 8.
8 tiny tadpoles found a little den,
up swam another two and that made 10.
10 tiny tadpoles in the mud did delve,
up swam another two and that made 12.
12 tiny tadpoles wriggling just for fun,
One called out, “There’s the stork!”,
. . . And then there were none.
(because they’d all hidden, not because they were all eaten!)
Paul King

Finger exercise rhyme
Hens at the Dish
Peck, peck, peck,
Peck, peck, peck,
The hens in the yard go
Peck, peck, peck.
First one, second one,
Third one, fourth one,
Pecking round the dish
Till the grain’s all gone.
Paul King

Left and Right
Left and Right were going to fight,
They crossed their swords in the middle of the night.
Left and Right were equally strong.
Left and Right were equally wrong!
Left and Right grew tired of the fight,
So they all shook hands and said Good-night.

Waldorf poems and verses
The Lion and the Mouse

Lion lies sleeping, silent and still,
Along comes a mouse and thinks he’s a hill.
Up the great body the little mouse goes,
Through mane, across ear, and down Lion’s nose.
But Lion wakes up and gives a great roar,
Catches poor Mouse in his long cruel claw.
“How dare you walk over your king and your lord!
For this only death shall be your reward.”
The little mouse shivers and shudders with fright,
Tries hard to think how to put things a-right.
“Forgive my mistake, mighty Lion, I pray,
And I promise to help you too some day.”
At this Lion laughs and shakes to and fro,
But he’s now in good humour and lets the mouse go.
Days come and days go, and some hunters pass by
Who set a great lion-trap cunning and sly.
Lion walks in, unaware of the threat,
And suddenly finds himself caught in a net.
Frustrated he roars with wrath and despair;
Little Mouse hears how he’s caught in a snare.
She remembers her promise and runs without pause
To the spot where the Lion so rages and roars.
Her sharp little teeth set to gnawing the rope,
Thread after thread, now the Lion feels hope.
Soon there’s a hole and the Lion is freed.
The Mouse has kept her promise indeed!

Waldorf poems and verses
The Fox and the Crow

A coal-black crow sits in a tree,
A morsel of cheese in his beak has he.
A fox slinks by as sly as you please,
And cunningly plots how to get the cheese.
“Oh how I admire your feathers so spry,
The sheen of your tail and the glint of your eye,
The elegant curve of your beak sharp and long –
But would I could hear your sweet voice raised in song!”
At this the crow’s flattered and quite taken in;
To impress the fox further he will now begin.
He throws back his head, and rasping and raw,
He utters a raucous, cacophonous “Caw!”
With beak all agape, the cheese tumbles out,
The fox snaps it up in his long pointed snout.
“Sing, Crow, your vanity, long as you please.
You keep your song, and I’ll have the cheese!”

The Pine Tree and the Reed
“You are small and weak,” the pine tree said
To the swaying reed by the stream below,
“Whereas I am stately, high above you,
And have far more to show!”
The reed was silent. But soon after this
A gale began to bluster and blurt.
The rigid pine tree snapped in the wind,
But the pliant reed bent unhurt.

Waldorf poems and verses
Chatterford Market

Cabbage and carrots,
Beetroot and beans,
Spinach and sprouts,
Marrows and greens:
All of the freshest
Crispy and spry,
At Chatterford market,
Buy! Come buy!
Lettuce and leeks,
Pumpkin and peas,
Cherries and berries
And lemons to squeeze.
There’s big yellow cheese
And honey from bees
And all sorts of teas
From bushes and trees,
And cakes and pies
To feast the eyes,
Pies and pasties of every size.
There are things we all know
And things that surprise
At Chatterford Market
Under the skies.

The little bird
The little bird sighed, “Oh me, oh my!
How they will laugh if I try to fly.
If I flutter and flop, or tumble and fall,
Will the creatures all laugh at me, clumsy and small?”
But the sun shone down with a kindly face
“Just try and soon you will fly with grace.”
The bird practised hard never minding to fall,
And now the great eagle flies highest of all.

Waldorf poems and verses
Acorn and Oak

“Oh I’ll never be big,” the acorn said
As it gazed on high to the oak tree tall,
“I’m little and round as a miller’s thumb,
I’ll never be big, I’ll always be small.”
The oak tree smiled a knowing smile,
“My trunk is thick, and my roots are deep,
My branches and twigs spread high and wide,
For birds to nest in, and bugs to sleep.
But I was an acorn too on a time,
– ‘Oh I’ll never be big, I’ll never be strong,’-
That’s what I thought many years ago…
And, dear little acorn, you see I was wrong!”

Johnny’s farm
Waldorf poems and verses

Johnny had a little dove, coo, coo, coo.
Johnny had a little mill, clack, clack, clack.
Johnny had a little cow, moo, moo, moo.
Johnny had a little duck, quack, quack, quack.
Coo, coo; clack, clack; moo, moo; quack, quack;
Down on Johnny’s little farm.
Johnny had a little hen, cluck, cluck, cluck.
Johnny had a little crow, caw, caw, caw.
Johnny had a little pig, chook, chook, chook.
Johnny had a little donkey, haw, haw, haw.
Coo, coo; clack, clack; moo, moo; quack, quack;
Cluck, cluck; caw, caw; chook, chook; haw, haw;
Down on Johnny’s little farm.
Johnny had a little dog, bow, wow, wow.
Johnny had a little lamb, baa, baa, baa.
Johnny had a little son, now, now, now!
Johnny had a little wife, ha! ha!! ha!!!
Coo, coo; clack, clack; moo, moo; quack, quack;
Cluck, cluck; caw, caw; chook, chook; haw, haw;
Bow-wow; baa, baa; now, now; ha! ha!!
Down on Johnny’s little farm.
(traditional)

Lovely Things
Bread is a lovely thing to eat –
God bless the barley and the wheat!
A lovely thing to breathe is air –
God bless the sunshine everywhere!
The earth’s a lovely place to know –
God bless the folks that come and go!
Alive’s a lovely thing to be –
Giver of life – we say – bless Thee!
H.M.Sarson

Waldorf poems and verses
Measurement
“Oh build for me builder
A house of my own,
With plank and with timber,
With tiling and stone;
A solid foundation,
Four walls stout and thick,
A roof of good oak beam,
And chimney of brick.”
“Yes, I’ll build you a house,
The best that I can,
But the measurements true
I’ll need for the plan.
How deep the foundation?
What height for the wall?
What length for the rooms,
And the passage and hall?
How high is the chimney?
How wide are the floors?
How broad is the staircase?
How narrow the doors?
Give me the measure
To build your house right:
The width and the length,
The depth and the height.”
Paul King

Waldorf poems and verses
Nouns and Verbs

Of all the things I can know and love,
Like the earth below and the sky above,
The wind in the trees
And the waves of the sea:
All these the noun will name for me.
The dolphin, the whale and fishes bright,
The lark at dawn, and the owl of the night,
The fox in his den,
And the buck that springs:
The naming noun will name these things.
Of all the things that as deeds are done,
I can leap or linger, romp and run,
I can weep salt tears,
And chuckle with glee:
And these the doing verbs decree.
I live, I learn, I wish for, I work,
But if a good deed I would lazily shirk,
Then a charm I can say
The good to fulfill:
I can,
I should,
I want to,
I will!
Paul King

Waldorf poems and verses
Where am I?
In the hand of God is the Universe,
In the Universe is our galaxy,
In our galaxy is the Solar System,
In the Solar System is the Earth,
On Earth is the continent of Africa,
In Africa is the country of South Africa,
In South Africa is the province of the Western Cape,
In the Western Cape is the city of Cape Town,
In Cape Town is the suburb of Kenilworth,
In the suburb of Kenilworth is Marlowe Road,
In Marlowe Road is Michael Oak School,
In Michael Oak is Class Four,
In Class Four are rows of desks,
In one of those rows is my desk,
Here I sit.

Waldorf poems and verses
Here I sit
at my desk
in one of the rows
in Class 4
in Michael Oak
in Kenilworth
in Cape Town,
in the Western Cape
in South Africa
in Africa
on Earth
in the Solar System
in the galaxy
in the universe
in the hand of God.

Waldorf poems and verses
Butterfly and Flower

See the flower open
Its petals one by one –
Butterfly wings upon a stem
Waving in the sun.
See the flitting butterfly
In shimmering colours bright –
A flower free and flying
In the warm summer’s light.
See the bee
How selflessly
She toils to bring the honey home.
The silent hive
She’ll keep alive
When blooms are blown and winter’s come.

By day the light of the radiant Sun,
By night the light of mysterious Moon,
And the wandering Stars ever above,
Guide and guard us night and noon.
Light of the sun shine in my thoughts
Beauty of moon weave in my heart,
Wisdom of stars flow through my deeds.
Morning, evening, night and noon.

The pillars of the temple
Stand between earth and sky :
Upon a footing that’s sturdy and firm
They lift the roof on high.

The great and glorious golden sun
Shines from on high on everyone,
On saint and sinner, shepherd and king,
On the great and the stumbling, unstinting.

See the stone
Sculpted by storm,
Weathered by wind
To a rugged form.
See the shell
Whose elegant spin
Spirals and twists
To the heart within.
Weather and wind
Or life unfurled:
Inner and outer
Shape the world.

Waldorf poems and verses
Above me, the heavens with moon and sun,

Below me, the earth firm and strong,
Behind me, an angel to guard me and guide,
Before me, the goal to which I stride,
Beside me, my loved ones, and all around
Fire and water and air abound.
Above, below; near and wide;
Behind, before, and either side :
The encompassing world lies far and nigh,
And in the centre, here stand I.

Crystal, jewel, rock or stone,
In me is sinew, flesh and bone.
The plant unfolding stem and leaf,
In me is growth and pulsing life.
The sentient beast that roves the plain
In me is shades of joy and pain.
The sun that gives its loving light,
In me is thinking’s radiance bright
Beast and plant, earth and sun –
All the world in me is One.

The word of a king can slay or spare,
The word of a clown can gladden.
The word of a friend can comfort and share,
The word of a foe can sadden.
The word of God creates a world
Of firmament, land and sea;
The word of my mouth
Shapes my life,
And so creates me.

The master paints a picture
And its greatness shineth forth;
The journeyman travels to broaden his skill
By many a winding path;
The apprentice must practise and practise
And practise undaunted still more –
But first he takes a simple broom
And sweeps the master’s floor.

Rain, fall!
Water, flow!
Bring new life
That the plant may grow.
Soften the earth
That the root grow deep;
Moisten the air
That stem and leaf
Unfurl and unfold
In the shimmering light
And bring forth the flower
For our delight

The tool unused lies lost in dust,
The sword unused turns dull with rust,
The path unused grows clogged with weed,
The crop untended goes to seed.
Skills unused will soon decay,
Talents wasted, fade away.

I will work with a wish and I’ll work with a will,
And the task that life brings me I’ll gladly fulfil,
And unfolding new skills, many joys shall be mine.
Away dull rust! Let me shine!

In the waters of a pool,
Deep and green, dim and cool,
Unperturbed by swirl or swish,
Hangs a dreaming silver fish.
Thrice a-dream in waters deep,
Wrapped in fast aquatic sleep.

Then with a flip and a flash and a flay
Swift as the lightning it flickers away.

The sails are full, the anchor hauled,
The rolling keel o’erleaps the swell,
The wheeling gulls above me call,
And wind and wave betoken well.

Storm or calm
Near or far,
Undeterred I’ll follow my star.

Earth beneath my feet,
Thee my step doth greet.
Through the light of days
I walk upon thy ways,
Straight or curved or steep
In places high or deep.
Wisdom guide my soul,
Lead me to life’s goal;
Firmness bear me on
Till my path be done.
Earth beneath my feet,
Thee I gently greet.

I waken to the morning light,
I waken to the hills and seas,
I waken to the birds and beasts,
I waken to the plants and trees;
And the world of people round me moves,
Family, teachers, friends and more –
The world awaits me every morn
To know, to cherish and explore.
In the world I will seek
For the good and the true
By the thought that I think
And the deeds that I do

Waldorf poems and verses
The Ballad of Semmerwater

Deep asleep, deep asleep,
Deep asleep it lies,
The still lake of Semmerwater
Under the still skies.
And many a fathom, many a fathom,
Many a fathom below,
In a king’s tower and a queen’s bower
The fishes come and go.
Once there stood by Semmerwater
A mickle town and tall;
King’s tower and queen’s bower
And the wakeman on the wall.
Came a beggar halt and sore:
“I faint for lack of bread!”
King’s tower and queen’s bower
Cast him forth unfed.
He knock’d at the door of the eller’s cot,
The eller’s cot in the dale.
They gave him of their oatcake,
They gave him of their ale.
He has cursed aloud that city proud,
He has cursed it in its pride;
He has cursed it into Semmerwater
Down the brant hillside;
He has cursed it into Semmerwater
There to bide.
King’s tower and queen’s bower,
And a mickle town and tall;
By glimmer of scale and gleam of fin,
Folk have seen them all.
King’s tower and queen’s bower,
And weed and reed in the gloom;
And a lost city in Semmerweater,
Deep asleep till Doom.
Sir William Watson

Waldorf poems and verses
The Water Cycle

Water hard as iron,
Water flowing free,
Water floating light as air,
Water one in three.
Vapour rising skyward,
Falls to earth as rain,
Flows in river, stream and sea
To rise as cloud again.
Lifting skyward, falling earthward,
Ever on the move,
Thus the cycle of all life
Comes and goes on earth.
Paul King

Waldorf poems and verses
Deep in the night is darkness,

With my soul in slumber deep.
Moonlight dreams on the waters,
Moonlit dreams in my sleep.
High in the star-filled firmament
The song of the spheres is heard,
Giving me strength for the morrow,
In thought and deed and word.
Now light of the sun is dawning,
And light of my mind as I wake:
Alive in the world,
At home on the earth,
My path through life to take.
Paul King

The rocks are hard
And we stumble.
The rocks are sharp
And we bleed.
The rocks are heavy, jagged and dense,
Crushing and dark indeed.
But the rocks bear the weight of the world,
They bear up our steps with might;
And deep within, like stars on earth,
Their jewels glisten bright.
Paul King

A pebble dropped in a lake
Sends ripples gliding to shore.
The world is changed for ever;
Does the ripple glide ever more?
A word of kindness spoken
Sends warmth where was pain before.
The world is changed for ever:
The warmth lives on ever more.
Paul King

Waldorf poems and verses
Bean bag

(per l’esercizio del girare il sacchetto di fagioli attorno ai fianchi. Ogni verso è un giro completo)

Waldorf poems and verses
Round About

Round the coppice
Round the trees,
Round the woods
With the rustling leaves;
Round the tree trunk,
Round the stem:
Round about
And home again.
Paul King

(tenere il sacchetto di fagioli nella mano destra, gettarlo accompagnadolo bene con la mano sopra la testa e riprenderlo con la mano sinistra. Quattro lanci per ogni verso).

Waldorf poems and verses
Red, and orange, and yellow, and green:

The rainbow’s seven colours have a bright shiny sheen.
Light blue, indigo, and violet all told. At the end of the rainbow is a pot of gold

Tutte le opere contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.

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Gioco cantato – There was a jolly miller (un mugnaio bello e buono)

Gioco cantato – There was a jolly miller (un mugnaio bello e buono), con testo italiano e inglese, spartito stampabile, file mp3 e istruzioni di gioco.

Gioco cantato – There was a jolly miller (un mugnaio bello e buono) – testo:

There was a jolly miller and he lived by himself
as the wheel went round he made his wealth
with one hand on the hopper and the other in the bag
as the wheel went round he made his grab!

Un mugnaio bello e buono sempre solo abitò
macinando ricco diventò,
di grano e di farina le sue mani riempì,
mentre macinava, chi rapì?

There was a jolly miller (un mugnaio bello e buono) – spartito in formato immagine

Gioco cantato – There was a jolly miller (un mugnaio bello e buono) – spartito stampabile e file mp3 qui:

Gioco cantato – There was a jolly miller (un mugnaio bello e buono) – Istruzioni di gioco

I giocatori sono in cerchio in coppia e cantano girando in senso antiorario. I giocatori che si trovano all’esterno tengono la mano sinistra sul fianco, quelli interni li prendono a braccetto.

Il mugnaio sta all’interno del cerchio e gira nel senso delle lancette dell’orologio.
A “chi rapi?” tutti i giocatori che di trovano all’esterno del cerchio si fermano e quelli all’interno avanzano fino ad affiancarsi e prendere sottobraccio il giocatore esterno successivo.

Durante lo scambio il mugnaio prende sottobraccio uno dei giocatori del cerchio esterno e il gioco ricomincia con un nuovo mugnaio.

There come three jolly fishermen

There come three jolly fishermen (tre marinai che tornano): gioco cantato con testo italiano-inglese, spartito stampabile gratuitamente, traccia mp3 e istruzioni di gioco.

 

There come three jolly fishermen
Testo inglese:

There come three jolly fishermen,
There come three jolly fishermen,
There come three jolly fishermen,
who’ve just come from the sea.

They’ve cast their nets into the sea,
They’ve cast their nets into the sea,
They’ve cast their nets into the sea,
and a jolly old fish caught they.

There come three jolly fishermen
Testo italiano:

Tre marinai che tornano,
Tre marinai che tornano
Tre marinai che tornano
che tornano dal mar.
Una bella rete lanciano
una bella rete lanciano
una bella rete lanciano
che vogliono pescar.

There come three jolly fishermen – spartito e traccia mp3 qui:

Due cerchi concentrici: quello interno è formato dai tre marinai, quello esterno da tutti gli altri giocatori.
Mentre tutti cantano la prima strofa i marinai girano in senso antiorario e il grande cerchio in senso orario.
Al termine della strofa i tre marinai si avvicinano ciascuno a un giocatore del cerchio e lo prendono per le due mani.
Tutti cantano la seconda strofa; il cerchio resta fermo, le tre coppie girano in senso orario.
Quando finisce il canto, le tre persone scelte diventano i marinai e il gioco ricomincia.

GLI INSETTI: dettati ortografici e letture

Dettati ortografici GLI INSETTI – Una raccolta di dettati ortografici, letture e materiale didattico sugli insetti, di autori vari, per la scuola primaria: farfalle, grilli, maggiolini, formiche, mosche, api, vespe, ecc…

Visite
Nel mio studio capitano spesso animali, ma non mi viene mai l’idea di interrogarli. Domenica passata, ad esempio, venne a trovarmi un bellissimo esemplare di locusta nasuta, lunga e snella come un levriero dei prati, d’un verde così delicatamente graduato e sfumato che non l’ottengono, credo, neppure in una scuola di tintoria. Volle girare tutta la stanza, a forza di salti e, a un certo punto, si posò anche sulla mia spalla. In capo ad un paio d’ore, sparì. Visite ne ricevo tutti i giorni. Vengono specialmente i vesponi, con quel loro bustino settecentesco a strisce d’ebano e di zafferano, e si divertono a dare dei gran colpi sulle costole dei libri. E ora, mentre scrivo, una formica smarrita attraversa, trepidante, la mia pagina bianca, e vista un po’ dall’alto sembra un fratino sopra un nevaio.
(G. Papini)

Gli insetti
Se gli insetti non avessero dei potenti nemici, in breve distruggerebbero tutto: piante, semi, foglie, frutta, radici. Ma, fortunatamente, gli insetti se ne nutrono, le rane fanno loro una caccia spietata e altri animali insettivori aiutano l’uomo in quest’opera di distruzione,

I nemici degli insetti
Primi fra tutti sono gli uccelli che, alla fine della loro giornata, hanno divorato migliaia e migliaia d’insetti. Dobbiamo essere grati anche al rospo che, pur così sgraziato e maldestro, è un abilissimo cacciatore di bruchi, di farfalline, mosche e moscerini. Bravi insettivori sono le lucertole, le rane, che fanno del loro meglio per liberarci dagli sgraditi ospiti. Esistono anche insetti divoratori d’insetti e, quindi, utili, quali il formicaleone, la coccinella e molti altri.

Gli insetti
Se osservate un insetto che avete a portata di mano, potrete notare che ha il corpo distintamente diviso in tre parti: capo, torace e addome. Nel capo ci sono gli occhi, le antenne, e l’apparato boccale. Quest’ultimo varia secondo il modo con cui l’insetto si nutre. Le zampe sono sei. Spesso l’insetto è fornito di ali. Respira a mezzo di trachee, tubicini che da una parte aspirano l’aria e dall’altra la ramificano dentro il corpo.

Gli insetti
Non vi è luogo solitario, non ciuffo d’erba, non zolla o minuscolo anfratto del terreno, non crepa fra rocce o ferite di corteccia, che non vibri del fremito, talvolta inavvertito, degli insetti. Minuscoli esseri, essi trovano asilo e dimora ovunque la terra offra una minima possibilità di vita.
Piccoli, ma nella varietà e bellezza delle forme, nella mirabile struttura dei loro organi, nella loro vitalità presso che indistruttibile, sono anch’essi testimonianza di una divina presenza, creatrice e ordinatrice del tutto.
(G. G. Moroni)

Gli insetti
Tra le tante classi di animali rappresentate sulla terra, quella degli insetti è la più ricca. Gli insetti vivono dovunque: nelle regioni fredde e in quelle calde. Si nascondono nel suolo, invadono le case, svolazzano e volano, si arrampicano, saltano, si moltiplicano nell’erba, nei cespugli, sugli alberi, sotto le pietre, nelle cortecce delle piante.
Alcuni vivono persino nella neve e nel ghiaccio, altri stanno perfettamente a loro agio nell’acqua caldissima e nei crateri dei vulcani.
(Verril)

Insetti terribili
L’Australia ha un campionario di insetti, che formano una specialità del paese: formiche saltatrici, formiche che vivono in grattacieli di propria fabbricazione, formiche che rodono lamiere temperate, perchè schizzano un acido ossidante che permette loro di scavarsi una galleria e di penetrare all’interno di una cassa corazzata e di distruggere il contenuto con tutta comodità. In quel continente nuovissimo non son rare le mosche che depongono le uova tra i peli degli ovini, e neppure zanzare che rendono assolutamente inabitabili le zone palustri. Le cavallette sono capaci di distruggere il lavoro agricolo di anni in altrettanti minuti. (H. Van Loon)

Gli insetti

Non vi è luogo solitario, non ciuffo d’erba, non zolla o minuscolo anfratto del terreno, non crepa fra rocce o ferita di corteccia, che non vibri del fremito, talvolta inavvertito, degli insetti.
Minuscoli esseri, essi trovano asilo e dimora ovunque la terra offra una minima possibilità di vita.
Piccoli, ma nella varietà e bellezza delle forme, nella mirabile struttura dei loro organi, nella loro vitalità indistruttibile, sono anch’essi testimonianza di una divina presenza, creatrice ed ordinatrice del tutto.

Gli insetti

Gli insetti sono animali invertebrati, cioè senza ossa. Hanno il corpo diviso in tre parti: capo, torace e addome; essi sono dotati di tre paia di zampe e, generalmente, di due paia di ali.
Gli occhi degli insetti sono composti, cioè formati di tanti occhietti; sul capo sporgono le antenne, con le quali sentono ostacoli e pericoli. La bocca varia secondo il modo con cui l’animale prende il nutrimento; può quindi essere adatta a masticare, a lambire, a succhiare o a pungere. Gli insetti respirano per mezzo di trachee: tubicini che da una parte respirano l’aria, dall’altra si ramificano dentro il corpo. Essi sono ovipari; dall’uovo non esce l’insetto perfetto, ma un vermiciattolo detto larva, che poi si trasforma in ninfa o crisalide, e infine in insetto. Tali trasformazioni si dicono metamorfosi.

Gli insetti

Sono animaletti molto piccoli. Alcuni di essi volano, come le belle farfalle dalle ali colorate, le libellule sottili, le api che fanno il miele e la cera e vivono negli alveari, le fastidiose mosche e zanzare che trasmettono le malattie. Altri insetti camminano, come le formiche che vivono nei formicai; altri saltano, come le pulci e i pidocchi, insetti piuttosto antipatici, o come gli insetti dei campi, i grilli e le cicale, le cavallette e i  maggiolini; altri strisciano come i bruchi e come gli utilissimi bachi da seta.

La metamorfosi degli insetti

Gli insetti, prima di diventare adulti, compiono una metamorfosi, cioè una trasformazione. Quando l’uovo si schiude esce fuori un baco molliccio, detto bruco o larva. Successivamente, dopo essersi chiuso in un bozzolo, il bruco diviene insetto perfetto somigliante ai propri genitori.

Insetti utili e dannosi

Gli insetti che, specialmente nella bella stagione, vedi volare sui fiori, dalle bellissime farfalle al minuscolo moscerino, dalla cavalletta fornita di lunghe zampe al lucente scarabeo chiuso nella corolla di una rosa, sono, in genere, dannosi all’uomo. Esistono tuttavia molte eccezioni. L’ape e il baco da seta, ad esempio, danno all’uomo prodotti utili: il miele e la seta.
La formica rufa distrugge quel parassita dei boschi che è la processionaria dei pini.
E poi c’è un’eccezione che vale per tutti. Gli insetti, infatti, volando di fiore in fiore, trasportano il polline dall’uno all’altro, permettendo così al fiore di trasformarsi in frutto.
Purtroppo alcuni insetti sono dannosi all’uomo; infatti con la loro puntura gli trasmettono delle gravi malattie. Fra questi tu conosci certamente la zanzara anofele che fa ammalare l’uomo di malaria. E altri, che non hanno il triste privilegio di far ammalare gli uomini, sono ugualmente dannosi perchè distruggono i raccolti.
Se uno sciame di cavallette cala sopra un campo di grano, dopo poco, su quel campo, non resta più una spiga di frumento, non resta più un filo d’erba.
La forza degli insetti è soprattutto nel loro numero sterminato: essi, infatti, si trovano dappertutto, dalle desolate terre del Polo alle foreste vergini dell’Equatore.

Alleati e nemici del contadino

E’ una meravigliosa mattina di primavera. Il contadino si aggira nella sua proprietà e osserva con soddisfazione i primi frutti della sua fatica. Nello sguardo del contadino c’è una grande speranza, ma anche una certa apprensione. Andrà tutto bene? Non ci saranno sorprese all’ultimo momento? Sono state prese tutte le precauzioni per evitare anche il più piccolo inconveniente?
Mentre il contadino passeggia e osserva, un’altra vita si svolge intorno a lui. Una vita minuscola, intensa, anche se appena appena percettibile. Si sente nell’aria un fruscio d’ali; osservando la terra si vede qualcosa muoversi velocemente. Migliaia e migliaia di minuscoli esseri volano nell’aria, si posano sui fiori degli alberi, scavano nella terra, fabbricano i loro nidi nelle radici delle piante. Ma migliaia e migliaia di altri piccoli esseri sono pronti a sferrare il loro attacco contro questi animaletti che vivono danneggiando enormemente il raccolto. La loro vita si svolge così: lotte, attacchi, contro attacchi, difese, e questo da secoli. E ogni anno il risultato del raccolto dipende anche dall’esito di queste terribili e minuscole battaglie.
Intorno agli alberi in fiore ci sono innumerevoli farfalline variopinte. E’ piacevole guardare il loro volo elegante e allegro. Ma il contadino osserva preoccupato questo leggiadro vibrare d’ali. In estate, quando al posto dei fiori i rami porteranno i frutti, le mele, le susine, le pesche, avranno, nella loro polpa, un piccolo verme roseo. Infatti queste farfalline depongono le loro uova tra i fiori degli alberi, e quando dalle uova usciranno i piccoli vermi, questi si alimenteranno con la dolce polpa dei preziosi frutti. Quando saranno divenuti farfalla, cominceranno a posarsi sui fiori, a cibarsi del nettare e, a loro volta, deporranno le uova che daranno vita ad altri piccoli vermi rosei, devastatori dei frutteti.
Tra i ciuffi d’erba e le piante di grano, assistiamo spesso ai salti acrobatici delle cavallette. E’ nota la voracità di questi insetti che in breve tempo annientano le fatiche di interi mesi di lavoro agricolo. Si nutrono delle foglioline dell’insalata, rosicchiano le radici degli ortaggi. Ma la cavalletta nostrana, che in fondo è un animale semplicione e ingenuo, si combatte abbastanza facilmente. Ben più nocive sono le locuste migratorie dei paesi caldi (Africa, Sudamerica) dove questo tipo di cavallette, spostandosi a milioni in un’unica direzione, distruggono in brevissimo tempo con la loro voracità i raccolti di intere popolazioni. Per la sua lotta contro le cavallette, il contadino ha un’alleata naturale: la mantide religiosa. E’ un affascinante insetto. Ha un musino sottile, un corpo grazioso ed elegante; tiene le zampe anteriori raccolte e piegate sul petto. Sembra proprio una piccola santa in preghiera.
Vicino a lei una cavalletta ammira incantata quel santo contegno. Ma mentre è al colmo dell’ammirazione, un uncino formidabile l’afferra a metà del corpo e la tiene in una morsa strettissima. Una zampa le torce il collo completamente. La santa si è mutata in un brigante della peggior specie: assale i viandanti, li uccide e se li mangia.
Nei frutteti e, in modo particolare, nelle pinete, alcune farfalle dai colori tenui e armoniosi si posano, dopo un breve volo di ispezione, sui rami. Sono le processionarie. La farfalla depone se uova raggruppate in piccoli cilindri che ne contengono  dalle cento alle centocinquanta. Verso la fine di agosto nascono i bruchi che cominciano a rodere le foglie. Dove passano lasciano un sottile filo simile alla seta, in modo da formare una ragnatela che viene ingrandita sempre più fino a formare un vero e proprio nido a forma di pera rovesciata. Dentro il nido i bruchi passano l’inverno e in primavera escono dal loro rifugio per dirigersi in fila indiana verso gli alberi vicini dove riprendono la loro opera distruttrice. Per fortuna anche questa volta l’uomo ha un amico: anzi, parecchi minuscoli amici: piccole mosche, vespette  che vivono da parassiti sul corpo dei bruchi nutrendosi delle sostanze vitali di questi insetti che in breve tempo muoiono.
Anche le formiche, questi industriosi architetti che tante volte abbiamo ammirato mentre costruivano le loro piccole ma perfette città sotterranee, sono un pericolo che il contadino considera con un certo timore. Nelle loro scorribande sotterranee si nutrono di sostanze vegetali, di piccole parti di radici.
Ma ecco un altro alleato: è un animale molto simile alla libellula. Il suo volo, però, è assai più debole e le sue ali sono meno lunghe ed eleganti. E’ il formicaleone. Una particolarità di questo animaletto è che, quando è adulto, il suo corpo odora di rose. Particolarmente interessante è la larva del formicaleone. E’ un vermiciattolo di colore grigio rossastro; le zampe anteriori sono divaricate in avanti, le posteriori sono strette al corpo così che l’animale cammina all’indietro. Scava nella terra, con la testa, una buca a forma di imbuto. Vi si nasconde dentro e attende il passaggio della vittima (è ghiotto di formiche e da ciò gli deriva il nome), la afferra con le mandibole, la divora e butta fuori dal buco le spoglie.
Naturalmente, oltre a questi animali che hanno caratteristiche più spiccate, ve ne sono altri che, pur essendo più comuni e meno interessanti , svolgono attivamente il loro compito di alleati dell’agricoltore: i ricci, le talpe che scavano profonde tane nella terra e si nutrono di tutti quegli insetti che vivono a spese delle colture. Per finire, una particolare menzione la meritano tutti quegli imenotteri che, deponendo le uova dentro il corpo dell’insetto devastatore, fanno in modo che la larva si nutra delle viscere dell’insetto stesso che in breve tempo sarà distrutto.

