Il Carnevale: materiale didattico

Il Carnevale: materiale didattico – In febbraio comincia il lieto periodo del Carnevale, che può dirsi la festa dei bambini perchè, in genere, sono loro che tramandano ancora la tradizione delle maschere. I Greci e i Romani usavano maschere tragiche o comiche che i loro attori tenevano sul viso durante la rappresentazione. Nel settecento, su questi modelli, altri tipi di maschere furono escogitati e introdotti nel teatro. Nacquero così le maschere italiane, e si può dire che ogni regione abbia la sua… 

Il Piemonte ha Gianduia, montanaro dalle scarpe grosse e dal cervello fino.
Meneghino, milanese, è un golosone impertinente, ma anche cordiale, sincero, generoso.
A Bergamo c’è Gioppino, sornione e trasognato, almeno in apparenza, perchè, se qualcosa non gli va, eccolo a roteare il suo bastone e a distribuire sonanti cariche di legnate.
Arlecchino ha un abito fatto di pezze di tutti i colori, cento ritagli di stoffa offertigli dagli amici per potersi confezionare un indumento che non possedeva.
Pantalone è di Venezia. Vestito di rosso, col mantello nero, secondo la tradizione è piuttosto avaro ma, come capita spesso agli avari, è a lui che si estorcono i denari per pagare i debiti agli altri.
Talvolta gli si accompagna Colombina, maliziosa e pettegola, che fa il paio con la sua amica Rasaura, anch’essa di lingua lesta e di movenze aggraziate e civettuole.
Compagno inseparabile di Rosaura è Florindo, assimato e lezioso.
Bologna la dotta ha per esponente Balanzone, sputasentenze, spaccone e bonario, sempre pronto a distribuire purganti e pillole.
Stenterello è fiorentino: arguto e di lingua appuntita, non risparmia motti da levare il pelo, così come è in uso tra gli abitanti della sua città.
Roma ha Rugantino, anche lui spaccone, ma di cuor d’oro.
Pulcinella è la maschera tipica di Napoli; vestito di un bianco camicione, ha una  maschera nera con un grosso naso caratteristico. E’ buffo, sornione, arguto e… scroccone.
Reggio ha Fagiolino, Modena Sandron, Verona Facanapa …

… e si può dire che ogni regione ha la sua maschera, sempre allegra, ridaciana e arguta. Ogni maschera usa il dialetto caratteristico della città in cui vive e rappresenta un personaggio che riassume in sè i vizi e le virtù dei suoi cittadini.

Ho raccolto il materiale pubblicato in questo articolo in formato ebook, qui:

https://shop.lapappadolce.net/prodotto/materiale-didattico-per-il-carnevale/

Questo è il contenuto

Piccola storia delle maschere

Furono i Greci a introdurre nel teatro il modo di camuffarsi e l’uso delle maschere così uno stesso attore poteva sostenere più ruoli, ampliare per mezzo della maschera stessa la propria voce, sottolinare i lineamenti del volto che dovevano esprimere o ira, o gioia… Giunsero in Italia attraverso i teatri della Magna Grecia e poi per tutta la penisola. Lorenzo il Magnifico, nella seconda metà del 400, incoraggiò le pompe carnevalesche e le sere meravigliose e  importanti. Verso la fine del XVI secolo nasce la Commedia dell’Arte e le maschere italiane diventano popolari in tutta Europa.

Arlecchino

Arlecchino è una maschera dal costume fatto di stracci di tutti i colori. Sua città d’origine è Bergamo. Arlecchino rappresentò i bergamaschi in un primo momento, poi divenne una maschera popolare e anche il suo costume cambiò. Prima era servo, poi  diventò un poltrone e un imbroglione, desideroso solo di mangiare. Il più importante autore di commedie che hanno per protagonista questa maschera fu Goldoni.

Arlecchino si presenta
Vi saluto, piccoli amici. Allegria! E’ Carnevale! Come, non mi riconoscete? Non vedete il mio vestito di pezze multicolori, la mia barbetta nera, la spada di legno, la scarsella sempre vuota appesa alla cintura?
Sono Arlecchino Batocio, nato a Bergamo più di quattrocento anni fa: la più bizzarra, la più originale di tutte le maschere del mondo! Sono agile come una cavalletta, coraggioso come un coniglio grigio, goloso come quel biondino seduto nell’ultimo banco. Se qualcuno mi dà noia, guai a lui! Mi accendo di rabbia come un fiammifero svedese e lo bastono di santa ragione. Non importa se poi, le prendo sonore anch’io: il mio destino è questo ormai: bastonare e essere bastonato. Tanto c’è chi mi consola: la mia dolce e buona Colombina.
(G. Kierek e D. Duranti)

Arlecchino
Da dove viene? Da Bergamo. Intendiamoci bene: non è che a Bergamo sia nato un omettino come lui, con quel testone fuligginoso e tondo e quelle setole di sopracciglia sopra due buchetti lucidi e neri, che gli fan da occhi; nè a Bergamo usarono mai vestiti come quello che egli indossa, tutto quadrettini rossi, bianchi, gialli, turchini. Ma dal buonumore bergamasco fu donato al teatro questo buffissimo tipo di servo, di facchino, di vagabondo che tutti i paesi del mondo hanno amato e festeggiato. In fondo è un gran bonaccione, anche quando vuole imbrogliare, l’imbrogliato è sempre lui. Colpa della sua ignoranza non dovuta, ohimè, a negligenza personale, ma al fatto che, mentre andava a scuola, una vacca gli ha mangiato i libri. (R. Simoni)

Pulcinella
Figura goffa e buffa; gran nasone, mascherina nera, una bobba, un cappello a punta, un camiciotto bianco, oppure un grembiule giallo e rosso stretto alla vita, un par di braconi pure gialli, un mantelletto sulle spalle, giallo orlato di verde, collaretto e calze bianche, scarpe gialle con nastri rossi: un pappagallo tale e quale! Ma quante risate matte ha fatto fare questa maschera partenopea nota in tutto il mondo. (A. Gabrielli)

Arlecchino
Arlecchino è bergamasco; viene dalle vallate che circondano Bergamo. Magro, con una curiosa pancetta sporgente, lesto di gambe e pronto di lingua, è chiacchierone, mettimale e mettibene, a seconda delle circostanze, e, quando fiuta odor di vivanda nessuno lo tiene più: Arlecchino ha sempre una fame da lupo.

Il dottor Balanzone
E’ una maschera che parla molto; è la maschera che parla più di tutte. Bolognese, il Dottor Balanzone espone con sussiego le sue idee e i suoi consigli, ricorrendo a un diluvio di parole, infarcite di sentenze latine, di detti sgangherati nella grammatica e nella sintassi, ma risonanti, pomposi, imponenti, tali da far restare a bocca aperta. Procede imperterrito nei suoi discorsi senza spaventarsi delle colossali buaggini che gli escono dalle labbra. Veste una casacca nera e lucida, guarnita di un bianco collare. In testa un feltro a larghe tese, nero. Alla cintura un pugnale o un fazzoletto, e sottobraccio un librone. Calzoni corti, calze nere, scarpette con fibbia e gli occhi inquadrati in una mascherina nera.

Pantalone
Veste rossa come il fuoco, ornata di una cintura che regge la borsa dei quattrini, (magari vuota) calzoni dello stesso colore, calze nere, scarpette dalla punta all’insù; naso lungo e adunco, baffi a mezzaluna, con le punte diritte fino agli occhi: ecco Pantalone, la più assennata delle maschere. Il mantello nero, che si mette sulle spalle, aggiunge dignità alla sua gobba figura. La maschera di Pantalone fa ridere proprio per la sua serietà, con la sua imponenza.

Pulcinella
Cappello a cono, come il latte, casacca, calzoni che pendono molli e flosci, muso nero e, nel mezzo, un naso adunco: ecco Pulcinella, buffonesco e allegro, affamato e mangiatore come Arlecchino, agile nei salti e nelle capriole. (E. Possenti)

Le maschere
Siamo in Carnevale. Per le strade si vedono girare le maschere. Come sono buffe! Chi le riconosce sotto quel pezzetto di stoffa che nasconde il viso facendo brillare solo gli occhi? Nessuno. Se parlassero senza cambiare voce, allora sì che verrebbero riconosciute! (G. Bitelli)

Pantalone
Celebre maschera veneta. Il suo vestito è ben conosciuto: giubbetto rosso stretto alla cintura, calzoni e calze attillate, uno zimarrone nero sulle spalle, scarpettine gialle con la punta all’insù. In capo uno zucchetto a corno, come quello dei dogi, e sul viso una mascherina nera che lascia ben esposto il nasone adunco. Ricco mercante e avaro. Ma quante volte le vicende della vita lo costringono al allentare le corde della borsa, dalla quale cadono sonanti monete d’oro! Mai più numerose, tuttavia, delle lacrime e dei lamenti che le accompagnano. Arlecchino, trapiantato a Venezia, è suo non sempre fedelissimo servitore. (A. Gabrielli)

Arlecchino

E’ la più famosa ed internazionale delle maschere. Pare che Arlecchino sia nato nel 1572 e che il creatore di questa maschera sia stato un certo Alberto Ganassa da Bergamo, il quale si attribuì il nome di Arlechin Ganassa. La sua patria è dunque Bergamo, anche se generalmente, lo si sente parlare il dialetto veneziano; ma questo si spiega col fatto che Bergamo, a quel tempo, era un dominio veneto.

Fu chiamato anche Arlechin Batocio, dal bastone (batocchio) che porta alla cintola e che usa spesso per far intendere le proprie ragioni a quanti vengono in baruffa con lui.

Arlecchino interpreta la parte del servitore astuto, ficcanaso e attaccabrighe; passa in un momento dal pianto al riso, per tutte le occasioni ha pronta una battuta burlesca; è scansafatiche, ingordo e goloso. Nelle varie città e regioni d’Italia Arlecchino mutò d’abito e di nome. Ed ecco così apparire la pittoresca schiera formata da Truffaldino, Mezzettino, Tortellino, Fagottino, ecc…

Pulcinella
E’ l’Arlecchino di Napoli ed è ancor oggi una maschera “viva” per opera di alcuni autori contemporanei di commedie in dialetto napoletano. Ha un carattere più bonario, rassegnato e meditabondo dell’Arlecchino bergamasco.

Storia di Gianduia
Gianduia doveva personificare il Piemontese furbo, coraggioso, pratico, disposto magari a fare il “finto tonto” per raggiungere i propri fini.
In quegli anni, in cui incominciavano le prime idee di Unità e di risorgimento, Gianduia venne a simboleggiare, in un certo modo, il Piemonte, che si era messo coraggiosamente alla testa della rinascita nazionale. “E’ una maschera libera, democratica”, scrive un suo biografo dell’Ottocento. “Non conosce padroni, parla francamente e schietto anche al suo Re. E’ la sola maschera italiana ad avere un carattere politico, e la rappresentazione di un popolo.”
Il popolo infatti lo aveva soprannominato ” ‘l citt ciaciarett” (il piccolo pettegolo), perchè Gianduia si era improvvisato, sul palcoscenico, il temerario portavoce delle sue proteste e delle sue lagnanze: era l’avvocato volontario del popolo piemontese.

Passa Gianduia
Il corteo delle maschere passa allegramente con un frastuono assordante tra una ressa soffocante di uomini, donne, bambini. Tutti corrono a gara a vedere; s’alzano sulla punta dei piedi o s’aggrappano ai pilastri e i bimbi strillano, perchè vogliono essere sollevati in braccio. Il cocchio di Gianduia scompare a poco a poco tra le case… (L. Aimonetto)

Meneghino
Come tutte le maschere, Meneghino è un “carattere” nato per simboleggiare i vizi e le virtù dell’umanità. Nelle intenzioni di Carlo Maria Maggi, che ben a ragione si può considerare il padre della popolare maschera, Meneghino doveva rispecchiare le qualità dell’infaticabile e generoso popolo milanese, e mostrarsi furbo e galantuomo insieme, talvolta padrone, talvolta umile servo che non mancava di levare la sua critica mordace contro l’egoismo e la vanità di certa aristocrazia.
E proprio per ricordargli questo suo compito di “strigliatore”, il Maggi volle dare a Meneghino il cognome di Pecenna (parrucchiere).
Sul perchè poi del nome Meneghino i pareri sono discordi. Potrebbe infatti il nome significare “piccolo uomo” (omeneghino), o più propriamente “piccolo Domenico”, riferendosi all’antica consuetudine secondo la quale, in ogni giorno di domenica, alcuni uomini del popolo erano chiamati a prestare servizio di tuttofare nelle case dei ricchi signori.
Il nostro Meneghino, nato sulla fine del Seicento, calcò le scene per circa due secoli acquistando, or nelle vesti di servo, or in quelle di padrone, ora col sussiego del diplomatico, ora con la rudezza del contadino, una sempre maggior fortuna, dovuta in gran parte alla bravura degli attori che lo seppero interpretare.
Celebri fra questi furono, nella prima metà dell’Ottocento, Gaetano Piomarta e Giuseppe Monclavo. Con quest’ultimo divenne decisamente spregiatore degli Austriaci che ancora dominavano in Lombardia.
Sulla fine dell’Ottocento la fortuna di Meneghino cominciò a declinare, vuoi perchè mancarono altri ottimi interpreti, vuoi perchè i tempi ormai andavano relegando le maschere nel teatro delle marionette.
Anche il costume di Meneghino subì variazioni: in origine era simplicemente vestito d’una veste bianca, lunga fino al ginocchio, trattenuta in vita da una cintura, ed era calzato di calze verdi e di ruvidi zoccoli; in seguito acquistò un aspetto settecentesco, con parrucca e tricorno marrone, con veste pure marrone, con codino fasciato di rosso, con calzoni corti e calze a righe.
Così lo si può vedere ancora sui carri carnevaleschi.
E’ una maschera muta ormai, perchè le folle ora non hanno più tempo di ascoltare le maschere; ma il suo sorriso sembra ancora ammonirci:
“Tegni sempre st’usanza: fè ‘l fatt vost con crianza”.

Storia della maschere dall’antico Egitto alla Commedia dell’Arte

Il nome di Carnevale è stato dato al periodo che va dal 26 dicembre al giorno precedente le Ceneri in tempi abbastanza recenti: forse soltanto nei secoli XV e XVi, quando divennero celebri i Carnasciali,  fiorentini, organizzati dagli stessi Medici, e specialmente da Lorenzo il Magnifico.
Da Carnasciale, appunto, venne il nome di Carnevale, che indicò non soltanto un periodo dell’anno, ma anche tutte le manifestazioni festose e mascherate che avevano luogo in quel periodo particolare.
Ma in ogni tempo, e presso tutti i popoli, si sono avuti periodi di feste alle quali prendevano parte principi e popolo e che possiamo considerare come il moderno Carnevale.

Nell’antico Egitto
Gli antichi Egizi adoravano molti dei, ma la sola dea adorata in tutto il Paese era Iside, invocata come maga nelle malattie e considerata la benefattrice dell’Egitto, perchè le sue lacrime producevano le benefiche inondazioni del Nilo.
Ebbene, in suo onore, una volta all’anno, si faceva una grande processione, alla quale partecipava tutta la popolazione.
La dea si presentava travestita da orsa, per simboleggiare la costellazione dell’Orsa Maggiore. Era seguita da un corteo di sacerdoti, tutti mascherati, i quali simboleggiavano fatti notevoli e, specialmente, le quattro stagioni. Un sacerdote mascherato da sparviero rappresentava l’inverno, un altro mascherato da leone raffigurava l’estate, un terzo mascherato da toro simboleggiava la primavera, mentre il sacerdote mascherato da lupo era l’autunno. Seguivano popolani e popolane mascherati a piacimento, danzanti e cantanti.
Si tratta, insomma, del primo corteo mascherato del quale si hanno notizie storiche abbastanza precise.

Nell’antica Grecia
I Greci ebbero un loro particolare periodo che possiamo dire carnevalesco: quello delle feste in onore di Dioniso e di Bacco, dette “Feste dionisiache” e “Baccanali”.
Si trattava addirittura di quattro feste, celebrate in marzo-aprile; le più celebri e le più lunghe erano le “Grandi feste dionisiache”:  si facevano solenni sacrifici al dio, vi erano processioni, gare, rappresentazioni, drammi in cui apparivano personaggi mascherati. E naturalmente, poichè Bacco è il dio del vino, si beveva molto…

Nell’antica Roma
In Roma il periodo che possiamo dire carnevalesco era quello dedicato alle feste in onore di Saturno, perciò dette “Saturnali”: avevano luogo dal 17 al 23 dicembre.
Saturno era considerato il dio dell’oro e del benessere agricolo e in onore suo era proibito lavorare durante i Saturnali; si facevano banchetti ai quali erano ammessi anche gli schiavi e ci si scambiavano doni, come facciamo noi nel periodo natalizio. Infine, erano ammessi anche i giochi d’azzardo, proibitissimi durante gli altri periodi dell’anno.
Erano giorni di baldoria, di scherzi, e spesso, poichè non mancava chi alzava troppo il gomito, finivano con risse e feriti.
Durante le feste dei Saturnali in Roma vi era l’abitudine anche di pagare gli avvocati. Gli avvocati meno celebri avevano la loro clientela di poveracci: gente disgraziata e biliosa i cui mezzi non corrispondevano al piacere di litigare. Era gente che pagava male l’avvocato, anzi spesso non lo pagava affatto, e si ricordava di lui soltanto durante i Saturnali. E l’avvocato che riceveva più doni si riteneva più grande e andava enumerando i doni ai conoscenti come prova della sua fama e dei suoi successi.
“I Saturnali hanno fatto ricco Sabello: con ragione egli va tronfio e pettoruto, e pensa e dice che tra gli avvocati non ce n’è uno cui le cose vadano bene come a lui…” dice Marziale, un poeta romano, e aggiunge anche la lista dei regali: mezzo moggio di farro e mezzo di fave, una libbra e mezzo di pepe e di incenso, una salsiccia e un  tocco di carne secca, una bottiglia di mosto cotto, un vaso di fichi in conserva, e bulbi, e chiocciole, e cacio; poi una cestella piena di olive…
Evidentemente, benchè tronfio e pettoruto, Sabello non era un avvocato pagato troppo bene.

I principi e il Carnevale
E’ noto che, specialmente durante il periodo medioevale e delle Signorie, anche i personaggi d’alto rango (re, principi e nobili) prendevano parte gioiosamente alle mascherate carnevalesche.
A Torino, dove si svolgevano tornei e cavalcate che riproducevano fatti storici, i principi di Savoia partecipavano al Carnevale seguiti da tutta la corte, con carri colmi di fiori.
A Venezia, dove il Carnevale era un richiamo per gli stranieri e si svolgeva principalmente lungo il Canal Grande, con gondole mascherate e illuminate, i Dogi, gli altri membri del Gran Consiglio e della Signoria e gli Ambasciatori, si univano al popolo festosamente.
A Firenze poi, esisteva l’antica usanza di far girare per la città, durante il Carnevale, dei carri decorati e scortati da uomini in maschera, che cantavano canzoni composte per la circostanza. Lorenzo il Magnifico seppe vedere in questo genere di spettacolo un mezzo straordinario per divertire i fiorentini e attirarne le simpatie, e lo circondò abilmente di pompa inusitata. Così, attraverso la città, passavano carri con strane mascherate di una variopinta folla di fornai, di mercanti, di spazzacamini, e d’ogni categoria d’artigiani, ma anche carri in cui si rappresentavano le virtù, i diavoli, gli angeli, i trionfi della dea Minerva, della Gloria, della Fama, della Frode, della Calunnia, ecc…
Alcune canzoni carnescialesche, le più belle, furono proprio composte dallo stesso Lorenzo e dai poeti della sua corte.
Anche all’estero il Carnevale era divertimento tanto del popolo quanto dei regnanti. E’ infatti rimasta celebre una mascherata di stregoni diretta personalmente da Enrico IV re di Francia. A un re, Carlo IV, in uno dei tanti balli mascherati venuti di moda alla sua corte, capitò quasi di bruciare vivo. Si era camuffato da satiro, imbrattandosi tutto il corpo di pece e rotolandosi poi fra piume di uccelli; non si sa bene come la pece però prese fuoco e il re fu salvato appena appena…

La Commedia dell’Arte
Pantalone, Arlecchino, Balanzone, il Capitano e così via furono in origine i personaggi della Commedia dell’Arte, nata in Italia nel ‘500 e diffusa poi trionfalmente in tutta Europa nei due secoli che seguirono. Commedia dell’Arte significa in sostanza “commedia dell’abilità” o “di mestiere” in quanto si affdava non ai testi, sommari o inesistenti, ma per l’appunto all’abilità degli attori, che sulla scena improvvisavano situazioni e battute.
Tale abilità era a volte straordinaria: quando agivano le migliori compagnie, la Commedia dell’Arte diventava un’entusiasmante girandola di gag, una sorta di “fumetto animato” pieno di meraviglia e di sorprese, in cui la splendida libertà delle improvvisazioni si univa ad un meccanismo infallibile e preciso.
La “maschera” è una “faccia tinta”, tragica o buffa, che indossata da una persona in aggiunta di solito a un particolare costume, vale a creare un “tipo”: il servitore furbo e famelico, il dottore pedante, il soldataccio spaccone, e così via; così che la parola “maschera” non indica più soltanto la testa o la faccia di cartapesta, ma proprio quel tipo che è identificato da “quella” maschera, e che presto assume un nome (Arlecchino, Pantalone, e così via), nome che gli resterà anche se, per caso, trascuri di mettersi sulla faccia la faccia finta, e la sostituisca per esempio col trucco, o anche soltanto col costume.
Molte maschere che conosciamo nacquero come personaggi della Commedia dell’Arte. I primi, i più antichi di questi personaggi, furono il Padrone e il Servo.
Tra i vari tipi di Padroni delle antiche farse, si affermò quello di un anziano e ricco cittadino di Venezia, avaro e burbero: prima si chiamava Magnifico, con allusione all’altezza della sua condizione sociale, e poi Pantalone.
C’è anche un altro tipo di Padrone, il Dottore pedante e sputansentenze, che prende prima il nome di Graziano, e poi di Balanzone: è di Bologna, laureato alla famosa università.
Il Servo proviene invece dalle valli bergamasche; veste un camiciotto bianco di fatica e si chiama dapprima Zanni (Giovanni), finchè un ignoto comico non ha l’idea di rappezzarne l’abito con toppe variopinte, e nasce Arlecchino.
Un altro Zanni si chiamerà Brighella, che è, almeno all’inizio, un tipo da prendersi davvero con le molle.
Un altro “tipo” antichissimo è il soldato spaccone, che rinasce anche lui come “maschera” e si chiamerà Capitan Fracassa, o Matamoro, o Rodomonte, o Sbranaleoni, o così via spaventando.
Vi sono poi gli Innamorati, di cui gli ultimi e più noti sono Rosaura e Florindo, e le Servette come Corallina e Colombina.
Tante altre maschere agiscono in quelle farse, come il gran Pulcinella, nato a Napoli tra il popolo, o il suo compatriota Coviello, o Scaramuccia, a volte capitano a volte servo, o Scapino, parente stretto di Brighella, o Giangurgolo calabrese.
Conclusa la Commedia dell’Arte, nelle varie regioni d’Italia si affermarono altri tipi e caratteri, che divennero maschere anch’essi; come Gianduia in Piemonte, Meneghino a Milano, Stenterello in Toscana, Gioppino a Bergamo e Sandrone a Modena, e a Roma Meo Patacca e Rugantino… non si finirebbe più.

Portavano la maschera ma non era Carnevale
Immaginiamoci di trovarci nella Venezia del ‘700. Che curiosa e bella città! Ecco le sue tortuose viuzze (le calli), e le piazzetti (i campi) ornate al centro da un pozzo di pietra. Percorriamo una fondamenta, lo stretto marciapiede che costeggia i canali che attraversano in ogni senso la città; ci viene incontro un vecchietto ricurvo; passandoci accanto solleva il capo per salutarci, secondo la consueta cortesia dei veneziani; lo guardiamo e la nostra risposta ci muore sulle labbra… il volto di quel vecchietto è mascherato!
Affrettiamo il passo e andiamo oltre. Ecco uscire da un uscio una giovane servetta, che va a fare la spesa; canta nel suo bel dialetto… ed è mascherata.
Ecco un mercante; è mascherato anche lui; ecco una mamma col bambino in braccio: anch’essa porta una mascherina nera. Ora incrociamo un gruppo di giovanotti che parlano e ridono fra loro: portano tutti la maschera. Ah, ma allora abbiamo capito! Però, persino questo mendicante che tende la mano, porta la maschera! Incontriamo una lettiga, portata a braccia da due servitori: il viaggiatore scosta la tendina e sporge il viso che (ormai non ci stupisce più) è mascherato. Passa una gondola: la dama che la occupa porta anch’ella la sua brava mascherina.
Non c’è dubbio: è tutta questione di calendario. Ci avviciniamo a un popolano: “Scusi…”
“Comandi, paron” ci risponde, guardandoci, naturalmente, attraverso le fessure di una maschera.
“Scusi, siamo di Carnevale?”
Nossignori: non eravamo affatto di Carnevale. A Venezia in quel tempo la maschera la portavano tutti, e tutti i giorni dell’anno. Inutile domandarsi perchè: era la moda.
Oggi la parola maschera ci richiama alla mente soltanto la festa di carnevale. In altri tempi, e ancora oggi presso altri popoli, le maschere hanno invece avuto un’importanza e un significato ben diversi; ne abbiamo visto un esempio.

Il carnevale

Scommettiamo… scommettiamo che non sapete che, secondo una certa tradizione, Carnevale comincia subito dopo le feste natalizie, e che la parola cernevale significa “carnem levare”, ossia togliere la carne? No? Allora due paroline di spiegazione me le permettete, vero? L’espressione letterale della parola si riferisce più esattamente al giorno delle Ceneri (cioè al primo giorno di quaresima) e all’intero periodo quaresimale. Per lungo tempo, nell’era cristiana, da questo giorno in poi ci si doveva astenere dal mangiare carne. Ma i bravi cittadini, per rifarsi della lunga astinenza che li aspettava, prima di togliere la carne dalla tavola, pensarono bene di abbandonarsi ai più pazzi divertimenti.
Oggi come oggi il carnevale nelle sue più evidenti manifestazioni corrisponde, pressapoco, a quella settimana che precede la quaresima. In teoria dovrebbe iniziare dopo Natale e terminare il primo giorno di quaresima. Vi piacerebbe, eh?
Allora dovreste riferirvi a Venezia… o meglio alla Venezia di alcuni secoli fa, dove il carnevale durava sei mesi e il giovedì grasso veniva solennizzato in gran pompa alla presenza del Doge con l’accensione dei fuochi artificiali in pieno giorno.
E già che ci siamo vogliamo vedere come era ed è festeggiato il carnevale in Italia e nel mondo?
Nei secoli passati il carnevale assunse al massimo splendore in parecchi luoghi, specialmente a Venezia, a Ivrea, a Nizza. In Firenze, col favore dei Medici, signori della città, i festeggiamenti si svolgevano in forma grandiosa, in mascherate su carri allegorici (i “trionfi”), accompagnate dai canti carnescialeschi. L’uso dei carri allegorici è rimasto poi in molte città italiane e straniere.
Nella Roma papale, i giorni destinati alle mascherate erano otto e il permesso di uscire per il corso era dato alle 13.00 dalle campane del Campidoglio. Nell’ultima notte di carnevale tutti i romani, principi e popolani, giocavano per la strada a “moccoletti”. Ciascuno aveva una candelina accesa, e tutti facevano a gara nel rubarsela di mano o nello spegnersela scambievolmente, motivo di riso e simbolo di uguaglianza, perchè la candelina (“moccoletto”) del principe, valeva quanto quella del popolano.
Com’è lontano da noi il magnifico carnevale di Velletri del 1546! Per festeggiarlo, ai rami di centinaia di alberi di un bosco furono appesi, alla portata di mano di chi voleva mangiarli, capponi, torte, focacce, galline, mentre quattro cannoni sparavano quattro diverse qualità di vino!
Ma se a Velletri si regalavano polli e capponi, a Venezia si scialava nello zucchero. Infatti, per mostrare al mondo stupito la sua potenza economica e la sua ricchezza, Venezia allestiva dei banchetti colossali con grande spreco di zucchero, prodotto allora rarissimo perchè importato dall’oriente. Per onorare Enrico III di Polonia, in un pranzo furono fatti di zucchero persino le tovaglie e i tovaglioli; l’ospite, che non ne sapeva nulla, rimase di stucco quando, prendendo il tovagliolo e spiegandolo sul petto, se lo trovò sbriciolato tra le mani.
E nelle altre nazioni?
Ovunque si trovano carri, danze, e pantagruelici pasti. A carnevale, nessuna distinzione di nazionalità. Anche oggi, più o meno, il carnevale viene festeggiato dappertutto con una sfilata di carri e qualche mascherata. Solo però in poche città, come Viareggio, Torino, Ivrea, rivive il vecchio carnevale. Sfilano carri tra musiche, canti e getti di coriandoli e fiori.
Getti di fiori! Ma se andate in Perù, in Bolivia, in Venezuela o in uno qualsiasi degli altri paesi sudamericani, attenti! Non di gettano fiori nè coriandoli, nè stelle filanti, ma palloncini di gomma pieni d’acqua, che vi colpiscono all’improvviso bagnandovi tutto! E non basta: lucido da scarpe, vernici, tinte, tutto è buono per quei pazzerelloni per cambiarvi il colore della pelle… e degli abiti.
Il carnevale ci mostra, mettendolo in caricatura, come sarebbe disordinato il mondo se ciascuno potesse fare ciò che gli passa per la mente senza pensare agli altri. Invece anche nel divertimento è importante la buona educazione.
In Calabria vi è l’uso di portare in giro, sulla groppa di un asino, chiunque nel giorno si carnevale venga sorpreso al lavoro. Ben venga, dunque, il carnevale: e impazziscano gli uomini per un giorno, purchè si ricordino di non esserlo troppo per gli altri 364!
(da “Il Vittorioso”)

Le origini del Carnevale

Il carnevale deriva, secondo alcuni studiosi, da antiche feste latine in cui, dopo un certo periodo di dissipatezze e di piaceri, veniva nesso a morte un fantoccio travestito da re, cosa che ancor oggi si fa in alcune città, specialmente in quel giorno di metà quaresima che è detto per lo più “Carnevalino” e che è come un ritorno di fiamma dell’autentico Carnevale.
Questo rito burlesco sta forse a significare la morte dell’inverno: di qui il tripudio di tutti e l’attesa della primavera, della sua gioia, dei suoi frutti. Il carnevale ha dunque un’origine agricola, contadina.

Sembra certo che nelle costumanze carnevalesche debbano riconoscersi quelle feste religiose da tutti i popoli celebrate nell’antichità con gran pompa al principio del nuovo anno per propiziarselo, o all’inizio della primavera per simboleggiare la rinascita della natura.

Ricordiamo le feste degli Egizi e dei Babilonesi, che nell’equinozio d’autunno onoravano i cherubs, buoi importati dai primi sacerdoti etiopi. Venuto il giorno stabilito, il bue, dipinto a festa, con le corna dorate e ricoperto di un ricco manto, era tratto dal sacro recinto e lo si conduceva per tutte le vie di Menfi. Un ragazzo gli stava sul dorso. Uomini e donne, vecchi, adulti, giovani, bambini, travestiti e mascherati, a piedi, a cavallo, lo seguivano canticchiando inni in sua lode; venivano poi le ragazze che lo avevano servito… insieme ai sacerdoti. Soldati e ufficiali facevano ala nelle vie, al suo passaggio. Dal momento in cui il bue usciva, incominciavano per tutto l’Egitto e l’Etiopia le feste, i godimenti pubblici, le mascherate. Queste duravano sette giorni, fino al sacrificio dell’animale…

Il Carnevale degli antichi Romani
Il giorno decimoquarto avanti le calende di gennaio o, per dirlo più alla buona, il 19 dicembre, era giorno di festa e di gazzarra per i discendenti di Romolo… Le vie erano affollate di gente ilare e gaudente, che riempiva il foro, i templi, le basiliche, le vie principali, i termopolii, le popine (taverne) e le più infime bettole, in preda alla più sfrenata allegria.
E questa bella allegria, che doveva durare per tre giorni, era fatta in onore del dio Saturno. La particolarità che distingueva questa festa dalle altre, quanto al rito, consisteva in questo: che i sacerdoti sacrificavano le vittime a capo scoperto, mentre per le altre divinità sacrificavano con la testa coperta.
Le feste di Saturno, o Saturnalia, erano aspettate con impazienza da tutti, ma specialmente dagli schiavi, che per tre giorni erano liberi dalle loro penose fatiche, e potevano fare quello che volevano…

Nasce la maschera
Il comico dell’arte (salvo rarissime eccezioni), per raggiungere l’eccellenza, rinunzia all’illusione di potersi rinnovare sera per sera; e decide una volta per sempre di limitarsi, in perpetuo, a una sola parte. Per tutta la vita e in tutte le commedie che reciterà, il comico dell’arte sarà un solo personaggio: sarà unicamente o Pantalone, o Arlecchino, Rosaura o Colombina. Persino il suo nome si confonderà con quello della sua maschera, sicchè a un certo punto non si saprà più quale sia il vero e quale il fittizio. Alle volte come nel caso della Andreini, il personaggio che ella incarna, la maschera che ella crea, prende il nome di battesimo dell’attrice, della donna, Isabella. Molto più spesso sarà il nome della maschera che farà sparire quella dell’attore: sicchè, all’arrivo di Francesco Andreini a Parigi si dirà: “E’ arrivato Capitan Spaventa!”; alla morte di Domenico Biancolelli, correrà la notizia: “E’ morto Arlecchino.”.
Carnevale qui e lì per il mondo

Maschere per i vivi e per i morti (Messico)
La fabbricazione delle maschere rappresenta per i Messicani uno dei più curiosi aspetti del loro artigianato. Le maschere vengono fabbricate con vari materiali: legno, stoffa, carta, cuoio, stagno e vengono dipinte o laccate nelle maniere più strane e divertenti che denotano una grande originalità di gusto e di talento. Le maschere, oltre che per i giorni di carnevale, servono anche per il giorno dei morti. In questo caso, sono di carattere macabro e, per mezzo di esse, gli abitanti sono convinti di poter comunicare con le anime dei defunti.

Si balla dappertutto (Guadalupa)
In occasione del carnevale, si balla ovunque: nelle campagne, si balla al suono di strumenti primitivi come scatole o bidoni pieni di sassi che vengono freneticamente agitati dai suonatori, mentre nelle città si balla il doudou al quale gli invitati intervengono mascherati o vestiti con le acconciature più strane. Un’altra danza caratteristica delle città e anche delle campagne, è quella dei tagliatori della canna da zucchero, durante la quale uomini e donne si muovono agli ordini di un comandante: gli uomini devono presentarsi armati di coltelli, mentre le donne tengono in mano una canna da zucchero verde.

Costenos, tigri, coccodrilli (Colombia)
Per i Colombiani, il carnevale è la più importante delle feste. Per tre giorni nessuno lavora, ma i preparativi hanno inizio già tre settimane prima. Tali preparativi occupano migliaia di persone addette alla fabbricazione delle maschere più curiose. La maschera è quasi d’obbligo durante i tre giorni che precedono la quaresima. Oltre alle maschere, molte sono le usanze del carnevale colombiano. Una è quella dei costenos, che sono giovani mascherati i quali girano facendo la questua e lanciando frizzi, insulti, o cospargendo di nerofumo coloro che osano negare un’offerta. C’è poi l’uso di molti carri allegorici, come quello di Barranquilla che è superato in splendore solo da quello del gran carnevale di Rio de Janeiro. Altre manifestazioni sono la caccia alla tigre. C’è poi il ballo del caimano che si svolge il 20 gennaio con la fabbricazione di un enorme coccodrillo nel quale si nasconde un uomo che lo fa muovere in una frenetica danza avanti e indietro, davanti ad ogni negozio o bar: per liberarsi dal mostro i proprietari devono offrire al grosso animale un dono in liquore o in altri generi.

La festa delle lanterne (Cina)
Dopo la grande festa del primo dell’anno, la vita in Cina si fa più vivace e festosa per un periodo che corrisponde su per giù al nostro carnevale. Molte sono le feste, ma la più caratteristica è senza dubbio quella delle lanterne. Essa ha inizio al rombo del cannone, delle campane e di tutti gli strumenti musicali disponibili. Per tre giorni consecutivi milioni di fuochi brillano sui fiumi, sul mare, sui monti, nelle strade, nelle campagne, nelle città, alle finestre dei poveri e a quelle dei ricchi. I più ricchi, sfoggiano naturalmente lanterne magnificamente decorate, mentre i meno ricchi si accontentano di lanterne più modeste. Nessuno comunque vuole esserne privo. Sono lanterne quadrate, triangolari, cilindriche, a globo, a piramide. Ce ne sono di carta, di seta, di corno, di vetro, di madreperla. Per tutta la durata della festa i negozi restano chiusi e la gente circola per le vie vestita con fogge strane e insolite. Anche per i Cinesi, come per qualsiasi altro popolo del mondo, questa specie di carnevale rappresenta uno sfogo alla vita di tutti i giorni con i suoi pesi, le sue fatiche, le sue quotidiane preoccupazioni.

Halloween
Halloween è il carnevale dei ragazzi che si travestono nelle fogge più spaventose raffiguranti scheletri, streghe, diavoli, spettri. Così camuffati, essi, di notte, girano di casa in casa e chiedono ragalucci o dolci pronunciando la formula: “Treat or trick” che significa “o mi regali qualcosa oppure la vedrai brutta”. Se qualcuno infatti osa negare il dono, la vendetta non si fa attendere: i colpevoli si vedranno in un batter d’occhio imbrattati i vetri delle finestre, delle vetrine, delle macchine.

La festa degli insulti (Ghana)
Ogni tanto gli uomini sentono la necessità di rompere la monotonia della vita quotidiana facendo qualche cosa di strano e di diverso. Così nel Ghana, in Africa, nacque la festa degli insulti. Per qualche giorno, tutte le abitudini vengono sconvolte. Gli Akan, abitanti del Ghana, affermano chelo spirito Sunsum, legato ad ogni singola persona, in quei giorni si ribella e vuol sfogarsi fadendo fare a tutti una specie di grande vacanza. Si mangia, si beve, si danza, e soprattutto si dicono tutti gli insulti che vengono in mente. Gli Akan, nascosti sotto maschere, ombrelli, baldacchini, si lanciano a vicenda ogni sorta di parolacce, scherzi, insulti. E questo dura per ben otto giorni. Passato questo periodo, i sacerdoti, sotto la maschera di leopardi, leoni, iene o sciacalli, sacrificano una capra con il sangue della quale purificano i loro vasi sacri. Fatto questo, gli spiriti Sunsum tornano nell’ordine abituale e ognuno riprende la vita di ogni giorno

Il Coon Carnival (Città del Capo)
Durante gli ultimi tre giorni dell’anno, a Città del Capo, in Africa, succede un fatto straordinario: ogni sera un gran numero di persone scompare dalla città. Dove vanno? Nessuno lo sa. Tutti però conoscono il motivo della loro scomparsa. Si sa, cioè, che sono scomparsi per andarsi a nascondere nella foresta, dove preparano, sotto la guida di un capo, costumi, maschere, carri carnevaleschi, danze e canti che dovranno essere una grande sorpresa per la città. Guai se qualcuno osasse tradire il segreto del Coon Carnival, cioè prima di capodanno qualdo il carnevale avrà inizio nella città che in un batter d’occhio si trasformerà in un fantastico carosello di musiche, di costumi, di carri meravigliosamente addobbati e carichi delle maschere più strane e varie.

Il carnevale brasiliano
Il carnevale brasiliano non è solo quello famoso che si celebra a Rio de Janeiro, ma è il carnevale di tutto il Brasile. Fu introdotto dall’Europa e, se in parte conserva ancora le caratteristiche del continente d’origine, esso ha d’altra parte assimilato molti elementi pagani del popolo brasiliano. I preparativi del carnevale brasiliano richiedono mesi di lavoro; si può affermare che, appena terminato il carnevale di un anno, già si comincia a pensare a come preparare quello successivo. Costumi europei, fogge russe e tirolesi, si mescolano a quelli hawaiani in una splendida fantasiosa fantasmagoria di colori. I festeggiamenti durano quattro giorni: cominciano il sabato a mezzogiorno quando, ad un dato segnale, si chiude ogni negozio, laboratorio, fabbrica; per terminare a mezzogiorno del mercoledì delle Ceneri. Per quattro giorni, su Rio e su ogni centro piccolo e grande, sembra passare un vero ciclone: maschere, danze, carri, musica, frastuono, sfilate. Ogni sfilata è un fantastico carosello di maschere svariate che passano tra la folla a ritmo di samba e di marcia, invitando la folla stessa ad entrare nel corteo.

Carnevale qui e lì per l’Italia

Il carnevale di Viareggio
Il carnevale di Viareggio è vecchio. Ma il carnevale è un mattacchione che più invecchia e più diventa allegro. Figurarsi che gli storici gli attribuiscono cinquemila anni di vita. Invecchiare per lui è niente, morire ancor meno di niente. Ringiovanisce e resuscita sempre più ingegnoso di trovate, sempre più colorato e sempre più vivace.
In Toscana il carnevale sembra sia nato per opera di Lorenzo il Magnifico.
A Viareggio poi, il carnevale sembra una festa di uomini e di cose, una fantasia bellissima dove collaborano il cielo, il mare, le pinete incantevoli, la parlata sonora e abbondante, e gli uomini con colori, canti, scenari. Il carnevale a Viareggio è uno spettacolo di cui cercheresti invano lo scenografo, il macchinista, il pittore, il cantore, l’inventore, perchè non sapresti se andarlo a trovare fra gli uomini o fra la natura.
Per preparare il carnevale ogni anno, centinaia e centinaia di operai per parecchie settimane non conoscono riposo, nè di notte nè di giorno. Dormono qualche ora e sognano il carro mascherato con cui hanno deciso di partecipare alla gara.
Questo corteo fantasioso di carri oscillanti sotto le manovre delle maschere che cantano nel sole, questi giganti che sembrano usciti dalla fantasia di poeti, questi mostri dalla corteccia di carta, che, tagliando la folla, passano suscitando risa fragorose, non solo costano fior di soldi, ma costano fatiche e sacrifici.
Ogni anno ognuno dei più famosi costruttori di carri ha un’idea, cerca degli aiutanti, si chiude nel proprio laboratorio e fabbrica. Cosa fabbrica? Quello che l’estro gli ha suggerito. Un carro.
Cosa metterà su questo carro? Chi lo può sapere, prima del giorno fissato?
I fabbricanti di carri sono gelosissimi l’uno dell’altro. Inventano tutti i sotterfugi per sapere cosa fanno gli altri, e per mascherare ciò che faranno loro.
Talvolta assoldano i ragazzetti per far loro da spie, per introdursi nel laboratorio di un concorrente temuto. Il ragazzetto, quando non è scoperto (e allora sono guai!) riferisce quel che ha visto, facendo nascere preoccupazioni e timori.
(G. Cenzato)

Il carnevale torinese
Il carnevale torinese, negli anni passati, ormai lontani, era ritenuto uno dei più fastosi che si celebrassero in Italia.
Anche la corte interveniva in equipaggi alla postigiona, con cocchieri, staffieri, valletti in parrucca bianca, incipriati, in costume scarlatto argento; e la Regina Maria Teresa, consorte di Carlo Alberto, vi compariva festosa, sopra un cocchio tirato da otto cavalli bianchi.
Le vie erano adorne di festoni, i balconi gremiti di gente, e sotto i portici giravano le maschere a piedi: Gianduia, Giacometta, Gipin, mentre nella strada circolavano le cavalcate e i carri allegorici.
I torototela, poeti da strapazzo, cantastorie, rimavano la canzoncina:
“Cerea bela fia
cerea bel gasson
ch’a stago an alegria
ch’a beivo del vin bon”
mentre ferveva, tra i balconi, la vivace battaglia delle caramelle e dei mazzolini di fiori.
L’ultima notte di carnevale, il martedì grasso, si bruciava in piazza Castello il bogo, un enorme fantoccio pieno di fuochi d’artificio.
A mezzanotte in punto la fiamma provocava lo scoppio, salivano fischiando numerosi razzi al cielo; e così fra lingue di fuoco rossiccio, grida, urla, canti, moriva il carnevale.

Libri illustrati: Il grande albero delle rinascite – Fiabe dalle terre d’India

Libri illustrati: Il grande albero delle rinascite – Fiabe dalle terre d’India Un libro che sprigiona la suggestione di mondi lontani… storie di brahmani grandi come re, di cobra custodi di tesori nascosti e divinità all’ombra di banyan. La sensibilità di ogni artista trasforma in immagine la forza evocativa delle più belle fiabe della tradizione indiana.

L’albo illustrato raccoglie le più belle fiabe della tradizione indiana e fa parte della collana Le immagini della fantasia. E’ il settimo titolo che realizziamo in collaborazione con la Mostra Internazionale d’Illustrazione per l’Infanzia di Sàrmede, giunta quest’anno alla 29ma edizione. Le illustrazioni, vere protagoniste del libro, sono firmate da alcuni tra i più importanti artisti italiani e stranieri che, ognuno con la propria sensibilità, ha trasformato in immagine la forza evocativa delle fiabe. Dieci tra le più belle fiabe delle terre d’India per nove artisti del panorama internazionale e due giovani emergenti.

 Edito da Franco Cosimo Panini Editore in collaborazione con Le immagini della fantasia.
Curatrice progetto: Monica Monachesi – Testi: Luigi Dal Cin
Illustratori: Laura Berni, Giuliano Ferri, Aurélia Fronty, Véronique Joffre, Dileep Joshi, André Letria, Jacqueline Molnár, Simona Mulazzani, André Neves, Linda Wolfsgruber, Alessandra Vitelli.
pagine 48
dai 7 ai 10 anni
14 euro

http://www.jacquelinemolnar.com/

http://alessandravitelli.blogspot.com/

Link

http://www.sarmedemostra.it/

http://www.francopaniniragazzi.it/

Dettati ortografici LA NEBBIA

Dettati ortografici LA NEBBIA – Una raccolta di dettati ortografici sulla nebbia, di autori vari, per la scuola primaria.

Dettati ortografici LA NEBBIA

La nebbia
Si cammina adagio: non si vede a un palmo dal proprio naso; un odore acre alle narici penetra in gola, l’aratro scricchiola. Il vomere affonda nella porosa bambagia; i rumori giungono attutiti, come echi; gli oggetti appaiono all’improvviso, come ombre sorte dal nulla: la nebbia avvolge tutto, grava su ogni cosa.

La nebbia
Minuscole goccioline scendono dal cielo e rimangono sospese nell’aria. E’ la nebbia. Come un velo sottile si adagia sulle cose e ruba ai colori la loro vivezza. Tutto diventa grigio ed uniforme. Qualche volta riesce a nascondere ai nostri occhi tutto ciò che ci circonda. E allora ci sembra di camminare soli e che intorno a noi si muovano fantasmi. (A. Cittigno)

La nebbia
Non è ancor giunta la sera, ma è quasi buio. Tutto il cielo è occupato da cumuli di nebbie grige posate in cima il monti, da cavalloni di nuvole nere ed immote. Bigio e nero dappertutto. Nella valle un gran silenzio sinistro: s’ode soltanto lo sfruscio del fosso in piena e quello delle foglie gocciolanti che sbattono insieme e fanno un rapido sussurro marino. Giù per le strade in discesa scorre l’acqua motosa in solchi gialli. Poi la nebbia dei fondi, a strati compatti, vien su dalla valle, varca i crinali dei poggi, si rompe, si riaffittisce, ricopre tutto e finalmente si sfalda o fugge, lasciando brandelli fumosi attorno agli alberi fradici. (G. Papini)

La nebbia
E’ un ammasso di vapore acqueo visibile, che si forma sulla superficie della terra e del mare. E’ grigia, compatta, oppure leggera come un velo. In genere non fa male alla vegetazione, ma se il navigante la incontra sul mare, se l’autista vi si trova immerso senza poter più distinguere la strada, allora la nebbia può trasformarsi in un pericolo anche grave.

La nebbia
Una nebbia fitta fitta da tagliare col coltello. Le grandi lampade elettriche paiono lumini ad olio; le persone a tre metri di distanza sembrano fantasmi vaganti; i veicoli procedono lenti fra uno scampanio, uno strombettamento, un gridio che le nebbia affievolisce. I passanti camminano a tratti lesti quando credono di vederci, lenti quando temono di inciampare: si riuniscono in gruppi se devono passare dall’altra parte della via. Attraversare una piazza è un’impresa: non mancano quelli che temono di sbagliare strada. Ognuno col bavero rialzato, con le mani affondate nelle tasche o nel manicotto, pensa alla sua casetta tiepida e illuminata. (P. Bianchi)

La nebbia
Improvvisamente si udì la sirena di un autocarro lacerare la cortina di silenzio e di nebbia che avvolgeva il paesaggio: con un sibilo acuto, e prolungato, da parere che volesse preparare la strada al veicolo come un alfiere mandato avanti a sgombrare il cammino… Poi si udì il respiro affannato del motore, lo sfrigolio delle ruote contro il fango della strada, e il veicolo apparve alla svolta traballante e un po’ tardo. L’autocarro avanzava con faticosa lentezza, le piogge dei giorni passati avevano reso cedevole il fondo stradale: aveva acceso i fari sebbene non fosse ancora scuro, sicchè le due grandi luci appena proiettavano a terra, senza illuminare la via, uno scialbo e corto riflesso sul quale si adagiava l’autocarro avanzando. Anche il rumore del motore sembrava adesso un suono quasi senza significato e come spaesato nell’abbandono dei campi che si stendevano ai lati della strada rotta, allagati dall’acqua caduta abbondante, nelle trascorsi notti. (M. Prisco)

Dettati ortografici LA NEBBIA
Nebbia e gelo
Una nebbia leggera leggera imgombra l’orizzonte. E’ una nebbia uguale, soffice, trasparente, quasi un velo che nasconde, ma dà una bellezza nuova al paesaggio. Tutto tace nella campagna. I torrenti sono gelati; le mandrie fumano sdraiate nelle tiepide stalle; i cani giacciono accovacciati; i gatti fanno le fusa accosciati in un angolo del focolare. Solo si vedono di lontano i corvi disegnare una larga macchia nera sulla distesa dei campi deserti; e, di tratto in tratto, a voli brevi, i passeri si slanciano dai comignoli fumanti al piano, e lo scricciolo dal cespuglio alla siepe. (A. Stoppani)

Dettati ortografici LA NEBBIA
La nebbia

Specie nelle regioni settentrionali le nebbie non mancano. Tutto acquista un carattere strano: pare che ogni cosa perda la sua reale consistenza e non sia presente che nei suoi contorni.
Le persone fanno pensare ad ombre vaganti; i suoni sono attutiti; la vita, il movimento, tutto rallenta; nelle vie di città automobili, autobus avanzano con prudenza per scansarsi a vicenda. Problematico e difficile il camminare per i pedoni che si urtano sui marciapiedi ed attraversano timorosi le strade.
Nelle campagne, quando la nebbia le avvolge, regna silenzio. I rumori non giungono lontano, i contadini stanno volentieri nelle stalle. Qui ora è il loro lavoro, poichè nei campi non vi è più nulla da fare se non andare a far legna nei boschi, lungo le sponde dei fossati fiancheggiati da alti alberi, lungo i filari sostenuti da olmi e da gelsi.
E nelle stalle i contadini riparano attrezzi o intrecciano canestri e ceste.
Il sole tenta di comparire, ma i suoi raggi vengono assorbiti dalla spessa coltre di nubi.

I giganti grigi

Uscire di casa con la nebbia è il più gran desiderio di Filippo.
La nebbia viene; e Filippo esce.
La nebbia lo accoglie, gli fa strada: cancella ogni ostacolo davanti a lui. I paracarri, i pioppi, il fosso sono scomparsi. Tutto è bello: ma Filippo non sa più dov’è.
Vorrebbe correre a casa, ma la nebbia gli si stringe attorno. Non è più nebbia. E’ diventata giganti grigi, silenziosi, che lo guardano, immobili. Per fortuna, una voce chiama Filippo. E’ la voce della mamma. Filippo esce dal cerchio dei giganti. Non erano che nebbia. (M. L. Magni)

Sera di nebbia
Una nebbia fitta fitta da tagliare col coltello. Le grandi lampade elettriche paiono lumini a olio; le persone a tre metri di distanza sembrano fantasmi vagolanti; i veicoli procedono lenti tra uno scampanio, uno strombettamento, un gridio che la nebbia affievolisce. I passanti camminano a tratti, lesti quando credono di vederci, lenti quando temono di inciampare; si riuniscono in gruppi se devono passare dall’altra parte della via. Attraversare una piazza è un’impresa: non mancano quelli che temono di sbagliare strada. Ognuno col bavero rialzato, con le mani affondate nelle tasche o nel manicotto, pensa alla sua casetta tiepida e illuminata. (Piero Bianchi)

Nebbia in montagna
Grande era la nebbia. Sulla montagna deserta non si vedevano ne bestie ne uomini. Null’altro che un grigiore infinito. Un fumo freddo saliva tra i piedi, passava sotto le braccia, entrava nella bocca e negli occhi. Il silenzio era così grande da parer sovrumano. Come se tutto il mondo, con tutte le sue cose e le sue voci, fosse piombato nell’abisso senza fine. (G. Zoppi)

Nebbia
La nebbia bassa avvolgeva tutte le cose. Ci si vedeva soltanto a pochi passi di distanza, altrimenti tutto era confuso in una caligine densa, grigia, che smorzava il rumore dei passi e le voci dei passanti. Le lampade accese avevano un alone biancastro e la loro luce era tenue, diafana e blanda.

Nebbia in campagna
Una nebbia leggera leggera ingombrava l’orizzonte. E’ una nebbia uguale, soffice, trasparente, quasi un velo che nasconde, ma dà una bellezza nuova al paesaggio. Tutto tace nella campagna. Solo si vedono di lontano i corvi disegnare una larga macchia nera sulla distesa dei campi deserti.; e di tratto in tratto, a voli brevi, i passeri si slanciano dai comignoli fumanti al piano, e lo scricciolo dal cespuglio alla siepe. (A. Stoppani)

Nebbie e brine
Pesanti, si stendevano ora sui campi le nebbie autunnali, restavano più a lungo appese ai cespugli e agli alberi. Sembravano nubi spesse, bianche come il latte e c’era da chiedersi se non fossero scese dal cielo notturno o non fossero uscite dal seno della terra.
Quando finalmente si dissiparono, dopo lunga esitazione, brillò nel bosco un limpido sole, poi fu una mattina dorata, e i prati scintillarono candidi, perchè la brina li aveva ricoperti.

Dettati ortografici LA NEBBIA – Tutte le opere  contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.

Dettati ortografici SPORT INVERNALI

Dettati ortografici SPORT INVERNALI – Una collezione di dettati ortografici sugli sport invernali: slitta, sci, pattini da ghiaccio, la seggiovia, alpinismo, ecc…

La seggiovia
E così, anche a me, una bella mattina, venne incontro l’aereo seggiolino rosso. L’uomo lo frena un attimo sulla voltata. “No, sulle ginocchia il sacco, non dietro le spalle!”. E subito mi trovai con le gambe pendule nella montagna vuota. Abbassai e fermai il paletto di sicurezza, aggiustai il sacco come l’uomo aveva detto, e mi guardai attorno. Giù a terra la mia ombra che mi seguiva, sotto il sole già alto, pareva come raggomitolata.
(M. Valgimigli)

La slitta
Non abbiamo notizie precise su chi ci ha insegnato l’uso della slitta. Di slitte ne esistono di varie forme e grandezze. Alcune di esse sono perfino munite di enormi vele. Le slitte servono come mezzo di trasporto o di diletto o di gare sportive. Lo sport praticato con questi veicoli è sano e dà l’ebbrezza della velocità, e non c’è campo da neve che non abbia la sua slittovia dove si scivola, o meglio si vola, come il vento.

Pattini da ghiaccio
Anticamente il pattinaggio era usato come mezzo di locomozione in alcuni paesi del Nord dove, per il freddo intenso, durante i mesi invernali, le strade erano ricoperte da una pericolosa lastra di ghiaccio. I pattini, costituiti da una lamina di acciaio fissata alla scarpa, pare abbiano avuto la loro origine in Olanda, ma vennero quasi contemporaneamente usati nei paesi finnici e baltici; più tardi in Inghilterra e in Germania assunsero il ruolo di vero e proprio sport. Oggi il pattinaggio su ghiaccio è in uso in tutto il mondo; è anzi uno dei giochi sportivi preferiti dai bambini per l’ebbrezza della velocità che consente di raggiungere.