Ad ogni alitar di vento

Ad ogni alitar di vento tremano le corolle leggere, oscillano le ricche infiorescenze, le spighe e le foglioline minute hanno brividi leggeri; e il muro, il severo, l’aspro muro, è percorso continuamente da impeti di gioia, è rallegrato da sussurri fecondi.
Dalle screpolature dove più batte il sole, fa capolino la lucertola; sotto le foglie fresche ed umide lavorano i millepiedi, i glomeri, le formiche, le chioccioline e le lumache, mentre da una corolla all’altra passano frettolosi i bombi, le farfalle, i moscerini, e il paziente regno dei muri vigila la sua tela fitta come un tulle e gonfia al pari di una vela.
(P. Boranga)

Gli afidi
Ognuno conosce gli afidi o pidocchi  delle piante, ma chi di noi può concepire che da uno solo di tali minuscoli esseri devino 6000 milioni di altri afidi durante la bella stagione? Logicamente, se questo potesse accadere, e l’aumento della popolazione degli afidi fosse senza freni, in breve la vegetazione del mondo intero sarebbe distrutta. Però, fortunatamente per l’uomo e per la terra, gli afidi, come quasi tutti gli altri insetti, hanno innumerevoli nemici che senza posa li divorino.
(A. Verrill)

Gli insetti
Fra le tante classi di animali rappresentate sul nostro pianeta, quella degli insetti è la più ricca. Multiformi e multicolori, tali esseri vivono nelle regioni artiche alle antartiche, all’equatore ed in ogni ambiente. Essi si nascondono nel suolo, nuotano, invadono le case, svolazzano e si moltiplicano nell’erba, nei cespugli e sugli alberi. E’ certo che qualcuno vive persino nella neve e nel ghiaccio, mentre altri sono perfettamente a posto nell’acqua caldissima che sgorga dalle correnti termali e nei crateri dei vulcani.
(A. Verrill)

Dettati ortografici GLI INSETTI Tutte le opere contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.

Dettati ortografici FIORI

Dettati ortografici FIORI Una collezione di dettati ortografici sui fiori, di autori vari,  per la scuola primaria: fiori di campo, violette, primule, margherite, rose, ecc…

Fiori di campo

Sbocciano in piena libertà, all’aria aperta della campagna. Danno un aspetto vago all’erba, inghirlandano a festa le colline, riempiono di profumo le gole dei burroni e il silenzio delle ombrose valli. Li trovate dappertutto, lungo la strada, lungo i viottoli, lungo i fossi, le prode, su per i greppi, nelle aiuole degli orti e dei giardini.  Si direbbe che questi piccoli e graziosi amici stanno a far capolino tra l’erba per sorridervi mentre passate e per rallegrarvi la strada. Entrate nel bosco ed ecco venirvi incontro il mughetto con le sue campanelline d’argento e la violetta dal profumo delicato; fra quel ciuffo d’erba verde biancheggia l’elegante margheritina, e in mezzo a campi di grano spicca il rosso fiammante del rosolaccio e la tinta azzurra del fiordaliso. (Collodi)

Fiori 
Quanti fiori, nei giardini, a primavera! Nell’erba, nascoste, sono le violette profumate; sulla siepe fiorisce il biancospino. Ogni pianta ha il suo fiore. Anche le piantine che nessuno sa come si chiamano, hanno messo il loro bocciolino.

La pratolina
La pratolina è composta da molti fiori piccoli: tanti fiori gialli al centro, tanti fiori bianchi alla corona, riuniti in un solo capolino, così da sembrare un unico fiore che spicca sul verde del prato.
Perchè?
In questo modo gli insetti possono vederla anche da lontano; vi accorrono in volo; vi si posano a succhiare il nettare e trasportano il buon polline ad altre pratoline.
Solo così potranno nascere nuove piantine.

Dettati ortografici FIORI
Le primule

Sono sbocciate le primule. Sono a mucchietti, piccole e gialle. Ciascun cespo sembra una famiglia con tante sorelline.
Sbocciano di qua e di là, da tutte le parti. Si chiamano a fiorire insieme.
Le foglie escono, dal cespo, ruvide e rugose.
Questa pianta non ha rami, ma soltanto le foglie che rimangono rasente terra. I suoi fiori si alzano un poco sopra il cespo con i loro piccoli gambi sottili e con il calice verde che mette meglio in risalto il giallo della corolla.
Gli insetti si posano sui fiori, li fanno un po’ dondolare, ma il loro gambo non si spezza.
“Io so perchè gli insetti volanti si posano su questi fiori; perchè in fondo al calice trovano una gocciolina dolce come il miele, che si chiama nettare, e se lo succhiano”.
“Anch’io ho succhiato questi fiori e mi hanno lasciato in bocca un buon sapore dolce e profumato”, dice Giovanni alla sorellina.
(Pierina Boranga)

Fiori 
Perchè alcune piante fanno dei fiori così belli, variopinti, profumati? Forse per far piacere agli uomini? No, la pianta non si cura degli uomini, ma mette in opera tutta la sua bellezza, tutto il suo profumo, tutto il suo colore e soprattutto nasconde nel suo calice una gocciolina di dolcissimo nettare, per attirare gli insetti. E perchè questo sviscerato amore per le alate creature? Perchè saranno proprio gli insetti, almeno per numerosissime specie, a favorire la trasformazione del fiore in frutto nell’interno del quale, poi, matureranno i semi. Per ottenere questo, le piante mettono in opera infiniti accorgimenti. Qualcuna schiude i suoi fiori di notte, perchè sa che soltanto insetti notturni andranno a trovarla; altre fabbricano trappole astutissime per trattenerli il tempo necessario all’impresa; altre ancora foggiano petali e calice in modo da costruire passaggi obbligati, affinchè gli insetti arrivino al polline fecondatore. Tutto per il fine ultimo che la pianta si propone, quello di produrre il seme che darà vita ad altre piante.

Fiori 
Il piccolo fiore di prato non si sente mai solo; l’erba verde lo circonda, l’aria lo culla e lo accarezza dolcemente, l’ape si posa sulla sua corolla per succhiarne il  nettare, gli insetti ronzano introno. La sua vita è semplice e bella. Egli saluta l’alba spalancando la corolla alla luce, accoglie l’ora del tramonto chiudendo i suoi petali o reclinando la testina. Quando la falce dell’uomo taglia il suo stelo, giace fra le erbe e spande ancora intorno un sottile aroma: è l’odore fresco del fieno. (M. Cera)

Fiori 
Nel prato fioriscono i miosotis. Dalle umili foglioline emergono i fiori: sono frammenti di cielo azzurro ed in mezzo ad ognuno splende un grano d’oro, come il riflesso d’un sottile raggio solare. Vi fioriscono le primule. Dal cesto verde, tondo, aderente alla terra, si alzano le delicate corolle gialle, pallide e trasparenti, come se dentro brillasse un tenue lume. Si stendono in file bianche e rosate le pratoline. Le guardano, appena reclinandosi, le nobili genziane dalla veste mirabilmente turchina. Dove l’erba è più alta emergono i giallo-lucidi bottoni d’oro, penduli in ogni soffio d’aria, e le più gravi margherite, dal tondo occhio stupito in mezzo alla candida raggera. Al vento, le mente, dai fiorucci azzurro-bigi, affidano il  loro profumo. Per quel vento si aprono talvolta dei solchi e si scoprono laggiù erbe minute che pure hanno i loro fiori, spruzzi gialli, rossi, turchini. (G. Fanciulli)

Fiori 
Le siepi di pruni aprivano tra le spine miriadi di occhietti bianchi per guardare il frumento tenero che brillava rabbrividendo allo scherzo gentile del vento; e gli alberi gemmavano: le foglioline lucide accendevano a mille a mille le loro fiammette verdi lungo i rami, intorno ai fremiti dei nidi; tremolavano attraverso i campi i filari argentei dei pioppi e dei salici. Qualche nuvoletta bianca era nel cielo: nei prati brillavano i bottoni d’oro dei ranuncoli; intorno ad essi gli ombrellini lievi delle pastinache vi facevano una nebbiolina rosea e bianca, e tra il verde si fondevano i mille azzurri, i viola, i gialli, i rossi di tutti i fiori campestri. (Virgilio Brocchi)

Fiori 
A primavera, dopo che le ultime nevi sono scomparse, le erbe germinano in fretta e si fanno alte. Tutte eguali sembrano le erbe al piede che le calpesta, ma non agli occhi che le guardano con amore, nè alle mani che a dita aperte vi affondano una carezza. Quale innumerevole famiglia! Steli, foglie, fiori, che sembrano messi lì a far folla, hanno ciascuno un disegno, un’armonia di colore, un carattere individuale rivelato in minutissimi particolari. (G. Fanciulli)

Fiori 
Tutto il mio affetto va ai poveri fiori di campo e di monte, che pochi guardano e nessuno coltiva. Alle pratoline dai petali macchiati di vino, al papavero che insanguina i grani, al fiore azzurro del radicchio, al fragile ed effimero farfallio del biancospino, al cardo selvatico che mostra al primo sole le sue corolle crudeli e pungenti, fra il celeste e il turchino, al ciclamino che timido si affaccia tra l’erba tenera e commovente. Sono i fiori dei bambini e dei poeti; di coloro cioè che sono al tempo stesso più poveri dei mendicanti e più ricchi dei re. (G. Papini)

Fiori 
Uscite dai dedali della città e inoltratevi per i campi. Quale sia il fiore che per primo vi si mostrerà, voi, nel vederlo non divelto dalla pianta e vibrante con le cose circostanti, risentirete pieno il suo fascino. Riempitevi di questa armonia. Alla svolta di quel sentiero, all’ombra di un masso, una pianticina erbacea fa sforzi per offrire alla luce il suo fiorire di corolle fitte e azzurre, così grandi a paragone dell’umiltà della pianta che noi non possiamo trattenerci dal domandarci come abbia fatto ad effondere tanta ricchezza. (A. Anile)

Dettati ortografici FIORI
Fiori 

Non v’è lembo di prato spontaneamente formatosi che non ci si riveli una gara di richiami, che è gara di colori: dal bianco niveo al roseo, dal giallo al purpureo, dall’azzurro al violetto cupo. Se una specie ha fiori bianchi, il colore cioè che agisce a maggiore distanza ed un’altra ha fiori gialli, questa cerca di vincere il vantaggio di quella sollevandosi alquanto più da terra. Colori vari e gradazioni indefinibili di colori, che restano tuttavia insufficienti al numero delle specie dei fiori, che vogliono un loro segno. Da ciò la necessità del comporsi di varie tinte sopra il medesimo fiore, quante combinazioni di turchino e di giallo su fondo grigio, di violetto e di lilla su bianco, di rosso trapassante in purpureo ed in amaranto; e quante sfumature e screziature che non si possono esprimere con le parole. Una struttura particolare delle cellule di rivestimento del petalo ed una speciale incidenza di luce possono dare nuovi riflessi a un medesimo colore: paragonate il viola della mammola a quello di una corolla di petunia. Vi sono corolle dove ciascun petalo cambia colore in gradazioni non determinabili. (A. Anile)

Fiori 
Alla svolta di un sentiero, all’ombra di un masso, una pianticina erbacea fa sforzi per offrire alla luce il suo fiorire in corimbi fitti e azzurri, e così grandi in paragone all’umiltà della pianta, che noi non possiamo trattenerci dal domandarci come abbia fatto ad effondere tanta ricchezza; un poco più oltre, lungo il margine di un ruscello, un ciuffo fiorito si piega nel vento a riflettersi nell’acqua: se indugiate ad osservare il colore di questi fiori, vi accorgerete che è anch’esso sfuggente. Strisce d’asfodeli, che si dilungano sul fosso aspro di quel colle, sembra che traccino sentieri per il passaggio degli angeli. Dove si formano promontori in un tumulto di rocce, la più strapiombante sul mare si colora di una ghirlanda di fiori, la cui pensosa bellezza muore immediatamente se tolta da lassù. Allo stesso modo da fianchi rupestri di montagne emergono piante che amano rendere ondeggianti sull’abisso grappoli floreali che nessuna mano toccherà. (A. Anile)

Il fiore
Non c’è cosa più bella del fiore: piace all’occhio e anche all’odorato. Noi ci fermiamo talvolta a osservarlo e ci domandiamo da quale mano può essere fabbricata tanta beltà e tanta gentilezza. I fiori si donano alle persone che si amano. Si danno proprio perchè sono cosa bella e gentile. (F. Socciarelli)

I fiori

I fiori vivono e parlano. Il profumo è il loro respiro e il colore la loro voce. I fiori somigliano ai bambini. Quando la rugiada del mattino li bacia, tutti sollevano la corolla come tante testoline bianche e brune di bimbi appena nati. E come alle prime ombre della sera i fiori chiudono le loro corolle, così i bimbi piegano le testoline allorchè cadono dal sonno. (N. Salvaneschi)

Fiori 
Mille gentilissime forme, infinite sfumature di colori, un variare delizioso di profumi, e l’acuto piacere che danno al tatto i petali vellutati; ecco in folla venire a noi i fiori d’ogni stagione, a stimolare i nostri sensi, perchè facciano giungere all’anima l’immagine di tanta bellezza. (F. Monelli)

Fiori 
Le mammole riaprono dal lungo sonno i begli occhi azzurri. Il pesco si è tutto magnificamente coperto di fiori, che brillano al nuovo sole come gemme cristalline e fragranti. Le margherite silenziose e tranquille, tremolano al tiepido vento. Persino nelle lande più pietrose e deserte qualche fiore solitario apre all’aura nuova le sue tre o quattro foglioline soffuse di un pallido rosa, o venate di tenere righe violacee. In ogni albero canta un nido, in ogni cuore rinasce la speranza. (E. Nencioni)

Fiori 
La primavera tornò, la campagna si coprì del verde vellutato dei frumenti, interrotto a quando a quando dai gialli tappeti delle rape in fiore; i mandorli esalavano amare fragranze dalle loro bianche ghirlande; la viola mammola, ametista odorosa, fiorì celatamente fra l’erba. Sulle vette dei freschi platani e delle querce severe, tra i longevi cipressi e le gracili acacie, i fringuelli cantarono; da ogni lato si alzavano al cielo profumi e armonie; profumi e armonie primaverili. (F. Martini)

Fiori 
Le primule sono dappertutto: ho visto sulla collina un gran pendio tutto biondo che pareva l’immagine della via lattea. I cornioli in fiore sembravano sciami di api d’oro sospesi qua e là sullo smeraldo e sull’ametista delle campagne. Nel mio orto, giacinti e narcisi sono balzati su col vigore delle giovani punte, senza aspettare che io rimuovessi loro  la coperta invernale di letame e di fogliame. Laggiù nell’angolo, la vecchia mimosa, ridotta a quei due o tre rami inaccessibili, si è accesa del suo giallo fuoco di gioia. Rami inaccessibili, perduti in alto, che ogni primavera io guardo con un’ammirazione mista di dispetto. (F. Chiesa)

Fiori 
Appena la natura ripalpita ai primi soffi della primavera, ecco i fiori. Fiori dappertutto: nei campi e nei prati, sulle rive dei ruscelli, nelle siepi, nei boschi, nei giardini, nei negozi e nelle piazze. Ovunque è una profusione di piccole rose, dal profumo appena sensibile, ma vivide e fresche; di lillà bianchi e celesti, di violette sorgenti nel folto delle siepi: odorano con uguale grazia i vasi di cristallo e i pentolini sbocconcellati, i salotti dei ricchi e le modeste case  degli operai. Ed ecco nei prati le vivaci margherite dal cuore d’oro e dai petali sfumati in rosso. Fiori, fiori dappertutto. La natura che si risveglia dopo il riposo invernale è ricca di promesse. (M. Savini)

Fiori 
A tutti i fiori splendenti e superbi preferisco quelli modesti: la selvaggia rosa di macchia che un raggio di sole appassisce, il caprifoglio che si arrampica sulle querce, la viola del pensiero dagli occhi vellutati, la margheritina dei campi, il ranuncolo d’oro, l’erica rosa, il mughetto d’argento, il biancospino intorno a cui ronzano le api. (F. Dumonteil)

Fiori 
I fiori sono il più bel dono che sia stato fatto agli uomini. Osservate un giardino in fiore, una terrazza, un balcone, adorni di fiori  dai colori vivaci, dai profumi inebrianti e soavi. Osservate la vetrina di un fioraio: quale festa di colori, di forme armoniose! I fiori hanno una sola colpa: quella di durare troppo poco. Anche circondato dalle maggiori cure, il fiore finisce sempre per appassire, perdendo profumo, colore, freschezza e morbidezza. Ma questo danno è solo apparente; in sostanza, il fiore appassisce, ma in esso si forma il germe di una nuova pianta. (P. Addoli)

Fiori 
Al mattino, appena il cielo biancheggia ad oriente e spegne a uno a uno i suoi lumi, appena le nuvole cominciano a colorarsi di tinte d’argento, d’oro, di porpora, i colori dei fiori cominciano a distinguersi fra le erbe sempre meno scure, e prima i bianchi e i gialli, più tardi i rosei, i celesti, i blu. Presto presto, se il cielo non è nuvoloso o piovoso, le pratoline sciolgono le cuffiette, i vilucchi calano i cappucci, si aprono le campanelle e i gialli soffioni e le cicorie somiglianti a fiordalisi. (P. Lioy)

Fiori 
Addio, giorni brevi e tristi; cieli grigi, fredde e tenebrose piogge monotone, nebbie e ghiaccio crudele… Un alito nuovo spira tiepido dalle umide colline, velate di vapori argentei e leggeri. Bianche e soffici nuvole aleggiano per l’immacolato turchino del cielo. I neri e grossi alberi, dalle braccia muscolose e rudi, paiono spruzzati da una brina di smeraldi e di perle. Sotto il muschio delle vecchie pietre grigie, nel bosco, le mammole riaprono dal lungo sonno i begli occhi azzurri. (E. Nencioni)

Fiori 
La primavera è proprio dappertutto, anche dove non c’è bisogno. Anche tra i sassi del muro franato l’erba è voluta crescere; per i sentieri più scoscesi, tra i tronchi degli alberi che furono abbattuti con l’ascia. Le margheritine bianche, quelle dei prati, fanno di tutto per dare nell’occhio; e gli stessi prati si sono lisciati con la rugiada e il fresco che pare perfino bizzarria e voglia di divertirsi. Anche l’azzurro rimane lì per lì un poco rintontito, quasi non sapesse che fare e forse, vergognoso di odorare nemmeno quanto una violetta. (F. Tozzi)

Fiori 
La terra si era addormentata. Una lunga pioggia leggera è scesa a cullare la fine del suo sonno. Lei sentiva, ma ancora non si svegliava. Dolce dormire. Sorrideva, dietro le palpebre chiuse, a sentire frugare fra l’erba, a sentirsi toccare le violette nascoste. Picchiettandola con le minute dita leggere, la pioggia le faceva il solletico e le diceva pian piano: svegliati; e mormorava: svegliati; e poi: su, su, è l’ora, vestiti. E la terra fingeva ancora di dormire, perchè nulla era più dolce di quella carezza leggera e di quel dormiveglia. Alla fine ha aperto gli occhi delle margheritine ed è rimasto un odore di terra bagnata nei giardini. (A. Campanile)

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Fiori 

Noi chiamiamo frutti solo la pesca, la ciliegia, la pera, la noce, l’arancia e l’uva. Ma tutte le piante producono frutti, dalla rosa alla fava, dalla violetta alla quercia, perchè il frutto non è altro che l’ovario trasformato dopo la fecondazione degli ovuli. Per effetto di questo prodigioso fenomeno, il magico fiore della rosa è trasformato in una piccola sfera rossa che pochi conoscono, perchè le rose sono colte e appassiscono prima del tempo. Il fiore alato della fava e dei fagioli diventa un grosso legume e l’amabile fiore del ciliegio, la rossa bacca carnosa. (E. Baldacci)

Fiori 
A primavera, quando i fiori si schiudono ai primi tepori, quando i petali variopinti mostrano i loro splendidi colori ed esalano i profumi più soavi, una moltitudine di insetti vola freneticamente dall’uno all’altro fiore per succhiare quella gocciolina di nettare che ognuno di essi nasconde in fondo al suo calice. E, così facendo, aiutano la natura nel miracolo della fecondazione. Per opera degli insetti, il polline di un fiore viene trasportato su un fiore della stessa specie, ed ecco che il miracolo si compie: il fiore si trasforma in frutto.

Fiori 
Le piante che ricorrono all’opera degli insetti per trasformare i loro fiori in frutti, prendono gli aspetti più appariscenti per attirarli. Innanzitutto il colore, così gli insetti possono subito avvistarli fra il verde e visitarli. Poi, il profumo. Non è necessario che siano odori soavi e delicati. Qualche fiore emana perfino un odore nauseabondo che attira gli insetti che lo preferiscono, ma tutti hanno, in fondo al calice, una gocciolina di dolcissimo nettare. Per succhiare questo cibo squisito, gli insetti visitano diligentemente tutti i fiori, impolverandosi così di polline che trasportano da un fiore all’altro.

Fiori 
I leggeri venti mattutini che soffiano per la valle appena il sole si alza, le calde correnti che salgono nell’aria, verso il mezzogiorno, le brezze marino che spirano sulle coste, raccolgono il polline dalle capsule floreali mature e lo portano in volo con movimenti ondeggianti, diluendolo nell’aria. I filamenti piumosi, viscidi, pelosi dell’ovario si sporgono dai calici, e come ragnatele pronte a far prigioniero ogni minuscolo insetto che incautamente vi cada, raccolgono quanto il vento ha portato. Dagli abeti e dai pini, dai ginepri e dai cipressi, si libera una nuvola gialla al primo alitare di vento: una pioggia di zolfo, come la chiamano i contadini. Il polline scorre sulle correnti atmosferiche e si deposita sui fiori femminili. sbocciati all’estremità dei rami. (E. Baldacci)

Dettati ortografici FIORI
Fiori 

Il mandorlo, il pesco, l’oleandro, il lampone e la fragola producono nettare prelibato attorno al loro ovario. Il nettare non è che un impasto di amido, di zuccheri, di grassi e di altre sostanze, ma il suo sapore è dolcissimo come quello del miele delle api. I fiori producono il nettare sulle loro foglie colorate o in ricettacoli e ciascuno non può cederlo che a insetti particolarmente confermati. I coleotteri muniti di brevi succhiatoi lo raccolgono dai tessuti carnosi del calice, su cui il nettare si spande come una densa pennellata di vernice lucente. Le farfalle, munite di lunghe proboscidi, visitano i fiori che nascondano il loro nettare in recipienti profondi. Così che i visitatori di questi fiori non possono raggiungere fiori diversi da quelli su cui questo nettare è stato prodotto. (E. Baldacci)

Fiori 
Gli insetti aiutano il fiore: mosche, vespe, calabroni, api, scarabei, farfalle, tutti fanno a gara in suo aiuto per trasportare il polline dagli stami sui pistilli. S’immergono nel fiore ingolositi da una goccia di miele espressamente preparata in fondo alla corolla e nei loro sforzi per raggiungerla, scuotono gli stami e s’impasticciano di polline che trasportano da un fiore all’altro. Chi non ha visto le api e i calabroni  uscire infarinati dal seno dei fiori? Il loro corpo villoso, polveroso di polline, non ha che da toccare, passando, un pistillo per comunicargli la vita. (J. H. Fabre)

La prima viola
E’ spuntata sull’orlo della strada, sotto la siepe, piccola, scura, profumata. E’ venuta a dire che è primavera, che tra poco torneranno le rondini a rifare il nido, che tutti gli alberi, uno dopo l’altro, si ricopriranno di fiori, di foglie, di frutti. E’ venuto a dire al contadino che i lavori dei campi l’aspettano. E’ venuta a promettere ai poveri che non farà più freddo. Tra poco il sole tiepido scalderà la terra coi suoi raggi e la terra tornerà rigogliosa, con l’aiuto di Dio e col lavoro dell’uomo. (L. Steiner)

E’ spuntata sul bordo della strada. Manda un delizioso profumo. E’ venuta a dire che la primavera è finalmente arrivata.

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La pratolina

La pratolina cresceva a vista d’occhio, finchè una mattina si trovò in piena fioritura, con tutte le foglioline bianche e lucenti spiegate come raggi intorno al piccolo sole giallo del centro. A lei nemmeno passava per la mente di essere un povero fiorellino disprezzato che nessuno avrebbe degnato di uno sguardo, là, in mezzo all’erba; oh, no:  era tutta contenta, si volgeva dalla parte del sole, guardava su ed ascoltava l’allodola che cantava, nell’alto. Se ne stava composta, sul suo piccolo stelo verde e imparava dal sole caldo e da tutto quanto la circondava quanto è bello il mondo; e godeva che l’allodoletta cantasse così bene e così chiaro. (H. C. Andersen)

Gli anemoni
Intorno a certe rocce, si alzano, in belle famigliole, gli anemoni. Tutti hanno simili foglie, a ventaglietto, minutamente tagliuzzate come per gioco, e grossi gambi rosso-bruni, un po’ contorti per lo sforzo del trovare la via tra la terra secca e i sassi. Ma le corolle dei petali riuniti, soffuse di opaca lanuggine, mostrano i colori più diversi: alcune rosse di fiamma, altre violacee, e altre quasi bianche. Nei fiori, che aprono i petali a stella di sei punte, si scorge il nero cercine dei piccoli stami affollati. (G. Fanciulli)

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La mammola

Erba, cara erba, sempre vista e sempre nuova, quando mai mi era apparsa così verde? E dove mai se ne stavano nascoste tutte queste mammole? Proprio come le stelle che, fino a una certa ora della sera, non ci si pensa: poi ad un tratto, se levi lo sguardo, il cielo ti trafigge gli occhi con miriadi di spilli. Dappertutto mammole: nella prateria dietro la casa, lungo i cigli dei viali, formando siepe, sulle rive del laghetto, all’ombra dei pini e dei pioppi. Non c’è tronco che non abbia alla radice, tra i fili d’erba e i ciuffi dell’edera, la sua corona di mammole. Brune, di un bruno intenso, di ciglia abbassate, timide e pur d’un rilievo schietto tra le foglioline a cuore; e d’una fragranza così penetrante nella sua leggerezza, che le narici le sentono prima che l’occhio le scopra. (A. Negri)

Ciliegio in fiore
L’albero era fino a ieri nudo; nudo nel tronco, nei rami qua e là contorti dall’aspro battere del vento. Cosa sia accaduto perchè stamattina ricalcando il sentiero solitario, io abbia visto, invece dell’albero, una nube bianca tutta di fiori stretti così fittamente gli uni agli altri da formare una cosa sola, impalpabile, quasi aerea attraverso la quale non mi riesce più di distinguere nè rami nè tronco… L’aria attorno alla nube non è più chiara e vibra come uno strumento musicale con melodie di suoni che son diventate melodie di profumi e di cui la mia anima si riempie. Guardo in alto, e mi sembra che il cielo si sia più incurvato per richiamare a sè questa nube venuta da sottoterra. (A. Anile)

Dettati ortografici FIORI
Glicine

Si arrampica sui muri, ammantandoli con la sua veste violacea fatta di grappoli fitti fitti visitati golosamente dagli insetti. Il glicine è il trionfatore dell’aprile. Si arrampica su su, e ogni vecchio muro diventa leggiadro, ogni cancello ha una veste fiorita, ogni inferriata sembra piena di primavera.

I grappoli del glicine coprono tutto il muro come un manto violaceo, senza neppure un filo di verde perchè le foglie non sono ancora spuntate. Pare che abbia fretta, il glicine, e sboccia subito ai primi tepori, e sale su, impetuoso, fino alla sommità del muro, e tabocca ancora di là, come se non gli bastasse mai.

Dopo l’impeto della prima fioritura, i grappoli del glicine impallidiscono piano piano, i calici cadono come una pioggia di viole e, allora, sono le foglie che crescono, si arrampicano, ricoprono il muro di verde, e lo fanno tutto bello, fresco, nuovo, mentre ancora qualche grappolino fiorisce qua e là, ma di malavoglia, come se gli dispiacesse di finire troppo presto, quando la stagione è ancora tanto tiepida e dolce.

Durante la notte cadde una pioggerella benefica e il mattino si alzò limpido e luminoso. Gli steli acuminati del grano giovane erano cresciuti di un dito e nell’orto i piselli avevano germogliato. La canna da zucchero era tutta aghi del colore del pistacchio contro la terra color cioccolata. I gelsi erano carichi di more verdi; la spalliera del glicine era tutta in fiore: una trama delicata come un merletto. Le api ne avevano scoperto la fragranza e in ogni corolla ce n’era una, a capofitto intenta a succhiare. (M. Rawlings)

I papaveri
I papaveri hanno invaso il campo di grano. Sono un esercito. I soldatini indossano la camicia rossa e non fanno male a nessuno: la loro spada è la spiga. Il vento li agita.I soldatini sembrano correre per il campo conquistato. Quando poi il vento tace, ogni papavero si attarda col fiordaliso, suo compaesano, che indossa la tuta azzurra dell’operaio. (Renard)

Ninfee
Le rive dello stagno erano ricoperte di ninfee. La barca ne fendeva la superficie spessa con un secco fruscio. Tra le foglie, l’acqua traspariva come la polpa di un’anguria nel triangolo dell’incisione. Le piante s’intrecciavano fra loro accorciandosi, i fiori bianchi con lo stelo chiaro, scomparivano sott’acqua e riemergevano grondanti. (B. Pasternak)

Il giglio
Osservate il giglio: lascia a terra la rosetta delle sue foglie e si eleva tutto in uno stelo che porta al sommo le candide corolle. Non sembra un fiore: è piuttosto una purezza di offerta all’alto, sì che non c’è stato pittore che non l’abbia fatto portare dalla mano di un angelo.  (A. Anile)

I fiori

I fiori sono sempre belli: belli quando timidi ed umili ornano le zolle dei campi e occhieggiano dal fitto delle siepi; belli quando sbocciano sul ramo quasi nudo degli alberi da frutto cui donano un vestito nuovo e vaporoso; belli nelle aiuole curate dei giardini quando vengono a premiare la fatica del giardiniere. Ma diventano belli soprattutto quando, raccolti in un mazzolino, diventano un omaggio ed un dono.

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I fiori e le stelle

Quanti fiori rallegrano la terra! Papaveri rossi, fiordalisi azzurri, margheritine bianche e ranuncoli d’oro spiccano in mezzo al giallo dei campi e al verde dei prati, mentre garofani screziati e rose di ogni colore ornano le aiuole dei giardini.
Quando, poi, i fiori si piegano sullo stelo per dormire, e i loro colori scompaiono nell’oscurità della notte, in cielo, ad una ad una, si accendono le stelle.
E anche le stelle sembrano fiori.

La natura e i fiori

Di fiori è piena la natura: prati, campi, siepi, declivi, monti, boschi, selve, tutto è un immenso, molteplice, perenne rifiorire.
I fiori sono la poesia del mondo. Dove si trova mai un tessuto che possa eguagliare il petalo di un fiore? I fiori sono per noi simbolo di gentilezza, di purezza, di grazia, di bellezza, di amore, di gioia, di speranza, di augurio, di ricordo.
Chi ama i fiori non può essere un’anima volgare: coltivare un fiore significa ingentilirsi, pensare al bello, al buono. (O. Stampatti)

Il fiore

Il fiore ha allungato il gambo. Nel bocciolo, piccolo laboratorio, è ormai tutto pronto: il polline, le antere, gli stami, il pistillo, i petali tutti uguali. Si aspetta il segnale perchè l’apertura si compia.
Ma nessuno deve vedere questo miracolo, e perciò i boccioli si schiudono sempre di notte. Al mattino il fiore è aperto; e il sole gli dà gli ultimi ritocchi di colore… Le farfalle, appena si svegliano, corrono tutte a vedere, e, al suono del campanellino dei grilli, danzano sui petali immacolati la lieta danza della primavera. (C. Pretelli)

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Quanti bei fiori

Quanti bei fiori rallegrano il nostro paese! Tutti i colori: il rosso dei papaveri, l’azzurro dei fiordalisi, il bianco delle margherite, spiccano in mezzo al verde dei campi dei prati. Nei giardini si aprono i fiori d’arancio, le rose, i garofani, le dalie, i crisantemi.
Quando viene la sera, quando l’ombra copre la campagna ed i giardini, i vivi colori dei fiori svaniscono nell’oscurità. Molti fiori piegano sugli steli le corolle stanche, come se volessero dormire. Allora appaiono ad una ad una le stelle, che sembrano fiori luminosi nel limpido cielo. (M. Savi Lopez)

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Un fiore che ha fretta

Il ranuncolo è una pianta frettolosa; appena finito il vero freddo, allarga le sue foglie lucenti spesso macchiettate di rosso bruno o di bianco. Dal centro di questa rosetta di foglie si alza il fiore giallo dorato che invita i primi insetti della stagione a fargli visita.
Ha da tre a cinque sepali e i petali variano da cinque a dodici. Se staccate un petalo vedete, alla sua base, una piccola squama che sporge come l’apertura di una tasca. Per gli insetti è davvero una tasca piena di leccornie: è il serbatoio del nettare. E’ una pianta così rasente alla terra che bisogna s’affretti a far provvista di luce e d’aria prima che le altre piante più alte le si affollino intorno. Infatti, quando ha fiorito allarga più che può le foglie, per assorbire dall’aria il maggior nutrimento possibile, e mandarlo alle radici che ingrossano; poi le foglie appassiscono e spariscono. Ma il tesoro è già messo in serbo per la primavera ventura, quando, allo sciogliersi delle nevi, sul terreno ancor tutto spoglio, appariranno le foglie verdi del ranuncolo.

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Il fiore sconosciuto

Quando giunge la fine di febbraio, esco tutti i giorni per frugare con lo sguardo nei campi e lungo i margini delle strade; cerco i primi fiori che annunciano la primavera. Il primo che vedo è sempre un fiore giallo, dai petali che luccicano al sole come tanti specchietti, che dove nasce spande attorno un senso di gioia e di festosità.
Prima di coglierlo, mi fermo a guardarlo, e mi viene voglia di inginocchiarmi tanto mi sembra bello.
Tutti i fiori che porta la primavera non hanno la bellezza e lo splendore di questo umile fiore giallo, di cui non conosco neppure il nome.
E non cerco di saperlo, perchè mi pare che non ci possa essere nome tanto bello, per un fiore così grazioso.
(C. Pretelli)

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Dettati ortografici LA PRIMAVERA

Dettati ortografici LA PRIMAVERA – Una collezione di dettati ortografici sulla primavera, di autori vari, per la scuola primaria.

Dettati ortografici LA PRIMAVERA

Da qualche giorno c’è qualcosa di nuovo nell’aria. Si diffonde un lieve tepore, il sole è più limpido. La primavera è arrivata. Anche sotto terra la buona notizia deve essere arrivata, perchè già alcune foglioline spuntano piano piano come sentinelle per informarsi di come vanno le cose; e subito dopo alcuni fiorellini curiosi tirano fuori il capino per vedere. Pochi giorni ancora, e i fiori saranno tanti, tanti; i ruscelli, ingrossati per lo sciogliersi delle nevi, cominceranno a correre allegramente. (O. Giacobbe)

Ed ora è primavera, ancora una volta primavera. Invano l’inverno ha scatenato le sue ultime raffiche di neve, di grandine, di tramontana; già grandi lenzuoli azzurri ondeggiano bruscamente tra la nuvolaglia oscura. La campagna, il giardino erompono dappertutto in boschi di serenelle, in gemme di alberi da frutto; le giunchiglie spuntano nell’erba diritte come pugnali, e nei boschi i rami ancora nudi si popolano di battiti d’ali e di gridi leggeri. (M. Roland)

Venne la primavera. Sul cielo ancora freddo, ma alto e nitidissimo, riapparve qualche rapido volo di rondine e il sole scese sul cortiletto, indugiandosi negli angoli umidi e verdognoli di muschio, ove restava qualche rimasuglio di neve ghiacciata. Sulle creste dei muri luccicavano, verdi e lavati, i frantumi di vetro; i davanzali di granito, resi bruni dall’umido, riprendevano la prima tinta chiara, e sulle grigie cime del noce dell’orto attiguo, gli estremi rami sottili  si squarciavano per lasciare uscire le gemme di un bel giallo verdognolo e delicato. (G. Deledda)

E’ primavera: tutta la natura si risveglia e mentre il suolo si libera dal gelo invernale, le erbe si affrettano a fiorire prima che la cupola del verde degli alberi si chiuda sul bosco e le privi di luce. Così dal suolo cosparso di foglie spuntano i primi colori dei mughetti, delle viole. Nell’interno degli alberi la linfa sale fino ai germogli che spingono le sottili squame chi li hanno finora protetti e sbocciano. Sembra che la fretta abbia invaso il bosco. Tutto si spinge verso la luce, quella luce che è vita: a metà aprile il ciliegio è ricoperto da grappoli di fiori bianchi, l’acero è pieno di boccioli vermigli. A maggio la febbre della primavera tocca il suo culmine. Il suolo è tappezzato da campanule gialle, gerani selvatici, da margherite. Gli alberi si ricoprono rapidamente di foglie. Anche gli animali iniziano una nuova vita. Chi durante l’inverno era rimasto in letargo come l’orso, si desta dalla tana: è magro, irritabile, sente prepotente il bisogno del cibo. A frotte ritornano gli uccelli migratori, i rettili riprendono a strisciare in cerca di preda, e gli insetti, nella maggioranza dei casi, completano la loro formazione.

Primavera in città.
Com’è stato lungo l’inverno! Pareva non dovesse avere mai fine! Furono giorni e giorni senza nemmeno un’occhiata di sole. Nella luce malinconica e scialba, sotto una coltre di nebbia e di nuvole che gravava sulla città, tutto era ottenebrato, in una specie di eterno crepuscolo. Ora, fugata la nebbia, fugate le nuvole, il sole trionfa nel cielo. Si respira di gioia. D’un tratto la città ha preso un aspetto di festa. Bambini e ragazzi sciamano per i viali e per le piazze alberate. Nei rioni popolari finestre e terrazzi si spalancano al sole; la gente si affaccia per godersi l’animazione della strada, per respirare e tuffare gli occhi nel cielo di una bellezza che rapisce. (A. Fabietti)

Il ventuno del mese di marzo la primavera entra puntualmente, portando la luce, il calore, la vita. I contadini hanno ormai un gran da fare: seminano la canapa, il riso, i fagioli, il granoturco, i foraggi. Poi rincalzano la terra, sarchiano, concimano, hanno mille faccende da portare a termine negli orti. Ed ecco che la mattina al mercato si cominciano a vedere già le primizie: i primi piselli, i carciofi, le insalatine. Vediamo anche le ricotte e i formaggi freschi. Nei campi ogni albero è carico di gemme… e nei prati sbocciano le violette, le primule. (A. Palazzi)

Primavera in montagna.
In questa stagione gli uomini, per consuetudine antica, salgono le pendici e cercano le vette. Primi sono i pastori. Hanno passato lunghi mesi tra le case del villaggio chiusi talvolta per settimane tra quattro pareti, di contro al biancore compatto d’intorno. Belavano le bestie affamate, piangevano i bimbi infastiditi. Ora son tutti fuori nel sole: spingono innanzi le bestie, mai sazie di erba tenera, verso i pascoli alti. La baita sull’orlo del prato, a sera fuma, e l’occhio del bimbo fissa la stella piccolina, che è spuntata laggiù. (G. Fanciulli)

Primavera alpina.
Neve e fiori… ecco la pompa della primavera delle Alpi. Il fiorellino appena sbocciato, tentennando il capo mollemente sulla neve, che ha appena abbandonato sull’esile gambo l’ultima stilla, sembra ringraziarla con un sorriso di avergli custodito nella lunga stagione dei geli il germe della vita. Superba sopra tutti sorride la rosa delle Alpi che in solitari cespugli orna la cima di una rupe o in larghe e folte macchie si distende tutta porporina tra neve e neve. Essa è la gloria della flora alpina.

Apri la finestra. E’ la primavera che ti chiama: ogni cosa intorno a te parla di vita. Alza gli occhi al cielo, dove, scompigliata la corte delle nubi, torna alfine il sole, a cucire con fili di luce gli abiti nuovi degli alberi e dei campi. Un anno nuovo comincia nel grande tempo della terra. (R. Rubatto)

Primavera.
Non è più tanto freddo e, sui prati, sbocciano, a cento a cento, i fiorellini bianchi. Anche le violette sbocciano sul margine dei fossi e profumano l’aria.

Primavera.
Il cielo è quasi sempre sereno e soltanto qualche nuvoletta vaga qua e là. Il vento la trasporta e la nuvoletta è molto lieta di  vagare per il cielo e guardare la terra tutta verde.

La bella stagione.
Un giorno il cielo diventa tutto azzurro, di un azzurro gentile e delicato con qualche nuvoletta bianca che vaga qua e là. E gli alberi, che sembravano secchi, improvvisamente si mettono a fiorire.

Primavera.
E’ primavera. I campi sono tutti verdi; è l’erbetta nuova che cresce. Fra l’erba sbocciano le pratoline. Si aprono al primo raggio di sole e se il sole scompare, chiudono i petali e si addormentano.

Primavera.
I bambini sono contenti che sia tornata primavera. Ora possono andare a giocare per i prati e godere il tepore del sole d’oro.

Colori della primavera.
Al cielo terso e luminoso di un azzurro che l’inverno non conosce e l’estate non ha più, ai colori dei torrenti e dei ruscelli, alle mille sfumature di verde della nuova vegetazione, la primavera aggiunge la tavolozza ricchissima dei suoi fiori. Ha cominciato il mandorlo con i suoi candidi fiori, poi i meli, i peri, i ciliegi, ma prevalgono i fiori dei peschi con il loro rosa che sfuma nel carminio. (F. Monelli)

Primavera, tempo degli arrivi
La primavera è il tempo degli arrivi. I meli, i peri hanno già ricevuto la fioritura rosea e bianca,e tramando la innalzano nell’azzurro. Sotto ogni mazzetto di fiori fa capolino il cartoccetto delle foglie; fra poco la buccia si romperà e le foglie si apriranno, piccine, tenere e lustre. Sui solchi, il grano verdazzurro vibre, lancia per lancia, rimescolato dal tepore del sole. (G. Fanciulli)

Primavera
La primavera è qui, è arrivata. La senti nell’aria, la vedi nel cielo, nel prato e persino nel viso delle persone che è più aperto, più ridente, non più nascosto da sciarpe e pellicce, ma esposto al dolce venticello che purifica l’aria e la rende più dolce. Guardati intorno, ma il tuo sguardo non sia distratto e superficiale. La primavera va scoperta con attenzione, con amore e soltanto allora potrai godere del lieto miracolo che ogni anno si rinnova.

Primavera
Ogni pezzo di terra era coperto d’erba; gli steli crescevano folti, stretti l’uno contro l’altro, in uno splendido rigoglio. Si scostavano ad ogni passo dolcemente e subito si raddrizzavano. L’ampia, verde pianura era costellata di margherite bianche, di fiori di trifoglio dalle grosse teste violette sfumate di rosso, di gialli bottoni dorati e splendenti, di denti di leone. (F. Salten)

Annuncio di primavera
Da qualche giorno c’è qualcosa nell’aria. Si diffonde un lieve tepore, il sole è più limpido, la primavera è arrivata.
Anche sottoterra la buona notizia deve essere arrivata, perchè già alcune foglioline spuntano piano piano come sentinelle per informarsi come vanno le cose; e subito dopo alcuni fiorellini curiosi tirano fuori il capino per vedere.
Pochi giorni ancora e i fiorellini saranno tanti; i ruscelli, ingrossati per lo sciogliersi delle nevi, cominceranno a correre allegramente. (O. Giacobbe)

Preannuncio di primavera
Anche i vecchi alberi di copriranno presto di verde. Ecco che le gemme si ingrossano; lì dentro stanno chiuse le foglie. Ma il sole vuole che vengano fuori, e scalda le gemme e l’albero tutto: e le foglie scappan fuori belle lucide e pare che ridano; e anche l’albero ride, si fa tutto verde e torna giovane ancora. (A. Colombo)

Primavera
La primavera è una stagione meravigliosa, coi suoi bei fiori, i prati smeraldini, le rondini che tornano ai nidi, e i pulcini pigolanti intorno alle chiocce. Tutto sulla terra germoglia, le giornate si fanno più lunghe, e i ragazzi passano quasi tutto il tempo che rimane loro libero, fuori di casa a giocare alle biglie, alle guardie e ai ladri, e a qualunque altro gioco che venga loro in mente. (Jerome S. Meyer)

La primavera
L’inverno aveva rinfrescato anche il colore delle rocce. Dai monti scendevano, vene d’argento, mille rivoletti silenziosi, scintillanti tra il verde vivido dell’erba. Il torrente sussultava in fondo alla valle tra i peschi e i mandorli fioriti. E tutto era puro, giovane, fresco, sotto la luce argentea del cielo. (Grazia Deledda)

Il risveglio della terra
La terra si era addormentata. Una lunga pioggia leggera è scesa a cullare la fine del suo sonno. Lei sentiva, ma ancora non si svegliava. Dolce dormire. Sorrideva, dietro le palpebre chiuse, a sentirsi frugare fra l’erba, a sentirsi toccare le violette nascoste. Picchiettandola con le lunghe dita leggere, la pioggia le faceva il solletico e le diceva piano piano: “Svegliati!”. (Achille Campanile)

Primavera
Alla grondaia sono arrivate le rondini e rattoppano i buchi dei vecchi nidi; volano, volano ancora portandosi intorno un riflesso del gran mare che hanno attraversato. Sui ramicelli più nuovi della macchia si posano i pettirossi, attillati e svelti, l’occhio attento ad esplorare l’orto. Anche i bruchi li hanno visti e si rannicchiano dentro i gonfi cavoli; sarebbe triste davvero farsi sciupare la farfalla! Per tutta la valle scende un vento fresco, non freddo, e spazza, spolvera, scioglie gli ultimi nodi dell’inverno, porta al sole il fumo dei camini, il suono delle campane, le prime libere canzoni. (G. Fanciulli)

Primavera nei campi
Dopo il letargo invernale, la campagna sembra sorridere al contadino, ravvivargli nel cuore la santa speranza dei racconti e invitarlo al lavoro. Nel cielo ci sono nuvoloni chiari che si accavallano; un’acquata breve e improvvisa fa trotterellare gli agnellini verso le loro mamme, e sembra rendere più acuto l’odore delle erbe. Sboccia un garofano sul davanzale della massaia; appare timidamente il biancore del biancospino e si avverte veramente il profumo delle viole mammole. (L. Rinaldi)

Rifluisce la vita
Il giovane bosco era ancora quasi spoglio, come d’inverno. Solo nei cerei germogli, di cui era fittamente costellato, c’era qualcosa di superfluo, di insolito, una gromma o un gonfiore: questo superfluo, questa novità, questa gromma erano la vita che abbracciava già alcuni alberi con la verde fiamma del fogliame.
(B. Pasternak, da “Il dottor Zivago”)

La primavera
La primavera toccò i rami dei peschi e dei mandorli e disse lietamente; “Su, svegliatevi! Che cosa fate? E’ ora!”. E quelli, obbedienti, schiusero le gemme, si coprirono di fiori, e furono molto belli. Anche le violette si destarono, sbocciando al tocco leggero della primavera e così le pratoline fra l’erba dei prati e il biancospino sulla siepe.

Le violette
Per i campi si sparse un odore soave e leggero. Erano sbocciate le violette e tutti furono contenti. Gli uccelli, vedendole, cinguettarono festosi e le nuvolette bianche chiesero al vento che non le portasse via subito. Volevano sentire anch’esse quel gentile profumo.

La bella stagione
Un bel giorno il cielo diventa azzurro, di un azzurro delicato con qualche nuvoletta bianca vagante qua e là. E gli alberi, che sembravano tutti secchi, stecchiti, improvvisamente si mettono a fiorire. E pare impossibile che da quei rami, duri e ruvidi, siano potuti venire certi fiori così lievi.

Le lucertole
Le lucertole, riscaldate dal sole tiepido, escono dai buchi dove sono state in letargo per tutto l’inverno e si fermano al calduccio, guardando qua e là con gli occhietti vispi. Sono alla caccia di un insetto. Hanno tanto dormito che ora vorrebbero proprio saziarsi di qualche insettuccio incauto, che arrivi alla portata della loro lingua.

Le pratoline
E’ primavera: i campi sono tutti verdi; è l’erbetta nuova che cresce. Fra l’erba sbocciano le pratoline. Si aprono al primo raggio di sole, ma se il sole scompare, velato da una nuvola, o se scende dietro l’orizzonte, le pratoline chiudono i petali e si addormentano. Si schiuderanno al nuovo sole.

Primavera
Quando viene primavera, tutta la terra si schiude al dolce calore.Gli alberi mettono le gemme; fra l’erba sbocciano le pratoline, il cielo si fa chiaro e l’aria mite. I giorni sono più lunghi e tutto è allegria.

Primavera
Il torrente sussultava in fondo alla valle, fra i peschi e i mandorli fioriti. E tutto era puro, giovane, fresco, sotto la luce argentea di quel gran cielo mite, sul cui orizzonte i profili morbidi dei monti, ancora coperti di neve, si stendevano come file di colombi addormentati. (G. Deledda)

Primavera
Al torrente è arrivata tanta acqua dai nevai che si sfanno, e la sua voce canta più alta fra i ciottoli, parla più tenera fra i salici… Per tutta la valle scende un vento fresco, non freddo; scioglie gli ultimi nodi dell’inverno, porta il fumo dei camini, il suono delle campane e le prime libere canzoni. (G. Fanciulli)

Primavera
Le mammole riaprono, dal lungo sonno, i begli occhi azzurri, il pesco si è tutto magnificamente coperto di fiori che brillano al nuovo sole come gemme cristalline. Le margherite, silenziose e tranquille, tremolano al tiepido sole. (E. Nencioni)

Primavera
L’aria si è addolcita. La pioggia non è più gelida. S’è fatta quasi tiepida. All’alito della primavera, le piante, che hanno dormito per tutto l’inverno, si ridestano. Le loro radici si allungano nella terra umida. Succhiano e fanno salire nuovi umori lungo i fusti e i tronchi. (P. Bargellini)

Il vento
Il vento di primavera è capriccioso: ora è uno zeffiro leggero che fa dondolare i fiori e frusciare dolcemente gli alberi. Talvolta invece, è un vento strapazzone, che sbatacchia porte e finestre, strappa i petali dei fiori e trascina le nuvole in un pazzo galoppo.

Il vento
Il vento tira violento, ulula fra i monti, fischia tra i rami degli alberi, strappa i fiori, urla, penetrando nelle case e porta le nuvole qua e là in un pazzo galoppo. Ma se diventa gentile, fa frusciare i rami degli alberi, accarezza i fiori e porta, con grazia, le nuvolette qua e là nel cielo.

I neri e grossi alberi dalle braccia minuscole e rudi, paiono spruzzati da una brina di smeraldi e di perle. Sotto l’arido muschio delle vecchie pietre grige, nel bosco, le mammole riaprono, dal lungo sonno, i begli occhi azzurri. Il mandorlo si è tutto magnificamente coperto di fiori biancorosei che brillano al nuovo sole come gemme cristalline e fragranti. (E. Nencioni)

Il pesco si è tutto magnificamente coperto di fiori biancorosei, che brillano al nuovo sole come gemme cristalline e fragranti. Le margherite, silenziose e tranquille, tremolano al tiepido vento, La giunchiglia piega sul gracile stelo il velato suo calice. Persino sulle lande più petrose e deserte, qualche fiore solitario apre le sue tre o quattro foglioline soffuse di un pallido rosa, o venate di tenui righe violacee. (E. Nencioni)

Addio, giorni brevi e tristi, cieli grigi, pesanti. Addio fredde e tenebrose piogge monotone, nebbie e ghiacci crudeli… Il fremito giovanile della vita è corso su tutta la terra… Un alito spira lieto dalle umide colline, velate dai vapori argentei e leggeri. Bianche e soffici nuvole aleggiano per l’immacolato turchino del cielo. (E. Nencioni)

Mentre le gemme si fanno turgide e i fiori sbocciano, gli insetti, come avvertiti da questo mirabile risveglio della terra, escono dalle loro uova, dai bozzoli, dalla terra e si spandono per i campi, per i prati e per i boschi. Gli uccelli si riuniscono a coppie e preparano il nido. Molti ritornano dalle zone più calde. Le vacche e le pecore escono dalle stalle e tornano sui prati coperti di tenera erbetta. (L. Vaccari)

Ieri gli alberi erano nudi, neri, rigidi: d’un tratto in vetta, al ramo più alto brillò una fogliolina ancora accartocciata, colore di chiaro bronzo, e un poco si aprì all’aria solatia che si addolciva nel presentimento delle viole. Subito su ogni ramo s’inturgidirono mille e mille gemme, si schiusero e vestirono platani e ippocastani di una peluria di un verde roseo che inteneriva a guardarla. (V. Brocchi)

Nell’inverno, il sole è in basso, i suoi raggi obliqui non penetrano nella terra, nulla si muove allora. Ma appena comincia ad elevarsi al di sopra di noi e con le sue frecce riscalda la terra, tutto nel mondo si riscalda e si mette in movimento. La neve scompare, il ghiaccio si scioglie nei ruscelli, le acque precipitano dalle montagne e con l’elevarsi dei vapori dall’acqua, in forma di nubi, comincerò a piovere. (L. Tolstoj)

C’è uno stepito gioioso intorno all’albero d’aranci mentre le api abbracciano i fiori e s’inebriano di dolcezza. Ognuna ha da portare all’alveare, prima dell’imbrunire, un carico di nettare che è forse dieci volte il proprio peso. E’ stato calcolato che mezzo chilo di miele richiede trentasette mila viaggi di andata e ritorno dall’alveare ai fiori. (D. Culross Peattie)

Basta un fiore sbocciato sul davanzale della finestra, il volo di una rondine nel breve spazio del cielo verso cui alziamo gli occhi, un raggio lucente e caldo che ci raggiunga al nostro tavolo di lavoro, per dirci che è primavera. Ma forse non c’è bisogno di nulla se ascoltiamo dentro di noi il desiderio di essere buoni e gentili con tutti, la voglia improvvisa di ridere e di cantare. Il piacere di rimanere con gli occhi rivolti verso il cielo inseguendo con il pensiero un sogno. Allora la primavera è in noi. (G. G. Moroni)

Le sementi, disgelandosi, manderanno fuori i loro germogli; questi ingrosseranno nella terra; dalle vecchie radici verranno fuori germogli nuovi, e gli alberi e le erbe cominceranno a crescere. Gli orsi, le talpe usciranno dal loro torpore; le mosche e le api si sveglieranno; le zanzare nasceranno e le uova dei pesci si schiuderanno. L’aria scadandosi, si innalzerà, al suo posto verrà l’aria fredda e il vento soffierà. Le nubi saliranno… Chi farà tutto questo? Il sole. (L. Tolstoj)

La siepe era tutti spini, sembrava imbronciata. Non sta bene avere il broncio, quando tutti sono contenti. Ieri il vento deve averglielo detto: le è passato vicino dicendo: sss… sss… sss… Penso che le abbia detto: “Su, ridi, e vestiti a festa anche tu”. E questa mattina è vestita di bianco e di verde, che è una bellezza. Le spine non si vedono più; sono tutte ricoperte dai fiori bianchi. (Colombo)