Campi da sci
I campi offrono uno spettacolo magnifico. Che animazione! Che festa degli occhi e del cuore! Neve abbagliante a perdita d’occhio, le Dolomiti si ergono gigantesche contro il cielo, i ghiacciai scintillano sotto l’apparizione fugace del sole. Lungo i pendii è un continuo incrociarsi di sciatori che gridano ogni tanto: “Pista! Pista!”. Si improvvisano piccole gare, e coloro che sono giunti in fondo alle discese tornano pazientemente ad inerpicari arrancando con gli sci sulla neve soffice, annaspando un po’ di traverso alla maniera dei gamberi. C’è un bambino paffutello e impettito che fila come una rondine su due minuscoli sci che sembrano giocattolo. Dal bordo dei campi assiste una folla variopinta e lieta che batte i piedi per difendersi dal freddo.
(F. Malagodi)

Dettati ortografici SPORT INVERNALI
Allievi sciatori

A vederli, gli allievi alle prime prese con gli sci, vien voglia di tenerli, perchè appena li hanno allacciati pare debbano saettare via , e quando si rizzano ti viene di sostenerli, se no cadono da tutte le parti, o non si muovono, come se gli sci li avessero incollati al terreno… Altri, che hanno potuto, chissà come, prendere una volata dall’alto, si mettono a gridare come disperati: “Pista! Pista!”. Pare che tutto il mondo debba essere riservato a loro, che tutti debbano fuggire davanti a una valanga. Ti volti, e vedi lo sciatore che ha già fatto un capitombolo fragoroso, che sprizza neve e che arriva in fondo prosaicamente seduto… E questo quando arriva bene… Per la strada ha perduto tutto: berretto, racchette, tutto quello che si può perdere, tranne quello che non si perde mai in questi casi: l’allegria.
(G. Cenzato)

La slitta
Un urlo, uno stridore, una rabbia forsennata, un’unghiata sulla trincea gelata. Il tempo di girare la testa per accompagnare con lo sguardo il grande pazzo giocattolo, e già non lo vedi più, e già la voce rugginosa si è spenta, perchè la slitta è arrivata in fondo alla discesa, laggiù, oltre i colonnati degli abeti che scendono fra le nevi della montagna, affondando pesantemente i tronchi bruni nell’abbagliante candore.
(O. Vergani)

Com’è bello sciare
Il silenzio della montagna è rotto da un vociare giocondo. Sciamano i giovani sciatori lungo i pendii. Massimo e Maria sono felici; si agganciano gli sci, si avvolgono nella pesante sciarpa di lana, e via sulla neve. Scivolano leggeri. Risate… e risate… e ruzzoloni! Non è nulla, non si sciupano i vestiti sul soffice tappeto. L’aria è fredda, ma asciutta. Scintilla la vetta nel sole; non si può sciare lassù, dove la neve si è mutata in ghiaccio. Ma il sole già discende e gli sciatori lasciano la montagna che, nel luccicare delle prime stelle s’addormenta, tutta incappucciata di bianco e lasciata in silenzio.

Davanti al ghiacciaio
Era una conca selvaggia, con alcune lastre di macigno. Io mi sedetti, poi mi stesi sulla più lunga. Davanti erano i ghiacciai, giù in fondo, dalla parte opposta, l’azzurreggiare dei laghi, a picco sotto di me, la valle scintillante di acque e di sole. La vetta della Margna mi sorgeva accanto, nell’ombra del cielo, chiudendo da questo lato la vista, con la sua forma di trono d’argento.
(G. A. Borghese)

Sulle vette del K2
Il paesaggio era fantastico, quasi incredibile: un gran variare di vette e di montagne e sopra a loro un cielo azzurro, profondo. I colori dei monti variavano dal celestino al pallido oro, a tratti prendevano tonalità rosa che subito sfumavano nel verde tenero per poi tornare al celeste dominante delle nevi e dei ghiacci eterni.
(R. Lacedelli)

Lo sport della montagna
L’alpinismo è l’arte di comprendere, di ammirare la natura nelle sue manifestazioni più sublimi e pittoresche. E’ un ottimo sport perchè oltre a tutto il corpo, mette in esercizio l’intelligenza e l’anima. Sui monti il corpo di fa più forte; sulla cima conquistata si trova compenso alla fatica; nella conquista del monte ci si abitua alle privazioni. Sulla montagna si trova il coraggio per sfidare i pericoli, ma si imparano anche la prudenza e a la capacità di superarli.

Dettati ortografici SPORT INVERNALI
Storia degli sci

Nel museo di Oslo, in Norvegia, sono raccolti gli sci di tutti i tempi e di ogni Paese, dalla ‘scarpa da neve’ agli sci dei campionissimi di oggi.
Nei Paesi Nordici, infatti, dove la neve ricopre la terra per mesi e mesi, dove i popoli, abituati a una vita nomade, rimanevano isolati per lunghi inverni, nacque la ‘scarpa da neve’ in epoche antichissime: era una larga fasciatura, avvolta attorno al piede, costruita con strisce di pelle e che, allargando la superficie del piede, consentiva di non affondare nella neve.
In seguito, le strisce di pelle furono sostituite da assicelle di legno o da archi di rami intrecciati e si usarono anche delle rozze racchette.
Questi antenati degli sci servivano soltanto per camminare, poi ci si accorse che era più facile scivolare: si faceva meno fatica e si andava più veloci.
Uno storico romano narra che le migrazioni dei popoli nordici venivano effettuate con due assicelle assicurate ai piedi: una era lunga 140 centimetri e larga 20 e serviva per prendere la spinta; l’altra era più lunga e sottile e serviva per scivolare.
Nel 110 gli sci erano quasi simili a quelli moderni e, per prendere la spinta, si usava un lungo bastone. Erano adoperati anche dalle donne e dai bambini.
Da semplice mezzo di locomozione, lo sci servì ben presto anche per la guerra: i Finnici e i Norvegesi li usarono nelle guerre del secolo XIII e i Finnici, nel 1939, si difesero energicamente contro i Russi proprio per la possibilità di rapidissimi spostamenti mediante gli sci. Durante l’ultima guerra mondiale, poi, lo sci fu usato abitualmente sul fronte russo-tedesco.
La diffusione dello sci come attrezzo sportivo si ebbe invece agli inizi dell’Ottocento, e le prime gare si ebbero in Scandinavia. Nel 1885 il lappone Tuorda vinse la prima gara di gran fondo percorrendo 220 chilometri in 21 ore. Si ebbero presto anche gare di salto con gli sci e un norvegese sbalordì tutti saltando 23 metri.
L’introduzione dello sci nelle Alpi è relativamente recente: nel 1883 un medico svizzero fece venire gli sci dalla Norvegia e, nello stesso anno, un giovane, il pioniere dello sci alpino, Guglielmo Paulke, ebbe in regalo due sci norvegesi. Rapidamente lo sci si diffuse nella Svizzera, poi nell’Austria, infine in Francia e in Italia, dove si diffuse dapprima in Val di Susa.
Ora, si sa, lo sci è diffusissimo, come svago e come sport, e l’Italia ha campi da sci in ogni zona montana, alpina e appenninica. Ne è derivata anche un’industria alberghiera di eccezionale importanza che ha letteralmente salvato l’economia di molti paesi condannati alla stasi completa nel periodo invernale.
Sì, dalla ‘scarpa da neve’ a oggi, bisogna dire che lo sci, della strada, ne ha fatta.
(G. B. Fabian)

Dettati ortografici SPORT INVERNALI
Sulla neve

E’ arrivata, finalmente, la candida visitatrice e ha già coperto i monti col suo soffice mantello.
Sci, sci! Febbrilmente si tolgono dall’angolo dove sono stati durante l’estate. Una spazzolata alla tuta, una spalmata di grasso agli scarponi, e via, per i campi, a sciare!
Diamo un’occhiata al principale strumento di questo simpatico sport.
Fino al secolo scorso lo sci non era conosciuto in Italia, paese dal molto sole e dalla poca neve. Fu uno svizzero che, stabilitosi a Torino, sentì una forte nostalgia delle lunghe e ripide discese, e visto che la neve d’era, si fece mandare dal suo paese un bel paio di sci e via, per il parco del Valentino e per le colline torinesi, a sciare con molta soddisfazione.
Era uno spettacolo e la gente accorreva a veder quel “bel matto” che volava sulla neve. Dopo pochi anni i “matti” furono parecchi e nel 1901 fondata la prima associazione sciistica.
Le nazioni nordiche, dove la neve copre la terra per la maggior parte dell’anno, conoscevano questo sport da duemila anni almeno. A Oslo, in Norvegia, nel Museo dello Sci, esiste un’asta pietrificata che pare risalga all’epoca degli antichi Romani.
Il primo ad introdurre lo sci in Europa, fu il grande esploratore Nansen che attraversò la Groenlandia sciando. Egli descrisse il suo viaggio, durato 37 giorni, in un libro che fu letto da molti. I primi sci italiano furono costruiti sul modello di quelli norvegesi.

Dettati ortografici SPORT INVERNALI – Tutte le opere  contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.

Dettati ortografici IL GHIACCIO E LA BRINA

Dettati ortografici IL GHIACCIO E LA BRINA – Una collezione di dettati ortografici sul ghiaccio e la brina, di autori vari, per la scuola primaria: ghiaccio, gelo, brina, …

Il ghiaccio
Il ghiaccio è duro, trasparente come un cristallo. Si è formato sulla superficie delle pozzanghere, nel fossato, intorno alla fontana, nei crepacci. Sembra che non voglia andarsene mai più, che niente riuscirà a scioglierlo. Ma appena un raggio si sole si poserà sulla superficie ghiacciata, prima ne trarrà barbagli luminosi e poco dopo non ci sarà più ghiaccio, ma un rivolo d’acqua corrente.

La brina
Stanotte il gran freddo ha coperto di brina tutta la campagna. Sembra un ricamo di gelo, con i suoi aghi sottili, i suoi merletti e i suoi ricami. Povere piante, sotto la sua stretta gelata! Le vedremo, presto, con le foglie accartocciate, gli steli appassiti, non più piante rigogliose, ma povere erbe bruciate dal gelo!

Il gelo
Quand’è il momento, la notizia vola in casa, di stanza in stanza, tra colpi alle porte e grida di “Il gelo! Il gelo!” ed anche i più pigri gettano via le coltri e corrono alla finestra. Gli incanti del gelo si formano di solito nel silenzio e nel buio della notte. Una pioggerella sottile cade per ore e ore sui rami spogli degli alberi, e gela. In breve, tronchi, rami e ramoscelli sono rivestiti di ghiaccio solido e puro e gli alberi sembrano come di cristallo. Il tempo si rasserena verso l’alba, lasciando un’aria pura e frizzante, un cielo senza traccia di nuvole, e tutto è immobile; non c’è alito di vento… Infine il sole lancia un fascio di raggi fra gli alberi spettrali e li trasforma in uno splendore di brillanti. (M. Twain)

Il gelo
Uno sguardo al termometro: la colonna del mercurio è scesa sotto zero, all’aperto. E’ il tempo di Mago Gelo che si diverte a decorare le siepi stecchite con gocce ghiacciate iridescenti; a mettere alle grondaie frange di ghiaccioli corti e lunghi; a disegnare sui vetri bellissime felci argentee contornate da foglie di cardo e da stelline dalle mille fantastiche forme; a far sbocciare sugli alberi rigidi fiori di ghiaccio.

Brina
Sui rami, sui tronchi scheletriti, sulle piante che non hanno più nè fiori nè foglie, in una sola notte essa depone tutte le sue stelle. E i giunchi e le canne si ammantano di bianchi fiorellini scintillanti, aggruppati gli uni agli altri, graziosissimi. E così ogni piantina, ogni filo di erba. Dovunque una goccia di rugiada che abbia potuto fermarsi, si è trasformata in migliaia di minuti cristalli sfavillanti. Talvolta sono interi campi che per una forte brinata appaiono coperti di una fioritura candida. E non solo sugli alberi o sull’erba essa si diverte a ricamare le sue trine leggere. Spesso una massa di delicati fiori non è altro che la bizzarra guarnizione depositata dalla brina sopra una pietra qualunque. Le betulle sono rivestite di candidi ghiaccioli scintillanti come argento al pallido e prezioso solicello invernale. (M. Rinella)

La brina
La natura ha mutato veste: smesso il verde, smesse le mille tinte, ha indossato una veste candida e lieve. La brina penetra ovunque, riveste con un magico velo. Le piante hanno rimesso, quasi per incanto, la chioma: ma quella chioma è canuta. I fiori e le foglie son di cristallo; ogni fronda è come un vezzo di diamante; ogni erbetta un serto di gemme. (A. Stoppani)

Dettati ortografici IL GHIACCIO E LA BRINA
Paesaggio invernale

Soffiava la tramontana: faceva un freddo del diavolo. Il sole scendeva pallido, scialbo, verso ponente. I ruscelli erano gelati. L’erba alle prode scricchiolava. I salici, con le rame spoglie, rosseggiavano. I pettirossi ed altri uccelli saltellavano, svolazzavano senza paura, da un ramo all’altro. Non si vedeva anima viva pei campi; solo qualche povera donnetta che equilibrava sulla testa il grembiule ripieno di legna secca, o qualche vecchio cencioso che cercava le lumache ai piedi d’una siepe morta. (Mistral)

La brina

La brina è un’artista meravigliosa. Sui rami scheletriti, sulle piante spoglie, sui cespugli inariditi e secchi, in una sola notte sa creare una bianca fioritura mirabile, di una bellezza fantastica e delicata.
I giunchi, le canne, ogni pianticina, ogni filo d’erba, ogni sasso, ogni pietra si vestono di bianchi fiorellini scintillanti, aggruppati gli uni agli altri, graziosissimi. Ovunque una gocciolina di rugiada ha potuto fermarsi, si è trasformata in centinaia di minuti cristalli sfavillanti.

La brina
La notte è stata gelida e serena. La mattina, tutte le piante sono ricamate di bianco. E’ la brina, la fredda sorella della neve; ma, al contrario di questa che giova alle piante e le ripara del gelo, la brina le ferma tutte nel suo gelido abbraccio, le ricama di un merletto ghiacciato, le copre di un sudario di morte.

Dettati ortografici IL GHIACCIO E LA BRINA
Una brinata

Che meravigliosa brinata! Tutto investe, tutto penetra la brina. Le piante hanno, quasi per incanto, rimesso la chioma: ma questa è chioma canuta. I fiori e le foglie sono di cristallo. Ogni fronda è una collana di gemme. Che sono mai quelle filze di cristallini che descrivono una curva così vaga fra i rami e sono tese come brandelli di merletto, dall’uno all’altro ramoscello? (A. Stoppani)

Scherzi del ghiaccio
Un vitello era solito sgambettare nella stalla. Imparò a fare giri e mezzi giri. Un giorno d’inverno, nonostante il ghiaccio, lo lasciarono uscire con il grosso bestiame per andare a bere.
Tutte le mucche si avvicinarono all’abbeveratoio con prudenza. Il vitello invece corse sul ghiaccio: la coda dritta, le orecchie abbassate, e si mise a girare in tondo. Fin dal primo giro gli mancò il piede e la sua testa picchiò sull’abbeveratoio.
“Quanto sono disgraziato! Potevo fare piroette nella paglia che mi arrivava al ginocchio e non cadevo, mentre qui, dove tutto è liscio, sono caduto!”.
Una vecchia mucca gli disse: “Se tu non fossi un vitello sapresti che là dove si galoppa con maggiore facilità è più difficile trattenersi dal cadere”-
(L. Tolstoi)

Dettati ortografici IL GHIACCIO E LA BRINA – Tutte le opere  contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. 

Racconto per introdurre la geografia La casa giusta

Racconto per introdurre la geografia La casa giusta – Elaborato a partire da una traccia in uso nella scuola steineriana, questo racconto è un piccolo viaggio attraverso i climi e le abitazioni tradizionali di alcuni popoli della terra. Se proposto a blocchi, un po’ al giorno, si può esercitare il disegno copiato dalla lavagna e la scrittura; consigliate anche le cornicette… Ho inserito nel testo degli esempi. Se disegnate per i bambini alla lavagna partite creando un bello sfondo (sole, aria, prato…), poi passate alla cornicetta, e quindi al disegno, cercando di evitare prospettive troppo complicate per loro e troppi particolari che renderebbero noioso guardarvi. Non importa tanto il prodotto finito, quanto il processo.

C’erano una volta, tanto tempo fa, due fratellini, un bambino e una bambina, che abitavo su su in alto, nel cielo. Lassù c’era sempre qualche gioco nuovo da fare: saltare sulle nuvole bianche e gonfie come la panna montata, scivolare sul dorso della luna, fare le pernacchie ai raggi del sole, sedersi sulle stelle e giocare a nascondino…

Un giorno, il tempo era passato e loro erano un po’ cresciuti, il loro sguardo andò a posarsi sulla terra: com’era piccola rispetto a tutto il cielo, e com’era buia rispetto alle stelle, e com’era chiassosa rispetto alla luna silenziosa, e com’era fredda rispetto al sole! Ma com’era bello guardare i suoi alberi, i fiori che sbucavano dalla scura terra,  gli animali che correvano, i fiumi  e i monti, le montagne imponenti, e gli uomini, poi, che si muovevano, parlavano, ridevano… Da quando avevano scoperto la terra, i due bambini rimanevano ore ed ore a guardarla, seduti su una nuvola, e non avevano più voglia di giocare con la luna e con le stelle. Solo quando sulla terra gli uomini interrompevano le loro varie occupazioni e andavano a dormire, i bambini tornavano ai loro giochi.

Guardando e riguardando la terra, i bambini cominciarono a desiderare di scendere laggiù, ma avevano molta paura a fare un viaggio del genere da soli. Una volta arrivati, come sarebbero stati accolti? Qualcuno avrebbe avuto cura di loro? Com’erano gli uomini, buoni o cattivi? A vederli da lassù, sembravano certamente buoni, ma era proprio così? Presi da tanti dubbi, e divisi a metà tra cielo e terra, i due bambini cominciavano a sentirsi tristi.

Le stelle del cielo se ne accorsero e dissero: “Non abbiate paura… anche se scenderete sulla terra noi resteremo con voi, e potrete sempre vederci anche da laggiù”.
I due bambini, a questo punto, erano determinati a partire, ma prima di farlo decisero che era meglio chiedere un consiglio al grande mago che muoveva i venti e le correnti, faceva nascere le tempeste, scatenava i fulmini, faceva rimbombare i tuoni e  radunava tutte le nuvole trasformandole in animali dei più vari, come elefanti leoni aquile tori o pesci…

“Di cosa avremo bisogno una volta scesi sulla terra?”, gli chiesero.
“Oh, beh, di una cosa avrete bisogno di certo” rispose il mago, “Una volta sulla terra, il cielo ce lo avrete sulla testa, e le nuvole rovesciano acqua, il sole brucia e la luna è fredda… vi occorrerà un riparo dal freddo e dal caldo, dalla pioggia e dal vento, dalla grandine e dalla neve…”
“Una casa?” chiesero i bambini, “ma noi non sappiamo nulla di case…”

“Voglio aiutarvi!” , rispose il mago dopo aver riflettuto un istante, perchè quei due bambini gli erano proprio simpatici, “Venite giù con me! Io vi darò una casa sulla terra. Come la volete? Triste o allegra? Fredda o calda? Chiusa o aperta?”
“Bella!” risposero in coro i bambini.
“Bene”, disse il mago, “Venite allora sotto il mio mantello, e tenetevi forte!”

I due bambini si attaccarono stretti alle gambe del mago, sotto il suo mantello, e volarono giù tra le grida di meraviglia degli uccelli…

Volando, erano passati vicino al sole, che li aveva quasi scottati; allora il mago li portò subito nella zona più fredda che si possa trovare sulla terra. Lì atterrò, e  i bambini uscirono da sotto il suo mantello e si guardarono attorno; erano arrivati al Polo Nord, dove la terra non germoglia  e non fiorisce: vento gelido e lastre di ghiaccio  luccicante dappertutto, e un gran silenzio, interrotto soltanto dallo scricchiolare del ghiaccio, dal grido di grandi uccelli bianchi e dal verso delle foche e degli orsi. Gli uomini che vivono in questa terra sono pochi.

Il mago disse: “Ah, che bel frescuccio da queste parti, eh! Proprio quello che ci voleva! Ed ora, vediamo un po’ in che casa potreste abitare…”

Il mago fece un cenno verso qualcosa che sporgeva dalla neve, a forma di cupola, e tutti e tre si avviarono da quella parte. Seminterrata nella neve, c’era una casetta rotonda, tutta ricoperta di ghiaccio, senza porte nè finestre: l’igloo. Il mago e i due bambini entrarono, abbassando la testa, in un tunnel di ghiaccio che era accanto alla casa. Percorrendo il tunnel videro numerosi cani sdraiati e mezzo addormentati. Il tunnel finì ed essi sbucarono all’interno della casa. Lì dentro non faceva più così freddo, ma c’era un fortissimo odore di grasso e di pesce.  Tutta la casa era ricoperta di pelli, muschi e licheni.I due bambini esclamarono: “Oh, che bella questa casa!”.

Lì dentro ci si sentiva proprio bene e la cupola che faceva da tetto somigliava al cielo. Gli uomini che entravano nella casa si toglievano i grossi guanti e i giacconi foderati di pelliccia, e sorridevano. I loro occhi erano di forma allungata, avevano zigomi pronunciati e la pelle del viso spalmata di grasso. Il mago salutò i due bambini, e scomparve.

Fu un grande divertimento per loro vivere in una casa di ghiaccio. Parte del giorno la trascorrevano all’aperto giocando con le foche e coi cani, poi rientravano nell’igloo e si sdraiavano  tra le pelli di foca, addormentandosi. Se capitava che si svegliassero durante la notte, vedevano sempre la stessa pallida luce solare, che ininterrottamente, per tutte le 24 ore di ogni giornata, era sempre la stessa: il giorno non finiva mai.
Ma il tempo passò e il sole invece di esserci sempre, tramontò e l’alba non arrivava. Allora cominciarono a sentire davvero freddo! Il vento del nord cominciò a soffiare, arrivarono le tempeste di neve, le onde dell’oceano si impennarono come cavalli selvaggi. Tutti gli uomini si rintanarono negli igloo, e chiusero i cani al sicuro nel tunnel. Il maltempo durò molti, molti giorni, e la luce del sole non ricomparve: un’eterna notte si era distesa su quella strana terra  e le ore passavano sempre uguali. I due bambini avevano freddo e cominciarono ad annoiarsi. Nell’igloo c’era ben poco da fare, e non si poteva neanche star dietro a una finestra a guardare il cielo nero, la furia dell’oceano o la terra battuta dal vento. Quella casa ora sembrava loro una prigione di gelo.
“Che noia!” disse la bambina,  “potessimo chiamare in nostro amico mago…”.
“Lui ci aiuterebbe!”, rispose il bambino.

E non avevano finito di scambiarsi queste parole, che il mago apparve davanti a loro: “Cosa volete? Non siete soddisfatti della vostra casa?”
“No!” rispose il bambino, “Abbiamo freddo e qui è sempre notte! Ci annoiamo!”
“Questa terra non è adatta a noi”, continuò la bambina, “e poi… la casa non ha nemmeno una finestra per guardar fuori e vedere le stelle…”
“Bene,” disse il Mago, “allora lasciamo questo posto! Venite sotto il mio mantello!”
“Dove ci porterai?”
“Dove regna il sole, venite!”
I due bambini non si fecero certo pregare, e si infilarono zitti zitti sotto il grande mantello. Il mago uscì dall’igloo e si alzò in volo, incurante della bufera.

Viaggiarono per molto, molto tempo e, mentre volavano, l’aria di faceva sempre più calda, finchè i due bambini cominciarono a sudare sotto il mantello del mago. Per fortuna erano arrivati!
“Eccoci a terra” disse il mago.

I due bambini uscirono da sotto il mantello e si guardarono intorno meravigliati. Erano atterrati in un posto che era in tutto e per tutto l’opposto del primo: si trovavano nell’emisfero sud! Qui la pioggia poteva cadere torrenziale per giorni e giorni, il sole era splendente, e l’aria umida e calda faceva nascere dalla terra ogni genere di pianta e alberi altissimi, col tronco liscio liscio e la chioma rigogliosa molto sopra. Al polo i colori erano bianco, grigio e azzurro pallido; qui era il regno del verde e del giallo in tutte le loro possibili gradazioni e sfumature. Tanto era ricca la vegetazione, altrettanto ricca era la varietà di animali: leoni, leopardi, pantere, iene, gazzelle, antilopi, giraffe, zebre, elefanti, scimmie, uccelli d’ogni genere. Gli uomini, a differenza degli abitanti del nord, avevano la pelle scura.

“Ah, che bel calduccio fa da queste parti, vero?” disse il mago, soddisfatto, “Credo proprio che ora sarete contenti… ieri al polo e oggi qui! Adesso non ci resta che andare a cercare la vostra casa!”.
Seguito dai due bambini, il mago si inoltrò nel folto della foresta. Camminare era molto difficile, ma con un mago al proprio fianco non c’era nulla da temere, e alla fine si ritrovarono in una piccola radura circondata da alberi altissimi.

“Ecco la vostra casa!” disse il mago, indicando una costruzione rotonda come un igloo, ma tutta verde e leggera. Era una capanna fatta di rami d’albero sottili e flessibili, legati gli uni agli altri con delle liane. Al centro, un’apertura tra i tronchi indicava l’entrata. I bambini erano felici: quella sì che era una bella casa! Entrarono: il sole filtrava tra le fessure delle pareti, e l’aria profumata della foresta penetrava ovunque.
“Ah, qui staremo proprio bene!” dissero, ” e stanotte finalmente riusciremo a rivedere le stelle!”.
“Sono contento che vi piaccia” disse il mago, e scomparve.

Fu così che i due bambini si ritrovarono a vivere le loro meravigliose avventure nella foresta. Il più divertente dei giochi era lanciarsi la frutta addosso, loro e le scimmie. Ma era bello anche seguire il corso del fiume, naturalmente stando molto attenti ai coccodrilli… e ai leoni!

Eppure i bambini non erano del tutto felici, e continuavano a sentire la stessa nostalgia che avevano provato prima di scendere sulla terra.
“Se almeno non vedessimo tutto quel buio là fuori! Se la casa fosse più… più protetta, più chiusa…”, dicevano.
E la sera anche le stelle sembravano così lontane.
Passò del tempo, e anche il caldo si fece insopportabile: un’aria umida e appiccicosa saliva dalla terra, arrivò un vento caldo e gli animali si nascosero nella foresta. Gli uomini si ritirarono nelle loro capanne, chiudendosi dentro con tronchi e pelli. Cadde su tutto un cupo silenzio, una calma irreale e minacciosa si stese su uomini, alberi, animali. Il sole scomparve e si scatenò una terribile tempesta; l’acqua scendeva violentissima dal cielo e ai due bambini sembrava di essere su di una barchetta leggera in balia di un mare tempestoso.
“Oh, se almeno non fossimo soli, se ci fosse il mago qui con noi!” dissero.
“Mi avete chiamato?” disse il mago, apparendo improvvisamente davanti a loro. “Non siete più contenti neanche di questa casa?” Eppure, vi piaceva tanto…”
“Oh, sì, è bella… ma non è sicura! Noi vorremmo una casa solida che sappia resistere al vento e alla pioggia; che ci faccia sentire protetti…”

“Ho capito. Ed ora so quello che ci vuole per voi. Ritornate in fretta sotto il mantello, e partiamo!”
I bambini non se lo fecero certo ripetere, si aggrapparono alle gambe del mago, e volarono via.

Viaggiarono a lungo, verso ovest, sorvolando l’oceano immenso, finchè per la terza volta si ritrovarono a terra. Erano in un paese vasto e aperto come il respiro di un gigante: l’America! Da una parte si stendevano verdi praterie sterminate, solcate da fiumi e interrotte qua e là da grandi pinete; dall’altra una catena di monti rocciosi si elevavano in picchi frastagliati verso il cielo. In quel momento il sole stava tramontando e tutto era tinto di arancione e rosso. Quanta luce!

“Venite!” disse il mago “Vi aspetta la casa dei vostri sogni!”
E li portò su un picco roccioso, sovrastato da uno strano spettacolo: scavate nella roccia viva, una accanto all’altra e una sopra l’altra, c’erano case di pietra.
“Questa sì che è una casa!” esclamarono i bambini, “Qui dentro non ci bagneremo, nè vedremo lampi paurosi!”
“E da queste finestre potremo anche guardare le stelle.” disse la bambina.
E il bambino aggiunse: “Sembra una fortezza! E possiamo giocare ai soldati!”
“Bene!” disse allora il mago, “Sono proprio felice di avervi accontentati…”
E sparì.

I due bambini cominciarono una nuova vita. Intorno a loro vivevano uomini forti e coraggiosi, alti e dalla pelle del colore del tramonto, con lunghi capelli lisci e neri, spesso adornati di piume. Questi uomini maneggiavano armi e attrezzi, e avevano costruito loro quelle case, scavandole nella roccia, e le avevamo chiamate “pueblo”. Erano un popolo saggio e generoso, ma anche bellicoso. Coltivavano le praterie e vivevano dei prodotti della terra e di caccia. Il bambino li seguiva spesso nel loro vagabondare e aveva imparato ad andare a cavallo e rincorrere immense mandrie di bufali e bisonti selvaggi; alci, salmoni e castori erano altri animali che si incontravano facilmente in quella zona. La bambina, invece, restava al villaggio con le donne, e con loro lavorava a fare cesti e ritagliare le pelli dei bisonti per fare coperte e vestiti.
A lungo andare la bambina si stancò di vivere così.