Ritorno all’aperto
Eravamo usciti di febbraio due o tre giorni appena, quando il tempo, fino allora grigio e sudicio, si schiarì per un bel vento tiepido, che sembrava sopravvenuta la primavera. Ed io ottenni, se Dio vuole, di precipitarmi fuori di casa.
Che felicità quei primi giorni!
Respiravo l’aria libera come si beve sopo una gran sete; ritrovavo, come scoperte allora allora, le strade, le case, le campagne, la gente: cose tutte piene d’un valore fantastico; somiglianti, sì, ad una vaga immagine che ne avevo in mente, ma mille volte più belle e felici. I butti d’acqua che venivan giù dalle rocce delle fontane, bisognava per forza che li toccassi, tanto mi sembravano incredibili.
E il sole! Quel bel sole d’oro, biondo, morbido, buono come se mi conoscesse personalmente, non mi bastava vederlo luccicare sulle cortecce violette degli alberi, nè pure di sentirmelo sul dorso delle mani, che gli stendevo.
Bisognava guazzare in quel sole.
(F. Chiesa, da “Tempo di marzo”)

Giorni di fine inverno
Finisce l’inverno, lungo le rive dei fossi si aprono i primi fiori e sui pendii dei colli altri, di colori più intensi, azzurri o gialli. Sulle cime dei monti gli ultimi filoni di neve sfumano in nere nubi. Il verde del frumento si accresce, ed altri campi si fanno gialli di ravizzone. Biancheggiano i susini, i peri, alterni al rosa dei peschi. Le galline hanno un canto diverso, appare la prima farfalla, e gli uccelli cantano fra gli alberi che ancora non danno ombre. Finisce l’inverno, si entra in primavera, certi anni il trapasso viene come velato da un lungo periodo di piogge, si aprono le foglie, fioriscono i frutteti e la terra sotto la pioggia, ritorna il sole e sui rami si scopre la frutta già segnata senza esserci accorti dei fiori.
(G. Comisso, da “La favorita”)

Presagi di primavera sui monti
A volte pare impossibile che la montagna si liberi ancora dell’inverno, eppure sta scritto che se ne libererà. Non grazie alle deboli forze umane, costrette, qui, come altrove, ad assistere, ad accettare; ma grazie ad una forza divina, che scende fino a noi con le fiamme del sole.
Non si libererà come la pianura, ma in tutt’altro modo. In pianura la neve se ne va un poco ogni giorno, come è venuta, silenziosamente. Anche qui molte cose accadono senza rumore: sopra e sotto la terra, nei pianori più riposati, nei grembi concavi, negli angoli riparati e inclinati leggermente. Ma altre si svolgono addirittura con fragore. Non sempre la montagna è il regno del silenzio. Già ben sonoro è il primo risvegliarsi della meravigliosa forza celeste. Un bel mattino, e pare ancora pienissimo inverno, il rivestimento di ghiaccio su per le pareti e le cime non tiene, non aderisce più: tende all’infuori, scricchiola, si stacca, piomba giù per cinquanta, per cento metri, con rombi e rimbombi di tuono.
Ora gli uomini hanno capito. La primavera tornerà, spunteranno presto i bucaneve, i suoi crochi bianchi e turchini, innumerevoli, nei prati.
(G. Zoppi, da “Dove nascono i fiumi”)

Illusione di primavera
Già nell’aria correva un respiro di primavera, sebbene alberi e siepi non dessero ancora segno di vita: la terra nera del giardinetto si rivestiva soltanto sulle cornici delle aiuole d’una lanuggine verde; ma il sole pareva più nitido e, non disturbato da nessuna frasca, proiettava più nere e precise le ombre dei pali, dei pergolati e delle persone.
(E. De Marchi, da “Ragazzi”)

Tramonto di marzo
Il sole, sembrava, scendendo fra le nebbie, una palla di rame che scomparisse in mezzo alla cenere. Ma eccolo che ritorna.
E’ un intenso color di rosa, che dal lontano occidente sale e si dilata sino a impregnare di sè gran parte del cielo. Le masse degli alberi, rese spaziate e leggere dalla nudità dei rami, si disegnano in trine leggere e trafori, delicatissime, sugli accesi riflessi degli sfondi. Il ghiaccio delle lance s’imporpora, rifrange splendori di rubini. I tronchi dei pioppi e dei salici si animano di una profonda tinta violastra. Salici di fiume, dal ceppo basso, nocchieruto, dalle grosse teste scarmigliate e irte; pioppi alti e sottili, incorporei come ombre; terra d’inverno, più vasta, perchè più spoglia, più libera perchè placata.
Ma già l’aria s’è fatta d’un grigio azzurrognolo d’ortensia; il rosso è tutto nell’acqua. Si spostano i riflessi, si spezzano le armonie: qualcosa ha da morire, e si dibatte contro la fine, pur sapendo che ha da rinascere. Qualcosa di infinitamente piccolo, d’infinitamente grande: il giorno.
(A. Negri, da “Di giorno in giorno”)

Primavera
Appena un lontano mandorlo caccia la sua fioritura, la timida nota diventa gorgheggio ed il volo saltellante di siepe in siepe di fa volo lungo e disteso di giardino in giardino. Giunge, intanto, la capinera. Seguono i richiami squillanti del merlo e del fringuello in armonia con lo squillare dappertutto dei colori.

La primavera va dal 21 marzo al 22 giugno, data da cui avrà inizio una nuova stagione, l’estate. L’arrivo della primavera si rivela, innanzi tutto, nelle mutate condizioni del clima, del cielo, della vegetazione. Il clima è più tiepido; perchè? La terra gira intorno al sole, impiegando in questo giro poco più di 365 giorni. Poichè durante questo movimento di rivoluzione la terra cambia la sua posizione rispetto al sole, ecco che cambiano anche le condizioni di riscaldamento e di illuminazione nelle varie zone della superficie terrestre.

La primavera attraverso il tatto
Sulla nostra pelle sentiamo il tepore dei raggi di sole, il vento non più gelato, ma prevalentemente tiepido, anche se qualche volta diventa violento e furioso. Sentiamo il velluto della gemma, la morbidezza dei petali del fiore, la scabrosità del tronco dell’albero che lascia cadere la vecchia corteccia, la flessuosità morbida dell’erba dei prati.

La primavera attraverso l’udito
La pioggia non è più la pioggia gelida e sferzante dell’inverno. E’ una pioggerella leggera che fruscia, che mormora. Nel suo rumore leggero sentiamo poi il canto degli uccelli: sono i primi ad annunciare l’arrivo della bella stagione. Oltre al canto degli uccelli, ecco il ronzio degli insetti che si sono svegliati dal loro sonno invernale durante il quale, spesso, hanno compiuto una metamorfosi che li ha resi perfetti, forniti di ali che, talvolta, come nel caso delle farfalle, hanno smaglianti colori.
Ascoltiamo anche il fruscio delle chiome degli alberi dove il vento di primavera suscita mille suoni. Il vento è un po’ la voce di marzo. Infine, a causa dello scioglimento delle nevi, i ruscelli fanno sentire il loro mormorio, i torrenti scrosciano, le fontane hanno una voce più sonora.

La primavera attraverso la vista
Prima di tutto osserviamo il cielo nei vari momenti della giornata: il chiarore madreperlaceo della prima luce, il roseo dell’aurora, il celeste delicato delle ore di sole, il rosso del tramonto. Notiamo poi le forme, i colori dei fiori, scopriamone le gradazioni; ammiriamo le variopinte ali delle farfalle, il verde smaltato della nuova erbetta, le sfumature delle chiome degli alberi.

La primavera attraverso il gusto
Si può assaggiare la primavera? Certo! E’ vero che in estate avremo il sapore dei frutti, ma in questa stagione possiamo sperimentare il sapore acidulo dell’erba nuova, e il dolce di un fiore. Soprattutto nei fiori degli alberi da frutto, c’è una gocciolina di nettare e ben lo sanno gli insetti che non se la lasciano sfuggire.

La primavera attraverso l’odorato
Possiamo percepire il profumo delicato della violetta, ma più in generale quello prepotente della primavera con la sua vastissima gamma di odori.

Il freddo era finito, soffiavano venti gagliardi, ma l’erba non cresceva sulle prode, nè i fiori, nè le viole. Nulla cambiava nel paesaggio: le argille si stendevano grigie tutto attorno, come sempre; qualcosa mancava, la vita stessa dell’anno e il senso di questa mancanza riempiva il cuore di tristezza. Col tempo migliore, le vie del paese erano tornate deserte: gli uomini erano tutto il giorno lontani, nei campi invisibili. I ragazzi sguazzavano, con le capre, nelle pozzanghere e dalle case giungevano alterne le voci delle donne.
Carlo Levi

La primavera comincia il 21 marzo e termina il 20 giugno. La giornate si allungano sempre di più e un tiepido sole riscalda la terra. Non c’è bisogno di indossare i pesanti abiti invernali, di tenere ben chiuse porte e finestre, di riscaldare la nostra casa: non fa più freddo…
E’ come aprire gli occhi dopo un lungo sonno e, come per incanto, come per incanto, vedere una natura nuova: sui monti la neve ha cominciato a sciogliersi e i torrenti sono gonfi e luccicanti; prati, boschi e giardini ricominciano a verdeggiare e alcuni fiori fanno capolino tra le vecchie foglie.
Gli alberi si rivestono di bottoncini verdi. Osserva questi bottoncini: essi danno piccole foglie di un verde intenso, le prime foglie nuove della primavera.
Nei giardini e nei frutteti i peschi e i ciliegi si coprono di fiori rosati e bianchi che il miracolo della natura trasforma in saporiti frutti. Di tanto in tanto una fitta pioggerellina va a ristorare le nuove pianticelle, assetate di vita. E’ una pioggerellina fine fine, lieve lievi, e le sue goccioline cadendo, rimbalzano qua e là, sugli esili fili d’erba, sulle tenere foglioline e le timide corolle dei fiori, diffondendo tutto intorno la musica della primavera.
A volte scoppiano gravi temporali che incupiscono per un attimo il limpido azzurro del cielo; ma non fanno paura e i tuoni sembrano brontolii di un gigante buono. Ritornano le rondini: dopo lunghi, estenuanti voli, riprendono possesso dei vecchi nidi. E se il nido è rotto o se le intemperie l’hanno rovinato o distrutto, le rondini non si perdono di animo: puoi vederle allora volare instancabili in cerca di terra fine, di pagliuzze, di lanuggine e lavorare con impegno alla ricostruzione del nido.
La primavera è una stagione tutta piena di voci, di movimenti, di risvegli.
Il cuculo lancia le sue sillabe gioiose sempre uguale, le galline chiocciano, gli uccelli cantano lieti sui rami; le farfalle, le formiche, i calabroni, i grilli, le api, ad innumerevoli altri insetti animano con i loro voli, i loro colori, i loro canti, il loro industrioso lavoro prati e giardini, mentre la lucertola, il riccio, la marmotta, il ghiro, escono dalle tane dove hanno trascorso, in letargo, il lungo e freddo inverno, per godersi il nuovo sole.
Nei campi un lavoro intenso attende il contadino: le tenere pianticelle di frumento devono essere liberate dalle erbacce che ruberebbero loro il nutrimento e le viti devono essere riassestate e irrorate. E’ tempo di concimazione e di semina; si seminano barbabietole, piselli, lino e canapa; si piantano gli alberelli degli olivi, dei gelsi e le pianticelle di alberi da frutta.

Perchè i fiumi si gonfiano in primavera

Col sopraggiungere della bella stagione, le acque dei fiumi diventano di giorno in giorno più abbondanti. Questo fenomeno è causato dallo scioglimento delle nevi: i vari torrenti che alimentano il fiume si arricchiscono dell’acqua che proviene da ghiacciai e nevai di alta montagna.

I lavori del contadino

Il contadino ritorna sempre più frequentemente nei suoi campi. Il lavoro da fare è tanto. Le tenere pianticelle di frumento devono essere liberate dalle erbe infestanti che ruberebbero loro il nutrimento: è il momento della sarchiatura. Vengono arati i campi che erano stati coltivati a foraggio in inverno e si preparano con concimazioni per la semina di fave, avena o granoturco. E’ tempo di sistemare i tralci delle viti sui fili zincati o su altri sostegni e di provvedere alle prime irrorazioni di sostanze antiparassitarie contro le più comuni malattie della vite (peronospora e oidio).
In primavera si provvede inoltre alla semina delle barbabietole da zucchero e da foraggio,dei piselli, del lino e della canapa.
Nei terreni preparati con scasso durante l’inverno, si piantano gli alberelli degli olivi, dei gelsi e le pianticelle degli alberi da frutta.

Il risveglio

In collina la fioritura è un mare di fragranti ondicelle rosee spumeggianti. I poggi verzicanti sono tondi e morbidi e sui vecchi tralci contorti i primi teneri viticci mettono un manto delicato.
E in pianura negli orti germogliano a perdita d’occhio in filari simmetrici le pallide lattughe e gli ispidi cavolfiori nani e i carciofini d’un verde bigio.
E gli alberi si vestono di gemme e da quelli fruttiferi i petali si staccano per posare in terra un tappeto bianco e rosa. I nuclei dei frutti gonfiano e si colorano: ciliegie e mele, pesche e pere, fichi gelosi che si tengono racchiuso il fiore nel cuore.
Tra i filari l’ortolano rovescia le zolle d’erba primaverile perchè l’erba interrata ingrassi la terra, scava solchi per far affiorare l’acqua e argina i solchetti perchè la trattengano, e dagli argini estirpa le erbacce che potrebbero rubarla alle piante.
Sulla vite i fiori minuti sbocciano il lunghi penduli corimbi. E man mano che la stagione si inoltra, il caldo aumenta e le foglie assumono una tinta più cupa.
Le susine si allungano in forma di uovo, i peruzzi in forma di perla, le pesche mettono la peluria. I fiori della vite schiudono i minuscoli petali e i duri pallini diventano bottoni verdi e i bottoni si fanno pesanti. (J. Steinbeck)

I giardini e i frutteti

Nei giardini e nei frutteti i peschi ed i ciliegi, prima ancora di rivestirsi di foglie o contemporaneamente al formarsi di queste, sbocciano in migliaia di fiori, rosati e bianchi: offrono per primi il nettare dello loro corolle alle api.

Le gemme

Gli alberi a primavera si svegliano e si preparano alla nuova fioritura. Le radici si allungano nella terra in cerca di nutrimento. L’acqua sale su per gli steli, i tronchi, i rami, ed ecco le gemme poste sui rami diventare più grosse.
Esse hanno incominciato a godere i primi tiepidi raggi di sole ed ora le loro piccole squame vischiose si aprono, lasciando intravvedere delle punte grigiastre: sono i sepali che,  come mani amorose, proteggono i bocci fiorali. In seguito le squame si curveranno all’esterno, per lasciare liberi i fiori di crescere, distendersi e ricevere tutta la luce. Intanto, da altre gemme, si libereranno le nuove foglie, dapprima delicate, poi robuste e vivaci.
Dalle gemme apicali, quelle poste sulle punte, usciranno i nuovi rami che daranno all’albero una chioma più abbondante.

Nelle gemme

E’ incredibile quanta roba sia rinchiusa nelle gemme. In quest’astuccio di squame, in uno spazio talora così piccolo, dove noi non sapremmo farci entrare neppure un seme di canapa, si trovano foglie a dozzine e interi grappoli di fiori. Il grappolo nascosto dentro una gemma di lillà possiede più di cento fiori. E tutto trova posto nella stretta valigia, senza che nulla sia lacerato od ucciso. Se si togliessero ad una ad una dal loro posto le diverse parti di una gemma, se si disfacesse la valigia, chi avrebbe l’abilità di rifarla?
Le foglie sono speciali per collocarsi nel minor posto possibile: assumono la forma di cornetti, si arrotolano, si piegano in due per lungo e per largo, si raggomitolano, si pieghettano o si chiudono a ventaglio. Osservate in primavera le gemme prossime a schiudersi: vi potranno insegnare a fare un giorno la vostra valigia!

Sveglia nel bosco

Il tepore di primavera e l’odore dell’erbetta nuova sono giunti fin nelle tane profonde, dove gli animaletti del bosco dormivano il lungo sonno. E i ricci, i tassi, i ghiri, gli scoiattoli si sono risvegliati. Sono usciti magri e affamati, hanno cercato subito il buon cibo fresco e si sono messi a mangiare avidamente.
Lassù tra il verde, seduto sul ramo d’un grosso faggio, un ghiro sta divorando alcune gemme appena schiuse.
Uno scoiattolo sgranocchia una pigna trovata per terra. La tiene agilmente con le zampine anteriori, mentre i denti aguzzi lavorano senza posa.

Nei pascoli alpini

Sui monti non sono ancora giunte le mandrie di mucche e le greggi belanti, eppure i pascoli solitari son già pieni di vita. Dalle tane profonde e foderate di fieno sono uscite le marmotte, dopo il letargo invernale. Il loro mantello bruno – grigio è un po’ sciupato, e lascia vedere il corpo molto dimagrito per il lungo digiuno. Ora corrono a frotte nelle vallette tranquille, mangiando a sazietà, mentre una di loro sta di guardia sopra un sasso. Se appena scorge qualche pericolo, lancia un fischio e tutte spariscono nelle tane.
La pernice, il gallo cedrone, le cornacchie riempiono l’aria di fruscii d’ali. Anche per gli uccelli di montagna è giunto il momento di preparare il nido e di covare.
Di notte, poi, escono numerose le arvicole, i piccoli topi della montagna, e la lepre alpina si aggira timorosa tra i cespugli, alla fioca luce lunare. Rizza le orecchie e annusa spesso l’aria con sospetto. Potrebbe giungere improvvisamente l’ermellino brigante, che azzanna e uccide senza pietà. Potrebbe piombare dal cielo qualche rapace notturno, e chi si salverebbe più dai forti artigli? Per questo occorre essere pronti a fuggire veloci, in ogni istante.
Nella montagna alta, intanto, camosci e stambecchi riposano sicuri negli anfratti, in attesa delle prime luci dell’alba, quando usciranno a brucare l’erba fresca di rugiada.

Tornano gli uccelli migratori

Nelle terre calde dell’Africa settentrionale le rondinelle, tutte chiuse nel loro bell’abito nero e bianco, si preparano a partire per il viaggio di ritorno, ora che è tornata la primavera.
Le rondini voleranno sopra deserti, mari, pianure, montagne. Un istinto meraviglioso le guiderà per migliaia di chilometri, e farà sì che esse riconoscano i nidi che ogni anno le aspettano.
Anche le gru, le anatre e le oche selvatiche, gli stornelli, i chiurli, le cicogne, le allodole, i vanelli e i falchi sono uccelli migratori.
Le gru cinerine, cioè di color cenere, volano formando nel cielo una grande V. Il loro volo è lento e maestoso. Lo sai che possono raggiungere perfino i 9.000 metri di altezza? Potrebbero cioè da sole, con il solo battito delle forti ali, posarsi sulla più alta montagna della Terra.
Le anatre selvatiche invece hanno un volo rapidissimo. Possono compiere in un’ora anche centoventi chilometri, quanti cioè ne fa un’automobile.
Gli storni invece formano in cielo delle grosse nubi nere, poichè volano in gruppi foltissimi e molto serrati.
Mettendo attorno alle zampe di alcuni uccelli migratori degli anellini di alluminio, con le indicazioni del luogo da cui ebbe inizio il volo, si è saputo, per esempio, che le cicogne dei paesi del nord Europa passano l’inverno nell’Africa del sud, dopo aver compiuto un viaggio di ben diecimila chilometri, senza neppure l’aiuto dei punti cardinali.

Come fanno ad orientarsi gli uccelli migratori?

Cose veramente straordinarie sanno fare gli uccelli migratori: si è notato per esempio che la rondine torna non solo nello stesso luogo, ma persino nello stesso nido che ha abbandonato l’anno precedente.
Come fa ad orientarsi in un percorso che è spesso di migliaia di chilometri?
Purtroppo non si è ancora in grado di rispondere con esattezza, e il problema dell’orientamento degli uccelli migratori rimane tuttora uno dei più appassionanti per la scienza moderna.
Si è supposto che gli uccelli sappiano calcolare per istinto l’angolo che la  loro strada deve avere in ogni istante rispetto alla direzione della luce solare.

Proserpina e la primavera

Proserpina era la figlia di Cerere, la buona dea che insegnava agli uomini come si fa a crescere il frumento. Ella aveva il capo coronato di spighe di frumento e portava con sè l’abbondanza e la gioia. Proserpina, sua figlia, era leggiadra e fresca come un fiore.
Un giorno Proserpina si trastullava in un prato con le compagne. Verde era l’erba e quieta l’aria, imbalsamata di profumi. Ad un tratto la terra si aprì accanto a Proserpina. Ne uscì un magnifico carro tirato da neri cavalli, e sul carro sedeva Plutone, che afferrò Proserpina, la rapì e la portò nel suo regno buio e tetro. Egli voleva che Proserpina, gentile e mite, diventasse la regina dell’inferno.
Invano Cerere cercò la sua cara figliola. Come pazza girò tutta la terra. Intanto non aiutava il lavoro degli uomini e trascurava i campi, che attendevano la sua benedizione.
Così i campi inaridivano e non davano più una spiga di frumento. Mancava il pane e la fame rattristava gli uomini.
Quando Cerere seppe che Proserpina era stata rapita da Plutone, supplicò che le fosse resa.
Plutone, allora, raccolse a consiglio tutti gli spiriti dell’inferno. Fu deciso che Proserpina potesse sì ritornare da sua madre, purchè non avesse assaggiato nulla dei cibi dell’inferno.
Per fortuna Proserpina, che era desolata di essere lontana da Cerere e di non rivedere la dolce terra bella di fiori, non aveva voluto mai toccar cibo. Solo, avendo visto delle bellissime melegrane rosse, ne aveva colto una.
“Allora” disse Plutone, “Proserpina deve rimanere qui!”
“No” dissero gli spiriti dell’inferno, “Proserpina dovrà stare quaggiù per tre mesi all’anno: e ne trascorrerà nove con la madre”.
E così fu fatto.
Ed ogni primavera, Proserpina, fresca e gentile, ricompare sulla terra; e il suo ritorno segna il primo germogliare del tenero frumento, il primo sbocciare dei fiorellini profumati. (E. G. Camillucci)

La primavera

Spunta da ogni dove, tra il verde del prato bucato dalle primule e dalle margheritine, all’angolo delle case dove sta il vecchio fico, nei bottoni dei cespugli, sui pennacchi nudi delle piante che si punteggiano di gonfie protuberanze, sotto i nostri stessi piedi, nell’aria che accarezza i nostri volti e rinfresca i nostri pensieri. Tutto intorno a noi pare voglia innalzarsi e volare: tutto tende all’alto,  e gli stessi uccelli sfrecciano più rapidi, e le prime rondini scivolano a larghe volate, che pare non abbiano mai a finire. Un profumo sottile e grato è nell’aria; un colore nuovo, che rinnova perfino le facciate delle case, i boschi e le valli.

Incanto della primavera

La primavera apre le grandi porte del cielo al sole, alla gioia, a tutte le cose belle. Le porte spalancate sono le nubi, che vanno sempre più lontane, diventano più lievi. Sulla terra, tutto si risveglia, tutto sorride, tutto canta, tutto si tinge di meravigliosi colori. Anche nel cuore delle persone più infelici rinasce la gioia, la letizia. Nel cuore dei bambini, nei loro volti, nei loro giochi sono già comparsi allegria ed esultanza.

Primavera nella valle

Il sole brillava, ma più ancora brillava il verde della vallata perchè ogni filo d’erba rifletteva la luce, e tutti i prati erano pieni d’oro e di verde, e macchie gialle, rosse e azzurre facevano capolino dalle siepi, dove i fiori si davano un gran daffare per le api. I mandorli e i biancospini erano fioriti, e più in basso i meli primaticci venivano su splendidi, in quattro file ben ordinate dietro la fattoria.
La mandria di mucche nere era tutta nel fiume immersa fino al ventre nell’acqua fresca e tranquilla; e le code mandavano spruzzi bianchi, ricadendo nell’acqua dopo aver scacciato le mosche; e più in su, le pecore non alzavano un momento il muso dall’erba tenera. Quando il vento riprendeva fiato, si sentivano brucare. (R. Llewellyn)

Nel mondo degli animali
Riprende la piena attività di molti animali in terra, nel mare, nei fiumi e nei laghi. Degli animali terrestri, il cervo perde le corna e si isola, le talpe sono in attività febbrili, le volpi cominciano ad uscire dalla tana.
Fra gli uccelli tornano le beccacce, gli storni e i colombi selvatici; le pernici volano a coppie; il merlo gira intorno alle macchie; l’allodola comincia a far udire il suo canto. Si possono vedere in volo anitre, cicogne, corvi e cornacchie. (D. Forina)

Dettati ortografici LA PRIMAVERA – Tutte le opere contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.

Acquarello steineriano – L’albero in primavera

Acquarello steineriano – L’albero in primavera: una proposta di lavoro sul tema “l’albero in primavera”. L’esperienza procede rispettando una data sequenza di azioni, che porta il bambino a riflettere sulla condizione dell’albero in questa stagione.

Molto importante è non presentare ai bambini lavori già fatti: vi accorgerete così che proprio chiedendo ai bambini di rispettare una certa sequenza, verrà fuori la personalità di ognuno di loro, e non potranno esserci due alberi uguali, o due verdi uguali, o due marroni uguali ecc…

Acquarello steineriano – L’albero in primavera
Materiale occorrente:

acquarelli di qualsiasi marca in tubetto o flaconcino (non in pastiglia) nei colori:

giallo limone,

giallo oro,

blu di Prussia

I colori vanno diluiti nei vasetti, in modo che il colore risulti non denso e non carico: diciamo una diluizione abbastanza decisa.

Un pennello a punta piatta largo e con setole di qualsiasi genere, purchè morbide (altrimenti il bambino rischia di graffiare il foglio e noi rischiamo che l’esperienza non venga vissuta come un pieno successo)

una bacinella e un vasetto d’acqua

una spugna che servirà per stendere bene il foglio bagnato sul tavolo, e poi per asciugare il pennello (molto meglio degli straccetti o della carta)

un foglio di carta robusta, meglio se da acquarello (le carte scadenti bagnate possono fare i “pallini”)

Acquarello steineriano – L’albero in primavera
preparazione

Immergere il foglio nella bacinella, quindi stenderlo con cura sul tavolo con l’aiuto della spugna. Bisogna evitare che si formino bolle d’aria, perchè altrimenti la carta rischia di arricciarsi.

poi si dispone il materiale, se volete così è il modo migliore per evitare incidenti:

Acquarello steineriano – L’albero in primavera
Lezione

Al bambino possiamo dire che stiamo dipingendo un albero in primavera prima di iniziare, oppure possiamo semplicemente dire che faremo una “pittura” e sarà lui a scoprirlo facendo.

Per prima cosa realizziamo portiamo su tutto il foglio una bella luce leggera, tiepida e allegra, col giallo limone. La luce scende dall’alto verso il basso, ma gioca sul foglio saltellando qua e là.

intensifichiamo il giallo in basso, di modo che poi con poco blu di prussia otterremo un bel verde giovane, nel quale piantare il seme del nostro albero (rosso carminio)

A partire da questo seme, senza lavare il pennello o prendere altro colore, far scendere le radici verso il basso e il primo abbozzo di tronco verso l’alto.

E’ molto importante non lavare mai il pennello, e non prendere altro rosso: si usa solo il rosso del seme, che si mescola agli altri colori sul foglio.

Il seme nella terra incontra calore, luce e acqua, e così si apre: una parte va verso il basso (le radici), quindi si mette il pennello sul seme e si scende, sempre staccando e senza mai tornare indietro; una parte comincia ad andare verso l’alto (sempre dal seme in su, senza tornare indietro). Naturalmente mescolandosi rosso blu e giallo si forma il marrone, e non ci saranno due marroni uguali…

Ora possiamo sviluppare l’albero, utilizzando alternativamente rosso carminio, giallo oro e limone e blu di prussia, prendendoli dalle ciotoline quando serve.

Infine lavare benissimo il pennello e con giallo e blu di Prussia molto diluito, creare una bellissima chioma

Acquarello steineriano – L’albero in primavera

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Dettati ortografici MARZO

Dettati ortografici MARZO – Una collezione di dettati ortografici di vari autori sul mese di marzo, per la scuola primaria, adatti alle classi dalla prima alla quinta.

Sui rami si gonfiano le gemme; tornano gli uccelli migratori. Il sole sorge più presto e tramonta più tardi; a qualche giornata ancora fredda si alternano giornate tiepide e assolate. Il contadino teme la grandine che può mettere in pericolo i raccolti e le fioriture delle piante da frutto che in questo mese si riempiono di corolle delicate.
Marzo era il primo mese del calendario romano ed era consacrato a Marte, dio della guerra, da cui prese il nome.

Marzo comincia. Il suo nome viene da Marte, l’antico e sempre minaccioso dio della guerra. Come uscendo dal letargo invernale, il pagano guerriero, proprio in questo mese, si accingeva a percorrere la terra. Per gli antichi, la guerra era un’avventura primaverile. Si attendeva marzo, il mese dedicato al dio bellicoso, per dar fiato ai corni e muovere gli eserciti che invadevano i campi come le acque del disgelo. (P. Bargellini)

Marzo. Il cielo di marzo è mutevole; qualche giorno è di un gentile azzurro con nuvolette bianche e morbide, qualche giorno è tempestoso e freddo come se l’inverno volesse tornare indietro.