“Le finestre qui sono buchi, vanno bene per lanciare frecce contro i nemici, ma non per ammirare il mondo!” disse un giorno.
“E se anche fosse?” rispose il bambino, “a me piace sentirmi al sicuro quando arriva il nemico!”
“Ma non si può vivere sempre con l’idea di doversi difendere! Io vorrei una casa delicata, dolce, con una bella finestra da cui guardare i fiori del giardino, un terrazzo…Vorrei vicini gentili che ti sorridono quando ti vedono…”
“Tutte cose da femmina!” disse il bambino facendo una smorfia.
“Proprio così! Questa è una casa per maschi! Un buco nella roccia per giocare alla guerra!”
I due bambini cominciarono a litigare, finchè la bambina afferrò il bambino per i capelli gridando: “Vuoi la guerra? Eccotela!”
E cominciarono a darsele di santa ragione.
“Ah, così proprio non va!” dissero in coro le stelle del cielo, “Mago, corri dai bambini!”
Ed il mago apparve tuonando: “Cosa state combinando?”
“Niente…” dissero i bambini.
“No, no! Questo posto proprio non va bene per voi! Vi porterò nel paese della grazia e della delicatezza, e lì sicuramente starete bene…”

I bambini si nascosero sotto il mantello del mago e volarono via dal selvaggio ovest.
Viaggiarono a lungo verso est, sorvolando mari e terre, poi il mago cominciò a volare più basso e i bambini videro sotto di loro tantissima acqua, l’oceano, e in mezzo all’acqua una grande terra che si stendeva meravigliosa, ricca di verde e di montagne ricoperte di neve, e di alti monti con la cima simile ad una bocca spalancata, i vulcani. Videro sciogliersi le nevi in cascate pittoresche e laghi da sogno circondati da boschi di aceri, betulle, castagni, magnolie e salici… Quella terra era molto popolata: videro città e paesi, uomini donne e bambini.

Il mago atterrò, e i bambini con lui.
Che meraviglia! Conifere di ogni specie si alternavano a magnolie, camelie, orchidee, glicini, bambù… un dolce lago azzurro, solcato da silenziose imbarcazioni, era immerso nel verde, e il verde vi si rifletteva dentro. Sulla sponda del lago, tra delicati alberelli nani, sorgeva la più deliziosa casa che i bambini avessero mai visto: col tetto a forma di pagoda, aveva le pareti di legno leggerissimo e di carta, in cui s’aprivano grandi finestre. All’interno della casa ogni cosa era delicata e leggera: c’erano piccolissimi mobili di legno laccato, tavolini bassi bassi, composizioni di fiori variopinti insieme a rami di bambù e foglie, pareti scorrevoli di carta e legno al posto delle porte. La bambina era estasiata, mentre il bambino si guardava attorno curioso. Gli uomini che le avevano costruite erano a prima vista gentili e delicati proprio come le loro case: piccoli di statura, occhi e capelli scuri, la loro legge era la cortesia.

“Qui di certo non vi verrà voglia di prendervi per i capelli” disse il mago, e come al solito scomparve.
I due bambini non osarono nemmeno salutarlo, perchè sembrava che ogni voce fosse troppo forte in quel dolce paese…
Così cominciò la loro vita nell’est, nel paese del Sol Levante.
In questa terra l’attività più strana per i bambini era prendere il tè: solo per prepararlo ci si metteva una gran quantità di tempo, poi lo si versava in delicatissime tazzine di porcellana e lo si beveva con grande serietà. Con la stessa cura dei gesti si svolgevano quasi tutti i lavori, anche coltivare il riso, l’alimento principale di quel popolo. E la stessa cura veniva messa in tutte le arti: la lavorazione della carta e del legno, l’arte della seta, la calligrafia, la ceramica, la danza, la musica e il teatro.

Un giorno i bambini andarono ad assistere ad uno spettacolo e per la prima volta videro rappresentata la lotta tra due samurai. Gli attori erano coperti dalla testa ai piedi e portavano spada ed elmo: avevano un aspetto davvero feroce. Dopo qualche minuto di calma assoluta in cui i due guerrieri erano rimasti uno di fronte all’altro immobili come statue, si sentì un fortissimo grido e cominciò la lotta: non c’era traccia di cortesia e delicatezza!
I bambini naturalmente furono molto impressionati, e tornati a casa il bambino disse: “In questo paese tutto è bello e sembra fatto di porcellana; a volte ho perfino paura a camminare perchè temo di poter rompere qualcosa o di dare fastidio…ma c’è anche qualcosa di violento e terribile… oggi quei due samurai mi hanno proprio fatto paura!”

La bambina non disse nulla.
D’improvviso la terra cominciò a tremare, sembrava stesse spaccandosi in due, ci fu un terribile rombo, e la casa si piegò e finì col disfarsi, proprio come un castello di carte. Per fortuna, essendo così leggera, non fece loro alcun male.

“Ho paura!” dicevano i bambini, “Vieni qui da noi, mago!”
E il mago comparve.
“Presto, sotto il mantello! Scappiamo!”
Si alzarono in volo e la terra divenne un’altra volta piccola piccola e lontana, in mezzo al mare…

Dopo un po’ che volavano, il mago si fermò. I due bambini sbirciarono da sotto il mantello per vedere dove erano capitati questa volta… ma si accorsero di essere ancora in alto nel cielo. Il mago era molto pensieroso.
“Caro mago, cos’hai?” chiesero.

“Vi ho portati in giro per il mondo: dalle nevi del nord, alle zone tropicali del sud, dalle vaste praterie dell’ovest, fino alle belle terre dell’est. In tutti questi posti avete conosciuto gioia, sorpresa, felicità, meraviglia, ma anche tristezza, noia, paura. Soprattutto, la vostra nostalgia non vi ha mai lasciati, in nessuno di questi luoghi. Avete abitato in case di ghiaccio, di piante, di roccia, di carta, ma niente è stato adatto a voi. Non avete ancora trovato la vostra terra, la vostra casa…”
“Non ti scoraggiare, caro mago” dissero i bambini.

“Non ti scoraggiare, caro mago” ripeterono in coro le stelle, “Tu li hai portati dal cielo alla terra, ma la casa giusta per loro può trovarla soltanto la grande maga misteriosa… portali da lei”.
Il mago accettò il consiglio delle stelle, prese i bambini sotto il mantello e insieme volarono incontro alla terra, allontanandosi dalle nuvole e via via immergendosi nel verde e nell’azzurro, finchè arrivarono davanti alla grande maga misteriosa.

Il mago baciò i bambini, li salutò e scomparve.
“Perchè siete venuti da me?” chiese la maga.
“Per avere la casa sulla terra giusta per noi. Il mago non è riuscita a trovarla…” dissero i bambini.

“Certo cari bambini, la casa giusta per voi è dove c’è chi vi sta aspettando, il vostro papà e la vostra mamma. Loro, sapete, stanno preparando per voi due casette, non una soltanto! Una casetta è piccola piccola, che ci sta dentro giusto il cuore, e l’altra è grande grande. Vedete: ogni luogo della terra è meraviglioso, come è meraviglioso ogni popolo della terra ed ogni uomo, e ogni casa è la casa migliore che per quel luogo possa esistere.   Ma casa è dove ci sono la mamma e il papà, e i vostri non erano in nessuno dei luoghi dove il mago vi ha portati, per questo non vi ci siete trovate bene…”
“E dove sono, dove sono?”, chiesero i bambini.

“Oh”, disse la maga, “vivono in un luogo della terra non troppo a nord, nè troppo a sud; non troppo ad ovest nè troppo ad est; lì non fa troppo freddo e nemmeno troppo caldo; il sole splende ma può anche cadere la neve. E’ una bella terra, il clima è temperato, è contornata da un mare azzurro e splendente sotto i raggi del sole, ma non mancano le alte vette innevate, le colline e le pianure. Anche in questa terra esistono come nelle altre che avete visitato cose brutte, ma è la vostra casa. Era lì che spingeva la vostra nostalgia…”

I GIORNI DELLA MERLA – Racconti, dettati ortografici e filastrocche

I GIORNI DELLA MERLA – Racconti, dettati ortografici e filastrocche, di autori vari, per bambini della scuola d’infanzia e primaria.

I GIORNI DELLA MERLA

Una volta i merli erano bianchi come la neve. Ma un anno gli ultimi tre giorni di gennaio furono così freddi, che gli uomini non uscivano di casa per non rimanere assiderati; i rami degli alberi scricchiolavano per il gelo e cadevano a terra spezzati; i corsi d’acqua erano gelati e gli uccellini si rifugiavano nelle case degli uomini per non morire.
Una merla, coi suoi tre piccini, si riparò nel camino di una casa. Ma, ahimè, le penne della merla e dei suoi merlotti divennero, per il gran fumo del camino, nere come la notte.
Da allora tutti i merli furono neri. I tre ultimi giorni di gennaio vengono detti anche oggi “i giorni della merla”.

I GIORNI DELLA MERLA

Quell’inverno, tanti anni fa, quando i merli erano ancora bianchi, la merla e i suoi figlioli se la videro brutta: neve, freddo e fame.
Se la merla fosse riuscita ad arrivare fino al granaio di quella casa, laggiù! Ma sì, chi aveva il coraggio con quel freddo?
Finalmente passò Dicembre e anche Gennaio si avviò alla fine. Un raggio di sole forò il cielo bianco e intiepidì l’aria.
“L’inverno è finito” disse con un gran sospiro la merla ai suoi figlioli. “Oggi voglio proprio arrivare fino al granaio”.
Proprio in quel momento Gennaio passava sotto il nido. Udì i discorsi della merla e, da quel vecchio dispettoso che era, borbottò fra sè: “Partito, vero? Ora te lo faccio vedere io!”.
La merla era arrivata al granaio, aveva fatto una buona provvista e stava per tornare indietro quando la tempesta si scatenò. Dove ripararsi?
Finalmente trovò un buon posticino riparato e caldo: il comignolo di una casa. La merla se ne stava lassù mezzo soffocata dal fumo, ma incapace di volar via. Per tre giorni durò, finchè Gennaio non partì. Allora la merla potè tornare al nido.
“Che cosa vuoi, brutto uccellaccio nero?”, le gridarono i figlioletti impauriti.
“Ma sono io, la vostra mamma!”
“Non è vero. La nostra mamma è bianca e bella, e tu sei nera e brutta!”.
La merla cercò di ripulirsi, ma non ci funiente da fare; dovette rassegnarsi. Da allora i merli sono rimasti neri, e proprio per questo gli ultimi tre giorni di gennaio si chiamano i giorni della merla.
(F. Giovannelli)

I GIORNI DELLA MERLA
Narra una strana storia
che in tempi assai lontani
c’era una merla bianca
più bianca della neve.
Volava lentamente
sui rami delle siepi
cercando qualche bacca:
aveva tanta fame!
Tirava forte il vento
sugli orti e sui giardini
pioveva senza sosta
dall’alba fino a notte:
gennaio ormai finiva
con giorni grigi e freddi.
La povera uccellina
fischiando disperata
cercava invano un seme
un piccol moscerino
un chicco di frumento
un briciolo di pane.
Infine, giunta sera,
si rifugiò al calduccio
di un alto fumaiolo:
dormì sognando il sole.
Svegliandosi al mattino
scoprì con meraviglia
d’avere nera l’ala
nerissimo il piumaggio
e il becco color d’oro.

I GIORNI DELLA MERLA – Dettati ortografici e filastrocche  – Tutte le opere contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.

Libri illustrati: Vojtech Kubasta

Libri illustrati: Vojtech Kubasta. Vojtěch Kubašta  (1914-1992) è conosciuto dagli specialisti di tutto il mondo per aver prodotto nel corso della sua vita dei libri-capolavoro che sono dedicati ai bambini, ma che affascinano adulti e bibliofili.

Iniziò la sua attività come architetto per diventare pochi anni dopo il conseguimento della laurea un interessantissimo illustratore di libri per bambini e grafico pubblicitario, ma soprattutto un incredibile costruttore, illustratore ed inventore di un nuovo modo di fare i libri pop-up. Nelle sue opere utilizzò una sapiente miscela di conoscenza delle tradizioni culturali del suo Paese, di capacità grafica e di sensibilità artistica per giungere a creare un mondo fantastico pieno di poesia e magia. I suoi libri animati sono conosciuti in tutto il mondo: si stima che le sue opere siano state tradotte in più di 30 lingue e che abbiano avuto una tiratura di oltre 20 milioni di copie.

http://www.buongiornoslovacchia.sk

http://en.wikipedia.org/

I pop up

Le illustrazioni

Un video sulla storia dei 700 anni del libro animato e pop up

Ellen G. K. Rubin ha scoperto pop up e libri animati quando ha iniziato a leggerli ai propri figli venticinque anni fa. Oggi ha una collezione di più di 6500 libri e tiene conferenze, scrive articoli, organizza workshops e mostre. Per saperne di più http://www.popuplady.com/

Il video è pieno di meraviglie, se vi interessa solo la parte relativa a Vojtech Kubasta andate al minuto 33.50

Alcune immagini e link ad altri appassionati di Vojtech Kubasta (c’è da perdersi…)

Hansel e Gretel, 1957

http://voitechkubasta.canalblog.com/

Cenerentola, 1959

http://voitechkubasta.canalblog.com/

Tip Top et les avions, 1963

http://ohpopup.canalblog.com/tag/kubasta

Il soldatino di piombo

http://ohpopup.canalblog.com/albums/

Possedere un libro di Kubasta è molto bello per un bambino, perché quel preciso oggetto è stato realizzato proprio per lui. Tenendo conto del suo modo di guardare, della sua meraviglia e del suo interesse per l’esplorazione della forma e invita ad essere toccato. Ma possedere un libro di Kubasta è molto bello anche per un adulto, in quanto opera d’arte, e perché la meraviglia dell’adulto non è inferiore a quella del bambino di fronte a quel miracolo di carta che si apre e si anima come un piccolo teatro e poi si richiude. Una collezione straordinaria, nata tra le stradine del centro storico di Praga, da un’occhiata ad una vetrina di antikvariát, fra coloratissimi presepi di carta, cartine e dépliant turistici, ma anche biglietti della lotteria nazionale o splendide litografie acquarellate. Una rassegna delle opere di uno dei più grandi e prolifici creatori di libri pop-up del mondo, raccolte nel catalogo della prima mostra italiana a lui dedicata.

Libri illustrati: Più e meno

Libri illustrati: Più e meno. Il gioco visivo “Più e meno” è composto di 72 carte con diverse immagini. Molte di queste immagini (48) sono su fondi trasparenti, così da poterle sovrapporre per comporre altre immagini più complesse stimolando le capacità creative del bambino. 
Sovrapponendo alcune immagini di alberi si compone un bosco. Sovrapponendo al bosco il disegno della pioggia o quello del sole o della luna, o quello del volo degli uccelli, o quello di un cane che passa, eccetera, si modifica a piacere, continuamente, l’immagine totale. 

Dimensioni: cm 15.5×15.5
Lingue: Testi in italiano, inglese, francese, spagnolo, tedesco e giapponese
Corraini editore
Prezzo: € 40.00
di Giovanni Belgrano e Bruno Munari

Non un libro ma un gioco, composto da molte immagini su sfondi trasparenti, sovrapponibili e componibili a piacere, aggiungendo o togliendo le carte.
Carte quadrate in cui il colore è in equilibrio con il segno, e che insieme raccontano storie. Storie il cui “collante” è l’immaginazione di chi prende la parola, con a disposizione infiniti suggerimenti per creare racconti sempre diversi. http://www.corraini.com/

Di Bruno Munari:

CAPPUCCETTO VERDE Tutti conoscono Cappuccetto Rosso, ma forse non tutti sanno la storia di Cappuccetto Verde, Cappuccetto Giallo e Cappuccetto Bianco, mandati dalla mamma a portare alla nonna un cestino pieno di cose verdi, gialle, bianche. Il lupo nero li aspetta nel folto del bosco, nel traffico, nella neve… riuscirà a prenderli? Con queste favole, pubblicate per la prima volta nella storica collana Einaudi “Tantibambini”, un colore diventa protagonista nei disegni, nel testo e nei personaggi. Bruno Munari ha giocato con la fiaba tradizionale e ne ha allargato gli orizzonti, creando personaggi e storie nuove. I Cappuccetti di Munari ritornano ora come libri singoli, secondo il progetto originale. Età di lettura: da 5 anni.

CAPPUCCETTO GIALLO 

CAPPUCCETTO BIANCO 

I PRELIBRI  sono stati pubblicati per la prima volta da Danese nel 1980. Sono una serie di 12 piccoli libri (10 x 10 cm) dedicati ai bambini che non hanno ancora imparato a leggere e scrivere, disegnati per adattarsi alle loro mani e assemblati usando diversi tipi di materiali, colori e rilegature. Offrono una varietà di stimoli, sensazioni e emozioni, che nascono dall’accostamento di percezioni e immagini: “dovrebbero dare la sensazione che i libri siano effettivamente fatti in questo modo, e che contengano sorprese. La cultura deriva in effetti dalle sorprese, ossia cose prima sconosciute” (Bruno Munari).

TOC TOC… CHI E’? APRI LA PORTA Qui, come negli altri titoli, Munari gioca su un racconto essenzialmente visivo pieno di attese e di sorprese ottenute attraverso soluzioni semplicissime. Toc toc … e una porta si apre.

NELLA NOTTE BUIA Questo libro è uscito per la prima volta, in poche copie, nel 1956 e da allora è diventato un libro culto dell’editoria per ragazzi. Tuttora conserva tutta la sua attualità e ognuno, bambino o adulto che sia, diventa protagonista di questa avvincente ricerca all’interno della notte, sotto l’erba del prato, nel fiume sotterraneo e nella grotta, passando con la propria fantasia e curiosità (quasi con il proprio corpo) attraverso i fori, i pertugi e i profondi buchi presenti nelle pagine di carta, nere o ruvide o trasparenti…. Ognuno segue fino in fondo, con il fiato sospeso, la piccola luce che si intravede lontano. Età di lettura: da 5 anni.

NELLA NEBBIA DI MILANO Pubblicato per la prima volta nel 1968, questo volume propone un ritratto spietato e gustoso della metropoli lombarda con forme nere, stilizzate, geometriche, creando un effetto nebbia con la carta lucida semitrasparente, in contrasto fortissimo con il fantastico mondo del circo rappresentato al centro del libro. Il lettore viene completamente coinvolto ed entra attivamente nel racconto, in un percorso fatto di immagini e suggestioni create dall’uso di carte diverse fustellate e disegnate. Un viaggio dentro la lattiginosa opacità della nebbia di Milano, un approdo nell’allegra vivacità del mondo del circo. Età di lettura: da 5 anni.

IL PRESTIGIATORE VERDE  Il prestigiatore verde, il simpatico Alfonso, sparisce e ricompare tra le pagine in bauli e scatole per riuscire finalmente a suonare in pace il suo violino.

GIGI CERCA IL SUO BERRETTO Dove sarà il cappello di Gigi? Nell’armadio, nel frigorifero? Una storia semplice e coloratissima, divertente e attuale anche se disegnata negli anni ’40.

IL VENDITORE DI ANIMALI Un bizzarro venditore ci propone una teoria di fantasiose creature dalle strane abitudini…e tra un fenicottero che fuma la pipa e un armadillo “un poco brillo”, nel finale la sorpresa è assicurata!

LA RANA ROMILDA La storia di una rana che, saltando di palo in frasca, ha una serie di avventure curiose e divertenti.

L’UOMO DEL CAMION 10 Km. E per ognuno, un diverso mezzo di trasporto e un “imprevisto” che ritarda la consegna del regalo… ma cosa ci sarà dentro al pacco?

STORIE DI TRE UCCELLINI Ancora un libro della storica serie del 1945. Munari ideò questi libri/album animati per i bambini utilizzando grandi immagini, pagine ed inserti di diverse dimensioni, fori e fustelle, per creare curiosità ed attesa in chi guarda. L’album racconta tre delicate e eleganti storie di tre uccellini che finiscono in gabbia.

TANTA GENTE Un libro abbozzato, suggerito, un libro che Bruno Munari ha cominciato a preparare e che noi possiamo completare, rifare e reinventare… il tema? La gente! tanti tipi diversi, tanti atteggiamenti, tanti tic e tante storie: possiamo completare i disegni accennati, disegnarne di nuovi, descrivere, incollare e divertirci a cambiare l’ordine dei fogli. Anche le carte sono tante, colorate e trasparenti, per suggerirci tanti stimoli diversi.

ABC SEMPLICE LEZIONE DI INGLESE “ABC” è un alfabetiere scritto e disegnato da Bruno Munari nel 1960, con la consueta colorata ironia. Destinato originariamente agli Stati Uniti, diventa una semplice e divertente lezione d’inglese per i bambini (e non solo) italiani.

ALFABETIERE Chi l’ha detto che l’alfabeto si impara dalla A alla Z? Munari invita i bambini a giocare con suoni e forme delle parole: imparare a leggere e a scrivere diventa così un impagabile divertimento.

ZOO Un viaggio fra animali colorati e testi divertenti per descriverli. Le immagini vivide e il segno particolare fanno di questo libro uno zoo fra reale e immaginario per bambini e adulti.

MAI CONTENTI Qui, come spesso succede nella vita reale, animali sognano di essere altri animali, in un divertente ed ironico rimando circolare.

Tutorial: lampadario (o mobile) di casette di carta

Tutorial: lampadario (o mobile) di casette di carta.

L’idea è di hutch studio . Avevo ancora una lampada nuda in casa (sfinimento da trasloco) e ho provato a vestirla. Costruire le casette di carta è molto semplice, un po’ più laboriosa la composizione, ma il risultato ci piace molto, soprattutto perchè anche se ci sono molte imperfezioni, una volta illuminate le casette proiettano bellissime ombre intorno…

Io ho fatto così.

casette di carta
Materiale occorrente: 

pagine di un libro da macero (la carta spessa facilita molto il lavoro perchè le pieghe si incidono semplicemente tracciando le linee con la matita)

colla da carta, forbici e cutter

fil di ferro (io ho usato quello da perline)

modello; se volete scaricare il mio è qui:

Come si fa

Per preparare le casette riportare a matita il modello sulla carta.  Al modello, quando si ritaglia con le forbici, bisogna aggiungere un margine per incollare il tetto:

Ritagliate col cutter le finestrelle, e con le forbici il resto, come mostrato nell’immagine. Piegate lungo le linee tracciate.

Tagliate il tetto della casetta e piegate a metà:

Incollate il tetto:

Le finestre delle casette di carta possono essere decorate, alcuni esempi:

Preparate un anello col fil di ferro (se sottile come quello che ho usato io meglio metterlo a doppio):

Per appendere le casette di carta all’anello fate un nodo su un pezzo di fil di ferro, inseritelo all’interno della casetta:

e usate il filo sporgente all’esterno per fissare la casetta all’anello, secondo il vostro gusto:

E’ tutto qui.

Questo articolo fa parte dell’Album di Vita pratica:

Tutti gli album

Libri illustrati: Tara Books

Tara Books è un editore indipendente di libri illustrati per adulti e bambini con sede a Chennai, India del sud. Salani propone due dei suoi meravigliosi libri fatti a mano (su carta seta artigianale, e stampati con colori ricavati da pigmenti vegetali) con testo in italiano: La vita notturna degli alberi e Vite d’acqua. Questi due video possono dare un’idea…

Queste alcune immagini del libro (da http://www.tarabooks.com/):

Pubblicati da Salani:

VITE D’ACQUA

Autore: Rambharos Jha
Traduzione di Giulia Tonelli
Pagg. 26

Coccodrilli che inseguono lanterne, aironi bianchi che si avventurano nel torrente tempestoso, villaggi profumati di gamberi e granchi, gracidio di rane come suono di tamburo, cavallucci lanciati al galoppo quando il vento piega gli alti giunchi, piccoli serpenti che spaventano elefanti… È il mondo del Gange, microcosmo di equilibrio assoluto.
Le storie del fiume sacro che racchiude lo spirito dell’India sono dipinte in questa raccolta di immagini straordinarie, affascinante reinterpretazione del mondo marino in arte Mithila, pittura popolare dell’India nordorientale, e sono accompagnate da poemi della tradizione indiana: le creature acquatiche danno vita a un universo in cui realtà e mito, natura e leggenda si intrecciano.
Vite d’acqua racchiude lo spirito dell’India: se La vita notturna degli alberi – pubblicato con le stesse caratteristiche di libro d’arte stampato su carta seta prodotta a mano – è un inno alla Terra, questo bellissimo Bestiario canta e immortala l’Acqua, culla primordiale di vita e suggestioni, e le sue creature multiformi e colorate.

“Quando i rossi fiori di loto cominciano a sbocciare
sulla superficie dello stagno limaccioso
gli uccelli spaventati portano veloci i piccoli al riparo
per paura che l’acqua s’incendi.”

Immagini da http://www.tarabooks.com/

__________________________________________________

LA VITA NOTTURNA DEGLI ALBERI

Autore: Bhajji Shyam – Durgan Bai – Ram Singh Urveti
Traduzione di Valentina Paggi e Monica Romanò
Pagg. 32

L’albero del Peepul, che ha la stessa forma delle sue foglie. Il sacro albero del Dumar, che serve per fabbricare baldacchini. L’albero che si veste di piume fiammeggianti alla danza del pavone. L’albero della musica. L’albero delle Dodici Corna… Ogni notte, quando finalmente il lavoro di questi alberi maestosi giunge al termine, inizia la vita segreta degli spiriti che li abitano.Le loro storie profonde e senza tempo sono dipinte e raccontate da Bhajju Shyam, Durga Bai e Ram Singh Urveti, tre artisti contemporanei della tradizione Gond, una corrente pittorica dell’India centrale caratterizzata da linee fluenti, intricati motivi geometrici e e simboli che fanno da tramite l’essere umano e il cosmo. Le immagini sono stampate in serigrafia tradizionale su carta seta. Se L’uomo che piantava gli alberi di Jean Giono è il manifesto del rapporto dell’uomo occidentale con la natura, La vita notturna degli alberi, Premio New Horizons 2008 Bologna, racchiude tutto lo spirito dell’India, quello sguardo così pacato e armonioso che mette sullo stesso piano l’uomo, il cosmo e la divinità.

“Quando Shankar Bhagwan, il Creatore, dliede vita al primo uomo, sulla Terra non esistevano alberi né foglie. L’uomo disse: «Signore, cosa mangerò? Come potrò sopravvivere?» Il Creatore si strappò tre peli, e con quelli fece tre grossi alberi. Allora l’uomo disse: «Ma Signore, non c’è frutta su questi alberi. Tre rimarranno tre, e tre un giorno moriranno». Ouindi Shankar Bhagwaan prese la cenere che ricopriva i suoi capelli arruffati e cosparse gli alberi con essa, e questi cominciarono a fiorire e a dare frutti. Così prima che noi imparassimo a coltivare il grano, c’erano alberi che ci nutrivano con il carico dei loro rami.”

Immagini da http://www.tarabooks.com/

Tutti i libri Tarabooks li trovi sul sito http://www.tarabooks.com/

Libri illustrati: La grande fabbrica delle parole

La grande fabbrica delle parole. un libro…

C’è un paese dove le persone parlano poco.

In questo strano paese, per poter pronunciare le parole bisogna comprarle e inghiottirle. Le parole più importanti, però, costano molto e non tutti possono permettersele.

Il piccolo Philéas è innamorato della dolce Cybelle e vorrebbe dirle “Ti amo”, ma non ha abbastanza soldi nel salvadanaio.

Al contrario Oscar, che è ricchissimo e spavaldo, ha deciso di far sapere alla bambina che un giorno la sposerà.

Chi riuscirà a conquistare il cuore di Cybelle?

Pubblicato da un editore indipendente belga, La grande fabbrica delle parole ha vinto il Prix Papillotes 2010 e il Prix littéraire de la Citoyenneté 2010.

http://libri.terre.it/libri/collana/0/libro/294/La-grande-fabbrica-delle-parole

… e un progetto

La Grande Fabbrica delle Parole è un laboratorio gratuito di scrittura creativa rivolto a bambini e ragazzi in età scolare, obiettivo è costruire uno spazio di incontro e condivisione della passione per la narrazione. La Grande Fabbrica delle Parole è un progetto interculturale  che interviene in un quartiere simbolo della Milano cosmopolita, la zona due, con l’intento di favorire la coesione sociale  e l’incontro tra culture, generi e generazioni diverse. I workshop si svolgono in orario curricolare e sono aperti su prenotazione alle classi di tutte le scuole di Milano e Provincia.