Il vento. Spesso soffia forte, sbatacchia finestre e porte, scuote violentemente i rami degli alberi e sfoglia i fiori delicati del mandorlo e del pesco. Ma qualche volta è gentile come una carezza.

Primi fiori.  Nei prati sbocciano le pratoline bianche orlate di rosso, tra l’erba si nasconde la violetta, sui rami dei mandorli e dei peschi c’è tutta una fioritura di stelle bianche e rosa.

Primavera. E’ primavera. Il cielo è dolcemente azzurro, il vento tiepido, gli alberi sono fioriti, gli uccellini cinguettano preparando il nido per i piccini che verranno.

E’ ora. Una violettta si affacciò e chiese: “E’ ora?”. Una margheritina aprì il suo collettino bianco, orlato di rosso, e domandò: “E’ ora?”. Una farfalla picchiò alla porta della sua prigione e disse: “E’ ora?”. “Avanti, avanti!” esclamò allegramente un bel raggio di sole.

Marzo. E’ un mese pezzerello, ora ride e ora piange. Ecco il sole che splende nel cielo sgombro di nubi; subito dopo il tempo s’imbroncia e giù acqua a catinelle!

Primi tepori. La campagna è ancora spoglia, pure a guardare bene i rami, si possono vedere le gemme avvolte nella loro peluria, ma pronte a dischiudersi ai raggi tiepido del sole.

Marzo. Fra le zolle di terra ecco i fili d’erba affacciarsi timidamente e nell’aria c’è un leggero odore di fiori non ancora sbocciati, ma che presto si schiuderanno al dolce vento di primavera.

Marzo. Non bisogna voler male a questo mese pazzerello: basta un giorno di sole ed ecco i mandorli fioriti miracolosamente ecco le violette che odorano fra l’erba, ecco le pratoline che riempiranno i prati di stelle.

Marzo. Marzo è pazzo. Ora piove, ora c’è il sole. Via le nuvole ed ecco l’azzurro; via l’azzurro ed ecco le nuvole. Marzo è un mese pazzerello; ora ride e ora piange.

Marzo è il mese dei venti e delle piogge. I giorni continuano ad allungarsi; la temperatura aumenta; si hanno, però, frequenti burrasche. I campi e i prati si fanno verdi e cominciano a coprirsi di fiori. Fioriscono gli anemoni, le primaverine, le pervinche e soprattutto i pioppi e, in genere, tutte le piante amiche del vento. Fanno pompa dei loro fiori i mandorli, i ciliegi, i susini. Nelle siepi compaiono i candidi fiori dei prugnoli e dei biancospini. (L. Vaccari)

Il tiepido vento si marzo giocava a cacciare, con furia scherzosa, le nuvole chiare. Le arruffava, le scapigliava, le lacerava a frange, a cirri, le fugava dai colli, le inseguiva, le disperdeva e trascorreva lontano. Ma subito dopo ritornava col suo lungo ululo festoso; s’aggirava per il cielo mulinando nel sole gli ultimi fiocchi di nubi. (V. Brocchi)

Il vento di marzo si aggirava per il cielo mulinando nel sole gli ultimi fiocchi di nubi, li sbandava, scuoteva gli alberi sui colli, rapiva petali di fiori novelli, godeva di farli sperdere nella limpidezza dell’aria; li lasciava piovere sulle piazze e sulle vie, metteva un tintinnio a tutti i vetri. (V. Brocchi)

A marzo guardati attorno. Osserva il ramo di un albero: vedrai tanti piccoli bottoni verdi, ancora accartocciati, stretti stretti. Sono le gemme che aspettano un’ora di tepore per aprirsi. Da quelle gemme verranno le foglioline verdi e tenere, verranno i fiori gentili del mandorlo e del pesco. Guarda sul prato. Vedrai l’erba che, improvvisamente, è spuntata ed ha ricoperto la terra con un morbido tappeto verde. Le siepi, già brulle e spoglie, si coprono, da un giorno con l’altro, di una fioritura candida e fitta. E’ il biancospino che ha fretta, che vuol fiorire, che dice: “Primavera è qui che viene”.

Marzo era un fantasticone, bizzarro, che pareva fatto apposta per far impazzire la gente. Bello e gagliardo, con gli occhi azzurri, che qualche volta si oscuravano per un repentino corruccio, capelli a ciocchette del color della viola, era sempre con le gambe in aria a correre, a far dispetti, a gridare per il cielo come un indemoniato, scagliando acqua e qualche volta anche grandine, sui fiori e sugli alberi spaventati, (F. Perri)

Terzo mese dell’anno, primo della primavera, fu il primo mese dell’anno fino a Numa Pompilio che premise il gennaio e il febbraio. Era dedicato a Marte che, forse, in origine era dio della vegetazione primaverile, ma ben presto, fu considerato dio della guerra. Il sole entra nell’Ariete. Marzo è, qualche volta, ventoso e freddo, ma cominciano le belle giornate di primavera, i fiori sbocciano e le erbette smaltano i prati.

Era il marzo temperato e sereno, coi primi fiori degli alberi da frutto e delle siepi di biancospino. Le prode stellate di margheritine e di primule, sapevano di violette nascoste fra i cespi dell’erba; il grano era tenero sul campo. Bello era il mondo nella bella giornata del mese bellissimo; l’allodola, perduta in canto ed in luce nell’alto del cielo, s’incantava lassù, nel mentre gli uccelletti di minor volo cinguettavano d’ogni parte il loro canto contento più umile. (R. Bacchelli)

Verso la metà di marzo, il cielo era turchino; un vento tiepido attraversava la foresta e arrivava alle case. La neve si scioglieva; larghi spacchi vi si formavano, subito riempiti di acqua bruna, e, per la china, cento improvvisi ruscelli scorrevano. Dalle potenti spalle degli abeti cadevano larghi drappi bianchi. Ovunque era fruscio, mormorio d’acqua. (G. Fanciulli)

Marzo è matto. Ormai si è fatto questo nome, chi glielo leva più? Eppure, vorrei vedere un altro al posto suo, così a cavalcioni tra inverno ed estate, fra caldo e freddo e, da una parte, lo tira il vento di febbraio, dall’altra, il cielo d’aprile gli fa l’occhiolino. C’è ancora il gelo nei crepacci della montagna e già nei prati, le violette hanno fretta di venir su. E quel povero marzo corre di qui, di là, aiuta le gemme a schiudersi, spazza il cielo dalle nuvole, si dà da fare da tutte le parti… Si capisce che qualche volta, gli vengono le bizze e fa il matto. Troppe esigenze per questo povero mese! E l’umore cambia.

Il malumore di marzo dura poco, ed eccolo ridere fra le lacrime, eccolo fare una smorfia buffa e saltabeccare fra i prati di nuovo tutti in fiore. Poi, appena vede una rondine, si quieta. E sta a guardarla che guizza per l’aria, veloce come una freccia e dice: “Mi par di riconoscerla. Dev’essere quella dell’altro anno”. E la rondine grida che sì sì, è lei e dice trovato a marzo e a tutte le cose.

Marzo è matto. Un giorno ride pazzamente e si sente allegro come un fringuello; allora è tutta una meraviglia: peschi fioriti, viole sbocciate, cielo sereno, venticelli scherzosi e tiepidi… Ma poi marzo si stanca e arriva il malumore. E allora son dolori: venti strapazzoni che spogliano quei poveri rami di pesco, pioggia a dirotto e tutti si rintanano in casa dicendo: “E’ tornato l’inverno!”.

Il cielo di marzo
Il cielo di marzo è mutevole. Qualche volta manda la pioggia e persino un po’ di nevischio, ma spesso è azzurrino, quasi trasparente, con nuvole leggere, ben diverse da quelle compatte e bigie dell’inverno. Il sole è ormai tiepido e al suo dolce calore, si schiudono i primi fiori.

Il mese del risveglio
Marzo è il mese della primavera, quando tutto si risveglia, piante e animali e perchè no? L’uomo. Infatti, anche l’uomo, con l’arrivo della bella stagione, sente rinnovate le sue energie, ha desiderio di camminare, di sgranchirsi le gambe tenute troppo tempo a impigrirsi nel chiuso, di buttar via gli indumenti pesanti, di guardarsi attorno e godere di quanto la natura gli offre in questo ridestarsi del creato.

Marzo, il cui nome deriva da Marte, il dio a cui i Romani lo avevano dedicato, fu il primo mese dell’anno romano fino all’anno 601 dalla fondazione di Roma. Nel nostro calendario è il terzo, ma nel calendario astronomico è sempre il primo perchè in questo mese il sole entra nell’Ariete, che è il primo segno dello Zodiaco. Nel plenilunio di marzo si celebra la Pasqua. In questo mese, e precisamente il 21, ha luogo l’equinozio di primavera in cui la notte e il giorno sono di uguale lunghezza.

E’ arrivato marzo e con lui la primavera. E’ un mese un po’ pazzerello, ci porta sole e solicello, vento e venticello, qualche temporale o una pioggerellina che bagna la terra e la sveglia dal suo lungo sonno invernale. Ecco infatti le gemme sui rami degli alberi, i primi mandorli fioriti, le siepi di biancospino piene di stelline bianche e profumate; tra l’erbetta tenera spuntano le margherite col cuore d’oro e le timide violette. Il grano spunta e sembra un morbido tappeto verde.

In marzo, in alcuni paesi, si possono osservare le migrazioni di stormi di uccelli che vengono dai luoghi caldi per recarsi al  nord dove usano fare il nido.  L’uccello migratore delle nostre regioni è principalmente la rondine. Tra l’erba possiamo osservare il brulichio degli insetti che escono dalle loro tane, o che hanno addirittura cambiato aspetto e cominciano a volare, a succhiare, a riprodursi secondo il loro ciclo vitale. Qualche farfalla già vola tra i primi fiori.

Quali sono questi primi fiori? Innanzi tutto le pratoline: bianche, orlate di rosso, sono le più audaci e le più allegre; al primo raggio di sole tiepido, le vediamo sbocciare miracolosamente tra l’erba e si chiudono non appena il sole mette il broncio. Altri fiori dell’acerba primavera: le primule, gli anemoni e la trionfatrice della stagione: la violetta. E’ il simbolo della modestia; è di un bel colore, profumatissima, di una forma graziosa, eppure si cela tra l’erba, non ostenta nè la sua bellezza, nè il suo colore, nè il suo profumo. Soltanto chi la sa cercare la trova e può godere delle sue belle virtù.

I colori di marzo sono il bianco del mandorlo, il rosa del pesco, il viola della violetta, il violaceo dell’anemone, il bianco orlato di rosso della margheritina, il rosso viola della primula, il giallo della giunchiglia. Cogliamo i fiori a volontà, specie i fiori dei prati che sono di tutti e di nessuno, ma attenzione a non troncare i rami fioriti degli alberi, perchè ogni fiore diventerà un frutto. Vi sono frutti commestibili e frutti che non si mangiano, ma ogni fiore diventa frutto. Il fine di ogni fioritura è quello di preparare il seme per dare origine a una nuova pianta. Infatti, dentro ogni frutto, c’è il seme.

Gli uccellini cominciano a cinguettare; prima degli altri, i passeri, i quali cominciano già a pensare al nido. Il passero fa il nido sotto un tegolo, al riparo. Gli altri uccellini lo fanno, in genere, tra i rami degli alberi. Hai mai visto un nido? E’ intrecciato di rametti come se fosse tessuto. Questo meraviglioso lavoro è fatto dagli uccelli col becco e le zampette. Poi la femmina lo imbottisce di lanuggine che trova nei fiori di pioppo, di salice e nel cardo. Ma gli uccelli non si peritano di strappare anche qualche filo a un lembo di stoffa, di afferrare al volo qualche piumetta e qualche fiocco di ovatta. I piccoli devono stare morbidi e caldi.

Non tutti gli uccelli fanno il nido tra i rami degli alberi: ve ne sono alcuni che si accontentano di un crepaccio, di un buco nel muro, alcuni che lo fabbricano con due foglie cucite insieme abilmente con fili d’erba per mezzo del becco, altri, come i rapaci, non fanno che un rozzo groviglio di rami in una anfrattuosità della roccia.

Marzo è matto, dice il proverbio, perchè il cielo è mutevole: qualche giorno è di un gentile azzurro con nuvolette bianche e morbide, qualche giorno tempestoso e freddo come se l’inverno volesse tornare indietro. Il vento spesso soffia forte, sbatacchia le finestre, scuote violentemente i rami degli alberi e sfoglia i delicati fiori del mandorlo e del pesco. Ma anche il vento è necessario perchè rinnova l’aria e la purifica, trasporta il polline da un albero all’altro e passando da un fiore ad un altro della stessa specie, lo trasforma in frutto. Tra i benefici del vento dobbiamo mettere anche quello di portare le nuvole qua e là e di modificare, quindi, il clima, con le piogge che derivano da questo movimento del vapore acqueo. In alcune regioni il vento viene utilizzato per muovere le pale dei mulini e si ha così un’energia che non costa niente.  Quando però il vento assume la forza di un ciclone può arrecare danni gravissimi: svelle da terra interi alberi, fa crollare muri e soprattutto sconvolge il mare causando naufragi e disgrazie.

Dicono che marzo è pazzo; ma che deve fare il poveretto, se è a servizio di due padroni che lo comandano a piacer loro? Se è l’inverno che ordina, marzo deve mandare giù la pioggia e scatenare il vento che strapazza i rami pieni di gemme; se è la primavera che lo chiama a sè, allora ecco che sparge i fiori sui prati, mette in fuga le nuvole, intiepidisce l’aria, invita i bambini all’aperto.

Sereno a volte e limpido come un immenso specchio azzurro, anche il cielo partecipa alla festa della natura. Ma talvolta, all’improvviso, il cielo si oscura e assume il color cinerino dell’autunno: la nuvolaglia nasconde il sole e una pioggia fitta e insistente cade sulla terra. Un broncio di breve durata. Dopo la pioggia il sole torna a splendere più luminoso e più caldo.

Al torrente è arrivata tanta acqua dai nevai che si sfanno, e la sua voce canta più alta fra i ciottoli, parla più tenera fra i salici… Per tutta la valle scende un vento fresco, non freddo; scioglie gli ultimi nodi dell’inverno, porta il fumo dei camini, il suono delle campane e le prime libere canzoni. (G. Fanciulli)

Il torrente sussultava in fondo alla valle, fra i peschi e i mandorli fioriti. E tutto era puro, giovane, fresco, sotto la luce argentea di quel gran cielo mite, sul cui orizzonte i profili morbidi dei monti, ancora coperti di neve, si stendevano come file di colombi addormentati. (G. Deledda)

Quando l’inverno muore lentamente nella primavera, nelle sere di quei bei giorni limpidi, lieti, senza vento, in cui si tengono spalancate per le prime volte le finestre e si portano sulle terrazze i vasi di fiori, le città offrono uno spettacolo gentile e pieno di allegria e di poesia. A passeggiare per le vie, si sente di tratto in tratto nel viso un’ondata d’aria tiepida, odorosa. Di che? Di quali fiori? Di quali erbe? Chi lo sa! Sono profumi indistinti e sconosciuti, che sanno di freschezza, di giovinezza e di vita (E. De Amicis)

Lungo le rive dei fossi si aprono i primi fiori e sui pendii dei colli, altri, di colori più intensi, azzurri o gialli. Sulle cime dei monti gli ultimi filoni di neve sfumano in nere nubi. Il verde del frumento si accresce, ed altri campi, si fanno gialli di ravizzone. Biancheggiano i susini, i peri, alterni al rosa dei peschi. Le galline hanno un canto diverso, appare la prima farfalla, e gli uccelli cantano tra gli alberi che ancora non danno ombre. Finisce l’inverno, si entra in primavera; certi anni il passaggio viene come velato da un lungo periodo di piogge, ritorna il sole e sui rami si scopre la frutta già segnata senza esserci accorti dei fiori. (G. Comisso)

Ora la primavera avanza. La rondine dà la sveglia ai pigri, e la collina si veste da sposa con quei suoi bianchi filari di ciliegi fioriti, che sembrano da lontano lunghi festoni serpeggianti, tesi lungo i pendii per un corteo di angeli. E accanto al bianco dei ciliegi, ecco la meraviglia rosea dei peschi. E’ un succedersi di bianco e di rosa, di superbe macchie vivissime sul verde, ormai deciso, della campagna. E’ questo il momento più bello della primavera, che avanza regalmente con profumi, colori e tepori, con ronzii e cinguettii. Le gemme spuntano, ingrossano, scoppiano in fronde di un verde tenero e, a poco a poco, l’impeto interno della terra madre si sfoga in una vegetazione lussureggiante, e la campagna, la collina e il monte si vestono si un manto imperiale. (A. Dusso)

Il trepido vento di marzo giocava a cacciare con furie scherzose le nuvole chiare. Le arruffava, le scapigliava, le lacerava a frange, a cirri, le fugava dai colli, le inseguiva, le disperdeva e trascorreva lontano. Ma, subito dopo, ritornava col suo ululo festoso; s’aggirava per il cielo mulinando nel sole gli ultimi fiocchi di nubi, li sbandava, scuoteva gli alberi sui colli, rapiva petali di fiori novelli, godeva di farli sperdere nella limpida aria; li lasciava piovere sulle piazze e sulle vie; metteva un tintinnio a tutti i vetri. (V. Brocchi)

Appena giunto in città, il venticello di marzo cominciò a soffiare in tutte le direzioni, allegro, invadente, felice di scorrazzare. Chiudeva ed apriva le imposte, sbatacchiava usci, il monello, come se fosse stato a casa sua. Faceva tremare i grandi cristalli delle vetrine, e si trastullava tra i vestiti dei passanti e distribuiva loro sulla faccia i biglietti del tram gettati a terra. (Lunarino)

Dettati ortografici MARZO – Tutte le opere contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.

Geografia Waldorf – I punti cardinali: il racconto dei quattro angeli e del nastro d’argento

Geografia Waldorf – I punti cardinali: il racconto dei quattro angeli e del nastro d’argento. Questo racconto è un vero classico nelle scuole steineriane; non si conosce l’autore e, a differenza di altri racconti proposti nella guida, mitigare la presenza degli elementi simbolici antroposofici è praticamente impossibile. Lo condivido così com’è, felice di poter soddisfare la richiesta di alcune lettrici…

Dio Padre, il quarto giorno, creò il sole, la luna e le altre luci del cielo, ma inizialmente tutti questi pianeti erravano senza ordine e senza disegno nell’immensità celeste, e nessuno di loro conosceva la propria via e il proprio cammino.

 Allora Dio Padre disse agli angeli: “Intonate il vostro canto più armonioso, in modo che in tutto il mondo, nelle altezze e nelle profondità, risuoni la vostra voce!”

Gli angeli fecero come Dio Padre aveva detto, e gli spazi celesti echeggiarono di quel canto. Nessuno poteva restare indifferente a quel suono meraviglioso che si propagava ovunque come una brezza leggera e profumata.

Tutte le stelle si misero in ascolto, e ascoltando presero a danzare nell’immensità del cielo ed a comporsi in immagini e figure di straordinaria bellezza.

Questo piacque molto a Dio, e quando gli angeli terminarono il loro canto, chiese alle stelle di rimanere così, in gruppi composti e ordinati, e di continuare a danzare così, al suono della loro stessa musica, la musica delle sfere.

A quel tempo il giorno e la notte non erano ancora separati.

Allora Dio Padre chiamò quattro dei suoi angeli e disse loro: “Disponetevi nella vastità del cielo, in modo da lasciare la terra in mezzo a voi, nel centro, e da potervi guardare l’un l’altro negli occhi, a due a due”.

Gli angeli si affrettarono ad obbedire al volere di Dio Padre, e quando ebbero preso i loro posti alle quattro estremità del mondo, spalancarono le braccia, ed ognuno sorrise all’angelo fratello che gli stava di fronte.

E il loro sorriso fece nascere dal loro cuore un bel raggio d’argento, teso dall’uno all’altro.

Aleggiò sulla terra una croce d’argento grande quanto il cielo.

Il primo angelo indossava una magnifica veste gialla, l’aria attorno a lui profumava di violetta.

Dio Padre disse: “Sia affidata alle tue mani ogni forza giovane e fresca, ed ogni risvegliarsi dall’oscurità del sonno. Dona la tua forza alla terra e ai suoi esseri. Proteggi il mattino e tutto ciò che vi è in esso. II punto del cielo dove tu ti trovi si chiami LEVANTE, o EST.

Poi Dio Padre si rivolse all’angelo che stava di fronte all’angelo del Levante.

Era un bellissimo angelo viola, circondato da un buon profumo di lavanda e calendula. Gli disse: “Tu regalerai al mondo la pace dopo la fatica e il riposo dopo il duro lavoro, il crepuscolo dopo il chiarore accecante. Il tuo regno sarà la sera, e la parte del cielo in cui starai si chiamerà PONENTE, o OVEST”.

Poi Dio Padre si avvicinò al terzo angelo, che come i primi due se ne stava con le sue ali lucenti e la sua bella veste rossa al margine del cielo, proprio là dove cielo e terra si toccano.

Gli disse: “Alzati in volo dal luogo dove stai per un tratto. Devi guardare la terra dall’alto”:

Con un leggero fruscio e batter d’ali, l’angelo si sollevò verso il luogo che Dio Padre gli aveva indicato. Dio Padre allora gli disse: “Alle tue mani è affidata la pienezza della luce e del calore. Devi darla alla terra fra la mattina e la sera. Sii il custode dell’alto, dorato giorno. La parte del cielo che tu governi sia chiamata MEZZOGIORNO, o SUD.

Dio Padre si rivolse poi all’ultimo dei quattro angeli, uno splendido angelo vestito di bianco e circondato da una dolce atmosfera blu.

Gli disse: “Tu devi discendere tanto quanto tuo fratello si è alzato nel mezzogiorno”.

L’angelo obbedì rapidamente.

Allora Dio Padre gli disse: “Tu porterai in dono alla terra l’oscurità e la frescura. Manderai alla buona terra e a tutti gli esseri che la popolano il beneficio del sonno ristoratore e dei sogni buoni. Ciò che è stanco e spossato per la luce e la lunga veglia sarà rafforzato e ristorato grazie a te. Il tuo regno sarà la notte e la tua parte di cielo si chiamerà MEZZANOTTE, o NORD”.

Quando Dio Padre ebbe indicato ai quattro angeli il loro posto ed il loro compito, essi si inchinarono davanti a lui e lo ringraziarono col cuore colmo di gioia.

Allora Dio Padre si rivolse al sole e gli disse: “D’ora in poi, caro Sole, dovrai viaggiare tra questi angeli. Levati dall’orlo del cielo, presso l’angelo del Levante, innalzati fino al Mezzogiorno, poi voltati in giù verso la sera finchè presso l’angelo del Ponente giungerai a toccare ancora l’orlo del cielo. Infine sprofondati giù giù fino all’angelo della Mezzanotte e ristorati nel suo regno come tutti gli altri esseri. Poi torna ad alzarti a Levante, con forza rinnovata”.

Il Sole ringraziò Dio Padre, che gli aveva donato una via da seguire ed una meta, e con i suoi raggi si mise in cammino.

Furono così donati alla terra il mattino e la sera, il giorno e la notte.

Geografia Waldorf – I punti cardinali

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Dettati ortografici FEBBRAIO

Dettati ortografici a tema: il mese di febbraio. Una collezione di dettati ortografici sul mese di febbraio, di autori vari, per la scuola primaria

Dettati ortografici FEBBRAIO

E’ un mese allegro, pieno di mascherine, di coriandoli, di stelle filanti e di frittelle. L’inverno di fa ancora sentire, ma se guardate bene, vedrete una gemma che sta per schiudersi sul ramo di un albero, vedrete un fiorellino che timidamente sboccia, vedrete un tiepido raggio di sole che cerca di farsi strada fra le nuvole.

La campagna è ancora spoglia, ammantata di brina; pure, se guardate attentamente, vedrete una gemma, nel cavo di un ramo, che sta per schiudersi; vedrete sul piano le prime margheritine e sull’orlo del fossato sentirete il profumo delle prime violette. E il pesco e il mandorlo, fra poco, avranno la loro veste fiorita.

Il ghiaccio intorno alla fontana si è sciolto, le piantine rialzano il capo e mettono un bocciolino con la speranza di farlo presto schiudere. La siepe si copre di gemme e fra qualche giorno il biancospino fiorirà. Anche i mandorli e i peschi sono pronti: al primo raggio di sole tiepido si copriranno della loro bella veste fiorita.

Primi tepori
Fra le erbe del prato, le violette non sono ancora sbocciate. Se ne sente, però, il profumo. anche l’aria odora un po’ di primavera. Gli uccellini cinguettano; pensano al nido. Gli insetti cominciano a ronzare; qualcuno ha messo già le ali, dopo la lunga invernata passata sotto terra.

Molta gente borbotta contro questo piccolo mese. Febbraietto, corto e maledetto! Eppure, è proprio febbraio che porta le mascherine, e che soprattutto porta i primi tepori, più luce al giorno, qualche gemma, e persino qualche fiore. E allora, un po’ di pazienza per i suoi bronci che sono seguiti sempre da un lieto sorriso!

Parla febbraio: “Nei campi che cosa si fa? Non troppo, ancora, ma c’è la speranza del marzo vicino. I contadini si preparano sapendo che, dopo di me, verranno subito i primi tepori. Essi pensano a potare le viti, a scortecciarle per distruggere gli insetti dannosi. Nei luoghi dove il clima è meno freddo, i pastori cominciano la tosatura delle pecore”.

La terra è ancora brulla, gli alberi nudi e stecchiti. Pure, se osservate bene, vedrete un leggero spolverio verde sui rami, sui cespugli. Sono le gemme che aspettano un raggio di sole per potersi schiudere. Se guardate fra le erbe del prato, forse troverete una violetta, la prima, che però, nel suo linguaggio, vi dirà che la primavera non è lontana.

Febbraio è il mese più breve perchè ha soltanto ventotto giorni e ventinove negli anni bisestili. Febbraio era, nel calendario romano antico, l’ultimo mese dell’anno. Il primo mese era marzo, da Marte, il dio della guerra. Il nome deriva da “februare” che vuol dire purificare, espiare; il mese, infatti, era dedicato alla purificazione. I nostri antenati usavano espiare per sè e per i defunti e purificare gli animali mediante cerimonie che si svolgevano sul Colle Palatino. A noi, febbraio porta la bella festa del Candelora e l’allegria del Carnevale.

Se provate a fare una passeggiata in campagna, quante cose di riveleranno ai vostri occhi che voi nemmeno pensavate! Spunta già il grano, e lieve lieve, morbido morbido, copre la terra di un mantello verde non appena la neve la lascia libera. E se guardate sulle siepi, troverete certi bocciolini duri e pelosi che aspettano soltanto un raggio di sole per aprirsi. E’ il biancospino, e tra qualche giorno, vedremo che fioritura candida e profumata sopra le siepi rinsecchite! Gli uccellini cinguettano: sono allegri anche loro. Cominciano a trovare qualcosa di più da mettere nel becco: gli insetti, le larve fanno capolino dalla terra e sono proprio dei bocconi saporiti.

Febbraio è il mese più corto dell’anno, un mese ancora freddo, ma che ci mostra i primi avvisi di primavera. Il suo nome deriva dal latino “Februarius” da “februus” che vuol dire purificante, purgante. In questo mese gli antichi romani facevano, infatti, i sacrifici di espiazione durante le feste dei Lupercali, istituite a quanto si dice, da Romolo, in onore della lupa che lo aveva nutrito.

Febbraio fu aggiunto agli altri mesi da Numa Pompilio e con esso terminava l’anno, che cominciava con marzo. Febbraio consta solo di ventotto giorni e, negli anni bisestili, ventinove. Gli anni centenari sono bisestili soltanto se possono dividersi per 400.

Il mese di febbraio è l’ultimo mese dell’inverno e secondo il proverbio, che “il più duro da scorticare è la coda” anche febbraio ci riserva spesso le più crude manifestazioni del freddo. Imperano ancora il gelo, il vento e qualche volta anche la neve. Però, se guardiamo attentamente intorno a noi, vedremo già qualche manifestazione della primavera imminente.

Il cielo di febbraio è spesso nuvoloso e grigio, ma con qualche squarcio di azzurro che si fa sempre più grande e frequente con il progredire del mese. Le giornate si allungano.

Sui rami delle piante possiamo notare a partire da febbraio gli ingrossamenti che daranno luogo alle gemme; qualcuna, anzi, ha già la gemma ben visibile: il pioppo, il ligustro, il biancospino. Osservando queste gemme vedremo che questi germogli ben riparati da un rivestimento che può variare da pianta a pianta. In qualcuno c’è addirittura una morbida pelliccetta pelosa che tiene riparato il prezioso contenuto, in altri c’è un rivestimento di scaglie dure e coriacee che lo difendono dal vento gelido e dagli sbalzi di temperatura; in altri ancora l’involucro della gemma è rivestito di resina impermeabile che difende il germoglio dalla pioggia.

A fine febbraio, se la temperatura non è troppo cruda, c’è l’esplosione dei fiori di mandorlo e di pesco che illeggiadriscono la campagna con un’improvvisa manifestazione primaverile. Ed ecco la prima violetta, la prima margheritina, la primula…

La vita animale in febbraio è ancora sopita, ma presto si manifesterà. Dove sono gli insetti? Morti, oppure sotto terra, nascosti nella corteccia degli alberi sotto l’aspetto di crisalidi, oppure ancora nell’uovo; ma ecco le prime mosche, i primi bruchi avventurosi, ecco le formiche, ecco il guizzo di una lucertola che si è svegliata in anticipo! La lucertola, come gli altri rettili, è rimasta immersa nel letargo perchè, avendo il sangue a temperatura ambiente, non potrebbe resistere al freddo invernale. Ma il primo raggio di sole l’ha destata dal suo intorpidimento anche perchè qualche insetto è sbucato fuori e il primo appetito si potrà saziare.

In febbraio i tassi, le marmotte, i ghiri, i pipistrelli non si sono ancora destati; restano immersi nel letargo, durante il quale le funzioni vitali rallentano al massimo permettendo all’animale di rimanere digiuno per lunghi mesi. Ma col primo pallido sole di febbraio, c’è da giurarlo, anche loro cominciano a sentire il sangue muoversi, cominciano a sentire gli stimoli della fame e presto anch’essi sbucheranno fuori dalle loro tane.

La terra è ancora umida e fredda, pure, se guardi con attenzione, vedrai qualche filo d’erba spuntare nelle fessure, vedrai qualche ramo che presenta i piccoli rigonfiamenti dove si nascondono le future gemme, vedrai, forse, una pratolina sbocciare timidamente sulla zolla ancora spoglia. Sono gli indizi dell’arrivo imminente della primavera. Non lasciarti sfuggire questi segni: ne ricaverai una grande gioia pregustando in anticipo il bel sole che verrà, il rigoglio della natura che ancora non appare, ma che un giorno, non lontano, esploderà in tutto il suo vigore, e la sua bellezza.

Febbraio è l’ultimo mese d’inverno. Ancora è freddo, la nebbia pesa sulla campagna, il vento soffia gelido, e spesso la neve cade ancora dal cielo a ricoprire la terra. Febbraio, quando te ne andrai? Sei il più piccino dei mesi, ma sei forse il più cattivo. Non ne possiamo più di freddo, di nebbia, di neve. Desideriamo, con tutto il cuore, il tiepido sole di primavera, le prime violette, le pratoline candide che sembrano stelline cadute sul prato. Febbraio, vattene via lesto! Vogliamo la primavera!
E’ ancora freddo; spesso il vento soffia gelido fra i rami nudi degli alberi. Pure, se guardi con attenzione, vedrai qualche coraggioso filo d’erba spuntare nelle fessure sui muri, vedrai qualche insetto avventuroso tentare i primi voli, vedrai qualche squarcio di azzurro nel cielo grigio e forse, chissà, potrai trovare sulla riva di un fosso una violetta profumata che è sbocciata per darti il saluto della primavera che si avvicina.

Febbraio è un mese di passaggio fra l’inverno e la primavera. Per questo è così instabile, capriccioso e infido. Anche se ha qualche giornata di sole, non dargli retta: rallegrati, ma tieni il tuo cappotto e il tuo berretto. Anche se un mandorlo fiorisce coraggiosamente, gioisci della sua fioritura gentile, ma non ti sorprendere se l’indomani il vento stizzoso lo avrà spogliato. E se trovi una violetta sul bordo di un fosso, prendila come un saluto del bel tempo che verrà.

Dicono i contadini: “Febbraio febbraietto corto e maledetto”. Ma perchè, povero piccolo mese? In fondo anche lui porta le gioie di un’acerba primavera: qualche violetta sbocciata sull’orlo di un fosso, qualche pratolina fra l’erba, le mimose pronte a sbocciare e soprattutto la fioritura dei mandorli e dei peschi. Non maledire questo mese anche se è ancora freddo e nebbioso. Vedrai, in marzo, che cosa ti ha preparato febbraio.

Gli alberi stendono al cielo i loro rami nudi e rinsecchiti. Pure, se li osservi con attenzione, vedrai dei piccoli rigonfiamenti che si fanno, di giorno in giorno, più turgidi e verdi. Sono le gemme che ancora non germogliano, ma lo faranno non appena un raggio di sole più tiepido le sveglierà dal loro sonno invernale. Sono rivestite da una folta pelliccetta, oppure da squame dure e coriacee; ma ben presto il loro rivestimento si aprirà per dar luogo al fiore, alla foglia, al rametto giovane della primavera.

Il vento, la neve, la pioggia, sono gli strani amici di febbraio. Sembra che il mese non abbia voglia di stare troppo a lungo in questa compagnia; e per questo, forse, è il mese più corto dell’anno e passa via così rapido per la sua strada ghiacciata, sotto gli alberi ancora coperti di brina. Che fatica per il povero febbraio con le sue scarpe rotte dalla fretta di correre, con il suo mantello sdrucito dal vento! Ma febbraio prende la sua fatica allegramente. (F. Palazzi)

Se osserviamo bene, vedremo i primi sintomi del risveglio della natura. Le gemme sono ancora coperte di scaglie resinose e impermeabile che le proteggono dal freddo, ma nei posti più soleggiati, sputano ciuffi d’erba verde, lungo le prode sbocciano le violette timide, i ranuncoli gialli. Sulle zolle ancora nude ecco le pratoline bianche col collarino rosso che si schiudono all’apparire del sole, per richiudersi subito non appena il sole scompare. E’ la primavera che si annuncia.

Non ti fidare se febbraio ti regala qualche bella giornata. Ecco che, dopo il tepore, un vento gelido accumula di nuovo le nuvole della pioggia. E se il mandorlo e il pesco una mattina ti sorprendono con la loro leggiadra fioritura, non è difficile che, l’indomani, i fiori siano tutti a terra e gli alberi più spogli di prima. Ma, anche nei suoi capricci, febbraio precede la primavera e te lo dice con i suoi timidi tentativi durante i quali fa sbocciare un fiore, squarcia le nubi e accoglie festosamente un bel raggio di sole.

L’albero che ha perduto nell’inverno tutte le foglie, sente la carezza del primo sole: “Svegliati, dunque! E mettiti al lavoro! Che cosa aspetti ancora? La buona terra è pronta a darti i suoi ricchi umori. Io ho tiepidi raggi. L’aria ti sussurra attorno una dolce canzone.”. L’albero ode le care voci e chiama dal suo cuore i teneri germogli. (G. Camillucci)

Il mese di febbraio è l’ultimo mese dell’inverno e spesso ci riserba le più crude manifestazioni del freddo. Imperano ancora il gelo, il vento, e spesso la neve. Pure, se guardiamo attentamente intorno a noi, vedremo già qualche manifestazione della primavera imminente. Il cielo spesso nuvoloso e grigio, ha talvolta uno squarcio d’azzurro che, col progredire del mese, si fa sempre più grande e più luminoso. Le giornate sono più lunghe e, talvolta, ci arriva un soffio profumato che sa di bosco e di giardino anche se boschi e giardini sono ancora spogli e addormentati.

Primavera? Siamo ai primi di febbraio e ancora ne ha da cadere di neve, ancor da pungere di freddo. Pure, adesso che ci penso, e guardo meglio in giro, l’annuncio della primavera non è solo sulla bocca della fioraia all’angolo della strada. Forse nelle nubi; forse nel vento; o nell’erba dei giardinetti che hanno il cancello sul marciapiede; o fra le connessure delle pietre; ma, insomma, è. Gioca con me a nasconderello; dove si appiatti non potrei dire, nè dove sbuchi per tornare a rintanarsi; non dice, promette, e poi fugge. (Ada Negri)

Febbraio è un mese infido, volubile. E’ un mese invernale, e vuol sembrare invece un mese di primavera; e lo dice anche. Il due febbraio si festeggia la Candelora, così chiamata per le offerte di candele che si fanno alla Madonna in quel giorno. Ebbene, febbraio fa cantare: “Oggi è la Candelora, dell’inverno semo fora”. Sì, in qualche giorno del mese c’è infatti un sole luminoso e quasi tiepido che ci consola; e sulle rade dei fossi spuntano già le prime violette dell’anno… ma poi, il giorno dopo, ecco che fischia la tramontana e riprende a fioccare la neve. (F. Palazzi)

E’ spuntata la prima viola sull’orlo della strada, sotto la siepe, piccola, scura, profumata! E’ venuta a dire che tra poco torneranno le rondini a rifare il nido, che tutti gli alberi, uno dopo l’altro, si copriranno di gemme di fiori, di frutti. E’ venuta a dire al contadino che i lavori dei campi lo aspettano. E’ venuta a promettere ai poverelli, che quest’inverno hanno tanto sofferto, che non farà più freddo. Tra poco il sole tiepido scalderà la terra e la terra tornerà rigogliosa con l’aiuto della natura e il lavoro dell’uomo. (L. Steiner)

Brillano al sole le nevi; sgrondano i tetti. Riponete, ragazzi, slitte e pattini; finito ormai è quest’affanno dell’inverno. L’abete ha sciorinato lungo il clivio la sua ombretta celeste. Non più sentieri ghiacciati, Non più sizze che taglian le orecchie. Ora tutto s’allenta, s’espande, si dona. Com’è dolce questa prima luce dell’anno! Muri e tetti si rallegrano, l’ombra del fico si disegna sul muro con una tenerezza nuova. (C. Linati)

Un giorno di sole riappare, dapprima timido, freddo, poi manoa mano più caldo; che aria di festa! I prati ritornano soffici, si sciolgono i ruscelli e riprendono a cantare. I ragazzi, felici, invadono le strade gridando, e i poveri sorridono… Ma il gelo, ahimè! Non si è dato per vinto. Di nuovo vittorioso torna signore delle cose. Tutto di nuovo è freddo, silenzioso, immobile. I bambini sono tornati nelle case; i poveri tremano. Quanto durerà ancora il regno del gelo? (G. Fanciulli)

Parla febbraio: “Nell’antico calendario romano io avevo ventinove giorni; me ne tolsero uno per regalarlo ad agosto e, da allora, me lo rendono solo negli anni bisestili; non riesco, però, ad averne mai più di ventinove, e rimango sempre il più corto dei dodici fratelli. Dicono che sono cattivo: Febbraio, febbraietto corto e maledetto. Allora cerco di portare un poco di allegria con il carnevale; e la gente si diverte più che può senza curarsi del mio freddo.” (M. Toscano)

Parla febbraio: “E nei campi, che cosa si fa? Non troppo ancora, ma c’è la speranza del marzo vicino; i contadini si preparano, sapendo che, dopo di me, verranno subito i primi tepori. Essi pensano a potare le viti, a scortecciarle per distruggere gli insetti dannosi. Le greggi, seguite dal vigile pastore, risalgono i colli in cerca delle prime erbette. Si comincia la tosatura delle pecore; la lana è la prima preziosa raccolta dell’annata.” (M. Toscano)

Oh valletta, che ancora non è primavera e tu di sorridere tenti già! Lascia che io riveda com’è quel bel verde che quasi negli occhi l’immagine più non ne trovo! Rimirati, o valletta, raccogliere ad una ad una le piccole dolci tue cose… Quelle prime tue primule uscite a sentire se il sole è già tiepido, l’aria meno grigia, quel tuo timido verde che torna cercando fra gli aridi ciuffi il sentiero. (F. Chiesa)

Piove, e sembra un gran pianto del cielo. L’asfalto delle strade cittadine luccica; e luccicano gli ombrelli, i cappucci dei cappotti impermeabili. Nei campi, i fossi gonfi d’acqua borbottano. I fiumi corrono limacciosi in piena e portano innanzi quanto hanno rapinato dalle prode. Le case quasi spariscono tra i veli della pioggia, tra i vapori che salgono dalla terra e lentamente vanno a confondersi alle nuvole grige. Non finirà mai più? Si sta bene al chiuso, all’asciutto, al caldo. E per fortuna febbraio è corto. (G. Fanciulli)

Il giorno della Candelora la primavera si è affacciata nei cieli ed ha sbandierato il suo gonfalone di raso celeste. Dalle piazze, dalle vie, dagli abbaini, dai fondachi, tra le tende e dietro i vetri, gli uomini l’han vista, l’hanno sentita; i giovani non un guizzo di gioia nella pupilla… Già ci investe la luce. Questa è per tutti gioia e potenza. I giorni sono più lunghi… Fa meno freddo. Ognuno di noi ha uno scopo da raggiungere, immediato: la primavera. (A. Bucci)

Nel lungo inverno la terra pare come morta, ma non è così. Essa dorme il suo sonno tranquillo e riposante; dormono anche molti animali nelle loro tane. Dorme la terra, ma pure nel sonno, come una madre amorosa, copre sotto il suo manto milioni di semi che come lei dormono, e li difende dal freddo e li prepara per il risveglio primaverile. (G. Cives)

Mi ricordo bene di certe corte e ventose giornate di gennaio e di febbraio, quando si camminava via lesti per le strade dure, ghiacciate, che risuonavano sotto i passi, fra i muri asciutti che rimandavano gli echi, sotto le sfilacciature bianche delle nuvole alte. A forza di camminare tornavo a casa coi piedi brucianti e il viso acceso, tutto vibrante e vigoroso come se tornassi da una vittoria. (G. Papini)

Quando sul salice appaiono le prime infiorescenze, non c’è dubbio: la primavera ha ripreso possesso di questo vecchio mondo. Le gemme sono le sue messaggere. Durante l’inverno, le gemme cominciano a far capolino. Poi lentamente s’ingrossano, e sui rami spogli si vedono piccole protuberanze coperte di scaglie color bronzo, marroncino, e d’un delicato verde. Alcune di esse sono lisce, altre lanuginose, o ruvide, o increspate, come protette da corazze di vari colori e di varie forme. (D. Culross Peattie)

Le scaglie che rivestono le gemme non servono a proteggerle dal freddo, come si crede. Durante l’inverno le gemme sono fredde, addirittura ghiacciate, poichè spesso nell’interno si formano cristalli di ghiaccio. Le scaglie servono a proteggere le gemme dal vento gelido. Poi, mentre la neve resiste ancora sulle cime dei monti e Febbraio sferza ogni cosa col vento e le piogge violente, la temperatura delle gemme aumenta, e una mattina, all’improvviso, tutto intorno a noi s’è rivestito di verde, e il miracolo della primavera si rinnova. (D. Culross Peattie)

Febbraietto corto e freddo, in ogni luogo ci mise la febbre. Tutta la terra ha un nascosto bollore. Sale alle cime la linfa e le gemme già si ingrossano e friggono. Continuano le piantagioni e la potatura. L’accetta lavora in pieno per togliere il vecchio e il superfluo ed aiutare il nuovo. La cattiva accetta rovina gli alberi. Il belar degli agnelli empie la campagna dove mandorli e peschi cominciano a fiorire; e dalle masserie fuma l’odor delle ricotte. Carnevale passa tra risa e divertimenti. (F. Lanza)

E’ il mese più breve perchè ha soltanto 28 giorni e ventinove negli anni bisestili. Febbraio era, nel calendario romano antico, l’ultimo mese dell’anno. Il primo mese era Marzo, da Marte, il dio della guerra. Il nome deriva da “februare” che vuol dire purificare, espiare: il mese infatti era dedicato alla purificazione. I nostri antenati usavano espiare per sè e per i defunti e purificare gli animali mediante cerimonie che si svolgevano sul Colle Palatino. A noi, febbraio porta la bella festa della Candelora e l’allegria del Carnevale.

Se provate a fare una passeggiata in campagna, quante cose si riveleranno ai vostri occhi che voi nemmeno pensavate! Spunta già il grano, e lieve lieve, morbido morbido, copre la terra di un mantello verde non appena la neve la lascia libera. E se guardate sulle siepi, troverete certi bocciolini duri e pelosi che aspettano soltanto un raggio di sole per aprirsi. E’ il biancospino e, fra qualche giorno, vedrete che fioritura candida e profumata sopra le siepi rinsecchite! Gli uccellini cinguettano: sono allegri anche loro. Cominciano a trovare qualche cosa di più da mettere nel becco: gli insetti, le larve fanno capolino dalla terra e sono proprio dei saporiti bocconi.

D’inverno, bisce e lucertole sono tutte sparite, sprofondate nei crepacci e nascoste sotto i sassi a dormire profondamente. Ma quando un raggio di sole tiepido batte sul loro rifugio, il sangue scorre più veloce, i battiti del cuore si fanno più rapidi e comincia a farsi sentire l’appetito. Coraggio, facciamo capolino! Chissà che non ci sia qualcosa da divorare tanto per non morire di fame. Il grasso del corpo che questi animali hanno consumato durante il loro letargo è ormai tutto finito e c’è bisogno di rinnovare le provviste!

Dettati ortografici a tema: il mese di febbraio

Il primo raggio di sole ha destato la lucertola che fa capolino dal suo rifugio, palpitante sotto la sua leggiadra corazza verde. Tassi, ghiri, marmotte sono ancora in letargo, il lunghissimo sonno durante il quale le funzioni vitali si sono rallentate al massimo permettendo all’animale di vivere senza mangiare e senza muoversi e di sopportare il freddo intenso. Ma il loro sangue comincia a scorrere più veloce, il cuore batte più svelto e l’appetito comincia a farsi sentire. Presto, al primo sole di primavera, li vedremo far capolino dalle loro tane, baffi vibranti e naso al vento per sentire il primo avviso di primavera.

Febbraio febbraietto, corto e maledetto! Ma perchè maledetto, povero, piccolo mese, così allegro, così spensierato, sempre in vena di mascherarsi e di andare a ballare? Per qualche stizzone di gelo più forte, ora che la gente cominciava a gustare il tepore del primo sole? Ma insomma, anche febbraio è un mese dell’inverno e anche lui ha il suo bravo diritto di avere piogge, freddo, geli e magari qualche nevicata. Ma, in compenso, guardate quante maschere! E quante stelle filanti! E quanti coriandoli! Una continua festa!

Il cielo fa ancora il broncio, ma non gli date retta: non vedete un riflesso azzurro nelle pozzanghere? E se cercate bene sulle prode dei fossi, chissà che non troviate una violetta, magari una sola, ma così profumata, così gentile che vi metterà in cuore una grande allegrezza. E poi, anche se febbraio vuol fare il cattivo, non durerà molto. Ha solo ventotto giorni, qualche volta ventinove, e presto ci dirà addio. E poichè è il più piccino, bisogna pure perdonargli qualche bizza!

Il secondo mese dell’anno è caro ai bimbi per le allegre ricorrenze del carnevale. Pantalone, Arlecchino, Balanzone, Pulcinella, Gianduia, Rugantino, Stenterello… scherzano e ridono per le vie delle proprie città, fino al giorno delle ceneri, al quale seguirà la Quaresima, periodo di raccoglimento e di penitenza che precede di quaranta giorni la Pasqua. La terra incomincia a scuotersi dal torpore invernale.  Le giornate si sono allungate e il sole si mostra più spesso nel cielo. Spuntano le prime margherite, fioriscono le mimose. Il grano incomincia a verdeggiare nei campi. Il contadino semina rape, piselli, lattughe, cipolle. Il nome febbraio deriva dalla parola latina “februare”, che vuol dire purificare, perchè, anticamente, era questo il tempo in cui il corpo veniva purificato per renderlo degno di avvicinarsi ai templi degli dei. I romani lo avevano dedicato a Giunone.

Tutte le cose dormono ancora il lungo  sonno invernale. I ghiaccioli pendono dalle grondaie e i comignoli fumano dalla mattina alla sera. Il gelo sembra padrone del mondo.
Ma un giorno il sole riappare: un sole dapprima timido, freddo, poi a mano a mano più caldo.
Che aria di festa! I prati tornano soffici, i ruscelli si sciolgono e riprendono a cantare. I ragazzi, felici, invadono le strade gridando, e i poveri sorridono. Appaiono i primi fili d’erba, nuovi nuovi. Ma il gelo, ahimè, non si è dato per vinto. Di nuovo vittorioso, torna signore delle cose. Tutto di nuovo è freddo, silenzioso, immobile. I bambini sono tornati nelle case; i poveri tremano. (G. Fanciulli)

Brillano al sole le nevi, sgrondano i tetti. Riponete, ragazzi, slitte e pattini: finito è ormai quest’affanno dell’inverno. Non più sentieri ghiacciati, non più ventate che tagliano le orecchie. Ora tutto si allenta, si espande, si dona. Come è dolce questa prima luce dell’anno! Muri e tetti s’allegrano, l’ombra del fico di disegna sul muro con una tenerezza nuova. Riponete, ragazzi, slitte e pattini! Andiamo ai primi lavori. (C. Linati)

Il più breve mese dell’anno, spesso, giunge con furia di vento, di freddo e di neve. Ma dopo alcuni giorni, dove sono le nubi? Non c’è più che un po’ di nebbia, rada rada, che lascia vedere il cielo sereno.
Allora, la neve e il ghiaccio cominciano a sciogliersi e i ruscelli riprendono il loro cammino.
Allora, ai margini delle strade di campagna, tra foglie secche e teneri fili d’erba, si scoprono cespi di primule, macchie di crochi, ciuffi di violette.
Timido annuncio della bella stagione.

Il mese allegro è spesso il mese più freddo dell’anno. L’inverno fa sentire ancora i suoi rigori, ma le sponde dei fossi, le prode dei campi mostrano fili d’erba nuova e boccioli che aspettano un raggio di sole per aprirsi.
Poi, febbraio è un mese allegro. La gente si diverte ed è contenta perchè è carnevale, ma soprattutto perchè l’inverno sta per finire.

Il cielo è nuvoloso: ogni tanto qualche lembo di azzurro, qualche sprazzo di sole; e poi da capo il grigiore freddo e uggioso. Il vento soffia, sibila, stride, scuote le porte, forza le imposte, fa tintinnare i vetri e rabbrividire i bambini. Le montagne si risvegliano, e incominciano a scuotere la canizie dal capo: la neve a poco a poco si discioglie; giunge di lontano il fragore dei torrenti che precipitano a valle. Qua e là verdeggiano gli olivi.
I ragazzi sgambettano allegri di stanza in stanza e scendono volentieri a rincorrersi per le strade e per la campagna. (G. Berlutti)

La nebbia, e le nuvole, cariche di pioggia e di neve, sono rimaste sorprese. Chi sono quegli uccelli scuri e fischiettanti, che volano nella bufera, sicuri e ad ali aperte? Nessun altro uccelletto ha ancora avuto il coraggio di tornare. Ma gli storni sì. Eccoli. Si posano. Vanno  popolare le aie deserte.
Nella fredda notte, il gelo è ancora feroce. Ma lo storno dorme accanto a un camino tiepido. Nella mattina, il gelo ha fatto luccicare di ghiaccio e di brina i campi e i rigagnoli. Poi viene il sole. Il gelo si nasconde nell’ombra. E lo storno vola fuori a fischiettare.

Il vento, la neve, la pioggia sono gli strani amici di febbraio. Sembra che il mese non abbia voglia di star troppo a lungo in questa strana compagnia: e per questo, forse, è il mese più corto dell’anno, e passa via così rapido per la sua strada ghiacciata, sotto gli alberi coperti di brina e di ghiaccio.
Che vitaccia fa il povero febbraio, con le scarpe rotte dalla fretta di correre, con il suo mantello sdrucito dal vento! Ognuno ha, nella vita, la sua sorte di lavoro, la sua razione di fatica. Ma febbraio prende la sua fatica allegramente. I mesi dell’anno hanno bisogno anche di lui per scaricare il freddo bagaglio dell’inverno. Febbraio corre. Per nascondere la sua fatica si è messo sul volto la maschera del carnevale. (O. Vergani)

La terra si era addormentata. Una lunga pioggia leggera è scesa a cullare la fine del suo sonno. Lei sentiva, ma ancora non si svegliava. Dolce dormire. Sorrideva dietro le palpebre chiuse, a sentirsi frugare tra l’erba, a sentirsi toccare le violette nascoste. Picchiettandola con le lunghe dita leggere, la pioggia le faceva il solletico e le diceva piano piano: “Svegliati”. E mormorava: “Svegliati”. E poi: “Su, su, è l’ora, vestiti”.
E la terra fingeva ancora di dormire, perchè nulla era più dolce di quella carezza leggera e di quel dormiveglia.
Alla fine ha aperto gli occhi delle margheritine, ed è rimasto un odore di terra bagnata nei giardini. (A. Campanile)

Si sente nell’aria l’alito della primavera: il rigore dell’inverno si è spezzato. Il bel tempo dura da una settimana e i giorni si succedono uguali, pieni di lavoro; la sera si ritorna a casa soddisfatti. In questi giorni mi sento insolitamente allegro: sono buono e garbato con tutti.
Nei campi le voci risuonano chiare e festose. Verrebbe voglia di abbracciare tutta la gente che fatica sulla terra. Anche gli uccelli, sentendo il tepore dell’aria, sono in festa.
E’ stata una bella giornata, ma con le prime ombre della sera il freddo si è fatto pungente. Passando nel querceto, sento i ruscelli fiottare; gli alberi spogli nel chiarore lunare hanno una rigidità spettrale. (F. Seminara)

Quando l’inverno muore lentamente nella primavera, nelle sere di questi bei giorni limpidi, lieti, senza vento, in cui si tengono spalancate per le prime volte le finestre e si portano sulle terrazze i vasi dei fiori, le città offrono uno spettacolo gentile e pieno di allegria e di poesia. A passeggiare per le vie si sente, di tratto in tratto, nel viso, un’andata d’aria tiepida, odorosa.
Di che? Di quali fiori? Di quali erbe? Chi lo sa!
Son profumi indistinti e sconosciuti, che sentono di freschezza, di gioventù, e di vita. (E. De Amicis)

Il 19 febbraio si festeggia San Biagio. San Biagio, prima di essere eletto vescovo, faceva il medico. Durante la persecuzione di Licinio, si nascose in una caverna dove curava le bestie che a lui accorrevano. Scoperto e condotto davanti al magistrato, fu condannato a morte.
Mentre veniva condotto al supplizio, avrebbe guarito un fanciullo che stava per soffocare per aver inghiottito una spina di pesce. Grazie a questo prodigio, Biagio viene invocato specialmente per i mali di gola ed il giorno della sua festa viene, appunto, benedetta la gola con l’apposizione di due candele benedette da parte del sacerdote.

Secondo la legge di Mosè, quaranta giorni dopo la nascita di un bambino, ogni mamma si presentava al Tempio per la purificazione, recando un’offerta. Anche la Madonna presentò Gesù al Tempio ed offrì due tortore. In alcuni paesi, si ricorda la purificazione di Maria con una processione nella quale i fedeli portano candele benedette. Per questo motivo, il 2 febbraio viene detto la “Candelora”.

Il passero pigola tra le fronde sempre verdi e fa capolino dalla volta di un tegolo, rannicchiato, irsuto come un riccio. Poveri passeri! Li vedete fatti dalla necessità doppiamente domestici, spiccarsi tratto tratto dai comignoli, venire a stormi dalla campagna tutta coperta, svolazzarvi tra le gambe, cercando qualche cosa da beccare. Intanto quella pietosa bimba sbriciola agli affamati uccelletti il panino della sua colazione. (A. Stoppani)

Il mese di febbraio
In febbraio proseguono le feste del Carnevale. Pantalone, Arlecchino, Balanzone, Pulcinella, Gianduia, Rugantino, Stenterello, scherzano e ridono per le vie delle proprie città, fino al giorno delle Ceneri, al quale seguirà la Quaresima, periodo di raccoglimento e di penitenza che precede di quaranta giorni la Pasqua.
Le giornate si sono allungate, il sole si mostra più spesso nel cielo. Spuntano le prime margherite, fioriscono le mimose.
Nei tempi antichi questo era l’ultimo mese dell’anno. I Romani lo chiamarono così da verbo latino “februare” che significa purificare. Infatti era questo il periodo delle purificazioni di fine anno. Anzitutto debbo dirvi che purificare per i Romani era un atto al quale essi attribuivano un gran valore, ai fini di procacciarsi il favore degli dei.
E volete sapere in che modo effettuavano queste purificazioni? O col fuoco, portando in giro grandi fiaccole nelle cerimonie religiose, o con l’acqua, con la quale effettuavano abbondanti aspersioni sulle cose e sulle persone. Ecco perchè all’ingresso dei loro templi si trovavano sempre grandi recipienti ricolmi di limpide acque.