Il progetto è nato da un’idea di Insieme nelle Terre di Mezzo Onlus e Terre di Mezzo, ispirato al progetto 826 Valencia, inaugurato nel 2002 a San Francisco su iniziativa dello scrittore Dave Eggers e dell’educatrice Nínive Calegari.  Una formula che, ad oggi, è stata replicata in sette città statunitensi e a cui si ispirano il Centro  Fighting Words di Dublino e il nuovissimo Ministry Of Stories nel Regno Unito.

Protagonisti delle attività sono i bambini in età scolare. Le classi delle scuole primarie e secondarie di primo grado partecipano ai laboratori gratuiti che si tengono presso la nostra sede tre giorni a settimana. In occasione di alcuni eventi speciali, inoltre, il laboratorio apre le sue porte a tutti i bambini dai 6 agli 11 anni, accompagnti dai genitori.

Scrittori, editor, disegnatori, giornalisti, creativi, studenti ed insegnanti: questi sono I tutor-volontari del laboratorio, che vogliono impegnarsi per condividere le proprie competenze e soprattutto la propria passione per lo scrivere con i più piccoli. L’idea è che tutti, nomi noti ed illustri sconosciuti, siano preparati e motivati a mettere in gioco le proprie abilità e competenze dando un contributo gratuito.

Le attività del triennio 2010-13 si svolgono nel quadro del progetto “Rane volanti. Tra strade, vie d’acqua e d’aria, per incontrarsi nel territorio”. Si tratta di un progetto (finanziato dalla Fondazione Cariplo) volto a promuovere la coesione sociale nella zona di Milano racchiusa tra via Padova e il naviglio Martesana. Il laboratorio si inserisce nell’area operativa “Promozione del protagonismo giovanile”: la creatività come strumento di empowerment che, attraverso i più piccoli, raggiunge le famiglie e la scuola e quindi la comunità più ampia.

​Qui:  laboratorio.terre.it

Il ciclo dell’acqua La storia di Diamantina

Il ciclo dell’acqua La storia di Diamantina – Questo racconto è utile sia per illustrare il ciclo dell’acqua, sia per introdurre in geografia gli ambienti naturali montagna, collina e pianura. Andrebbe proposto a blocchi, ed ogni blocco illustrato dai bambini con matite, cerette, acquarello, ecc…  (anche copiando dalla lavagna). Questo solo a titolo di esempio:

C’era una volta, molto ma molto tempo fa, un regno immenso fatto di acqua, dove tutto era pace e armonia. Era il regno di Oceano. Custodiva tante e tante meraviglie: negli abissi più profondi e inesplorati, si nascondevano grotte misteriose e montagne di sabbia e roccia rivestite di un  mantello verde evanescente che danzava all’ondeggiare dell’acqua. C’erano giardini incantati, pieni di fiori e coralli dai colori più sgargianti, e piante grandi e piccole, alcune delle quali aprivano e richiudevano le loro chiome per mangiare e riposare.

Piccole e grandi creature si muovevano senza sosta tra quelle meraviglie. La loro pelle era simile al colore delle piante e dei fiori che le circondavano, e  lucente, e piante e creature si confondevano tra loro.

Ogni creatura aveva un nome. C’era ad esempio il polipo, con la sua grande testa allungata dalla quale spuntavano lunghi tentacoli che si muovevano in tutte le direzioni. C’era poi la medusa, leggiadra e trasparente, che si muoveva così leggera e sinuosa da sembrare una ballerina sulle punte, in perfetta sintonia coi movimenti dell’acqua. La conchiglia dell’ostrica sembrava un ventaglio colorato e custodiva al suo interno una magnifica, perfetta perla splendente. La balena era la più grande creatura del regno. Un gigante buono. Quando nuotava, attorno a lei c’erano tanti pesciolini che le tenevano compagnia. Per respirare la balena doveva, di tanto in tanto, uscire dall’acqua, ed in quel momento spruzzava dal suo dorso una gorgogliante fontana che saliva verso il cielo e poi ricadeva su se stessa aprendosi come un fiore. C’era poi il delfino, l’acrobata di quel regno. I delfini nuotavano sempre in gruppo, ed il loro gioco preferito consisteva nel balzare fuori dall’acqua, il più alto possibile, per poi rituffarsi in acqua disegnando  nell’aria archi d’argento e allegri spruzzi d’acqua.

Il colore verdazzurro del regno di Oceano gli donava un’atmosfera di sogno e di pace. In superficie tutto era un luccichio, grazie alla luce del sole:  milioni di piccole stelline sembravano posarsi a danzare sul pelo dell’acqua.

Oceano aveva moltissime figlie: le gocce d’acqua, che vivevano felici nel suo regno. Oceano si occupava amorevolmente di loro e provvedeva a tutti i loro bisogni: le nutriva, le cullava cantando per loro, le proteggeva dai pericoli. Le gocce amavano Oceano, e gli erano grate e riconoscenti per quella vita così felice e spensierata.

Un giorno, mentre tutte le piccole gocce erano impegnate a giocare tra loro, si spinsero fino alla cresta delle onde, pericolosamente troppo vicino alla superficie, e lontane dal palazzo verdazzurro di Oceano. Lì udirono una misteriosissima voce chiamarle: “Goccioline! Fatevi riscaldare dai miei raggi, vi prometto che conoscerete cose fantastiche… vi farò vedere tutte le meraviglie che esistono oltre al vostro regno…”

Le gocce si spaventarono e fuggirono via. Non appena furono di nuovo a palazzo si sentirono al sicuro, ma non riuscivano a smettere di pensare a quello che era successo, e non riuscivano a darsi una spiegazione. Di chi era quella voce? Chi le aveva chiamate? Era il caso di tornare vicine alla superficie e cercare di scoprirlo, o era meglio dimenticare tutto e lasciar perdere?

Una piccola goccia parlò: “Oh, io sono così stanca di tutta questa pace, ogni giorno uguale all’altro, ogni giorno sempre più noioso di quello prima… Questo regno lo conosco ormai fino al più piccolo granello di sabbia che contiene. Basta! Voglio qualcosa di nuovo! Voglio avventura! Voi fate come volete: io salgo!”.

A parlare era Diamantina, la più curiosa e irrequieta goccia che ci fosse mai vista nel vasto oceano. Senza esitazione, dunque, si diresse verso la superficie, e molte delle sue sorelle decisero di seguirla…

… un brivido misterioso percorse le acque, e giunse fin negli abissi più profondi dell’oceano.

Appena giunte in superficie, le piccole avventuriere si sentirono avvolte da un piacevole tepore: un raggio di sole le aveva infatti accarezzate e le stava attirando a sè con forza sempre maggiore. Diamantina e le sue compagne si lasciano andare e, piano piano, con grande gioia, si arrampicarono sul raggio di sole, lasciando sotto di sè il regno di Oceano. Man mano che salivano diventavano sempre più leggere: fluttuavano nell’aria più leggere di trasparenti farfalle, e salivano sempre più in alto, sempre più su… per la prima volta in tutta la sua vita Diamantina, fuori dal regno di Oceano, vide tutti i colori del mondo.

(disegno)

Diamantina e le sue sorelle erano così felici! Ed ecco, videro comparire mago Vento: un gigante buono che se ne stava là nell’aria e  sembrava divertirsi come un matto a gonfiare le sue guance a più non posso. Quando aprì la bocca, ne uscì una bella folata fresca che investì tutte le gocce, allora loro si diedero la mano e si strinsero, per evitare di venire sparpagliate chissà dove.  Così unite , formarono una bella nuvola bianchissima nell’azzurro del cielo, e mago Vento continuò a soffiare, spingendo la nuvola fino alla cima di un’alta montagna rocciosa.

Lassù faceva molto freddo, non si vedevano nè erba nè alberi, ma solo rocce gigantesche, immobili e solenni. Per proteggersi dal gran freddo, ed estasiate dalla bellezza di ciò che vedevano, Diamantina e le altre gocce si strinsero ancoro  più forte le une alle altre: erano nel regno di mago Gelo. Divennero per opera sua sempre più consistenti e solide e bianche, e scesero lievemente sulle montagne, trasformate in meravigliosi cristalli stellati. Si adagiarono con dolcezza al suolo formando un mantello soffice soffice e bianco bianco, e caddero in un piacevolissimo sonno che per lungo tempo le cullò su quelle alte vette.

Finalmente, un mattino, un lieve tepore le svegliò dal loro sonno, e le gocce ad una ad una si accorsero che potevano nuovamente muoversi: era arrivata la primavera.

(disegno)

Scivolarono lungo il pendio della montagna verso la valle, lungo il percorso cantavano e saltellavano e giocavano a rincorrersi, riprendendo  via via la loro trasparenza. Scorrevano sempre più veloci, e ridevano, ridevano… L’eco delle loro risa risuonava tutto intorno, e improvvisamente ebbero come l’impressione di prendere velocità e di volare nel vuoto: l’emozione le fece ridere ancora più forte! E il loro salto aveva formato un’incantevole cascata.

Lungo il percorso capitava che alcune gocce scegliessero altre strade, ma sempre accadeva che un po’ più a valle si ricongiungessero. Ritrovarono perfino le sorelle che avevano scelto per un po’ di scorrere sottoterra, per poi riaffiorare dalla roccia e riunirsi a loro come acqua di sorgente.  Quando furono di nuovo tutte insieme,  i loro mille rigagnoli erano diventati un bel torrente limpido e lastricato di sassi grandi e piccoli.

Diamantina e le altre gocce si scambiarono i loro racconti di viaggio: c’era chi aveva conosciuto la regina Stella Alpina, chi aveva spiato una cordata di coraggiosi alpinisti, chi era passata vicino a paurosissimi burroni… un profumo molto intenso le avvolgeva e felici più che mai contemplavano il verde giovane della primavera.

Diamantina per prima si fece coraggio, e chiese: “Chi siete? Perchè ve ne state lì fermi e non venite con noi?”. “Noi siamo l’erba”, risposero in coro, “non potremmo vivere separati dalla terra, che ci nutre, ci protegge, ha cura di noi. Tappezziamo la montagna formando i pascoli, e la facciamo soffice e morbida… su di noi giocano i bambini, e senza di noi mucche, pecore, caprette, morirebbero di fame”. Diamantina e le sue compagne domandarono perplesse: “Mucche? Pecore? Caprette? E che cosa sono?” . “Sono quegli animali laggiù, vedete? Quelli a quattro zampe!”.

Le gocce conobbero così gli animali, strani esseri che, a differenza dell’erba, possono correre, saltare, galoppare…

“Anche tu ti chiami Erba?”, chiese Diamantina ad un bel fiore. “Beh, non proprio… il mio nome è Calendula, anch’io appartengo alla famiglia dell’Erba, ma a me aria e luce hanno dipinto un bel fiore con i raggi del sole…”. Mentre Calendula parlava, Diamantina si accorse di un piccolo essere simile a un fiore, ma che volteggiava nell’aria. Quando lo vide posarsi su una dolce margherita, urlò: “Attento bel fiore bianco e giallo, quella cosa ti farà male!”. “Mia cara Diamantina,” rispose Margherita, “questa è nostra sorella, la Farfalla. Non vedi come somiglia a noi fiori? Le sue ali sono come i nostri petali, ma sono petali speciali perchè possono prendere la strada del cielo. La farfalla, sai, volando qua e là per il prato, raccoglie tutte le storie che racconta la natura e le passa di fiore in fiore. Ora è a me che vuole raccontare qualcosa…”

Dopo aver salutato tutti i nuovi amici conosciuti nel pascolo montano, Diamantina e le sue compagne ripresero il loro viaggio. Ad un tratto sentirono un brivido di freddo e di paura: videro attorno a loro non più il verde dei pascoli, ma una miriade di giganti maestosi ed immobili che, nascondendo la luce del sole, creavano un’atmosfera cupa e misteriosa.  Le gocce, unite nel torrente, stavano infatti attraversando un fitto bosco di pini, abeti e larici.

La luce tornò e le gocce tirarono un bel sospiro di sollievo. Avevano ripreso il loro corso naturale, quando questa volta fu un grosso sasso a sbarrar loro la strada. Alcune gocce riuscirono ad aggirarlo, passare oltre e proseguire il loro cammino; altre si fermarono a discutere a lungo davanti al masso, presero a litigare, e così divennero ben presto acqua stagnante, e il fango le imprigionò.

(disegno: montagna)

Le altre, passate il grande sasso, decisero di rallentare un po’ la loro corsa per ammirare il meraviglioso paesaggio che andava cambiando. Via via la pendenza si faceva più dolce e cominciavano ad apparire verdeggianti colline, che si susseguivano simili alle onde di un mare incantato, pronto ad offrire nuovi tesori e nuove bellezze: argentei ulivi dal tronco contorto, filari di viti, frutteti, tappeti di terra coltivata, boschetti di castagni e querce, fiori variopinti. Tante casette colorate erano sparse qua e là tra il verde. Le gocce si beavano di tutte queste meraviglie.

Diamantina e le sue compagne di viaggio si guardavano intorno felici, e la loro attenzione presto si concentrò su una specie di prato verde sospeso in alto. “Forse è un prato che vola, una specie di grande farfalla…” disse Diamantina a voce alta.  “Ma che sospeso! Ma che farfalla!” disse un grosso vocione da contrabbasso, “Sono la Quercia. Le mie radici affondano nella terra, e la terra mi ha nutrita e fatta crescere così alta e maestosa perchè desiderava guardare il cielo da vicino. I miei rami servono da riparo per gli uccelli: loro cantano e volano, mentre io sto immobile a custodire la loro casa. Solo mago Vento viene ogni tanto a scuotermi un po’ le fronde: lui è mio grande amico. “

Un canto improvviso distrasse presto Diamantina: nascosto tra i fili d’erba c’era un piccolo cosino nero, ed era lui a cantare. “E tu chi sei?”, chiese Diamantina, “una capretta nana?”. “No, no!”, rispose quello. “Allora sei una mucca piccola!”. “Ma no! Sono un insetto, un grillo canterino, per la precisione, e mentre mi occupo di pulire e riordinare la tana, canto”.

“E quei fili d’erba che saltano, cosa sono?” chiese ancora Diamantina al grillo. “Sono cavallette! Non sono fili d’erba, sono insetti come me. Non stanno mai ferme, saltano, saltano… mi fanno girare la testa!”. Detto questo il grillo riprese le sue faccende e il suo canto.

(disegno: collina)

Le gocce, intanto, cominciavano a sentirsi molto stanche, dopo quel lunghissimo viaggio, ed erano confuse e stordite per la quantità di cose nuove che avevano visto lontane da casa. Rallentarono l’andatura e udirono un ronzio insistente provenire dalla riva, da un bel prato fiorito. Videro tanti piccoli esserini gialli e neri: volavano di fiore in fiore producendo il ronzio che aveva attirato la loro attenzione.

“Quelle non sono certo farfalle” pensò Diamantina, che proprio per colpa delle farfalle aveva già fatto tante brutte figure. Si avvicinò e chiese: “E voi chi siete?”. “Noi siamo le api” risposero loro, “e ci posiamo sui fiori per raccogliere il dolce nettare. Loro ce lo danno molto volentieri, perchè sanno che così noi potremo preparare la pappa reale per la nostra regina e il miele per tutti.”

Diamantina non sapeva proprio cosa fosse il miele, ma era troppo stanca per fare altre domande, così, insieme alle sue compagne, riprese il suo viaggio, muovendosi sempre più lentamente.

Il letto sul quale Diamantina e le altre gocce scorrevano non era più così ripido, ed era anche diventato molto più largo. Le gocce ora non avevano più quella voce sonora e squillante di una volta, non saltellavano, non guizzavano: scivolavano pacatamente e via via perdevano la loro limpidezza di acqua di montagna, per diventare acqua di fiume. Il fiume si allargava sempre più. Diamantina e le sue compagne si sentivano ora pesanti e stanche e provavano una grande nostalgia per il regno verdazzurro di Oceano. Attorno a loro c’erano tante cose meravigliose: le barche, le case, la vasta pianura verdeggiante, i campi dorati di grano, i filari di vite… ma Diamantina aveva perso ogni curiosità.

(disegno: pianura)

Ora le gocce scorrevano così lentamente che il tempo sembrava non passare mai…ma ecco che, in lontananza, scorsero il regno di Oceano, la loro casa. Ma come era possibile?

“Ogni fiume porta al mare, ragazze mie!” diceva Oceano, “Forza, correte, fatevi abbracciare!”

E tornate finalmente nel regno di Oceano, Diamantina potè raccontare a tutti gli abitanti del mare com’è fatta la terra: montagna, collina e pianura.

(adattamento da un racconto in uso nelle scuole steineriane)

https://shop.lapappadolce.net/prodotto/acquarello-steineriano-esercizi-di-colore-ebook/

EPIFANIA E LA BEFANA dettati ortografici

Epifania e la befana – dettati ortografici sull’Epifania, la Befana e i Re Magi, di autori vari, per la scuola primaria.

L’Epifania

L’Epifania è il giorno dell “manifestazione”, poichè la stella apparve ai Magi il 6 gennaio e indicò loro la strada per raggiungere la capanna. Fu stabilita come festa nell’813, perchè a quel tempo il Natale si festeggiava per dodici giorni di seguito, e il dodicesimo era l’anniversario dell’apparizione che guidò i tre re Magi.

Nel Medioevo questo evento si rappresentava alle corti di Spagna e di Inghilterra dai sovrani stessi. In Francia si sceglieva tra i preti un re spartendo  una grande focaccia con dentro una fava: chi riceveva la fetta con la fava veniva proclamato re: “Re della Fava”. Altrove si rappresentano drammi di circostanza, come “la festa della stella”.

In Italia, da Epifania è venuta la parola Befana, che indicava un fantoccio di stracci che le donne e i ragazzi usavano mettere per scherzo alle finestre. E ancora oggi la Befana viene giù la notte della vigilia per la cappa del camino. I bambini appendono scarpette, calze e cestini che la vecchia riempie di doni.

Che grida di gioia, quando, al mattino, la casa si sveglia e i bimbi vuotano le calze e i cesti! Ma i doni che la Befana ha portato nottetempo, e che ricordano quelli dei Re Magi, riservano a volte sgradite sorprese: carbone, cenere, agli e cipolle…

La notte dell’Epifania ha, nella fantasia popolare, tinte di leggenda. Si dice che, nelle stalle, gli animali parlano e predicono il destino degli uomini.

6 gennaio: Epifania

Con questo nome, che significa apparizione della divinità, la chiesa cattolica ricorda l’arrivo alla capanna di Gesù dei Rei Magi che, guidati da una stella luminosa apparsa nel cielo, si erano messi in cammino dai lontani paesi d’Oriente. Avevano nomi strani: Melchiorre, Gaspare, Baldassarre, e portarono in dono al bambino oro, incenso e mirra.

L’oro è il metallo più prezioso. L’incenso ha il profumo soave della virtù. La mirra, che è una sostanza data da un arbusto del deserto, ha un sapore amaro ed è il segno dell’umanità.

La parola Befana, con cui si denomina spesso l’Epifania, ha un significato che di religioso non ha nulla: indica una specie di fata, vecchia e brutta, ma benefica, che, la notte del 6 gennaio, scendendo per la cappa del camino, porta i doni ai bambini che vi hanno appeso la calza.

L’Epifania in alcune regioni d’Italia

In Romagna una leggenda dice che nella notte dell’Epifania le mura diventino di ricotta; nelle Marche, nell’Abruzzo e in altre regioni si dice che gli animali acquistino la favella, ma chi osasse ascoltare e riferire morirebbe il giorno stesso.

A Palermo è nota la leggenda che i Re Magi attraversarono l’isola e fecero fiorire per incanto gli aranceti brulli per una nevicata.

In Calabria le ragazze, prima di addormentarsi la vigilia, cantano una canzoncina augurale; se sogneranno una chiesa parata a festa o un giardino fiorito, sarà per loro un anno fortunato.

In Toscana i contadini infilano il capo sotto la cappa del camino; se riescono a scorgere le stelle, stappano il vino buono perchè è segno d’annata buona; altri pronostici traggono da altri segni.

L’Epifania segna anche l’inizio del Carnevale: in Sicilia corre il proverbio “Per i tre re, tutti olè”. Ma soprattutto a Roma, in piazza Navona, la Befana presenta le più caratteristiche espressioni del folklore, anche di carattere carnevalesco.

In Austria

Nel periodo tra il primo dell’anno e l’Epifania, in molte regioni sembra di rivivere un’ingenua e delicata favola. Nelle strade, verso sera, brilla una luce lontana che, avvicinandosi, prende la forma di una stella. La portano tre uomini vestiti di bianco, che raffigurano i Re Magi; colui che impersona il re dei Mori ha il viso annerito di fuliggine. I “cantori della stella”, rischiarati dal suo calore, vanno nella notte.  Vanno di casa in casa e cantano le loro semplici canzoni popolari; poi, rifocillati e ristorati di cibo e bevande, riprendono il loro girovagare. Entrano nei cascinali, visitano cortili e stalle, mentre i contadini, col gesso, scrivono sulle porte le iniziali dei Re Magi: G M B, e invocano la benedizione divina per l’anno appena iniziato.

In Inghilterra

In Inghilterra la festa del Capodanno è simile a quella che si svolge in tutta Europa; più originale è la festa dell’Epifania. Tra le cerimonie più suggestive ricordiamo la funzione religiosa che si svolge a Londra nella cappella reale di San Giacomo: in memoria dei doni dei Re Magi, il Lord Ciambellano, in rappresentanza della Regina, presenta tre borse di denaro all’offertorio. Le borse sono per i poveri della parrocchia.

I tre Magi

Alcuni giorni dopo, tre Magi giungevano dalla Caldea. Una nuova stella, simile alla cometa che riappare ogni tanto nel cielo per annuciare la nascita di un profeta o la morte di un Cesare, li aveva guidati fino alla Giudea. Erano venuti per adorare un Re e trovano un poppante mal fasciato, nascosto dentro una stalla. I Magi non erano re, ma erano, in Media e in Persia, padroni dei re. I re comandavano i popoli, ma i Magi guidavano i re. Sacrificatori, interpreti di sogni, profeti e ministri, potevano comunicare con la divinità: conoscevano il futuro e il destino, possedevano i segreti della terra e quelli del cielo. In mezzo  a un popolo che viveva per la materia, rappresentavano la parte dello spirito. Inginocchiati, dentro ai sontuosi mantelli reali ed ecclesiastici, sulla paglia dello strame, essi, i potenti, i dotti, gli indovini, offrono anche se stessi come pegno dell’obbedienza del mondo. (C. Papini)

Re Magi

Sono i Re più dolci che siano mai esistiti. Li trovi davanti a un bambino, inginocchio e adoranti. Tre: un maestoso raduno da lasciar sgomenti. Ma re in ginocchio non fanno paura. L’abito del pellegrino ha forse sostituito il mantello di porpora? E il bordone ha sostituito lo scettro? No. Sono giunti a Betlemme con scettro e lumeggiamento di vesti, han portato le loro corone stellanti: non appena per provare a chiunque la loro identità, ma per umiliare ogni loro grandezza ai piedi del bambino. Dopo l’omaggio della semplicità, pastori e pecore, sta bene questo omaggio della regalità, cammelli e popoli. (C. Angelini)

I Re Magi

Chi erano i Re Magi? Re o principi di piccoli e lontani Stati nel cuore dell’Asia misteriosa, o filosofi che sapevano di scienza e di astronomia, o sacerdoti di un mistico culto del sole e degli astri? E venivano  dall’Arabia deserta, o dalla Mesopotamia, o dalla Persia, paesi tutti che anticamente venivano genericamente indicati tutti col nome di Oriente?

Portavano alla capanna le loro offerte, secondo la consuetudine dei Persiani, dei Caldei e si tutti i popoli orientali in genere, la quale non voleva che si comparisse davanti ai re se non con qualche dono. E le loro offerte si prestavano facilmente al simbolo: oro per sollevare dalla povertà, incenso contro l’odore della stalla, mirra per consolidare le tenere membra del bambino; mistici rimedi alla miseria, al peccato, alla debolezza.

Dettati ortografici EPIFANIA E LA BEFANA – Tutte le opere contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.

Racconto per presentare la grammatica Misbrigo, Preciso e Giulivo

Racconto per presentare la grammatica Misbrigo, Preciso e GiulivoUn racconto per introdurre nome, verbo ed aggettivo, molto utilizzato nelle scuole steineriane.  Misbrigo è il verbo, Preciso il nome e infine Giulivo l’aggettivo…

C’erano una volta tre fratelli. Uno si chiamava Preciso, un altro Giulivo e il terzo Misbrigo. I tre fratelli vivevano in una casetta al limitare del bosco, ai margini della città, con papà Grammaticale e mamma Analisi. Ora, pur stando sempre insieme, i tre fratelli erano molto diversi tra loro.

Misbrigo era il maggiore dei tre; era forte, alto e muscoloso, e girava sempre con un martello in mano, o con altri attrezzi. Ovunque andasse, lui era di poche parole. Amava dire: “Poche chiacchiere, e lavorare!”.

Il fatto però era che lui faceva e faceva, ma non avendo un piano, un progetto, non avendo compreso bene ciò che doveva fare, e spesso faceva cose brutte e sbilenche che facevano fatica a stare in piedi.

Il più piccolo dei tre era Preciso. Lui, al contrario di Misbrigo, se ne stava sempre a fare progetti, e sapeva i nomi di tutte le cose, anche i più difficili. Era un vero vocabolario vivente. Però, stando sempre al tavolo, seduto, a fare progetti, non gli veniva mai in mente di alzarsi e mettere in pratica quello che progettava. E così rimaneva tutto nella sua testa.
Il fratello mediano, Giulivo, era ancora diverso dagli altri due. Lui non faceva, non brigava, non si dava sempre da fare come Misbrigo. Però nemmeno stava seduto a far progetti e a leggere libri come Preciso. Lui suonava strumenti musicali, dipingeva, scriveva poesie e racconti. Faceva passeggiate nel bosco e incontrava fiori e piante di cui non conosceva il nome, e li guardava, e li descriveva: “Oh, che graziosi fiorellini che pendono dallo stelo come tanti piccoli calici bianchi!”.

“Si chiamano mughetti!” diceva allora Preciso, e intanto Misbrigo si era già allontanato da loro per raccogliere legna per il fuoco.

Oppure succedeva che Giulivo vedeva un albero e diceva “Oh, che forte quest’albero! Come appare nobile e potente! E che piccoli frutti ovali con un cappuccetto buffo!”.

“Ma è una quercia!” diceva preciso. E intanto Misbrigo raccoglieva le ghiande in un sacco per portarle ai maialini.

Un giorno arrivò in casa dei tre fratelli un amico del padre, il signor Bellalingua, che desiderava costruirsi una casa accanto a quella della famiglia del signor Grammaticale, e cercava per questo degli operai.

“Ah…” disse, “che bello sarebbe trovare qualche operaio davvero capace cui affidare la costruzione della nuova casa mentre io resto in città a sbrigare i miei affari!”

Il signor Grammaticale rispose: “Ma questa è una cosa che possono benissimo fare i miei figlioli!”

E così fu deciso che i tre fratelli avrebbero costruito una bella casa al signor Bellalingua, che disse: “Bene, ragazzi! Tra un mese tornerò a vedere cosa siete riusciti a fare. Se avrete fatto un buon lavoro, riceverete una grossa ricompensa.”
E fu così che Misbrigo, Preciso e Giulivo si misero all’opera per costruire la casa.

Non appena il signor Bellalingua si fu congedato, Misbrigo partì in quarta e andò sul posto dove sarebbe dovuta sorgere la casa, e cominciò a trivellare, spianare, estirpare, e tanta era la terra che spostava, scavava, accumulava, appianava, che sembrava una talpa al lavoro. S’era creato tutto attorno un nuvolone di polvere e terra, e Misbrigo stava là in mezzo che spingeva la carriola, la vuotava, correva e brigava.

Quando ebbe scavato profonde fondamenta, cominciò ad accumulare mattoni e cemento e a metterli uno sull’altro.
Preciso gli diceva: “Aspetta a cominciare! Prima bisogna fare un progetto sulla carta. Bisogna fare un disegno, pensare bene a dove mettere le sale, la camera da letto, la cantina…”. E si mise così a disegnare il progetto della casa su un grande foglio di carta.

 Ma Misbrigo non lo stava quasi a sentire e borbottava: “Tu parli, parli… ma per fare una casa bisogna lavorare, faticare, altro che far progetti!” e mentre lavorava prese a cantilenare:
“Certo a scriver tu lo sai
non succedon certo guai!
Tu sei molto intelligente
ma non si scava con la mente!
I progetti tu sai fare
io però so lavorare:
misurare, scavare, impastare,
non mi pesa dover sudare.
Inchiodare, avvitare, pestare,
livellare, segare, stuccare.
Sali, scendi, controlla tutto:
della fatica vedrai il frutto!”
Così, in quattro e quattr’otto, Misbrigo aveva scavato le fondamenta, tirato su i muri, messo il tetto, fissato le finestre.