Febbraio
Il vento, la neve, la pioggia sono gli strani amici di febbraio. Sembra che il mese non abbia voglia di star troppo a lungo in questa strana compagnia e, per questo, forse, è il mese più corto dell’anno e passa via così rapido per la sua strada ghiacciata, sotto gli alberi ricoperti di brina e di ghiaccio. Che vitaccia fa il povero febbraio con le scarpe rotte dalla fretta di correre, con il suo mantello sdrucito dal vento! Ognuno ha, nella sua vita, la sua sorte di lavoro, la sua razione di fatica… ma febbraio prende la sua fatica allegramente e la nasconde sotto la maschera del Carnevale.
(O. Vergani)

Febbraio
Febbraietto corto e freddo in ogni luogo mise la febbre. Tutta la tera ha un nascosto fervore. Sale alle cime la linfa e le gemme già ingrossano. Continuano le piantagioni e la potatura, e si zappa la vigna che poi bisogna impalmare.
E’ l’epoca giusta per gli innesti.
Dissodata la terra, si piantano le viti nuove; si riparano le conche e i muretti.
I seminati vogliono pioggerelle e nelle giornate belle, vi si passa la zappa.
Il belare degli agnelli e dei vitellini empie la campagna, che già mandorli e peschi cominciano a infiorare.
Carnevale passa con risa e divertimenti.
L’inverno prima d’andarsene intirizzisce marine e montagna; ma non hai tempo di volgerti indietro, che marzo ti passa avanti.
(F. Lanza)

Il febbraio dell’aquila
Era stato un inverno terribile; il novilunio aveva illuminata la campagna, nascosta completamente sotto un’infinita coltre di neve, covando i germi delle messi sotto un’insolita parvenza di morte.
I rami degli abeti innumerevoli parvero allora braccia stanche di una cappa troppo pesante; e i grandi alberi, digradanti in fila lungo il confine aspro e scosceso della foresta, furono simili a schiere di frati minori che vanno per via.
Sui rami nevosi la luna accendeva riflessi d’oro e d’argento; non un soffio di brezza agitava il grande esercito dei giganti pietrificati dal gelo.
In quelle lunghe notti, l’aquila dormiva, col fiero capo nascosto sotto un’ala enorme o abbandonato sul petto gonfio di penne, nell’incavatura di due rupi in bilico sull’abisso; e fin lassù arrivavano, così alto era il silenzio, gli urli lamentosi e strani delle volpi e di qualche lupo affamato.
I gioghi s’incoronavano di spettacolari ammassi di nuvole; e in grembo a quelle scoppiarono folgori secche e abbaglianti; e raffiche impetuose di venti furibondi agitarono e sbatterono, per l’anfiteatro delle montagne, fitti velari d’acqua, che si polverizzava sulle frasche, nascondendo ogni cosa.
I leprotti non uscivano più dai covi; le starne rimanevano nascoste nel cavo dei grandi alberi sventrati, in imezzo alle alte piante, i pollai erano chiusi.
non vi era possibilità di caccia e l’aquila languiva.
Per quanto capace di un digiuno di due, tre settimane, troppo frequenti erano ormai i periodi nei quali il colossale nido rimaneva sprovvisto di cibo. L’aquila aveva covato tre aquilotti: uno lo uccise, perchè troppo debole, poi ne uccise un altro, perchè troppo vorace…
(F. Paglieri)

Disgelo
Brillano al sole le nevi; sgrondano i teti, l’abete ha sciorinato lungo il declivio la sua ombra celeste. Non più sentirsi ghiacciati, non più ventate che tagliano le orecchie.
Com’è dolce questa prima luce dell’anno! Muri e tetti si rallegrano, l’ombra degli alberi si disegna per terra e sul muro con una tenerezza nuova.
E andiamo ai primi lavori. C’è il fosso da ripulire sotto il campo d’avena, la cavedagna che vuol essere riassettata alla falda del poggio.
Un’occhiata al pronto marcito sebbene verdeggi sull’orlo; poi scalzeremo un po’ di bosco ed a sera faremo il frutteto. Voi, ragazzi, riponete slitte e pattini: finito è ormai quest’affanno dell’inverno.
(C. Linati)

Non è ancora primavera
Primavera? Siamo ai primi di febbraio e ancora ne ha di cadere, di neve; ancora da pungere, di freddo. Pure, adesso che ci penso, e mi guardo meglio in giro, l’annuncio della primavera non è solo sulla bocca della fioraia all’angolo della strada. Forse nelle nubi, forse nel vento, o nell’erba dei giardinetti che hanno il cancello, sul marciapiede, o fra le pietre: ma, insomma, c’è. Gioca con me a nascondino: dove si nasconda non potrei dirlo, né da dove sbuchi fuori per poi tornare a rintanarsi; non dice nulla, promette e poi fugge.
(A. Negri)

Primavera precoce
Il temporale della sera precedente aveva fatto sulla natura l’effetto di una bastonata secca sulla testa di un uomo, cui tutte le idee si imbrogliano: la natura, intontita, aveva scambiato febbraio con aprile.
Quel giorno non c’era più niente a posto. Il cielo era d’un colore tenero di cobalto, tutto limpido; un vento tiepido vi correva, e sembrava che lo spazzasse e lo riscaldasse. I colori vivaci, rossi e azzurri, che per tanti giorni non si erano più visti, ora si stendevano dappertutto: il sole, allegro pittore, spennellava franco e denso le strade, le case e gli uomini.
Gli alberi erano ancora nudi, ma una brezzolina li faceva tremolare: e in rapido tremolio rammentava il bisbiglio inquieto delle prime foglioline.
(Gatti)

Presagi di febbraio
E’ quasi mezzogiorno, e dappertutto c’è un gran silenzio. Non odo che un fracasso di treno lontano, laggiù dalla parte di Firenze, qualche canto di gallo; e il taglio secco delle forbici, e questo squillo del pennato dei portatori, che mi rammenta dolcemente gli inverni della mia collina, della mia infanzia…
Ma col sole ecco la dimoia e la mota. I rigagnoli corrono; le primavere, i ranuncoli e anche gli anemoni mettono la testa fuori dalle zolle credendo che sia aprile. Infatti fa quasi caldo e non vedo che un po’ di neve rosea in cima alle lontane montagne pistoiesi, mentre i pettirossi cantano qui accanto, nelle siepi di sanguine, e le cince fra le chiome rossissime dei salici.
Un contadino che saluto mi dice che questa stagione non vale nulla per i raccolti. Ma io sono felice. Tutta la terra ai miei piedi, pare una pedana di seta, ricamata a colori pallidi, ma caldi e luminosi.
(A. Soffici)

La certezza della primavera
Era un ramo d’annunciazione.
Non pensai più che a una cosa: dopodomani è marzo…
Presto dimoia: le prode dei fossi sono  brune di mammole sotto la neve che sta per sciogliersi: gli alberi dietro quell’apparenza arcigna e stecchita, covano le gemme. Che ti immaginavi? Che l’inverno non dovesse finire mai?
Ancora, dunque, la certezza della primavera: giornate che si allungano, aria che si riscalda, prati che rinverdiscono, primule senza gambo che, se le vuoi cogliere, le strappi da terra e tutto: così fresca, la terra, nelle mani. E ancora gli alberi da frutto che si fanno bianchi e rosa come le nuvole. E ancora, ancora, per noi, forza da riprendere, lavoro da compiere, promesse da mantenere, anime da conoscere: vita, insomma, da vivere.
Per qualche istante non ebbi negli occhi che lo splendore del ramo di pesco: nel cervello, che pensieri simili ad esso.
La gioia di quella fioritura diveniva, in me, gioia di sentirmi al mondo.

In cerca della primavera
Sono condotto su una stradaccia di fango secco che va serpeggiando tra rocce sconnesse, incrinate e corrose dai ghiacci; tra scoscendimenti biancazzurri, scarniti e scavati dalle piogge; tra pietraie sinistre cosparse di tumuli erbosi e di arbusti dove, si dice, le volpi hanno le tane e le vipere i covi.
E poi vado avanti su prode molli e franose, su sentieri invasi dalle felci intirizzite e dai rovaio spogli…
Ma finalmente ecco aprirsi davanti una valletta verde e benevola. Sembra davvero, dopo tanta ostilità selvaggia e tanto affannoso strapazzo, una raccolta sala ospitale, con i suoi tappeti d’erba fitta e asciutta, con i suoi giacigli di foglie secche, con i suoi cerchiellini di fiori acerbi e primaticci e, soprattutto, con le sue rustiche mense di pietra umida e oscura…
Sopra una di queste tavole c’è un incavo naturale della pietra dove è rimasto un monticello di neve che fa pensare a una ciotola di sale bianchissimo… Intorno l’aria è gelata, il silenzio è perfetto, la solitudine definitiva, ma il bel cielo in alto mi appare più vicino, più amico…
(G. Papini)

L’arrivo dello scirocco
Al termine di ogni inverno arrivava lo scirocco col suo rombo profondo che l’alpigiano ode con tremore e spavento, mentre in paesi stranieri lo bramano con struggente nostalgia.
Uomini e donne, montagne, selvaggina e bestiame lo sentono molte ore prima che si avvicini. La sua venuta, quasi sempre preceduta da freschi venti contrari, si annuncia con un sibilo caldo e profondo. Per qualche istante il lago verdazzurro diventa nero come l’inchiostro e all’improvviso si incorona di spume candide e irrequiete: tranquillo e silenzioso fino a qualche minuto prima, incomincia a tuonare con l’accanita risacca di un mare contro la riva.
Nello stesso tempo tutto il paesaggio si rannicchia per paura. Sulle cime che di solito sognano in remote lontananze si possono ora contare i macigni, e nei villaggi che normalmente sembrano macchie brune laggiù in riva al lago si distinguono ora tetti, cornicioni e finestre. Tutto si restringe, monti, prati, case, come un gregge impaurito. Poi incominciano i fischi rabbiosi e la terra trema. Onde del lago sollevate si disperdono nell’aria come fumo e, specialmente di notte, si ode la disperata battaglia tra l’uragano e le montagne. Poco tempo dopo si sparge la notizia di torrenti colmati, di case divelte, di barche fracassate, di padri e di fratelli dispersi.
(H. Hesse)

Scende, tra le nebbie, il sole
Il sole sembrava, scendendo fra le nebbie, una palla di rame che scomparisse in mezzo alla cenere. Ma eccolo che ritorna.
E’ un intenso color di rosa, che dal lontano occidente sale e si dilata sino a impregnare di sé gran parte del cielo. Le masse d’alberi, rese spaziate e leggere dalla nudità dei rami, si disegnano in trine e trafori, delicatissime, sugli accesi riflessi degli sfondi. Il ghiaccio delle lance s’imporpora, rifrange splendori di rubini. I tronchi dei pioppi e dei salici si animano di una profonda tinta violastra.
Salici di fiumi, dal ceppo basso, largo, nocchieruto, dalle grosse teste scarmigliate e irte: pioppi alti e sottili, incorporei come ombre: terra d’inverno, più vasta, perchè più spoglia, più libera, perchè placata.
Ma già l’aria s’è fatta d’un grigio azzurrognolo d’ortensia: il rosso è tutto nell’acqua. Si spostano i riflessi: si spezzano le armonie: qualcosa ha da morire, e si dibatte contro la fine, pur sapendo che ha da rinascere. Qualcosa di infinitamente piccolo, di infinitamente grande: il giorno.
(A. Negri)

Tramonto
I tramonti duravano ore e ore, come se la giornata si rifiutasse di terminare, e quel sole infantile, già mezzo nascosto tra le montagne azzurre, stesse troppo bene in cielo. Erano tramonti lentissimi, pieni di tutti i colori più meravigliosi; dove il rosso del fuoco passava all’arancione, e al giallo; e a uno strano verde mattino pieno d’incanto e al viola dei fiori, chiaro chiaro come le prime violette di primavera, e poi sempre più cupo e notturno. Quei colori scendevano dalle nuvole, si muovevano dolcemente, riempivano l’aria e sembrava la facessero densa come un’acqua trasparente.
D’un tratto, in quell’aria visibile, apparivano i pipistrelli, e svolazzavano silenziosi, in cerchi incerti, neri come la notte prossima, e così lontana.
(C. Levi)

A catafascio nel gelo
Mentre dalla finestra del mio studio guardo la strada illividita dall’inverno, spazzata dal gelido tramontano, deserta, vedo venire in bicicletta, correndo in senso inverso, due uomini rimbacuccati, i quali rasentano a testa bassa l’alto ciglio della siepe per ripararsi dal vento che taglia loro la faccia paonazza.
Arrivati proprio davanti a me senza essersi visti l’un l’altro, essi si cozzano con violenza e vanno entrambi a catafascio con le loro biciclette contro il ciglio indurito del gelo.
Restano un momento lì a gambe all’aria, come istupiditi; poi, in silenzio, si distrigano dalle loro macchine, si rimettono in piedi, si tastano tutto il corpo, si scuotono la terra e gli stecchi dagli abiti, raccattano il cappello; infine, presa per il manubrio ciascuno la sua bicicletta, ne stringono fra i ginocchi la ruota davanti per raddrizzarla.
Nel fare questa operazione, uno di loro dice: “Andavo a testa bassa, non vedevo”.
“Sono cose di poca importanza” risponde l’altro.
Tutt’e due inforcano di nuovo la bicicletta e se ne vanno pedalando, ognuno per il suo verso.
(A. Soffici)

Le prime passeggiate
Era un loro modo di passare il pomeriggio, ora che le giornate cominciavano a farsi più lunghe e c’era già per aria come un presentimento di primavera, andarsene con un libro o un lavoro in campagna. O nelle pinete verso l’interno, dove il profumo della resina creava un’aria rarefatta e remota: oppure lasciandosi il borgo alle spalle e prendendo il viottolo che portava al mare.
Anche qui c’era una pineta, ma più limitata e raccolta, e il paesaggio diventava arido, forse per le vicinanze delle cave di pietra. C’erano larghe zone incolte, avvallamenti ruvidi e cunette folte di verde, qua e là: i cespugli delle ginestre, la lava seccata e indurita, il binario dei carrelli per il trasporto delle pietre, un’aria di brughiera; e più giù il mare, con un modesto cantiere allestito nelle rovine d’una torre saracena.
Le case coloniche erano rade, calcinate di bianco, ma con l’intonaco screpolato dalle intemperie del luogo aperto aumentavano la desolazione del paesaggio più che mitigarne l’asprezza con una nota di umanità.
(M. Prisco)

Giochi sulla spiaggia
Siamo rimasti sulla spiaggia tutta la mattina. Ogni minuto Luigino aveva una nuova idea. Inventai anch’io un gioco che piacque molto. Ciascuno, a turno, faceva il cacciatore e con la palla cercava di colpire gli altri che fuggivano. Chi era colpito aveva l’obbligo di buttarsi a terra mentre la caccia continuava. Se il cacciatore mancava il bersaglio, un altro poteva raccogliere la palla e diventare a sua volta cacciatore. Vinceva chi restava solo fra i caduti. Naturalmente Luigino era il più bravo. Anche Marie era bravissima. Non avrei mai creduto che fosse così svelta ad abbassarsi per schivare il colpo ed acciuffare la palla che rotolava via. S’era accesa in viso e quando aveva la palla era implacabile.
Hai voglia di fuggire!
Ti veniva dietro, instancabile. Per correre più veloce s’era tolta le scarpe e ti arrivava addosso in quattro salti. E, infine, pam, il suo tiro faceva sempre centro.
Negli intervalli fra un gioco e l’altro sedevamo in faccia al mare. La sabbia era tiepida e faceva piacere starsene lì a crogiolarsi al sole.
(M. Cancogni)

Piove
Sembra un gran pianto del cielo. L’asfalto delle strade cittadina luccica… Nei campi i fossi gonfi d’acqua borbottano. I fiumi in piena corrono limacciosi e portano quanto hanno rapinato dalle prode. Le case quasi spariscono tra i veli della pioggia… E per fortuna febbraio è corto…
(G. Fanciulli)

Dettati ortografici FEBBRAIO – Tutte le opere contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.

Libri illustrati: A spasso per Venezia

Libri illustrati: A spasso per Venezia Siete pronti a scoprire una delle città più affascinanti del mondo?

Preparatevi a una passeggiata indimenticabile attraverso un labirinto di canali, ponti sospesi, piazze e stradine misteriose.
Una guida facile, con tanti giochi e illustrazioni, pagine che si aprono ad anta, notizie sulla storia e sull’arte di questa bellissima e misteriosa città…

di Alberta Garini; illustrazioni di Allegra Agliardi
n° pagine: 38 (a 3 ante); 14,5 x 21cm
prezzo: Euro 12,00
ISBN: 978-88-7874-198-0; 978-88-7874-199-7; 978-88-7874-200-0
Età: dai 6 anni
Collana: A spasso per…

Questa guida illustrata di Venezia per i piccoli è pensata per una passeggiata divertente per la città. Le pagine, che si aprono ad anta, sono ricche di giochi e informazioni interessanti su architettura, arte, cucina, feste, notizie curiose; c’è anche un glossario illustrato di parole in veneziano…

Fonte: http://lapis.weebly.com/a-spasso-per.html

 Dal sito dell’illustratrice, Allegra Agliardi:

http://www.helloallegra.it/maps/?id=14

La guida di Venezia fa parte della collana “A spasso per” della Lapis Edizioni.

http://www.helloallegra.it/maps/?id=13

Una guida turistica creata su misura per i viaggiatori più piccoli alla scoperta di Roma e delle sue meraviglie. Pratica da usare e semplice da leggere: tanti itinerari, aneddoti, curiosità, mappe, glossari e giochi per trasformare il viaggio in un’esperienza unica.

Tutorial fiocchi di neve di carta

Tutorial fiocchi di neve di carta – Una rassegna di 24 modelli per realizzare i fiocchi di neve di carta con la tecnica del paper cutting. L’attività è adatta a bambini di quarta, quinta classe. Per i bambini più piccoli si possono utilizzare piegature più semplici e spiegare come si possono praticare i tagli a mano libera, senza modello. Trovate di seguito, se può essere utile, il modello pdf stampabile gratuitamente, di tutti i fiocchi proposti.

La piegatura

Per i fiocchi di neve ci serve un foglietto di carta di forma quadrata, possiamo quindi seguire questo procedimento:

Pieghiamo lungo una delle diagonali:

pieghiamo in modo da sovrapporre l’angolo A sull’angolo B:

Pieghiamo il triangolo ottenuto in tre, così:

Teniamo presente qual è la piega principale, cioè quella non sfogliabile:

Tagliamo la carta in eccesso, così:

Posiamo sul tavolo tenendo la piega principale in basso:

Per tutti i modelli di fiocco di neve procedere così: seguendo il modello disegnare sulla carta piegata le tracce per i tagli. Si può fare senza problemi a mano libera, non è necessario essere così precisi per ottenere dei fiocchi bellissimi… la cosa veramente importante è rispettare la piega principale (nei modelli le ho sottolineate in rosso).

Tagliare e aprire il fiocco:

Modelli e fiocchi

Questo articolo fa parte dell’Album di Vita pratica:

Tutti gli album

Commedia dell’arte – recite con le maschere tradizionali italiane

Commedia dell’arte – recite con le maschere tradizionali italiane. Questi brevi dialoghi, pensati per le recite scolastiche, sono anche degli ottimi strumenti per esercitare la lettura in modo divertente. Facendo in modo che ogni bambino legga solo la voce di un personaggio, si stimolano tutti i bambini a seguire il testo mentre legge il compagno, e si migliora nella lettura a voce alta la capacità di cogliere l’intonazione e l’espressività data dai segni di interpunzione e dal contenuto del testo stesso. E’ inoltre una bella attività per viaggiare tra le Regioni italiane attraverso le maschere della Commedia dell’Arte.

Ho raccolto tutti i copioni in formato ebook, qui:

Questi sono i dialoghi 

Commedia dell’arte – Scherzo di Carnevale

La scenetta si svolge su una piazza da fiera tra Brighella, venditore di cialde, e Arlecchino.

Brighella: (davanti al banco delle cialde) Da Brighella, orsù venite; e le cialde sue sentite, fatte al gusto bergamasco, da condir con un buon fiasco!
Arlecchino: Anche tu alla bancarella, e che vendi, buon Brighella?
Brighella: cialde, cialde ancor fumanti, ma per te saran pesanti (tra sè) Ci scommetto che Arlecchino non ha il becco di un quattrino!
Arlecchino: belle, invero!… (tra sè) Che disdetta rimaner sempre in bolletta!
Brighella: Bella gente; cialde uguali, fan passare tutti i mali; e la spesa e ben meschina: cento lire una dozzina! E, su dodici, ecco qua: una in dono se ne avrà!
Arlecchino: (tra sè) Una in dono? O intesi male? Che pensata originale!
Brighella: Arlecchino, vuoi comprare? Vieni avanti, è un buon affare!
Arlecchino: Dimmi ancor… dodici cialde…
Brighella: cento lire… calde calde!
Arlecchino: E una cialda… hai detto tu…
Brighella: La regalo in sovrappiù!
Arlecchino: (servendosi di una cialda ed allontanandosi in fretta) Allor senti, buon Brighella, per intanto prendo quella e, per le altre a pagamento, tornerò un altro momento! (mangia la cialda fra le risa del pubblico)
Brighella: il furfante m’ha giocato… Ah, il citrullo che son stato!


Bugie

Brighella: avevo lasciato sul tavolo un bel pezzo di torrone. E’ sparito! Ehi, Arlecchino. Ma che guancia gonfia! Che ti succede?
Arlecchino: un terribile mal di denti. Ahi! Ahi!
Brighella: un momento fa stavi bene, però…
Arlecchino: improvvisamente ho sentito un gran male e il dente si è gonfiato!
Brighella: il dente? Vorrai dire la guancia
Arlecchino: Sì, la guancia destra
Brighella: ma non è la sinistra? A proposito: c’era qui un pezzo di torrone avvelenato per i topi…
Arlecchino: Avvelenato? (sputa il torrone) Aiutooooo!

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Commedia dell’arte – L’imbroglione bastonato

Scena 1 Una stanza in casa di Brighella. Sulle pareti di fondo la porta d’ingresso. La stanza è arredata con poche seggiole spagliate e un tavolino zoppicante. All’aprirsi del sipario, Brighella è in scena, seduto in terra, intento a rattopparsi le scarpe. Si ode bussare all’uscio.

Colombina: E’ permesso? (entra appoggiandosi ad un grosso ombrello)
Brighella: (alzandosi) avanti, avanti. Che cosa comanda?
Colombina: sta qui di casa un certo Arlecchino?
Brighella: sì, abita qui; ma in questo momento non c’è
Colombina: va bene, l’aspetterò. (si siede)
Brighella: Madamigella, il mio amico Arlecchino è uscito per un affare di premura; non so quando tornerà. C’è il caso che rientri molto tardi
Colombina: non importa. L’aspetterò lo stesso. (Si accomoda meglio sulla seggiola che scricchiola)
Brighella: Se intanto vuole dire a me di che cosa si tratta…
Colombina: Non vi prendete pena, brav’uomo. Quello che ho da dire, lo dirò al signor Arlecchino in persona quando si degnerà di tornare. Devo dirgli due paroline… (accompagna le ultime parole con un gesto minaccioso dell’ombrello).

Scena 2
Pulcinella: si può? (entra appoggiandosi ad un grosso bastone)
Brighella: Avanti… oh, caro Pulcinella, qual buon vento ti porta?
Pulcinella: (minaccioso) vento di bufera, caro Brighella
Brighella: che dici? Non comprendo…
Pulcinella: Mi capisco da me… C’è quella buona lana di Arlecchino?
Brighella: Sì, non vedo l’ora di vederlo (alza l’ombrello in maniera minacciosa)
Pulcinella: capisco. Ed io non vedo l’ora di suonarlo! (agita il grosso bastone)

Scena 3 (si odono per le scale i passi di Arlecchino che sale cantando)
Arlecchino: Fior di mortadella! Voglio mangiare e bere un anno intero, in barba a Colombina e Pulcinella…
(Colombina e Pulcinella balzano in piedi e si mettono ai lati della porta: appena Arlecchino entra, lo prendono a ombrellate e a bastonate cantando):
Colombina e Pulcinella: Fior di imbroglione! Va’ a lavorar invece di rubare! E balla intanto al suono del bastone!

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Commedia dell’arte – Castelli in aria

Rosaura: (la padrona) Colombina! Colombina!
Colombina: (la cameriera) Eccomi, signoara, Che c’è?
Rosaura: un cliente, un cliente di riguardo!
Colombina: e com’è?
Rosaura: com’è, com’è! Vai di là! Vallo a servire e lo vedrai. Ma spicciati e trattalo bene
Colombina: volo! (esce)
Rosaura: che cliente! Che vestiti!
Colombina: (rientra esultante) Signora, signora! Mi ha ordinato anguilla al forno, vino di bottiglia…
Rosaura: dici davvero? Ma questo è un gran cliente! Servilo subito, per carità
Colombina: lasci fare a me, signora. Qui si diventa ricche! (esce di corsa)
Rosaura: uno, due, tre, mille pasti. E dopo quello…
Colombina: (rientrando) Ecco, è servito. M’ha detto grazie con un cenno del capo. Pareva un duca!
Rosaura: sai che ti dico? Che se a quel cliente piacerà la nostra tavola, ritornerà
Colombina: e porterà con sè gli amici
Rosaura: duchi e marchesi
Colombina: conti e baroni
Rosaura: principesse, dame eleganti Colombina: vedremo splendere monili e anelli
Rosaura: sarà la ricchezza. Trasformeremo la trattoria. Diventerà un albergo di prima classe
Colombina: ed io sarò la direttrice della servitù
Rosaura: le mie colleghe mi invidieranno. Ma non importa. Una splendida gondola mi porterà in sogno lungo la Riva degli Schiavoni
Colombina: (affacciandosi alla porta di fondo) Signora!
Rosaura: che c’è? Colombina: (coprendosi gli occhi con le mani) Il cliente! Ha mangiato tutto!
Rosaura: beh, che c’è di male?
Colombina: ha mangiato tutto e se n’è andato senza pagare!
(Rosaura sviene)


Commedia dell’arte –  Il grano d’oro

Atto 1 (Nella casa di Arlecchino; una stanza assai povera)
Arlecchino: signor dottore, sto molto male
Dottore: dove, figliolo mio, dove?
Arlecchino: nelle tasche
Colombina: ha il vizio di tenerle sempre vuote
Dottore: vediamo… uhm! E’ un vuoto spaventoso! (esamina una tasca…). Ma che cos’è questo seme?
Arlecchino: sarà un chicco di grano, o di miglio, avanzato da quelli che offro ai piccioni sulla piazza
Dottore: (esamina il seme) Ma no, ma no… Questo è un grano d’oro… Granum auriferum… perbacco! Vale un tesoro!
Arlecchino: Un tesoro? Davvero? Qua, qua…
Dottore: Granum auriferum… rarissimo. Preziosissimo. Avete un vasetto? Un po’ di terra?
Colombina: sì sì
Dottore: pianterete questo grano, e in capo a sei mesi la pianta vi darà tanti pomi, tutti d’oro!
Arlecchino: oh, pomidori!
Dottore: dico che saranno pomi fatti d’oro. Però perchè la pianta dia il suo frutto, bisogna annaffiarla…
Colombina: con l’acqua fresca?
Arlecchino: con la malvasia?
Dottore: no, col sudore della fronte. Tu poi, Colombina, ascoltami bene. (parla sottovoce a Colombina)

Atto 2 (la medesima stanza, che ha un aspetto meno misero. Sul davanzale della finestra c’è un vasetto con una piantina)
Brighella: (entrando) C’è Arlecchino?
Colombina: è a lavorare
Brighella: anche oggi? Povero amico mio, è ammattito. Perduto. Spacciato.
Colombina: voi siete un uomo perduto, che passate i giorni all’osteria e vorreste trascinare anche gli amici alla rovina!
Brighella: badi come parla, signora Colombina, io sono un servo onorato
Colombina: non vi dico nè sì nè no, ma sono contenta che Arlecchino non frequenti più la vostra compagnia. Ah! Eccolo che viene!
Arlecchino: (entrando in furia) Lasciatemi passare, che il sudore si raffredda!
Brighella: e per non raffreddarti vai sotto la finestra?
Arlecchino: (curvo sul vasetto del davanzale) Devo provvedere all’innaffiatura del mio grano dorifero
Brighella: grano? Dorifero? E con che cosa lo annaffi?
Arlecchino: col sudore, caro, col sudore della fronte!
Brighella: povero amico mio! E’ davvero ammattito! (esce di corsa)

Atto 3 (la stanza non ha più quell’aria di povertà che prima faceva male. Vi è qualche mobile nuovo, e le tendine candide fanno allegria)
Arlecchino: eppure, comincio a credere che Brighella abbia ragione. Per questo grano indorifero io lavoro dalla mattina alla sera. Lustro le scarpe ai forestieri, spazzo le strade, porto lettere urgenti, scarico le tartane, spolvero le insegne delle botteghe, scaccio le mosche… tutti i mestieri. E lui? (guardando il vasetto sul davanzale). Il signor grano ha messo fuori un palmo di piantina, e ancora nemmeno un pomo
Colombina: il dottore ha detto che ci vorranno sei mesi, caro Arlecchino
Arlecchino:  e proprio oggi scade il semestre
Colombina: ma davvero?
Arlecchino: verissimo, difatti ecco qui il dottore
Dottore: buongiorno, amici
Arlecchino: dottore, se è venuto per verdere il suo grano dorifero sta fresco! Per ora niente.
Dottore: comincerò col visitare le tue tasche… Ehi! Andiamo molto meglio! Qui ci sono tre monete d’argento!
Arlecchino: oh, a furia di sudare, ne è passato di denaro nelle mie mani!
Colombina: è un bel gruzzolo, eccolo qui! (va al cassetto, ne trae un rotolo di monete e lo mostra)
Arlecchino:  possibile? Tutto questo denaro è nostro?
Colombina: sicuro. Da quando non vai più all’osteria e lavori, io ho seguito con impegno i consigli del buon dottore. Cioè ho messo in serbo gran parte dei tuoi guadagni, mentre non ti ho fatto mancare nulla; e ho anche potuto pagare i debiti e abbellire un poco questa casa.
Dottore: come vedi, il granum auriferum ha mantenuto la promessa. I suoi pomi sono nati nelle tue tasche.
Arlecchino:  Ho capito! Bellissima cura…


Il naso di Cirano

Cirano: Sbrigati! O rispondi! Perchè mi guardi il naso?
seccatore: (sbigottito) io…
Cirano: (andandogli addosso) perchè ti confondi?
seccatore: (retrocedendo) vostra grazia s’inganna!
Cirano: dimmi… è molle  e cascante come la proboscide, forse, di un elefante?
seccatore: io… non…
Cirano: è adunco come il becco di una civetta?
seccatore: io…
Cirano: forse alla punta c’è qualche pustoletta?
seccatore: ma…
Cirano: qualche mosca forse vi passeggia o vi dorme? Che c’è di strano?
seccatore: oh!
Cirano: forse c’è un fenomeno straordinario?
seccatore: ma di non porvi gli occhi mi ero fatto un dovere!
Cirano: e perchè non guardarlo, se è lecito sapere?
seccatore: io…
Cirano: vi disgusta, dunque?
seccatore: signore…
Cirano: il suo colore vi fa pena?
seccatore: signore…
Cirano: vi par di forma orrenda?
seccatore: ma niente affatto!
Cirano: e allora, perchè fate quel muso? Lo trovate forse un po’ troppo diffuso?
seccatore: ma io lo trovo invece piccolo, impercettibile…
Cirano: Come! Mi accusate di una cosa così ridicola? Possibile? Piccolo il naso mio?
seccatore: cielo!
Cirano: enorme il mio naso? Vilissimo camuso, siate ben persuaso che di quest’appendice mi glorio e mi delizio; capita che un gran naso sia il vero e proprio indizio di un uomo buono, affabile, cortese, liberale, di coraggio e di spirito, quale io sono e quale non vi sarà mai lecito di credervi, marrano! Perchè l’ingloriosa faccia che la mia mano si degna di cercare sul vostro collo è priva… (lo schiaffeggia)
seccatore: ahi! ahimè!
Cirano: … di fierezza, di slancio, d’inventiva, di lirismo, di genio, di grandezza morale, di naso insomma. Come quella… (lo rivolge per le spalle, aggiungendo il gesto alla parola) … che il mio stivale viene a cercarvi sotto le terga!
seccatore: (fuggendo) aiuto!
Cirano: avverto, a chi trovi faceto il centro del mio viso! E se il burlone è nobile, a punirlo provvede, davanti, e un più in alto, la spada  e non il piede!

(E. Rostand-Cirano di Bergerac)

Il seccatore

Pantalone sta leggendo un libro. Bussano alla porta d’ingresso e Arlecchino va ad aprire; poi, con sgambetti e piroette, farà da spola tra il visitatore e il padrone.
Cavaliere di Ripafratta: vorrei parlare col tuo padrone, è in casa?
Arlecchino: non lo so Cavaliere di Ripafratta: e allora fammi il favore di andare a vedere
Arlecchino: non occorre, adesso glielo domando. (A Pantalone) Padrone, c’è di là un tale che vorrebbe parlare con lei, che cosa gli dico?
Pantalone: Auff! Non si può stare un momento tranquilli. Digli che non ci sono.
Arlecchino: Sta bene. (al cavaliere)Il mio illustrissimo signor padrone, Pantalone dei Bisognosi, in casa non c’è.
Cavaliere di Ripafratta: ne sei certo?
Arlecchino: Certissimo. Me l’ha detto lui.
Cavaliere di Ripafratta: ebbene, io sono il Cavaliere di Ripafratta. Digli che devo assolutamente parlargli. Si tratta di un affare che urge e che non può essere rimandato.
Arlecchino: glielo dico subito! (A Pantalone) Quel tale dice di essere il Cavaliere di Ripafritta e che si tratta di un affare che urge
Pantalone: quel tale è un seccatore! Gliel’hai detto che non sono in casa?
Arlecchino: gliel’ho detto, ma vuol parlare lo stesso
Pantalone: digli che non posso riceverlo, che sto poco bene, che sono a letto ammalato.
Arlecchino: Signorsì. (al cavaliere) Eccellenza, il mio padrone non può riceverla perchè sta poco bene. E’ a letto ammalato.
Cavaliere di Ripafratta:  oh, mi dispiace. Ma sono capitato a proposito. Ho studiato medicina e mi basterebbe tastargli un momentino il polso, per sapere di che malattia è affetto. Va’ a dirglielo.
Arlecchino: Vado. (a Pantalone) Il Cavaliere ha fatto un grande discorso.
Pantalone: insomma, non vuol andarsene?
Arlecchino: no, non vuol andarsene. Ma gli basterebbe tastarle il polso.
Pantalone: vorrebbe tastarmi il polso? Digli che ho una malattia contagiosa. Digli che ho gli orecchioni e se mi viene vicino se li prende anche lui. Vai, corri.
Arlecchino: corro con tutte le mie gambe. (al cavaliere) Il mio padrone ha le orecchie asinine e se uno lo tocca diventa un asino anche lui
Cavaliere di Ripafratta: niente paura! E’ una malattia che ho avuto anch’io da bambino e chi l’ha avuta una volta non la prende più. Ma digli che, per fortuna, ho con me una pomata prodigiosa e se mi permette di spalmargliela, guarisce all’istante.
Arlecchino: E’ una vera fortuna! (a Pantalone) Dice che ha una marmellata speciale da mettere sulle orecchie Pantalone: questa è una vera persecuzione! Io voglio essere lasciato in pace. Digli che sono moribondo e sto dettando il testamento
Arlecchino: è una buona idea. (al cavaliere) Il mio padrone è occupatissimo a fare il testamento e deve farlo in fretta perchè sta per morire
Cavaliere di Ripafratta: il questo caso potrei essergli utile come testimone e metter la firma sul documento. Va’ subito a dirglielo
Arlecchino: (a Pantalone) dice che potrebbe far da compare
Pantalone: digli che sono morto Arlecchino: (al cavaliere) il mio padrone è morto
Cavaliere di Ripafratta: sono veramente addolorato. Vengo a recitare una preghiera per lui. (Passa imperterrito davanti all’esterrefatto Arlecchino)


Commedia dell’arte – Fabrizio e Succianespole (Arlecchino)

Fabrizio:Ehi Succianespole!
Succianespole: Signore…
Fabrizio: E’ acceso il fuoco?
Succianespole: gnor no
Fabrizio: come stiamo in cucina?
Succianespole: Bene
Fabrizio: perchè non è ancora acceso il fuoco?
Succianespole: perchè non c’è legna
Fabrizio: non mi star a far lo scimunito, chè oggi ho da dar pranzo a un’eccellenza
Succianespole: ci ho gusto
Fabrizio: Succianespole, che cosa daremo a pranzo a sua eccellenza?
Succianespole: tutto quello che comanda vostra eccellenza
Fabrizio: quante volte mi faresti arrabbiare con questa tua flemmaccia maledetta!
Succianespole: io sono lesto
Fabrizio: lo sai fare il pasticcio di maccheroni?
Succianespole: gnor sì
Fabrizio: un fricandò alla francese?
Succianespole: gnor sì
Fabrizio: una zuppa con l’erbucce?
Succianespole: gnor sì
Fabrizio: con le polpettine?
Succianespole: gnor sì
Fabrizio: e coi fegatelli arrostiti?
Succianespole: gnor sì
Fabrizio: hai denari da spendere?
Succianespole: gnor no
Fabrizio: ti ho pur dato uno zecchino!
Succianespole: quanti giorni or sono?
Fabrizio: lo hai già speso?
Succianespole: gnor sì
Fabrizio: e il tuo salario che ti ho dato, l’hai speso?
Succianespole: gnor sì
Fabrizio: e non hai più un quattrino?
Succianespole: gnor no
Fabrizio: maledetto sia il gnor sì e il gnor no. Si sente altro da te che gnor sì e gnor no?
Succianespole: insegnatemi che cosa ho da dire
Fabrizio: bisogna pensare a trovar denari
Succianespole: gnor sì
Fabrizio: quante posate ci sono?
Succianespole: sei, mi pare
Fabrizio: sì, erano dodici, se le ho impegnate restano sei. Siamo in quattro, impegniamone due.
Succianespole:  gnor sì
Fabrizio: vai al Monte e spicciati
Succianespole: gnor sì
Fabrizio: non mi fare aspettare due ore
Succianespole:gnor no
Fabrizio: andremo a spendere quando torni
Succianespole: gnor sì
Fabrizio: c’è vino?
Succianespole: gnor no
Fabrizio: c’è pane?
Succianespole: gnor no
Fabrizio: gnor sì, che tu sia bastonato
Succianespole: gnor no…

(Carlo Goldoni)

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A Carnevale ogni scherzo vale

Brighella: (solo, parla fra sè) Non so che cosa darei per potermi pappare una di quelle scatole di cioccolatini che al solo vederle in vetrina ti fan scendere giù per la gola una certa acquolina…
Arlecchino: (che giunge in quel momento) Ciao, Brighella. Ho piacere di incontrarti. Può darsi che tu mi possa aiutare. Senti, ho assoluto bisogno di duecento lire che mi servono subito. So che tu sai trovare il modo di farle saltare fuori. E non lo farai gratuitamente, s’intende. Guarda qui: una scatola di cioccolatini che mi è stata regalata due giorni fa per il mio compleanno. E’ tua, se mi dai duecento lire. Eh, che ne dici?
Brighella: (che fa gli occhi lucidi nel vedere l’oggetto dei suoi sogni) Perdinci, Arlecchino, che bella scatola! Cioè, no, non è poi tanto bella… e duecento lire sono duecento lire…
Arlecchino: ehi, ma dico? Non lo sai che una scatola simile la pagheresti duemila lire in un negozio come si deve? E tu fai il tirchio per duecento… bene… bene… o prendere o lasciare. Decidi.
Brighella: per avere duecento lire, io le avrei. Me le ha regalate mio zio proprio ieri per un servizio che gli ho reso. Ma dartele proprio tutte… non potresti accontentarti di 150?
Arlecchino: sei matto? O 200 o non se ne fa niente. Per l’ultima volta: accetti o non accetti?
Brighella: (che non resiste alla dolce tentazione) E va bene, eccoti le 200 lire.
Arlecchino: ed eccoti la scatola. (consegna la scatola e poi se ne va di gran corsa)
Brighella: (senza metter troppo tempo in mezzo rompe la carta che avvolge la scatola, rompe la scatola stessa, e ahimè! Che cosa trova? Gusci di castagne, di noci e di nocciole) Aiuto! Al ladro! Gente, venite! Mi hanno rubato 200 lire! E’ stato Arlecchino! Pigliatelo!
Un ragazzo: (fra il gruppo di alcuni che si sono avvicinati alle sue grida) Ehi, Brighella! Cosa dici? Come è andata? Come ha fatto Arlecchino a rubarti 200 lire?
Brighella: Non è in verità che me le abbia proprio rubate. Ma io gliele ho date in cambio di una scatola di cioccolatini. Ed ecco invece che cosa ho trovato! (mostra le bucce)
Ragazzo: Ah, ah, furbo Arlecchino! Più furbo di te che credi di esserlo tanto. Non sai che siamo a Carnevale? E che a Carnevale ogni scherzo vale? Smettila di fare quella faccia e fatti furbo, un’altra volta!


Commedia dell’arte –  Arlecchino e l’oste

Arlecchino, a cavallo del suo asino, viaggia da qualche ora lungo una strada di campagna. Ha in tasca soltanto dieci soldi ed è affamato. Trova finalmente un’osteria e vi entra…
Oste: cosa volete?
Arlecchino: Tre soldi di minestra, tre di pane, tre di salame e tre di vino (L’oste gli mette in tavola quanto ha ordinato)
Arlecchino: (dopo aver mangiato) se ho più fame di prima, devo pagare lo stesso il conto?
Oste: ciò che si mangia si paga, poco o tanto che sia
Arlecchino: giusto. Quanto devo pagare?
Oste: dodici soldi in tutto
Arlecchino: Ohibò, qui c’è un imbroglio.
Oste: come sarebbe a dire?
Arlecchino: il conto è presto fatto: tre di minestra, tre di pane e tre di salamino. Nove in tutto.
Oste: e il vino?
Arlecchino: ah, dico bene. Tre di pane, tre di minestra e tre di vino.
(L’oste comincia a perdere la pazienza e.. continuando a tenere alzate tre dita della mano destra, ripete sottovoce: “Tre di minestra, tre di pane…”.
Arlecchino posa sul tavolo nove soldi e si allontana col ciuco, lasciando l’oste immerso nei suoi calcoli
Arlecchino: (parlando all’asino) Vecchio mio, allegria! M’è rimasto un soldo per comprarti un po’ di biada!
Oste: (nella bettola, facendosi portavoce con la mano) E il salamino?
Arlecchino: (gridando da lontano) Se lo incontra me lo saluti tanto!


Commedia dell’arte – Dialogo di Arlecchino e Pantalone

Arlecchino: oh, come sono stanco! Non ho proprio voglia di far nulla!
Pantalone: Arlecchino!
Arlecchino: Uh, è già qui! Un’idea! Mi fingerò sordo e così non lavorerò
Pantalone: Arlecchino Arlecchino, va’ subito a prendermi la medicina!
Arlecchino: Come? Devo andare in cucina? Pantalone: Ma che cucina! La medicina ho detto. Corri a prenderla in farmacia!
Arlecchino: quale Lucia? Non ne conosco io di Lucia!
Pantalone: ma cosa dici, Lucia! Sei diventato matto?
Arlecchino: il gatto? Queste è bella!
Pantalone: Mattooo!
Arlecchino: No, mi son venuti gli orecchioni e sono diventato sordo…
Pantalone: che cosa?
Arlecchino: no, non la rosa! Sordo!
Pantalone: sei diventato sordo? Ora prenderò il bastone e ti farò guarire!
Arlecchino: no, no! Aiuto! Vado subito in farmacia!

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Commedia dell’arte –  Pulcinella e le frittelle

Rosaura: Pulcinella!
Pulcinella: ai suoi ordini, signora
Rosaura: ascoltami bene. Ora verrà Colombina. Mentre io parlerò con lei, tu sorveglierai le frittelle perchè non brucino
Pulcinella: (facendo un inchino) Ma con piacere, signora. (Suona il campanello)
Rosaura: Ecco la mia cara Colombina! Va’ va’ Pulcinella! (Questi fa un altro inchino ed esce. Entra Colombina)
Colombina: Rosaura mia, come sei bella! Che abiti splendidi!
Rosaura: anche tu Colombina sembri una regina
Colombina: non facciamoci troppi complimenti, amica mia. Andiamo piuttosto sul balcone per vedere le mascherine… (si ode un urlo di Pulcinella che arriva in scena tenendosi una mano sulla bocca)
Colombina e Rosaura: Che cosa hai fatto,  Pulcinella?
Pulcinella: (continua a tenersi una mano sulla bocca e gira intorno, mugolando)
Rosaura: vuoi dire che cosa hai fatto? Pulcinella: (parlando male) Sorvegliavo le frittelle e mi… mi… mi sono scottato la lingua
Colombina: Come?
Pulcinella: mi sono scottato la lingua.
Rosaura: Ah, briccone! Tu mangiavi le frittelle, altro che storie! Via di qua, prima che ti bastoni! (Pulcinella scappa gesticolando)
Colombina: Perdonalo, Rosaura
Rosaura: sì, lo perdonerò, tanto si è già punito da solo.


Il bugiardo sbugiardato

Arlecchino: ciao Brighella Brighella: ciao Arlecchino, che fai da queste parti? E come sei vestito bene!
Arlecchino: la fortuna, caro mio, sono un signore
Brighella: vedo… che ti è capitato?
Arlecchino: viaggio in incognito Brighella: che nome ti sei preso?
Arlecchino:  Conte dei Talleri
Brighella: Uhm… bello. E che fai?
Arlecchino: nulla. Sono ricco.
Brighella: beato te…ora vado, ho fretta.
Arlecchino: sempre a piedi, eh Brighella? Io invece, carrozze e cavalli.
Brighella: come mai sei solo e a piedi?
Arlecchino: ehm… aspetto. Così, per mio piacere e diletto
Brighella: Arlecchino, oh, mi scusi. Signor Conte dei Talleri…si ricordi di me, del povero Brighella
Arlecchino:  non dubitare
Pantalone: (di dentro) Arlecchino! Arlecchino! Ma dove si è cacciato quel servitore fannullone?
Arlecchino: Santo cielo, il mio padrone…
Brighella: ma come? Non sei qui per piacere?
Arlecchino: povero me. Bisogna che vada subito. Per forza! Addio, Brighella…
Brighella: addio signor bugiardo,conte dei Talleri!

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Commedia dell’arte – I due fannulloni

Narratore: Arlecchino e Pulcinella sono a letto. Fa molto freddo e un colpo di vento a un tratto spalanca la porta…
Arlecchino: per favore, chiudi la porta
Pulcinella: Già… è un favore che volevo chiederti io
Arlecchino: ma io mi sento male. Devo avere la polmonite
Pulcinella: mi alzerei subito, ma ho un gran mal di testa, quattordici geloni e l’appendicite
Narratore: il vento soffia alla porta: uh! Uh! Arlecchino e Pulcinella ficcano il capo sotto le coperte. Intanto entra il Dottor Balanzone
Balanzone: perbacco! Mai visto gente che dorme con la porta aperta con questo freddo. Ma i padroni dove sono?
Arlecchino e Pulcinella: siamo qui sotto.
Balanzone: perchè non avete chiuso la porta?
Arlecchino: io ho la polmonite
Pulcinella: e io l’appendicite
Balanzone: bene bene, sono arrivato al momento buono… Prendo i ferri e in quattro e quattr’otto…
Arlecchino: i ferri? Aiuto!
Pulcinella: i ferri? Aiuto!
Narratore: e i due fannulloni saltano dal letto e scappano a gambe levate…


Discussione aritmetica

Arlecchino: prima di tutto pensiamo a mangiare, sacco vuoto non sta ritto
Pulcinella: pensiamo a mangiare e a bere, a bere e a mangiare
Colombina: mettetevi a sedere e vi servo subito: quanti siete?
Gianduia: io uno, Arlecchino due, Pulcinella tre, Pantalone quattro, Stenterello cinque, Meo Patacca sei, e io sette. Siamo sette, sette precisi.
Meo Patacca: e invece siamo cinque: Stenterello, Pantalone, Pulcinella, Arlecchino e tu. Dico cinque, e se non ci credi ho qui il mio bastone che conta meglio di tutti
Gianduia: e allora se siamo cinque due di noi restano senza mangiare
Stenterello: io sarò uno dei due, perchè non ho quattrini
Pantalone: che importa se non hai quattrini? Non sai che pago sempre io? Ma Colombina, com’è questa faccenda? Hai portato cinque porzioni e io sono rimasto senza… eppure mi avevano contato!
Meo Patacca: Vuol dire che a tavola c’è qualcuno che prima non c’era
Gianduia: dicevo bene! Eravamo sette, e pagherei per sapere chi è lo stupido che se ne è andato.


Commedia dell’arte – Meglio tardi

(una camera da letto) Scena I
Silvestro: chi bussa?
Dottore: sono io, il dottore
Silvestro: entrate
Dottore: m’hanno detto che state male e son venuto a trovarvi
Silvestro: roba da poco, dottore, un po’ di tosse
Dottore: vediamo… (gli poggia l’orecchio sul petto) …sè, tosse e un po’ di bronchite. Un male di stagione
Silvestro: di stagione o no, se non c’era stavo meglio e potevo curare i miei affari
Dottore: oh, quelli possono anche aspettare
Silvestro: lo dite voi! Con l’aria che tira in paese. Questi assassini non si decidono mai a rendermi i miei soldi.  A farseli prestare sono tutti buoni. Ma a renderli, ti voglio!
Dottore: pagheranno, pagheranno, state sicuro. Intanto prendete queste goccioline prima dei pasti. Faranno miracoli, vedrete. Ora debbo andare.
Silvestro: speriamo bene. Arrivederci,  dottore.

Scena II
Silvestro: chi bussa?
Fedele: Sono Fedele, il vostro amico fedele
Silvestro: vieni, vieni
Fedele: ho qui con me i soldi che vi devo. Ma vorrei riavere quella ricevuta che vi firmai.
Silvestro: non ti fidi? Amico fedele davvero!
Fedele: già… insomma, sapete, da un momento all’altro potreste morire e io non voglio pagare due volte
Silvestro:cosa, cosa, cosa? Io, morire? Ti piacerebbe, eh… Piacerebbe a tutti voi!
Fedele: ma che dite? Io voglio solo la mia ricevuta
Silvestro: (tira fuori da sotto il materasso una borsetta di pelle e con fare misterioso tira fuori un fogliettino) Tieni, Fedele amico fedele. Tieni, ma non farti più vedere, fila

Scena III
Silvestro: chi bussa?
Michele: sono Michele
Silvestro: non conosco Micheli, io
Michele: come? Sono Michele, il becchino
Silvestro: cosa?
Michele: ho saputo che stai male e allora sono venuto a prendere certe misure…
Silvestro: rendimi i miei soldi piuttosto
Michele: e se poi morite?
Silvestro:via di qua. Cani, cani. (grida, ma la tosse lo interrompe)

Scena IV
Silvestro: il dottore, o il becchino… anche l’amico non si fida più. Ma perchè? Cos’ho fatto, che mi lasciano qui solo, come un povero lebbroso. Eppure sono nato anch’io in questo paese. E li conosco tutti meglio di chiunque altro. Se mi volessero un po’ di bene, chi sa quanti sarebbero venuti a tenermi compagnia. Si giocherebbe un po’ a carte… Non si parlerebbe d’affari… Povero Silvestro!
(Mentre sta con la borsetta delle ricevute fra le mani, bussano alla porta)

Scena V
Silvestro: chi bussa?
Don Luigi: Sono don Luigi, il parroco
Silvestro: venite proprio a proposito. Prima il dottore, poi il becchino e ora il prete.
Don Luigi: Perchè dite così, signor Silvestro? Io non sapevo che eravate malato. Son passato di qui e mi son ricordato che non ci vediamo da un pezzo, noi due, e intanto in paese la gente mormora sempre di più contro di voi
Silvestro: ma cosa vogliono, infine!
Don Luigi: Vogliono che vi comportiate più da cristiano! Ecco cosa vogliono. E poi, detto fra noi, cosa volete farne dei vostri soldi? Prima o poi dovrete lasciarli. Se sapeste quanti poveri vi bacerebbero le mani se… Non avreste più paura del dottore, del becchino e del prete. Pensateci signor Silvestro, non è ma tardi per cominciare a fare il bene
Silvestro: ma non vedete che nessuno si cura di me. Mi lasciano solo qui, come un cane arrabbiato
Don Luigi: Volete scommettere che domani avrete la casa piena di gente? Datemi le vostre ricevutine…
Silvestro: (con voce commossa) Tenete, tenete, e pigliate anche quei soldi là nel cassetto del tavolo. Dateli a chi vi pare. Voi sapete più di me e farete meglio. Ma vi prego, non mi abbandonate più. E ditelo, ditelo ai miei compaesani. Silvestro vuol bene a tutti, capito? Anche ai debitori che non pagheranno più!

(U. Grimani)

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Commedia dell’arte – Le lettere per la mamma

Pantalone: (solo) Arlecchino! Arlecchinooo!
Arlecchino: (entra) Eccomi, illustrissimo signor padrone
Pantalone: me lo sai dire perchè quando ti si chiama non rispondi subito? Me lo sai dire?
Arlecchino: signornò, illustrissimo padrone, non lo so
Pantalone: non ho mai visto un servitore infingardo come te. Ora ascoltami bene. Mi ascolti?
Arlecchino: Signorsì, illustrissimo signor padrone.
Pantalone: ho fatto un po’ di ordine nei cassetti della mia scrivania. Tu adesso prendi quella cartaccia e la butti nelle immondizie. Hai capito?
Arlecchino: signorsì, ho capito. Devo buttare via tutta quella cartaccia. Ma proprio tutta?
Pantalone: Sì, tutta. E’ roba che non serve più: vecchi giornali, vecchi conti del lattaio, vecchie lettere
Arlecchino: anche le lettere devo buttar via?
Pantalone: certamente, anche le lettere Arlecchino: signor padrone, queste lettere…
Pantalone: ebbene?
Arlecchino: potrei…
Pantalone: che cosa?
Arlecchino: queste lettere potrei tenermele io?
Pantalone: vuoi tenerle tu? E cosa vuoi farne?
Arlecchino:  è una storia un po’ lunga. Quando io partii da Bergamo… Lei sa che io sono di Bergamo?
Pantalone: Lo so, continua
Arlecchino: dunque, quando io partii da Bergamo, la mamma era molto triste. Mi disse: “Arlecchino mi raccomando, mandami ogni tanto una lettera”…
Pantalone: e tu gliel’hai mandata?
Arlecchino: No
Pantalone: e perchè?
Arlecchino: perchè io non so scrivere e penso che adesso potrei forse mandarle una di queste, ogni tanto…


Commedia dell’arte –  In piazza

Pulcinella: Dove vai, amico Arlecchino?
Arlecchino: Il mio padrone mi ha detto di comperargli due chili di orecchiandoli ben tirati
Pulcinella: Quand’è così, eccoti servito! (gli tira più volte le orecchie)
Arlecchino: Ahi! Ahi! Mi hai fatto male!
Pulcinella: (ridendo) Sono questi gli orecchiandoli ben tirati!
Arlecchino: (piagnucolando) Un’altra volta ci faccio andare il padrone a comprarli.
Pulcinella: Bravo. Ora sentiamo Brighella, che intenzione ha. Ehi, Brighella, non saluti neppure?
Brighella: (capo chino, come se cercasse qualcosa per terra) Mi è accaduta una grave disgrazia. Ho perduto  una moneta d’oro.

Ebook CARNEVALE – Materiale didattico per il Carnevale

Free ebook CARNEVALE – Spunti e materiale didattico vario (letture, dettati, schede da colorare, poesie e filastrocche, recite, cenni storici sul Carnevale e sulle maschere, le maschere tradizionali italiane e la commedia dell’arte, e altro ancora) per il periodo di Carnevale. Il materiale è particolarmente adatto alla scuola primaria; qui in formato ebook da scaricare, stampare, condividere.
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Maschere da colorare di Carnevale – schede e free ebook

Maschere da colorare di Carnevale – schede e free ebook – schede delle principali maschere tradizionali italiane, con descrizione e disegno da colorare, in formato ebook e in formato pdf, pronte per il download gratuito e la stampa.

 Questo è il contenuto delle schede:

qui le schede in formato ebook:

Altro materiale sulle maschere tradizionali italiane

IL CARNEVALE materiale didattico
In febbraio comincia il lieto periodo del Carnevale, che può dirsi la festa dei bambini perchè, in genere, sono loro che tramandano ancora la tradizione delle maschere. I Greci e i Romani usavano maschere tragiche o comiche che i loro attori tenevano sul viso durante la rappresentazione. Nel settecento, su questi modelli, altri tipi di maschere furono escogitati e introdotti nel teatro. Nacquero così le maschere italiane, e si può dire che ogni regione abbia la sua…

Il Piemonte ha Gianduia, montanaro dalle scarpe grosse e dal cervello fino.
Meneghino, milanese, è un golosone impertinente, ma anche cordiale, sincero, generoso.
A Bergamo c’è Gioppino, sornione e trasognato, almeno in apparenza, perchè, se qualcosa non gli va, eccolo a roteare il suo bastone e a distribuire sonanti cariche di legnate.
Arlecchino ha un abito fatto di pezze di tutti i colori, cento ritagli di stoffa offertigli dagli amici per potersi confezionare un indumento che non possedeva.
Pantalone è di Venezia. Vestito di rosso, col mantello nero, secondo la tradizione è piuttosto avaro ma, come capita spesso agli avari, è a lui che si estorcono i denari per pagare i debiti agli altri.
Talvolta gli si accompagna Colombina, maliziosa e pettegola, che fa il paio con la sua amica
Rasaura, anch’essa di lingua lesta e di movenze aggraziate e civettuole.
Compagno inseparabile di Rosaura è Florindo, azzimato e lezioso.
Bologna la dotta ha per esponente Balanzone, sputasentenze, spaccone e bonario, sempre pronto a distribuire purganti e pillole.
Stenterello è fiorentino: arguto e di lingua appuntita, non risparmia motti da levare il pelo, così come è in uso tra gli abitanti della sua città.
Roma ha Rugantino, anche lui spaccone, ma di cuor d’oro.
Pulcinella è la maschera tipica di Napoli; vestito di un bianco camicione, ha una maschera nera con un grosso naso caratteristico. E’ buffo, sornione, arguto e… scroccone.
Reggio ha Fagiolino, Modena Sandron, Verona Facanapa …
… e si può dire che ogni regione ha la sua maschera, sempre allegra, ridaciana e arguta. Ogni maschera usa il dialetto caratteristico della città in cui vive e rappresenta un personaggio che riassume in sè i vizi e le virtù dei suoi cittadini.
… continua qui:

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