Alla fine di tutto questo lavoro, guardò la casa: certo l’aveva fatta velocemente, e non mancava nulla, ma era tutta sbilenca, i muri erano storti, le finestre una più alta e una più bassa, gli scalini diseguali, addirittura in una stanza si era dimenticato di mettere la porta, e non si poteva proprio entrare, se non dalla finestra, che però era troppo alta.
Quando Preciso arrivò col suo progetto e vide la casa, scoppiò a ridere. Misbrigo ci rimase così male che sbattè una porta con tanta violenza che la casa crollò!

Allora Misbrigo disse a Preciso: “Non voglio più saperne di questa casa! Falla tu se sei capace, visto che sei tanto intelligente!”

Visto che Misbrigo non voleva più saperne di costruire la casa, Preciso disse: “Bene, allora mi ci proverò io.”
Così andò a prendere il suo bel progetto, lo mirò e lo rimirò, e poi disse fra sè e sè: “Bene… bene…, da dove cominciare ora? Dovrei scavare nuove fondamenta, ma come? Non sono mica una talpa, io!”.

Guardò gli attrezzi che intanto Misbrigo andava riordinando, e di ognuno conosceva alla perfezione il nome: “Ah, ecco, questo è un piccone, qui abbiamo una vanga, e questo è un martello pneumatico”. Ma gli sembravano tanto pesanti, e non aveva nessuna voglia di raccoglierli. Prese giusto in mano un piccone, ma si chiese: “Come si userà mai questo coso?”. Insomma, alla fine gli pareva talmente difficile e faticoso imparare a maneggiare tutti gli attrezzi, che ben presto rinunciò e si disse: “Forse per riuscire a maneggiare gli attrezzi ho bisogno di un progetto ancora più preciso!”.

 E così se ne andò verso casa cantilenando:
“Voglio fare un bel progetto
fondamenta muri e tetto.
Porte, finestre, poggioli e scale
tutte a ovest voglio le sale
poi le camere da letto
il salotto dirimpetto.
A nor metto la cucina
e vicino la cantina…
Si può fare a sud la stalla
per poi metter la cavalla.
Mattoni, cemento, di legno i tasselli,
calce, carriola, chiodi e martelli,
viti, chiodi, travi, bulloni,
acqua, ghiaia, sabbia e mattoni”

Intanto Giulivo arrivò da quelle parti, correndo dietro a una farfalla, e dicendo: “Che bella, che leggera, che aggraziata! Com’è vispa, colorata, dolce, delicata, tenera, svolazzante…”, e avanti così, quasi senza prendere fiato, tanto da far girare la testa. Ma quando incontrò Misbrigo, tutto rabbuiato, si fermò di colpo. Si dimenticò improvvisamente della farfalla, e disse al fratello: “Come mai sei così triste, sconsolato, rabbuiato, irritato, pensieroso? Sei forse stanco, depresso, sfinito, esausto, sfiduciato,…” e via di questo passo.

Ma prima che Misbrigo, che non ce la faceva più, potesse interromperlo, subito fu distrato da una brezza leggera, chiuse gli occhi e disse: “Ah, che brezza leggera, rinfrescante, serena, mite, carezzevole, confortante,…”
Allora Misbrigo lo interruppe dicendogli: “Ehi, Giulivo! Perchè non provi un po’ tu a costruire la casa del signor Bellalingua? Io e Preciso non ci siamo riusciti!”

“Oh, certo!”, disse Giulivo, “Posso certo fare io. Farò una casa bella, luminosa, ampia, spaziosa…”, e cominciò così a lavorare cantilenando:
“Bella, lucente, ampia, spaziosa,
profumata, pulita, odorosa,
così dev’essere questa dimora,
linda e radiosa ad ogni ora!
Soleggiata e risplendente,
confortevole e accogliente,
armoniosa nei colori,
ai balconi tanti fiori!
Rossi, verdi, gialli e bianchi,
che a guardarli non ti stanchi.”

Giulivo si mise dunque all’opera cantando. In quel mentre arrivò anche Preciso, con un suo nuovo progetto. Così, mentre Misbrigo tutto rosso in faccia, se ne stava corrucciato a guardare, e mentre Preciso cercava di dargli consigli su come mettere in pratica il suo progetto, Giulivo cominciò a costruire.

Il fatto è che non riusciva a fare granchè: prendeva un piccone per fare le fondamenta, e si fermava dicendo: “Oh! Com’è pesante, com’è appuntito, com’è lucente!”, e stava ad ammirarlo come una cosa straordinaria.

Poi doveva appoggiare i mattoni e quando ne prendeva uno se ne stava a dire: “Oh! Che solido, che squadrato, e com’è rosso, liscio, esatto, rettangolare,…” e di nuovo continuava quasi fino a restare senza fiato.

Suo fratello Preciso, calmo e tranquillo, gli diceva: “E’ semplicemente un mattone, e quello è un piccone, niente di più”.

Però con Giulivo che continuava a fermarsi, e con Preciso che non faceva altro che dare direttive e nomi alle cose, la casa proprio non procedeva. Bastava poi che passasse una formica e Giulivo si fermava e esclamava: “Oh, tu, animaletto carino, nero, infaticabile, antennuto, forzuto, svelto, leggero, agile, coraggioso, piccolino, tenero,…” e di nuovo si perdeva, senza fermarsi più.

Preciso si sistemava gli occhiali e guardava l’animaletto, e diceva: “E’ semplicemente una formica. Anzi, il suo vero nome è formiculus vulgaris, che è il suo nome in latino.”, e Giulivo ribatteva: “Ohi, che nome difficile, misterioso, latinoso, affascinante, simpatico, esatto, scientifico, ricercato, scioglilinguoso, …”.

Al vedere i due che tanto chiacchieravano e nulla facevano, Misbrigo era diventato rosso di impazienza e sembrava un peperone sul punto di esplodere. E infatti esplose: “Insomma, voi due! La volete smettere di guardare le formiche e i mattoni? I mattoni non si guardano, si prendono e si cementano in un muro… così!”.
E in tal modo cominciò a tirare su un muro.

Intanto però Preciso gli dava indicazioni su dove mettere i muri, le varie stanze, prendeva le misure delle finestre e così la casa veniva su solida e ben piantata. Giulivo poi, tutto sorridente, aggiungeva sempre un tocco di bellezza e di armonia dicendo ad esempio: “Questo balcone è troppo squadrato, spigoloso, angoloso, incassato, duro… facciamolo più arrotondato, armonioso, proporzionato, leggero, panoramico, grazioso,…” e di nuovo fino a perdere il fiato.

E insomma, lavorando di lena e collaborando tra loro, Misbrigo a faticare, Preciso a dirigere e Giulivo a far belle e varie le cose, la casa cominciò a venir sù, e talmente solida, ordinata e graziosa che raramente se n’era vista una simile.

La casa dunque era costruita. Dopo un mese tornò il signor Bellalingua, per andare ad abitarvi. Quando arrivò e vide la casa restò a bocca aperta: “Oh, ragazzi, ma avete fatto un lavoro a dir poco straordinario!”.

“Beh… modestamente…” disse sorridendo felice Giulivo, “…è effettivamente un lavoro straordinario, notevole, stupendo, bellissimo, eccezionale, fantastico, insuperabile,…” e chissà quanto sarebbe andato avanti se Misbrigo non gli avesse dato uno strattone per farlo tacere, e Preciso non gli avesse detto: “Beh, adesso non esagerare. E’ semplicemente un lavoro, niente di più e niente di meno.”

Poi Misbrigo disse: “Ma insomma, perchè ce ne stiamo qui fuori? Andiamo dentro, facciamo vedere le stanze al signor Bellalingua, cuciniamo qualcosa, accendiamo il fuoco nel camino, sistemiamo la legna…”, e nemmeno aveva finito di parlare che già era sparito dentro in casa per mettersi a fare tutte queste cose. Poi entrarono anche gli altri.
Preciso cominciò a mostrare le stanze al signor Bellalingua: “Ecco, vede, questa è la cucina. Ci sono il forno, il frigorifero, un tavolo, quattro sedie, le stoviglie, le posate, il caminetto, il forno, gli stracci, i barattoli, i fiammiferi, gli stuzzicadenti, i tappi, i centrini,…” e sarebbe andato avanti a nominare tutte le piccole e le grandi cose che stavano in casa, persino i granelli di polvere, se non fosse inciampato in Giulivo, che si era chinato per guardare un grillo che camminava sul pavimento: “Che animaletto strano, buffo, verdino, scattante, saltellante, veloce, rotondo, antennuto, simpatico, piccolino,…”. Preciso diete un’occhiata, e con molta calma disse: “E’ un semplice grillo, anzi un grillus piagnucolosus, che sarebbe il suo vero nome.”

Ma intanto Giulivo si era fatto prendere da un ragno che penzolava dal soffitto: “Oh, che leggero, penzolante, acrobatico, coraggioso, dondolante, veloce, forzuto,…”.

In quel mentre arrivò Misbrigo con una montagna di legna, accese il fuoco, pulì il tavolo, apparecchiò, cucinò, stappò le bottiglie, versò da bere, e non stava fermo un minuto.

Alla fine, quando tutti erano a tavola e finalmente ci fu un po’ di tranquillità, il signor Bellalingua riuscì a parlare. “Cari ragazzi” disse, “devo dire che non potevo proprio sperare in una casa più bella. E vorrei farvi una proposta: poichè io da solo non sarei in grado di occuparmi dell’ordine e della manutenzione della casa, perchè non ci abitate voi? Potrete prendervi una stanza a testa, e quando io verrò troverò sempre la casa in ordine, e mi sentirò sempre tranquillo e a mio agio con voi”.

Giulivo era entusiasta: “Oh, che proposta bella, interessante, avvincente, affascinante, promettente, brillante, convincente,…”. Vedendo tanto entusiasmo, il signor Bellalingua era contento, e visto che anche Misbrigo e Preciso erano d’accordo, la proposta fu accettata.

Così i tre fratelli vissero per sempre nella casa del signor Bellalingua, ognuno facendo bene quello che meglio sapeva fare, e collaborando tra loro, perchè solo grazie a questo le cose riuscivano bene e davano gioia a tutti quanti.

https://shop.lapappadolce.net/prodotto/acquarello-steineriano-esercizi-di-colore-ebook/

Giochi con le parole

Giochi con le parole. Qualche gioco di gruppo per bambini della scuola primaria per divertirsi con le parole. Possono essere usati anche per esercitare la scrittura per autodettatura.

La parola proibita
Il bambino che sta sotto esce dalla stanza, mentre gli altri bambini si accordano in segreto sulla parola proibita.
Chi sta sotto rientra, e i bambini gli fanno delle domande, cercando di fargli usare la parola proibita, mentre un bambino conta quante volte il bambino che sta sotto dice la parola proibita.
Fino alla fine nessuno rivela la parola proibita, e chi sta sotto deve cercare di indovinarla.
Se pensa di aver capito la annuncia, e il suo turno è finito.

Sei parole proibite
Ogni bambino scrive sei parole proibite su sei pezzetti di carta, e li capovolge sul banco.
A turno si fanno domande per costringere gli avversari ad usare una delle sei parole proibite scritte sui suoi foglietti.
Quando un bambino avversario usa una parola proibita, il bambino volta il suo foglietto con quella parola e lo fa vedere a tutti.
Vince chi riesce per primo a scoprire tutti e sei i suoi foglietti.

Le sillabe finali
Esempio: “Quale -ANA ha la pelle verde e la voce gracidante?”. “La r-ANA”.
“Quale -ANA zampilla e disseta?”. “La font-ANA”.

L’ABC degli aggettivi
Esempio:
primo bambino: “Questa è un’automobile Avveniristica”
secondo bambino: “Questa è un’automobile Biposto”
terzo bambino: “Questa è un’automobile Costosa”
quarto bambino: “Questa è un’automobile Difettosa”
e così via.
Quando due bambini sono eliminati, ricominciano il gioco tra di loro con un’altro nome, mentre gli altri vanno avanti finchè rimane il vincitore.
Quelli eliminati via via si aggregano al secondo gruppo.

Variante:
“Io ho un’Arancia”
“Io ho un’Arancia nella Bisaccia”
“Io ho un’Arancia nella Bisaccia per il Cuoco”
ecc…

Cosa piace a Pierino?
Si devono scegliere parole che abbiano una caratteristica comune per differenziare ciò che piace da ciò che non piace a Pierino. I bambini devono capire qual è questa caratteristica (nell’esempio le parole che contengono delle doppie). Esempio:
primo bambino: “A Pierino piace il burro, ma non gli piace il pane. Cosa piace a Pierino?”
Se il secondo bambino non sa rispondere, il primo bambino si rivolge al terzo: “A Pierino piacciono le cravatte, ma non le cinture. Cosa piace a Pierino?”
I giocatori che rispondono con frasi che hanno nomi appropriati di cose che piacciono a Pierino, escono dal gioco. L’ultimo bambino che non riesce a dire cosa piace a Pierino perde.

Associazioni di parole
Il primo bambino dice un nome qualsiasi. Il secondo deve dire un altro nome che abbia una qualsiasi associazione col primo. Ogni bambino può contestare la risposta di un altro:
– chi impugna la risposta con successo guadagna due punti;
– chi non riesce a giustificare la propria risposta perde due punti;
– se la risposta viene giustificata con successo il bambino guadagna due punti e chi l’aveva impugnata ne perde due.

Giochi con le parole

Racconti per Capodanno

Racconti per Capodanno – una raccolta di racconti, di autori vari, per bambini della scuola d’infanzia e primaria.

L’aeroplano sconosciuto

-Comandante, un aeroplano sconosciuto chiede di atterrare.-
-Un aeroplano sconosciuto? E come è arrivato fin qui?-
-Non so, comandante. Noi non abbiamo avuto alcuna comunicazione. Dice che sta per finire il carburante e che atterrerà anche se non glielo permettiamo. Uno strano personaggio, comandante.-
-Strano?-
-Un po’ pazzo direi. Un momento fa lo sentivo ridacchiare nella radio: “Tanto, nessuno mi può fermare…”
-Ad ogni modo facciamolo scendere, prima che combini qualche guaio.-
L’apparecchio atterrò sul piccolo campo d’aviazione, alla periferia della capitale, alle ventitrè e ventisette precise. Mancavano trentatre minuti alla mezzanotte. Già, ma non a una mezzanotte qualunque, bensì alla mezzanotte più importante dell’anno. Era la sera del 31 dicembre e in tutto il mondo milioni di persone vegliavano in attesa dell’anno nuovo.

L’aviatore sconosciuto balzò a terra agilmente e subito cominciò a dare ordini: -Scaricate i miei bauli. Sono dodici, fate attenzione. Mi occorreranno tre tassì per trasportarli. Qualcuno può fare una telefonata per me?-
-Forse sì o forse no- rispose per tutti il comandante del campo, -Prima si dovranno chiarire alcune cosette, non le pare?-
-Non ne vedo la necessità- disse l’aviatore, sorridendo.
-Io però la vedo- ribattè il comandante, -La prego, intanto, di mostrarmi i suoi documenti personali e le carte di bordo.-
-Mi dispiace ma non farò nulla del genere-. Il suo tono era così deciso che il comandante fu lì lì per perdere la calma.
-Come vuole- disse poi, -ma intanto abbia la cortesia di seguirmi-.
L’aviatore si inchinò. Al comandante parve che l’inchino fosse piuttosto esagerato. “Che voglia prendermi in giro?” pensò, “Ad ogni buon conto, dal mio aeroporto non uscirà con quelle arie da padrone del vapore”.
-Guardi- diceva intanto il misterioso viaggiatore, -che sono atteso. Molto, molto atteso.-
-Per la festa di mezzanotte, immagino?-
-Appunto, comandante carissimo-
-Io invece, come vede, sono di servizio e passerò la notte di Capodanno all’aeroporto. Se lei insisterà a non volermi mostrare i documenti, mi terrà compagnia.-
Lo sconosciuto (erano intanto entrati insieme in una saletta del campo), si accomodò in una poltrona, si accese la pipa e rivolgeva intorno occhiate curiose e divertite.

-I miei, documenti? Ma lei ne è già in possesso, comandante-
-Davvero? Me li ha infilati in tasca con un giochetto di prestigio? E adesso mi caverà un uovo dal naso e un orologio da un orecchio?-
Per tutta risposta lo sconosciuto indicò il calendario dell’anno nuovo, che pendeva dalla parete dietro una scrivania, aperto alla prima pagina.
-Ecco i miei documenti, prego. Sono il Tempo. Nei miei dodici bauli ci sono i dodici mesi che dovrebbero avere inizio tra… vediamo un po’… tra ventinove minuti precisi.-
Il comandante non si scompose.
-Se lei è il Tempo- disse -io sono un aviogetto. Vedo che le va di scherzare. Benissimo, mi terrà allegro. Le dispiace se accendo il televisore? Non vorrei perdermi l’annuncio della mezzanotte.-
-Accenda, accenda. Ma non ci sarà nessun annuncio, fin che lei mi trattiene.-
Sul teleschermo era in corso uno spettacolo di canzoni e arte varia. Di quando in quando una graziosa presentatrice consultava un grande orologio appeso dietro l’orchestra, proprio sulla testa del batterista, e annunciava: “Mancano ventidue minuti…”
L’aviatore sconosciuto pareva divertirsi un mondo allo spettacolo. Canterellava, batteva il piede a tempo con l’orchestra, rideva di cuore alle battute dei comici…
-Un minuto a mezzanotte- sorrise il comandante, -mi dispiace di non poterle offrire lo spumante. In servizio io non bevo mai.-
-Grazie, ma lo spumante non serve. Da questo momento il tempo cesserà di scorrere. Dia un’occhiata al suo orologio-
Il comandante obbedì meccanicamente. Guardò il quadrante, si accostò il polso all’orecchio. “Strano” pensò, “l’orologio cammina, ma la sfera dei secondi si è guastata e non gira più…”
Egli cominciò mentalmente a contare i secondi. Ne contò sessanta, poi tornò a guardare l’orologio: le sfere erano sempre ferme sulla mezzanotte meno un minuto. Anche sul grande orologio del teleschermo le sfere erano immobili. L’annunciatrice, con un sorriso un po’ imbarazzato, stava dicendo: “Sembra che ci sia un piccolo guasto…”
Musicisti, cantanti, comici, spettatori, come per un segnale, cominciarono a scrutare i loro orologi, a scuoterli, ad accostarseli all’orecchio, con aria sorpresa. In breve tutti si convinsero che le sfere non si muovevano più.
-Il tempo si è fermato- gridò qualcuno, scherzando. -Forse ha bevuto troppo spumante e si è addormentato prima della mezzanotte.-

Il comandante dell’aeroporto gettò uno sguardo allarmato sullo strano forestiero, il quale, dal canto suo, gli sorrise educatamente.
-Ha visto? Colpa sua.-
-Come sarebbe… colpa mia…- balbettò il comandante.
-Non è ancora convinto che io sia il Tempo? Guardi quella rosa- (ce n’era una sulla scrivania, freschissima. Al comandante piaceva tenere qualche fiore in ufficio) -Vuol vedere che cosa le succede, se la tocco?-
Lo sconosciuto si avvicinò alla scrivania, soffiò delicatamente sulla rosa: i petali caddero tutti insieme, avvizziti, secchi, si sbriciolarono, non furono più che un mucchietto di polvere…
Il comandante balzò in piedi e si attaccò al telefono…

Pochi minuti dopo la telefonata del comandante al ministro, già tutti sapevano, in America come a Singapore, in Tanzania come a Novosibirsk, che il Tempo era stato fermato in un piccolo aeroporto, perchè privo di documenti. Milioni di persone che aspettavano la mezzanotte per stappare lo spumante ruppero il collo delle bottiglie per fare prima, e si scambiarono brindisi entusiastici. Cortei festosi percorrevano le strade di Milano, Parigi, Ginevra, Varsavia, Londra, Eccetera: scrivendo Eccetera con la maiuscola vogliamo indicare tutte le città che non ci sarebbe possibile nominare una per una.

-Evviva!- gridava la gente, in tutte le lingue.
-Il tempo si è fermato! Non invecchieremo più! Non moriremo più!-
Il comandante dell’aeroporto passava il tempo al telefono. Lo chiamavano da ogni parte del mondo per dirgli:
-Lo tenga stretto!-
-Gli metta le manette!-
-Gli tiri il collo!-
-Gli metta un sonnifero nel bicchiere!-
-Macchè sonnifero: veleno per i topi, di deve mettere!-

Il ministro aveva avvertito i suoi colleghi. Una riunione del consiglio dei ministri era in corso. L’ordine del giorno: “Misure da prendere. Bisogna tramutare il fermo del Tempo in arresto o liberarlo?”
Il ministro dell’Interno tuonava: -Liberarlo? Mai non sia! Se cominciamo a lasciare andare in giro la gente senza documenti, siamo fritti in padella. Questo signore ci deve dire nome, cognome, paternità, luogo di nascita, domicilio, residenza, nazionalità, numero di passaporto, numero delle scarpe, numero del cappello; ci deve mostrare il certificato di vaccinazione, quello di buona condotta, il diploma di quinta elementare, la ricevuta delle tasse. E poi, ha ben dodici bauli: ha pagato dogana? Si rifiuta di aprirli: e se ci avesse dentro delle bombe?-
Il ministro aveva settantadue anni: capirete che aveva ogni interesse a tener fermo l’orologio…
I ministri decisero di chiedere il parere alle Nazioni Unite. Alle Nazioni Unite, a quell’ora, c’era soltanto il portiere: tutti i delegati erano in giro a far festa.

-Quanto ci vorrà per riunire l’assemblea?-
-Una quindicina di giorni. Però, se il tempo non passa, non passano neanche i quindici giorni e l’assemblea non si può riunire.-
Anche questa notizia fece il giro del mondo, contribuendo ad accrescere l’allegria generale.
Dopo un po’…
Ecco, veramente questa frase non si potrebbe scrivere: se il tempo era fermo, la parola “dopo” non aveva più senso.
Diciamo che un bambino, svegliato dal fracasso e messo al corrente dell’accaduto, sommò due più due e cominciò a protestare: -Cosa? Sarà sempre adesso? Allora io non diventerò più grande? Devo prendere per tutta la vita gli scapaccioni del babbo? Devo continuare a risolvere problemi di pizzicagnoli che comprano l’olio e si fanno calcolare dai bambini delle scuole la spesa e il ricavo? Ah, no, grazie tante! Io non lo accetto!-
Anche lui si attaccò al telefono, per dare l’allarme ai suoi amici.
I bambini non vollero sentir parole. Si infilarono il cappotto sul pigiama e scesero anche loro per le strade a fare il corteo. Ma le loro grida e i loro cartelli erano ben diversi da quelli degli altri cortei:
-Liberate il tempo!- dicevano.
-Non vogliamo restare sempre dei marmocchi!-
-Vogliamo crescere!-
-Io voglio diventare ingegnere!-
-Io voglio l’estate per andare al mare!-
-Incoscienti!- commentava un passante, -in un momento storico come questo pensano ai bagni di mare.-
-Però- riflettè un altro passante, -su un punto almeno hanno ragione: se il tempo non passa più, sarà sempre il trentun dicembre…-
-Sarà sempre inverno…-

-Sarà sempre mezzanotte meno un minuto! Non vedremo più spuntare il sole!-
-Mio marito è in viaggio- sospirò una signora, -come farà a tornare a casa, se il tempo non passa?-
Un malato nel suo letto si lamentava: -Ahi, ahi! Doveva fermarsi il tempo proprio mentre avevo il mal di testa?-
Un carcerato, aggrappato alle sbarre della sua prigione, si domandava accorato: -Non riavrò più la mia libertà?-
I contadini borbottavano: -Qua, col raccolto, si mette male… Se non passa il tempo, se non torna la primavera, gelerà tutto… Non avremo niente da mangiare-
Insomma, il comandante dell’aeroporto cominciò a ricevere telefonate allarmate:
-Beh, lo lasciate andare sì o no? Io aspetto un vaglia, me lo manda lei, se il tempo non può passare?-
-Comandante, per favore, liberi il Tempo: abbiamo un rubinetto che perde, e se non viene domattina non possiamo chiamare l’idraulico-
Il Tempo, allungato sulla sua poltrona, continuava a fumare la sua pipa, sorridendo.
-Cosa devo fare?- protestava il comandante, -Uno la vuole bianca, l’altro la vuole nera… Io me ne lavo le mani. Io la lascio andar via…-
-Bravo, grazie.-

-Ma così, senza ordini superiori… Capisce che ci rimetto il posto?-
-E allora mi tenga qui. Io ci sto benissimo.-
Un’altra telefonata:
-E’ scoppiato un incendio! Se non passa il tempo non arrivano i pompieri! Brucerà tutto! Bruceremo tutti! Abbiamo in casa vecchi e bambini… non può fare niente, comandante?-
Il comandante, a questo punto, picchiò un pugno sulla scrivania.

-Bene, succeda quel che vuol succedere. Mi prenderò questa responsabilità. Se ne vada, lei è libero.-
Il Tempo balzò in piedi: -Permetta che le stringa la mano, comandante. Conoscerla è stato un vero piacere-.
Il comandante aprì la porta: -Se ne vada, presto, prima che io cambi idea!-
Il Tempo uscì dalla porta. Le sfere degli orologi ricominciarono a muoversi. Sessanta secondi più tardi scoccò la mezzanotte, scoppiarono i fuochi artificiali. Il nuovo anno era cominciato.

G. Rodari

Racconti per Capodanno

Capodanno

Nelle vallate del comasco usavano, una volta, la notte di Capodanno, appendere alla porta dei casolari un bastone, un sacco e un tozzo di pane.
Ecco il perchè.

Molti anni fa, al tempo dei tempi, e precisamente nella notte di San Silvestro, padron Tobia stava contando il proprio gruzzolo in un angolo della sua capanna, quando bussarono alla porta. L’avaro coprì con un gabbano i suoi ducati e andò ad aprire.
Una folata d’aria gelida e di neve lo colpì in viso. Era una notte d’inverno.
Sotto la tormenta, nel nevischio, egli vide un pover’uomo che si reggeva a stento e che non aveva neppure un cencio per mantello. Padron Tobia fu molto contrariato da quella visita e domandò bruscamente allo sconosciuto: -Che fate qui? Che volete? Chi siete?-
-Sono un povero viandante sperduto e sorpreso dalla bufera, e vi chiedo in carità di poter dormire nel vostro fienile-

-Io non lascio dormire nessuno nel mio fienile. Andate, andate. Non posso far nulla per voi!-
-Datemi almeno un tozzo di pane-
-Non ho pane, andate!-
-Datemi un sacco, un cencio da mettermi al collo, che muoio di freddo!-
-Non ho sacchi! Non ho cenci!-
-Almeno una fiaccola per ritrovare il sentiero… un bastone per appoggiarmi…-
-Non ho fiaccole e non ho bastoni!-
E, chiuso l’uscio in faccia all’infelice, Tobia ritornò al suo gruzzolo, ma… sotto il gabbano, invece dei ducati, trovò un pugno di foglie secche…
Padron Tobia impazzì e terminò i suoi giorni vagando per le vallate natie e raccontando a tutti la sua disgrazia. Da allora in poi la notte di Capodanno tutti appesero alla porta del proprio casolare un bastone, un sacco e un tozzo di pane.
(leggenda comasca)

Racconti per Capodanno 

Il castello dei dodici mesi

C’era una volta un omino gentile ed educato che si chiamava Faustino. Tanto lui era perbene, quanto suo fratello era sgraziato e villano, tanto che la gente lo chiamava Rusticone.
Un giorno Faustino andò a cercar fortuna, e si mise per il mondo. Una volta, però, perse la strada e si trovò in un bosco fitto. Era buio e Faustino non si sentiva affatto tranquillo. Vide tra gli alberi un castello illuminato e pensò di chiedere ospitalità.

Bussò e un servitore lo fece entrare. Il castello era abitato da dodici signori, che accolsero gentilmente Faustino e lo fecero accomodare. I dodici signori appartenevano tutti alla stessa famiglia, ma non si somigliavano affatto. Poichè era l’ora di cena invitarono Faustino alla loro tavola.
Mentre mangiavano, uno di questi signori, guardando la pioggia che cadeva a dirotto disse: “Che brutto mese dicembre!”
“No, perchè?” replicò Faustino, “Anche l’acqua ci vuole e bisogna pure che la terra beva in inverno se vuole fiorire in estate…”

“Non dirai però che sia bello anche gennaio?” disse un signore che aveva una lunga barba bianca.
“Sotto la neve pane, signore mio! Non lo sapete?”
“Ma… febbraietto… corto e maledetto?” replicò un omino piccino che non arrivava nemmeno alla tavola, “Lo dice anche il proverbio!”
Seguì un coro di voci: tutti avevano la loro da dire. Marzo e aprile erano matti; maggio, il pane era scarso perchè la campagna ancora non dava frutto; giugno, mosche a pugno; luglio, dava fastidio per via del caldo; agosto poi meglio non parlarne, un’afa da non poter respirare; anche settembre aveva i sui difetti per le variazioni del clima ora caldo ora freddo, e Dio ci guardi da ottobre novembre e dicembre: pioggia, neve e gelo e chi più ne ha, più ne metta.

Ma, neanche a farlo apposta, Faustino pareva l’avvocato difensore di tutti i mesi dell’anno. Per lui, febbraio era quello che preparava le sorprese sotto terra; marzo il gentile portatore della primavera; aprile maggio e giugno i più bei mesi dell’anno; per non parlare del luglio che riempiva i granai. Agosto e settembre davano frutta in abbondanza; ottobre riempiva i tini; novembre era un mese benedetto per le semine. Dicembre poi, il mese più felice dell’anno per i doni che portava in occasione delle feste. Tutti, per Faustino, avevano il loro lato bello.
“Se la provvidenza li ha fatti così, vuol dire che così dev’essere!”
E quei signori sembrarono proprio contenti delle parole di Faustino che gli regalarono una bisaccia dicendo: “Ogni volta che l’aprirai, ne uscirà tutto quello che desideri!”

Figuratevi la rabbia di Rusticone, quando vide la fortuna capitata al fratello… Si fece raccontare tutto per filo e per segno, poi si mise in cammino verso il castello dei dodici signori.
Fu ricevuto gentilmente, ma quando cominciò a parlare di mesi, apriti cielo! Rusticone diceva male di tutti. Gennaio faceva morire di freddo i poveretti, febbraio faceva tremare, marzo era il mese dei raffreddori, aprile ogni giorno un barile… trovò persino il coraggio di dir male di maggio e giugno! Di luglio e agosto si lamentò per il caldo, settembre gli dava noia per via delle zanzare, rimproverò a ottobre di favorire gli ubriachi come se fosse colpa sua se gli uomini bevevano troppo; novembre era il peggiore di tutti i mesi perchè lui soffriva di reumatismi e quel mese glieli peggiorava, e infine dicembre era un mesaccio per la nebbia e per il gelo.
“Dunque, non ti piace nessun mese dell’anno?” chiese il signore più vecchio.
“Per me non ce n’è uno che faccia il suo dovere!”

“Bene!” dissero, e gli regalarono un nodoso bastone dicendo: “Battilo contro una pietra quando ti occorrerà qualcosa, e vedrai…”
Rusticone, tutto contento, se ne andò senza neppure ringraziare. Appena fuori battè il bastone sopra una pietra e questo cominciò a dargli tante botte fino a fargli gridare: “Mi piace gennaio! Mi piace febbraio!” e giù fino in fondo all’anno…
… e soltanto allora il bastone si fermò.

Mimì Menicucci

 

Racconti per Capodanno

La diligenza dei dodici mesi

C’era un freddo secco, pungente: la neve scricchiolava sotto i piedi, tutto il cielo risplendeva di stelle. Una diligenza si arrestò alla porta della città, e i viaggiatori si presentarono alla dogana.
-Io mi chiamo Gennaio- disse il primo: era rosso in viso e lieto, con una bella barba bianca, -Buon anno a voi! Venite da me domani, avrete un bel regalo e poi faremo festa. Io amo le feste, le mance e i doni, e per questo molti sperano in me: buona fortuna a tutti voi!-
Il secondo viaggiatore pareva un buontempone, e per bagaglio aveva un grosso barile: -Quando c’è questo- diceva, -non c’è pericolo che manchi l’allegria. Voglio che il prossimo si diverta e mi piace divertirmi anch’io, visto che ho poco tempo: solo ventotto giorni. Ma non m’importa, evviva!-
-Non faccia chiasso, per favore!- disse il doganiere.

-Badi a come parla!- gridò il vaggiatore, -Io sono il principe Carnevale, e viaggio in incognito col nome di Febbraio.-
Scese allora il terzo viaggiatore. Era magro quanto la quaresima, poverino, ma si dava un sacco di arie, forse perchè era astrologo e sapeva predire il tempo: portava all’occhiello un mazzolino di violette, piccole piccole e pallidine.
-Ehilà, professor Marzo!- gridò il viaggiatore che era sceso dopo di lui, -Di là c’è uno scatolone per te, credo che sia un uovo di Pasqua.-

Però non era vero niente: il quarto viaggiatore era un gran burlone, ecco tutto. Chi sia, lo potete immaginare.
Portava a spasso mezza dozzina di pesci in carta d’argento: il suo nome era Aprile. Era un tipo strano: un po’ si comportava da allegrone come vi ho detto, ma poi si metteva a piangere senza una ragione al mondo: un po’ sole, e po’ pioggia.
-In questa valigia- diceva, -ho i miei vestiti d’estate, ma non sono tanto sciocco da mettermeli, gente. Una bella sciarpa di lana, ecco quel che mi ci vuole, ma più di tutto un buon ombrello; l’ho inventato io, l’ombrello…-
Dopo di lui scese una ragazza, si chiamava Maggio, e aveva un vestito leggero, verde pastello, con le maniche corte. Al braccio, però, portava un impermeabile. Maggio aveva nei capelli un mazzolino di fiori. Come le stava bene, e com’era carina!
-Dio vi benedica- disse al doganiere, e poi si mise a cantare a mezzavoce. Era molto brava, per quanto non avesse molta scuola; usava cantare per suo piacere, confessò, mentre andava a spasso nei boschi al tempo di primavera.

-Fate largo alla signora Giugno!- disse l’uomo della diligenza. Era una giovane dama, bella e un po’ altera. Era molto ricca, e dava una gran festa nel giorno più lungo dell’anno, in modo che gli ospiti potessero gustare tutti i piatti della sua fornitissima tavola. Da vera gentildonna, aveva una carrozza tutta sua; ma viaggiava in diligenza con gli altri, perchè non dicessero che si dava delle arie. Usava il ventaglio con gran distinzione, e aveva con sè un fratello minore.
Costui era un giovanotto grassottello, in abito estivo e con un gran cappello di panama. Bagaglio ne aveva pochino, in tutto e per tutto un paio di mutande da bagno, che certo non gli erano di ingombro. Appena arrivato andò a sedersi in poltrona, e si tolse la giubba senza nemmeno chiedere permesso alle signore; rimasto in maniche di camicia, trasse un fazzolettone e se lo annodò intorno al collo. Infatti sudava molto, nonostante il freddo.

Mamma Agosto vendeva frutta all’ingrosso, ed era proprietaria di molti ettari di terreno. Grassoccia com’era e per giunta sempre accaldata, sapeva lavorare con le sue mani, quanto e più dei contadini; lei stessa andava nei campi, a mezzogiorno, per mescere ai lavoratori il vino fresco.
Dopo di lei, scese dalla diligenza un noto pittore, Settembre di nome. Tutti lo conoscono, ma i boschi più di ogni altro: sotto il suo pennello le foglie cambiano colore, si tingono di paonazzo e di terra di Siena, che sono i toni che il Professor Settembre predilige. Lui dipinge sul tralcio i grappoli d’uva, e prima di andarsene spreme nel suo boccale il vino nuovo. Quando se ne va, a braccetto con le vacanze, tutti i ragazzi lo rimpiangono.
Lo seguiva un anziano gentiluomo di campagna, il conte Ottobre, robusto nella persona e ben portante. Ottobre è sempre molto occupato con le sue terre, ma ha la passione della caccia. Se ne esce al mattino col suo cane e col fucile, e camminando per i boschi riempie il suo carniere di noci e di castagne. Se sia un buon tiratore non lo so, ma a sentir lui non c’è nessuno che lo superi. Può darsi che le sballi un po’ grosse, da buon cacciatore!

L’undicesimo viaggiatore tossiva da far pietà. Parola mia, non ho mai incontrato nessuno più raffreddato di lui! In altri tempi era assai impegnato a fornir legna per i camini e le stufe; ora, col diffondersi del riscaldamento centrale, un po’ meno. Lui naturalmente se ne lamentava, tra uno starnuto e l’altro. Novembre, così si chiamava, mi parve un buon diavolaccio, ma un tipo allegro no di certo; intorno a sè aveva un alone di nebbia.
Finalmente la diligenza sbarcò l’ultimo viaggiatore, il vecchio nonno Dicembre. Aveva in mano lo scaldino e pareva tutto infreddolito; ma gli occhi gli brillavano come due stelle e recava in mano un vasetto con un minuscolo abete.
-Crescerò questo abete- disse, -perchè il prossimo Natale tocchi con la vetta il soffitto, e l’angelo di carta che sta sulla cima voli giù, e vi si accosti all’orecchio per darvi la buona novella. Arrivederci, e siate buoni!-

Tutte le opere contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. 

Recite per bambini – Mamma Luna e i dodici Mesi

Recite per bambini – Mamma Luna e i dodici Mesi. Personaggi: la Luna, che starà in piedi su una sedia; basterà un disco di cartone bianco tenuto davanti alla faccia; i dodici Mesi, che si distingueranno perchè ciascuno  porterà un oggetto simbolico, come un ombrello, una rosa, ecc…

Luna: Figli miei, io sono la vostra mamma. Mi trovo quassù lontana, ma veglio su di voi e penso al vostro giro sulla terra. Vi chiamo ad uno ad uno coi vostri bei nomi.

Gennaio: sarei curioso di sapere perchè mi chiamo Gennaio.

Luna: ti chiami così da Giano.

Gennaio:  E Giano chi è?

Luna: Hai mai sentito parlare degli antichi Romani? Per ogni fatto, essi immaginavano che ci fosse un dio. E Giano era il dio che, secondo loro, apriva le porte.

Gennaio: (ridendo) Un dio portinaio!

Luna: Proprio così. E anche tu, caro Gennaio, sei un mese portinaio.

Gennaio: Come, come?

Luna: Sì, tu sei il portinaio, perchè apri le porte del nuovo anno. L’anno nuovo non comincia con te?

Gennaio: E’ vero, non ci avevo mai pensato…

Febbraio: E io, perchè mi chiamo Febbraio?

Luna: Tu ti chiami così perchè gli antichi immaginavano un altro dio che lavava e purificava. Si chiamava Febbraio.

Febbraio: Io sarei allora un mese lavandaio?

Luna (sorridendo): Proprio così. Tu lavi con le tue piogge e purifichi col tuo freddo.

Marzo: Anch’io prendo il nome da un dio antico?

Luna: Certo. Ti chiami Marzo dal dio Marte, che era il dio della guerra.

Aprile: E io?

Luna: Tu ti chiami Aprile, che vuol dire aprire. Durante i tuoi giorni si aprono le gemme e comincia la fioritura.

Maggio: Ma i fiori più belli sono i miei!

Luna: Sì, infatti ti chiami Maggio da Maia, la dea dell’abbondanza.

Giugno: La dea Giunone era anche più bella e ricca. E’ vero che il mio nome viene da lei?

Luna: Sì, è vero. Infatti tu sei un mese ricco di raccolti.

Luglio: E il mio nome da quale dio deriva?

Luna: Il tuo nome, caro Luglio, non deriva da un dio, ma da un uomo, Giulio Cesare.

Luglio: Giulio Cesare. Il grande condottiero romano.

Luna: Sì, e un imperatore fu Augusto

Agosto: Ho capito, il mio nome di Agosto deriva da lui.

Luna: L’hai indovinato.

Settembre: Ci voleva poco. Il mio nome è più difficile.

Luna: No, invece è facilissimo. Vuol dire settimo. Tu, anticamente, eri il settimo mese dei Romani.

Ottobre: E io allora era l’ottavo.

Novembre: E io il nono.

Dicembre: E io il decimo.

Luna: Come siete intelligenti!

Gennaio: Ma allora i nostri nomi sono tutti antichi?

Luna: Sì, i vostri nomi sono antichissimi.

Febbraio: E tu come hai fatto a sapere queste cose?

Luna (sorridendo): Oh, io sono vecchia, molto vecchia…

Marzo: Ma c’eri anche al tempo dei Romani?

Luna: Sì, e credevano che fossi anch’io una dea.

Aprile: Davvero? E come ti chiamavano?

Luna: Mi chiamavano come mi chiamo ancora: Luna.

Maggio: E’ un bel nome.

Luna: Tutti i nomi sono belli. Basta portarli con gioia.

(adattamento da B. Bargellini)

Dettati ortografici – INVERNO

Dettati ortografici – INVERNO – Una collezione di dettati ortografici di autori vari sull’inverno, per la scuola primaria.

Inverno
Partiti gli uccelli, il vento invase la montagna e le portò via tutti i colori e soffocò tutte le melodie del bosco. Tutto nero divenne il bosco e gli alberi, seri e imbronciati, scuotevano i rami disperatamente. Poi venne la neve e incappucciò di bianco le rocce, gli alberi, tutto. Sotto quel mantello bianco s’indovinava il fremere delle betulle giovani le quali si piegavano un poco sotto il gran peso, poi con sforzo disperato si risollevavano, e la neve: “Plaff!” cascava giù. Così di tratto in tratto le betulle che riuscivano a risollevarsi segnavano una riga nera su quel biancore infinito.
(P. Reynaudo)

Inverno
E’ la bianca, fredda stagione. La terra, coperta sovente dalla neve, riposa. Gli uomini stanno volentieri riparati nelle case, presso il fuoco. Chi può accende la stufa; nelle case i termosifoni mandano un calore uguale. Non tutti, però, hanno fuoco: i poveri, i senza tetto, soffrono di più. Eppure l’inverno ci vuole. I semi, gettati nel terreno, germoglieranno coi primi tepori, pronti a dar le pianticelle che ci forniscono il pane. La neve, l’amica dei bambini, che si distende sui campi, è una soffice coperta che li ripara, dà loro, lentamente, l’umidità necessaria. Per questo si dice “sotto la neve, pane”.

Inverno
L’inverno arrivò appoggiandosi al bastone. Dietro venivano le sue figliole: neve, pioggia e brina. La neve, al contrario delle sorelle, uggiose e malinconiche, era allegra e aveva voglia di giocare. “Non esagerate, vi prego!” disse l’inverno, rivolto alla pioggia e alla brina. “Non siate prepotenti e non pretendete di essere le padrone. Un po’ per uno non fa male a nessuno!”.

Inverno
I passeri si sono rifugiati sotto le tegole da dove viene il tepore del camino che fuma. Usciranno quando la fame li spingerà a cercare qualche semino che permetterà loro di campare alla meglio fino a primavera. Gli alberi sembrano giganti stecchiti, con le lunghe braccia scricchiolanti ad ogni soffio di vento. E il vento soffia forte, ululando per le strade.
Fa freddo, le erbe sono gelate, i campi hanno una crosta di terra indurita e sembrano morti, senza più un palpito di vita. Ma non sono morti. La vita è nascosta sotto terra e a primavera proromperà trionfante con tanti fiori, tante gemme, tante radici.

Inverno
Il vento soffia, ululando per le strade deserte. Le erbe sono gelate; una crosta di ghiaccio copre i campi che sembrano morti, senza più un palpito di vita. Ma la vita c’è. E’ nascosta sotto terra, e a primavera proromperà trionfante, con tanti fiori, con tante gemme, con tante radici.

Inverno
L’inverno avanza col suo carico di venti gelidi e rabbiosi, di neve candida e molle, di nuvole gonfie, cariche di pioggia. Il grosso ceppo, sul focolare delle case di campagna, scoppietta allegramente. Fuori, la neve ha fatto tutto bianco. Le strade sono deserte. La gente sta volentieri accanto al fuoco, o al riparo delle stelle tiepide, in attesa che il tempo diventi più mite.

Inverno
L’inverno è una stagione poco amica della povera gente. Le giornate sono brevi, le notti lunghe. Ognuno ha bisogno di fuoco e di indumenti di lana. Chi non può procurarsi queste cose vede, con tristezza, avvicinarsi l’inverno e sospira di desiderio, ricordando il tepore della primavera e il caldo sole dell’estate.

Inverno
E’ arrivato l’inverno col suo seguito di pioggia, di neve, di gelo. Nell’inverno, gli alberi sono spogli e tendono verso il cielo grigio le loro braccia stecchite. Nei prati l’erba è secca, accartocciata, bruciata dal gelo. Nei fossi e nelle fontane si forma uno strato di ghiaccio.

Inverno
I prati sono senza erba; c’è appena qualche cespuglio secco su cui si posano i passeri infreddoliti. La siepe è brulla e spinosa. Presto verrà la neve e coprirà tutto col suo bianco mantello. Ma sotto la neve non c’è freddo, e le piantine di grano, così riparate, metteranno le radici. A primavera il campo sarà tutto verde.

Inverno
Piove. Cade una pioggerella minuta e noiosa che scende sulla terra formando pozzanghere larghe e fangose. La gente cammina in fretta sotto gli ombrelli gocciolanti; tutti corrono per le loro faccende lesti lesti, e non vedono l’ora di rintanarsi a casa, al riparo.

Inverno
“E’ brutto l’inverno!”, borbottò un passero rabbrividendo di freddo. “I campi sono coperti di neve e non è possibile trovare un chicco tra tutta questa roba bianca.” “E’ brutto davvero”, rispose un altro arruffando le penne, “La notte non riesco a dormire per il gran freddo.” “Coraggio, fratellini!” esclamò un altro passerotto: “Anche il freddo finirà e verrà la primavera!”

Inverno
Io sono il freddo. Senza di me le pianticelle non diventerebbero forti, crescerebbero deboli e senza resistenza. E poi sarebbero divorate da tutti gli insetti, attaccate dalle malattie. Sono io che faccio morire i germi dannosi alle piante: sono io che freno la moltiplicazione degli insetti. Se un anno non venissi, te ne accorgeresti a primavera! Vedresti tutte le foglie delle piante attaccate dalla malattia e i raccolti sciupati da un numero sterminato di divoratori.
(P. Bargellini)

Inverno
E’ bene rilevare che l’Italia ha, rispetto ad altre terre europee, un clima prevalentemente mie, sia per la posizione intermedia tra Polo Nord ed Equatore, sia perchè il mare che la circonda tempera la calura estiva e il gelo invernale, sia infine perchè la catena alpina ripara la nostra penisola dai gelidi venti del nord.
Tutto questo, però, non impedisce che tra inverno ed estate vi sia una notevole differenza di clima. Non solo: anche nella stessa stagione vi sono discordanze tra le varie parti dell’Italia. Il settentrione, ad esempio, ha un clima prevalentemente continentale (cioè con notevoli differenze tra estate e inverno), il meridione ha invece clima mediterraneo (con piccole differenze).
Per questo abbiamo in inverno una temperatura minima di dieci gradi sotto zero a Torino e di un grado sotto zero a Palermo. Anche nella distribuzione della pioggia c’è differenza: al nord le stagioni più piovose sono la primavera e l’autunno, al sud è l’inverno: da ciò deriva la differenza di vegetazione da luogo a luogo.
Anche la neve si comporta in modo diverso da regione a regione: sono oltre i mille metri cade quasi ovunque.
(M. La Rocca e R. Tommaselli)

Inverno
Terso e lucente a volte come un cristallo, il cielo in inverno ferisce l’occhio per il suo splendore. Ma più spesso è grigio e scuro, e pare lontano, quando addirittura non si nasconde dietro un velo pesante di nebbia. Ma grigio e plumbeo o azzurro e terso il cielo assume sempre il colore e la trasparenza dell’occhio che lo guarda. Quando assume un colore grigio-biancastro, dopo qualche ora il cielo sembra quasi in attesa, si vedono scendere i fiocchi leggeri della neve.

Bosco d’inverno
Che dire del bosco d’inverno? L’occhio forse vi trova quadri diversi per una larga e cupa fronda d’abete ricurva sotto il fantastico cappuccio di neve, per i neri ricami dei ramoscelli cascanti dai larici, per la cima del pino che sporge appena dal bianco cumulo portato dal vento, ma l’orecchio nostro non ascolta che l’uguale profondo silenzio.
Pare che il gelo e il gran manto tengano immobile ogni ramo, ferma ogni fronda; e come se l’aria avesse perduto ogni sua arte, non sa cavare dal folto alcun suono, se non si gonfia in folate di vento, che fischiano aspre tra i tronchi.
(E. Mosna)

Inverno
L’inverno è arrivato. Le giornate serene si fanno sempre più rare, il cielo è grigio, il vento è freddo, spesso piove e il sole, quando riesce a farsi strada fra le nuvole, è appena tiepido. La natura si appresta al gran riposo. I campi sono brulli, le siepi spoglie, gli alberi stecchiti. Solo qualche sempreverde mette una macchia vivace in tanto squallore. Gli uccelli sono emigrati lontano, alcuni animali sono caduti in letargo. Si risveglieranno a primavera.

Inverno
L’inverno è arrivato. Gli alberi hanno perduto le foglie e, scheletriti e nudi, rabbrividiscono al vento che li scuote. Lucertole, bisce, insetti, sono tutti giù, sotto terra, a dormire. Si sveglieranno a primavera. Il cielo è spesso grigio. Cade la pioggia. Nei prati, l’erba è sparita. I passeri infreddoliti si posano sui cespugli secchi. La siepe è brulla e spinosa. Dove sono le violette della primavera? Presto, la neve coprirà tutto col suo bianco mantello.

Inverno
L’inverno è arrivato. Quasi sparito il verde, il cielo sempre o quasi sempre, almeno in Italia, nuvoloso, bigio, monotono. Le piante spoglie danno un senso di tristezza; non più il gorgheggio degli uccellini: solo i passeri, instancabili, sempre affamati, pigolano quasi a chiedere la carità di una briciola. Gli insetti, quasi tutti morti, o spariti sotto terra, non riempiono più l’aria col loro ronzio sonoro che era, pur esso, una voce della bella stagione.

Inverno
Il cielo è grigio, il vento ha strappato dagli alberi le ultime foglie. La nebbia vela i monti lontani. La siepe è spoglia, gli animali sono migrati, oppure sono caduti in letargo. Nel bosco, soltanto pochi uccellini cinguettano piano saltellando fra le foglie secche. Fra questi è il pettirosso che non lascia il luogo natio, ma resta fra noi ad aspettare la bella primavera.

Inverno
La campagna è brulla, le siepi sono rigide e spinose. Il cielo è tutto bigio e, tra le nuvole, il sole si è come sperduto. E’ inverno. I rettili dormono  profondamente nei crepacci o sotto i sassi. Dormono le lucertole verdi che non possono avere una vita attiva senza il tepore del sole; dormono ghiri, topi, marmotte. Non c’è più un fiore, solo qualche bacca rossa mette una nota vivace in tanto squallore.

Inverno
I venti soffiano gelati dalle cime nevose; dalle nubi cadono le piogge fredde e uggiose; le brine imbiancano i campi. Spento è il sorriso dei colli, i giardini sono spogli di fiori; le piante vanno perdendo la chioma ingiallita e rada. Lo squallore di tutta la campagna rende meno doloroso l’addio. Le sponde dei laghi, le immense distese dei campi, gli ameni villaggi rientrano nella loro quiete, si rinchiudono nella loro semplicità.
(A. Stoppani)

Silenzio invernale
Tutto tace nella campagna. I ruscelli scorrono senza mormorio sotto il ghiaccio come sotto una volta di cristallo. I torrenti sono gelati e asciutti; le mandrie fumano sdraiate nelle tiepide stalle; i cani giacciono accovacciati in uno stato di dormiveglia. I gatti fanno le fusa accoccolati in un angolo del focolare; gli uccelli intonano sotto altri cieli le loro canzoni. Tutto tace.
(A. Stoppani)

Inverno
L’inverno è un periodo di attesa e di riposo per molte creature. Si arresta lo sviluppo della pianticella di frumento che sorrise al novembrino; si chiude in sé e quasi non respira l’albero che donò le sue foglie ai venti autunnali; le piante di fori che offrirono profumi e colori si riducono spesso a radici affondate nelle viscere del terreno. Molti animali si rifugiano nelle viscere della terra e dormono per lunghi mesi, e molti insetti sono vivi soltanto nelle piccole uova, che si schiuderanno a primavera.
Anche il riposo è una legge della natura: si risparmiano le forze per la nuova fioritura e per la nuova vita primaverile.
(G. G. Moroni)

Una giornata invernale
La strada era solitaria: le rive, le campagne si confondevano nude in tutta la squallidezza dell’inverno. La natura intirizzita, le piante aride e grame lasciavano cadere qualche ramoscello spezzato dal gelo e le ultime foglie già morte. Non un fiore, non un filo d’erba che spuntasse sotto la neve gelata, né un passero che saltellasse fra i rami avvizziti.
(G. Carcano)

Inverno
D’inverno pare che la vita, sia quella vegetale che quella animale, si arresti. In realtà subisce un notevole rallentamento. Gli uccelli migratori hanno abbandonato le zone fredde per andare a nidificare altrove, gli insetti sono morti, o sprofondati sotto terra a procedere nella loro metamorfosi; molti animali sono immersi in letargo, il profondissimo sonno durante il quale possono fare a meno perfino di nutrirsi. Anche la vegetazione osserva questo periodo di riposo: non germogli, non fiori, non foglie. Soltanto le radici, protette dal manto nevoso che spesso ricopre la terra e che le difende dal gelo, provvedono a moltiplicarsi e a rafforzarsi.

Inverno
L’inverno è brutto per i poveri. Quando è caldo, quando il sole rende tiepida l’aria, la vita è più facile. Ma, con il sopraggiungere dell’inverno, occorrono indumenti, occorre fuoco, occorre cibo più sostanzioso. E i poveri che non possono avere tutto questo, soffrono, e soffrono soprattutto i bambini, i vecchi, i malati. Non chiudere il tuo cuore. Tu, forse, hai tanto di superfluo: pensa a coloro che mancano anche del necessario.

Inverno
Ecco l’inverno: pioggia, brina, freddo, neve… una brutta stagione! E perchè brutta? Sarebbe lo stesso che chiamare brutto il sonno. Anche noi, quando dormiamo non vediamo, non sentiamo, non ci muoviamo… Ma intanto, il nostro corpo, nel sonno, riprende vigore, si riposa, si prepara alla fatica di un nuovo giorno. L’inverno è il sonno della terra e durante questo periodo la terra arresta la sua vegetazione per essere pronta al grande risveglio primaverile.
Ma non dorme tutta: radici, bulbi, semi, si danno da fare sotto la dura crosta che li difende dal gelo; gli alberi preparano i verdi germogli e non appena l’inverno ci avrà detto addio, ecco la natura risvegliarsi tutta nuova, tutta bella, tutta verde.

Inverno
Guardati intorno. Che cosa è cambiato? Il cielo non è più azzurro e sereno: grosse nuvole scure lo percorrono da un capo all’altro. Il sole non è più il caldo sole dell’estate. E’ velato e appena tiepido. Spira il vento gelido, la pioggia cade a bagnare la terra che diventa fangosa e piena di pozzanghere. E’ l’inverno che fa il suo ingresso, temuto soprattutto da coloro che mancano del necessario, che non hanno lavoro, che non hanno panni per rivestirsi, che non hanno fuoco né, talvolta, pane.

Inverno
I venti soffiano gelati dalle cime nevose delle Alpi; dalle nubi che coprono di un bigio uniforme il sereno del cielo ed accorciano un giorno già corto, cadono le piogge fredde e uggiose; le brine imbiancano i campi, presagi di più bianca canizie. Spento è il sorriso dei colli; i giardini sono spogli di fiori; le piante vanno perdendo una chioma ingiallita e rada. Lo squallore di tutta la campagna rende meno doloroso l’addio.
(Antonio Stoppani)

Arriva l’inverno
D’improvviso il tempo s’è mutato. Il cielo è ancora chiuso e immobile com’è stato per tutti questi giorni tetri; vento non s’è levato che si senta, ma il selciato è asciutto e netto, e l’aria spazzata d’ogni umore, leggera e pungente. Aria che porta odore di freddo. Forse in montagna c’è già la neve.
Attraverso il Campo dei Carmini, mi trovo in mezzo a un lento mulinello di pezzetti di carta e di foglioline secche: strisciano sul suolo con un raschio sommesso e per un poco m’inseguono; poi si riadagiano giù. Appena un fiato di vento, raso terra. Ma su, sopra i tetti e le nuvole, altro vento deve passare, duro e silenzioso.
Ora vado lungo una lama di acqua ferma, lustra che raccoglie nel suo grigiore oleoso l’ultimo barlume del crepuscolo.
La sera s’è lasciata cadere pesantemente; si sono accesi i lampioni. Quello là in fondo piove una chiazza di luce cruda su un lembo di muro scrostato, rossastro; scivola per la gelida spalletta di marmo di un ponte, e va a finire dentro il rio, calando a fondo e risalendo a galla in sonnolento altalenio. Sopra non v’è più nulla: i cornicioni delle case si confondono col cielo: tutto nero.
(D. Valeri)

Inverno
L’inverno comincia il 21 dicembre e termina il 20 marzo. Le giornate sono le più corte dell’anno. Il sole sorge tardi e tramonta presto. Fa molto freddo, l’acqua delle fontane gela, i prati, al mattino, sono bianchi di brina; è necessario riscaldare le nostre case e coprirci con pesanti abiti di lana.
Spesso cade la neve, che ammanta ogni cosa di bianco; i passerotti cercano il cibo sui davanzali delle finestre.
Il bosco non è smagliante di colori come in autunno, ma è ugualmente pittoresco: si cammina sopra un soffice tappeto di foglie secche, oppure sulla neve. Gli alberi intrecciano i loro rami nudi contro il cielo che, a volte, è di un azzurro purissimo. Si va nel bosco a raccogliere foglie, rami secchi e fascine di sarmenti, mentre nei campi i contadini potano le viti o gli alberi da frutta.
Ma buona parte del lavoro invernale dei contadini si svolge al chiuso, nelle stalle, nei magazzini, nelle cantine e nei granai: si travasa il vino e si purifica l’olio; si controlla la conservazione del granoturco e del frumento; si riparano le macchine e gli attrezzi da lavoro.
La vita per gli animali diventa difficile: alcuni si sottraggono ai rigori invernali cadendo in letargo, immergendosi, cioè, in un sonno profondo per tutta la durata della stagione e nutrendosi del grasso del loro organismo, accumulato nei mesi precedenti. Altri devono affannarsi nella ricerca del cibo: la loro pelliccia si fa più folta, così sono protetti dal freddo. Gli animali più fortunati sono gli animali domestici, che se ne stanno al calduccio nelle nostre casa.
Anche l’inverno, però, ha i suoi meriti e i suoi aspetti favorevoli. In questa stagione godiamo maggiormente la famiglia e la casa; le feste invernali, come il Natale, sono tra le più belle dell’anno ed i ragazzi hanno modo di divertirsi con i giocattoli portati in dono da Santa Lucia, da Babbo Natale e della Befana.
La nostra mensa è arricchita dalla frutta autunnale, nè mancano i frutti freschi, dolcissimi, cioè l’arancia e il mandarino.

Fiori d’inverno
Anche l’inverno ha i suoi fiori: il bucaneve, la rosa di Natale e la pratolina; fiori semplici che ci fanno pensare alla meravigliosa fioritura della primavera vicina.

Inverno
L’inverno si avvicina. L’autunno dai tramonti colorati, dalle foglie dapprima rosseggianti, poi gialle, poi secche, se ne va. Gli alberi nudi aspettano il mantello bianco della neve. Dagli alti pascoli le greggi tornano al piano guidate dai fidi cani e dai pastori pazienti. Le pecorelle vanno e vanno, le une dietro le altre, e un tremulo tintinnio di campanelli le accompagna. Le giornate si fanno sempre più brevi e le notti si allungano. Nell’aria non passano ali di rondini; se ne sono andate via, laggiù, nelle terre africane, dove il sole è caldo, per tornare a primavera, quando i prati saranno verdi e il cielo turchino. Solo i passerini sono qui: essi non temono il freddo, non temono la neve, anche se in mezzo al candore il loro cuoricino si fa inquieto per il cibo. Le mamme hanno già tirato fuori dai bauli e dagli armadi gli indumenti invernali che dormivano nel profumo della canfora e della naftalina; li hanno già preparati, perchè i primi freddi sono insidiosi e conviene coprirsi subito. Ben coperti, i bambini possono continuare i loro giochi all’aperto, fino a quando le arrossate manine non li consiglieranno a cercare rifugio nella casetta tiepida e accogliente. (Cardini Marini)

Giunge l’inverno

I venti soffiano gelati dalle cime nevose delle Alpi; dalle nubi, che coprono di grigio uniforme il sereno cielo ed accorciano un giorno già corto, cadono le piogge fredde ed uggiose; le brine imbiancano i campi, presagi di più bianca canizie. Spento è il sorriso dei colli; i giardini sono spogli di fiori; le piante vanno perdendo una chioma già ingiallita e rada. Lo squallore di tutta la campagna rende meno doloroso l’addio alla stagione che muore. Le sponde dei laghi, le immense distese dei campi, gli ameni villaggi, dove poco prima risuonavano i gridi di allegre brigate, rientrano nella loro quiete, si rannicchiano nella loro semplicità. (A. Stoppani)

L’inverno

L’inverno è un periodo di attesa e di riposo per molte creature. S’arresta lo sviluppo della pianticella di frumento che sorrise al novembrino; si chiude in sè e quasi non respira l’albero che donò le sue foglie ai venti autunnali; le piante di fiori che offrirono profumi e colori si riducono spesso a radici affondate nel terreno. Molti animali si rifugiano nelle viscere della terra e dormono per lunghi mesi e molti insetti sono vivi soltanto nelle piccole uova, che si schiuderanno a primavera. Piante ed animali sanno che bisogna risparmiare le forze per la nuova fioritura e per la nuova vita primaverile.

Sole d’inverno

Oh sole d’oro, quanto ti amo! Sei bello nell’estate, quando risplendi di luce vivissima, ma d’inverno tu sei più caro! Entri nelle fredde stanze, nelle scuole, nelle umide capanne, negli ospedali, e porti un raggio di luce e di allegria ai vecchi e ai bambini, ai poveri e agli ammalati! Come sei buono, sole! Quando sorgi, la terra sorride, i fiori sbocciano, gli uccelli cantano, gli uomini ti benedicono. (A. Cuman Pertile)

Durante l’inverno il sole, sia pure con volto pallido, si affaccia tra le coltri delle nubi, noi ne salutiamo la venuta come un sorriso e come un augurio. Quando arriva il sole, il tepore della casa si fa più caldo e più vivo, le ore si fanno più brevi e leggere, e, forse, i pensieri diventano più sereni.

Gli alberi in inverno

In questa stagione molti alberi protendono nel cielo i rami nudi e il mattino li ritrovi coperti di brina. Nella nebbia i tronchi spogli sono simili a fantasmi. Ma vi sono anche le piante che mantengono le foglie e queste conservano il loro colore. Sembra quasi che non avvertano il freddo. Tuttavia, se ti avvicini, vedi le foglie tremare. (G.G. M.)

Gli insetti in inverno

Ora, d’inverno, gli  insetti allo stato perfetto mancano; la maggior parte di essi è morta dopo aver deposto le uova, e i rari superstiti sono rannicchiati, al riparo dal freddo, in nascondigli dove sarebbe molto difficile poterli trovare. D’altra parte, le larve, la speranza delle future generazioni, sono intorpidite, lontane dagli sguardi, sotto terra, nel tronco dei vecchi alberi, in fondo a rifugi inaccessibili; il verme bianco, per fuggire ai geli, è disceso nel suolo a parecchi metri di profondità. Non più maggiolini per l’orecchione, non più farfalle crepuscolari per la nottola e il pipistrello, non più scarabei per il riccio. Che cosa sarà di loro? (H. Fabre)

Aspetti della stagione invernale

La natura riposa: animali e vegetali riducono il loro lavoro al minimo necessario; il rigore dell’inverno li rende inoperosi. Ecco infatti alcuni animali cadere in un lungo sonno e così lasciar trascorrere i mesi più rigidi. I graziosi abitatori del bosco dormono, dorme il riccio nella tana ben chiusa, coperta di foglie e di frasche, scavata ai piedi dei grandi alberi; dorme il ghiro, dopo aver ben provveduto a riempire la sua tana di noci, di nocciole, di castagne; dorme lo scoiattolo spesso rintanato nel cavo di un castagno…
Vicino ai muri dormono pipistrelli e chiocciole. Non si nutrono, respirano appena appena e non si muovono per serbare il calore al loro corpo.
Negli orti,  nei giardini, nei prati, nei boschi… sembra che tutto abbia cessato di vivere. La terra è fredda, poichè il sole non può giungere con la sua energia a riscaldarla sufficientemente e, mancando la luce, manca la vita.
Non vi sono insetti che ronzano per l’aria: scomparse farfalle, api, calabroni, vespe. Negli orti le verdure resistenti al freddo sono ricoperte di paglia: verze, sedano, insalata. Nei giardini nessun fiore, alberi spogli, legnosi, sembrano in attesa di una scure che, da un momento all’altro, venga a tagliarli.
Prati ed erbe appassite dal gelo, luccicanti di brina non temono di essere calpestati; vi sono però anche campi con pianticelle verdi: sono le pianticelle di frumento, piccole piccole; ma da quell’apparente riposo assoluto sorgerà un giorno rigogliosa e preziosa una nuova vita. La terra appunto riposa per accumulare il nutrimento necessario alla vegetazione primaverile.

Mezzi di riscaldamento

In alcune località di montagna si usa tuttora ritrovarsi, alla sera, nelle stalle intiepidite dal fiato dei bovini; in altre ci si raccoglie attorno a grandi camini in cui arde un bel ceppo. Ma ben altri mezzi più perfezionati hanno sostituito il focolare: stufe a legna, a gas, a carbone, a petrolio, termosifoni,…
I mezzi di riscaldamento hanno una lunga storia che si accompagna con la vita dell’uomo.
Gli uomini primitivi si difesero dal rigido freddo invernale accendendo il fuoco in mezzo alla caverna.
Poi gli uomini, quando si costruirono la casa con le pietre, si scaldarono al fuoco del caminetto, che è formato di un piano di pietra, su cui si mette a bruciare la legna, della cappa e del fumaiolo per far uscire il fumo e le faville.
Più avanti essi impararono a bruciare la legna ed il carbone nelle stufe di pietra; poi si riscaldarono anche con stufe a gas o elettriche. Il sistema più moderno di riscaldamento per i grandi caseggiati è quello a termosifone: in ogni stanza, attraverso lunghi tubi, arriva l’acqua riscaldata in una grande caldaia che può funzionare a carbone, a nafta o a metano.

La frutta dell’inverno

Nei frutteti, sulle colline, nei boschi le piante riposano. Hanno lavorato tanto e ci hanno preparato dolci frutti anche per l’inverno. Guardate le ceste dei fruttivendoli: brillano dei colori dei frutti colti in autunno.
Nelle case dei contadini le stanze sono odorose di mele e di pere che maturano e d’uva appassita; noci, nocciole, mandorle e castagne stanno ammucchiate negli angoli o distese sui graticci; arance e mandarini splendono come lampioncini; le pallide ghirlande di agli, i mazzi ramati delle cipolle, le collane di peperoni, le patate ancora un poco vestite di terra ricordano, in silenzio, i giorni dell’estate e gli ultimi raccolti d’autunno col sole impallidito e le prime nebbie.

Un dono dell’inverno: l’arancia

L’arancia è un frutto profumato, che appartiene, col mandarino e col limone, alla famiglia degli agrumi. La buccia è arancione, porosa, con uno spessore vario. La polpa, composta di spicchi, contiene un succo agrodolce e i semi. Gli aranci crescono dove l’inverno è mite; quando l’albero è in fiore è tutto una corolla rosata e leggera; al cadere dei petali maturano le arance. Prima di darci il suo dono gradito la pianta deve diventare robusta: dopo 10, 15 anni di vita produce un gran numero di frutti.
In Sicilia vi è una grande insenatura detta Conca d’Oro, perchè ricoperta, dai monti al mare, dagli aranceti.

L’arancio

E’ originario della Cina meridionale; era sconosciuto ai Greci ed ai Romani e pare sia stato introdotto in Europa dagli Arabi.
Le foglie, coriacee, lanceolate, con il margine liscio, sono di un bel verde lucente. I fiori, bianchissimi, nascono all’ascella delle foglie e mandano un profumo delizioso. L’albero raggiunge al più l’altezza dei sei metri; viene coltivato nei prati, in lunghe file regolari.
Dove il clima e il suolo gli si confanno particolarmente, un arancio che occupi lo spazio di circa tre metri e mezzo di diametro produrrà da tre a quattromila arance l’anno.
L’albero vive e fruttifica per circa cento anni e le piante vecchie danno frutti migliori di quelle più giovani.

Gli agrumi

Un tempo si chiamavano agrumi gli ortaggi di sapore agro, come le cipolle, l’aglio, ecc… Oggi si indicano con questo nome l’arancio, il limone, il cedro, il mandarino, il pompelmo, il bergamotto, il chinotto, i cui frutti contengono un succo acido che spesso ha una notevole percentuale di zuccheri.
Gli agrumi sono piante generalmente belle, ma la loro grande importanza è dovuta alla bontà dei frutti, squisiti e utilissimi al nostro organismo. La ricchezza di vitamine, zuccheri e sali in essi contenuti li rende molto preziosi per la nostra salute.
Si pensi che basta il succo di pochi limoni per vincere la terribile malattia dello scorbuto, che attacca l’organismo umano quando non si alimenta di verdure e cibi freschi. Il succo dell’arancia arricchisce il sangue di globuli rossi.
Altri agrumi, i cedri e i chinotti, vengono usati in pasticceria per confezionare canditi (ottenuti facendo cuocere la buccia del frutto in uno sciroppo).
Infine, da quasi tutte le specie si ricavano le essenze, liquidi che evaporano con estrema facilità e che sono fortemente odorosi. Queste essenze si trovano in quasi tutte le parti della pianta; esse sono contenute in piccole vescichette distribuite nello spessore delle bucce dei frutti, delle foglie e dei fiori. Osserviamo, ad esempio, controluce una foglia di arancio: la vediamo cosparsa di punti chiari; sono appunto le vescichette ripiene di un liquido profumatissimo che schizza fuori se stropicciamo con le dita la foglia.

Gli agrumi

L’arancia, il mandarino e il limone sono frutti invernali che maturano presso le trepide rive del mare, specialmente in Sicilia ed in Calabria.
Si chiamano agrumi per il loro sapore agrodolce; sono frutti nutrienti e digestivi, ottimi per preparare gustose bibite dissetanti. Esistono due tipi di arance, quelle dolci e quelle amare.
Tutti conoscono le arance dolci. Ne abbiamo di numerose varietà, da quella a buccia giallo chiara e polpa aspretta, chiamata “portogallo”, a quella a buccia sottile e polpa rossa, più dolce, detta “sanguigna”.
Le arance amare assomigliano solo esternamente a quelle dolci, ma non si mangiano. Con la loro scorza si fanno canditi per i pasticceri, il sugo serve a preparare sciroppi e liquori amari.
Il mandarino è un frutto più piccolo dell’arancia, ma ha un sapore più dolce, intensamente profumato. I bimbi ne sono molto ghiotti; del resto si sbuccia con tanta facilità!
Il limone è ormai diventato indispensabile in ogni cucina, per preparare dolci e vivande. Il suo succo agro è un buon disinfettante dell’intestino.

Gli agrumi

L’arancia, il mandarino e il limone sono frutti invernali che maturano nei paesi caldi. Le loro parti sono: il picciuolo, la buccia ruvida e profumata, la polpa sugosa divisa in tanti spicchi e i semi. La buccia dell’arancia e del mandarino è arancione; quella del limone è gialla – verdognola. Il mandarino è dolce; l’arancia è agrodolce; il limone è agro. Per il loro sapore questi frutti si chiamano agrumi. L’arancia e il mandarino sono frutti nutrienti e digestivi; il limone è disinfettante dell’intestino. Tutti servono per preparare bibite.

Le piante invernali che usiamo per ornare le nostre case

Agrifoglio. E’ un alberetto sempreverde dei boschi di querce e castagni, con foglie coriacee lucide e con drupe rosse. Parecchie piante legnose sono armate di spine finchè sono basse e quindi esposte al dente dei ruminanti; quando sono cresciute, i loro rami alti, fuori della portata di questi animali, non sviluppano più spine. Così si comporta anche l’agrifoglio.
Vischio. E’ una pianta parassita di meli, peri, mandorli, pioppi, querce ed aceri. Le foglie sono verdi, persistenti, coriacee, ovali; i fiori sono poco vistosi e biancastri alla biforcazione dei rami. Il frutto è una bacca perlacea che contiene un sugo vischioso e velenoso, usato per prendere gli uccelli al paretaio.
Muschio. E’ composto di piccolissime pianticelle che vivono in formazioni vastissime, coprendo intere regioni (ad esempio la tundra). Da noi sono frequenti nei luoghi umidi, sulle pietre e anche sulle scorze dei tronchi; formano, a volte, nei prati montani, fitti ed estesi tappeti.
Edera. E’ una pianta rampicante che si abbarbica su per alberi e muri per mezzo di numerosissime piccole radici aeree che escono dal fusto e dai rami. Le foglie sono lucenti. E’ ornamento dei muri come delle rupi. Ha fiori giallastri e bacche nerissime.

Le foglie delle piante sempreverdi

Le foglie delle piante sempreverdi non cadono mai? Cadono anch’esse; sul terreno della pineta potremo infatti osservare uno spesso strato di aghetti morti, cioè di foglie cadute dagli alberi. Ma le foglie delle sempreverdi rimangono sulla pianta per due o tre anni; ad ogni primavera, mentre spuntano le nuove foglioline color verde chiaro, cadono quelle più vecchie, nate due o tre anni prima; sulla pianta rimangono ancora quelle nate nell’anno precedente; avviene così che le sempreverdi mostrano continuamente le loro chiome munite di foglie.
Ecco il nome delle principali piante sempreverdi: pino, cipresso, magnolia, olivo, rosmarino, cembro, ginepro, mirto, oleandro, quercia da sughero, abete bianco, alloro, edera, arancio e tutti gli altri agrumi, palma da datteri.

Pini ed abeti

Si assomigliano. Danno un frutto di ugual nome: le pigne.
Il loro tronco secerne una speciale resina profumata che fa distinguere il legno di questi alberi da tutti gli altri per l’odore caratteristico che da essi emana. Sono dei sempreverdi, cioè delle piante che, perdendo le foglie poco per volta ed essendo subito rimpiazzate da nuove foglioline, mantengono un aspetto sempre verde. Anche le foglie appena spuntate sono ben resistenti al freddo essendo acuminate e spesse da sembrare aghi. Vi sono boschi interi di pini e di abeti; abetaie e pinete che, in montagna, col loro verde interrompono il grigiore monotono del paesaggio invernale.

Brutta stagione, l’inverno?
Non dire: “Che brutta stagione! Se non venisse mai!”
Anche questa che tu chiami ‘brutta stagione’ è necessaria.
Il seme, che è nella terra, ha bisogno di umidità per germogliare; l’albero che sembra rinsecchito ha bisogno del riposo invernale per rinnovarsi; i fiumi, che scorrono portando ovunque il beneficio delle loro acque abbondanti, hanno bisogno che le nevi si ammassino sui ghiacciai dai quali nascono, altrimenti inaridirebbero col giungere dell’estate.
Anche questa stagione, quindi, coi suoi venti gelidi, le sue nebbie, la pioggia, la neve, ci porta benefici non indifferenti.
(L. Colombo)

Inverno pittore
E’ straordinario pensare a quale varietà di colori ben distinti possa offrirci l’inverno, e ciò usando si tante poche tinte, se così vogliamo chiamarle. La limpidezza e la purezza particolarissima dei colori rappresentano probabilmente il fascino maggiore di una passeggiata invernale.
C’è il rosso del cielo al tramonto, e della neve di sera, e dei lembi di arcobaleno durante il giorno, e delle nuvole basse.
C’è l’azzurro del cielo, e dei riflessi dell’acqua, e del ghiaccio e delle ombre sulla neve.
C’è il giallo del sole e del cielo crepuscolare al mattino e alla sera, e del carice (o color paglierino, che diviene brillante se, a sera, viene illuminato sull’orlo del ghiaccio) e tutti e tre nei cristalli di brina.
E poi, per i colori secondari, ecco il porpora della neve in mucchi e sulle cime delle colline, sui monti, dalle nuvole serotine.
Il verde dei sempreverdi, del cielo e del ghiaccio e delle acque quando scende la sera.
L’arancione del cielo di sera.
(H. D. Thoreau)

Elogio dell’inverno
Nell’inverno tutto è vivo e vitale. La grande morte della creatura che ebbe la sua giovinezza in aprile è ormai avvenuta con l’ultima foglia volata via.
Quello che è rimasto sulla terra a me pare l’impalcatura salda e precisa di un lavoro che si inaugura, il severo cominciamento di un’esistenza che si aprirà all’amore in primavera, darà frutti nell’estate e si estinguerà nell’autunno.
Conviene guardare quel suo apparente squallore come si guarda il disegno di una grande fabbrica che profila le sue alte moli e nasconde il suo fervente lavoro dietro gli sterili steccati. Le sue lunghe piogge sono fresco sangue per la creatura nuova, la sua neve un caldo tessuto, e il fradicio impasto di melme e di foglie morte un vitale nutrimento.
(C. Tumiati)

L’assolata ora pomeridiana
Nell’assolata ora pomeridiana il paese, benchè fossimo in inverno, mi si presentò sonnolento e torpido come in una giornata d’agosto. Bianco e deserto, usci chiusi, mazzi di fichi d’India e grappoli d’uva alle finestre, silenzio. Aspetti e atmosfera comuni, del resto, a tutti i paesi seminati nella pianura leccese, arieggianti nell’architettura, se d’architettura poteva parlarsi, temi moreschi di cupole e scalette esterne; chiusi nelle intricate prospettive delle case bianche di calce e abbacinate in quella bianchezza.
Intorno a una fontanella un gruppo di donne con pezzuole nere sul capo aspettava indolentemente di riempire i grossi orci che rappresentavano la provvista d’acqua della giornata. Cinque o sei ragazzetti giocavano a piastrelle senza rumore. Qualche moscone solitario ronzava nel sole.
(C. Montella)

Sole invernale
Il gelo risuonava. Nella nebbia gelata, senza un nesso apparente, apparivano suoni e forme spezzate, si fermavano immobili, si muovevano, scomparivano. Non brillava il sole a cui si è abituati sulla terra, ma un altro sole, come artificiale, librato sul bosco come un globo scarlatto, da cui si spandevano lenti  e faticosi, come in un sogno o in una fiaba, raggi di luce rossastra, color rame, che nel loro tragitto si rapprendevano nell’aria, e aderivano gelati agli alberi.
(B. Pasternak)

Valanga
I ventotto uomini della corvèe sono giunti alla base del canalone. Cominciano a risalirlo a zig-zag, si arrestano, avanzano un passo, affondano fino al collo. Si arrestano di nuovo e guardano su.
E’ la morte che vedono?
L’hanno veduta. Hanno sentito con un brivido la sua gelida vicinanza, ma solo per una frazione di secondo… Poi non sanno più niente… perchè il mondo precipita… precipita in frantumi bianchi, si avventa con la furia di un uragano giù per il canalone… addosso a quegli uomini che guardano in su e che spalancano la bocca in un ultimo grido… e li divora… Spazza via quei poveri diavoli, scaraventa le loro misere ossa nell’abisso, donde non si può risalire.
La valanga deve essersi staccata molto in alto; la massa candida, come un’onda poderosa di risacca, rotolò giù turbinando dentro al canalone e lo percorse ululando e fracassando.
Quando il turbinio fu cessato, di quei ventotto uomini, che poco prima stavano uno sopra l’altro come dei pioli di una scala, non rimaneva più nulla, neppure un fagotto disperso…
(L. Trenker)

Tormenta
Voi conoscete la montagna d’estate quando è piena di vita e di poesia. Ma bisognerebbe che vi saliste d’inverno, quando la neve raggiunge l’altezza dei pali telegrafici o persino quella del tetto, e la temperatura discende a quindici-venti gradi sotto zero, e infuria la tormenta.
Formidabili muggiti seguiti da impressionanti silenzi istantanei, ed urli inesprimibili, fischi lunghi e laceranti si fanno allora sentire attraverso le doppie e ben connesse finestre dell’Ospizio; la stufa e tutti gli oggetti che si trovano nella mia camera vengono agitati come sul mare in burrasca, mentre al di fuori milioni di aghi invisibili, acutissimi, duri come l’acciaio, con forza inaudita vengono sferzati contro la faccia di chi sale. A poco giovano il passamontagna e i grandi occhiali neri protettori: a poco vestiti e guanti. I mille e mille aghi si insinuano attraverso gli interstizi, penetrano fino alla pelle, la punzecchiano in modo doloroso, si fondono, inzuppano le vesti e sotto l’azione di quel freddo polare gelano di nuovo al primo istante concesso al riposo, rendendo impacciati e talvolta dolorosi i movimenti. Gli occhi battuti, malgrado gli occhiali, non possono rimanere aperti. Non è possibile tener sollevata la testa per non rimaner soffocati  dalla massa d’aria e di neve che il vento inietta negli organi respiratori. Gli orecchi ronzano per l’assordante infernale rumore della tempesta, e la mente si ottenebra. Si perde il senso della direzione, la capacità di pensare, e spinti solo da una forza che trae le sue origini dall’istinto di conservazione, si cammina, si cammina sempre, senza curarsi del dove si vada, senza sapere se si procede verso la meta.
(P. Chanoux)

Esercizi di vocabolario per l’inverno
– Inverno: invernale, invernata, svernare.
– L’inverno può essere: rigido, gelato, inclemente, freddo, ventoso, tempestoso, nevoso, crudo, lungo, mite, ecc.
– Freddo: freddino, freddone, frigido, freddoloso, freddare, freddezza, infreddolire, raffreddore, raffreddarsi, frigorifero.
– Neve, brina, ghiaccio, gelo, ghiaccioli, gelata, vento, tempesta, bufera, nevicare, ghiacciare, agghiacciante, gelare, gelato, brinare, sbrinare, surgelati.
– Classificare dal più freddo al meno freddo e aggiungere a ciascuna parola un nome adatto: tiepido, freddo, gelato, rigido, ghiacciato, intirizzito.

Ricerche e relazioni per l’inverno
– Raccogliere brani, poesie, illustrazioni che riguardano l’inverno e il freddo, da applicare ad un cartellone “Calendario murale” e che serviranno, in seguito, per la compilazione delle schede o di un libro fatto da sé.
– Osservare il cielo invernale nei vari momenti della giornata e farne la descrizione.
– Osservare come si presenta una giornata d’inverno quando c’è sole, quando piove, quando nevica.
– In occasione di una nevicata, osservare accuratamente il paesaggio, i tetti delle case, gli alberi, i cespugli, i campi, le strade.
– Compilare un calendario meteorologico.
– Gli sport invernali: se nel luogo ci sono manifestazioni sportive, sia pure modeste, farne una relazione.
– I mezzi di trasporto sulla neve.
– La vegetazione d’inverno. Effetti della neve e della brina sulla campagna.
– I sempreverdi: loro aspetto d’inverno.
– Gli alberi d’inverno. Osservazione accurata dei vari tipi di alberi.
– I cespugli e le siepi d’inverno.
– Gli uccelli migratori e quelli rimasti nella località.
– Gli animali delle regioni nordiche.
– Gli insetti: larve e crisalidi.
– Gli animali che cadono in letargo.
– Esperimenti sui fenomeni fisici a cui è sottoposta l’acqua durante il freddo intenso.

I doni dell’inverno
Il pastore passava le giornate nella capanna; si sentiva tranquillo e pregava che l’inverno non diventasse molto rigido, che molti capretti venissero alla luce, che molto latte gonfiasse le mammelle delle capre.
Lo scrosciare del bosco contorto dal vento gli diceva che l’inverno era lungo e rigido: ma per la sua antica esperienza sapeva che il vento, la pioggia, la nebbia e la neve erano necessarie perché la terra s’impregnasse di umido, gli alberi si spogliassero delle foglie inutili, le sorgenti rigurgitassero di acqua, e ogni cosa infine ricevesse dall’inverno i germi fecondi della primavera.
Quindi non di lamentava mai: anzi, il tepore dei grossi tronchi accessi nella capanna lo avvolgeva spesso di sogni e dalla tristezza dell’inverno la sua vecchia esperienza presentiva il rigoglio della primavera.
(G. Deledda)

L’odore dell’inverno
Il tempo dapprincipio fu bello, calmo. Schiamazzavano i tordi, e nelle paludi qualcosa di vivo faceva un brusio, come se soffiasse in una bottiglia vuota.
Passò a volo una beccaccia e il colpo che le fu sparato risuonò nell’aria con allegri rimbombi.
Ma quando nel bosco si fece buio e soffiò da oriente un vento freddo e penetrante, tutto tacque.
Sulle pozzanghere si allungarono degli aghetti di ghiaccio. Il bosco divenne squallido, solitario.
Si sentì l’odore dell’inverno.
(A. Cechov)

Quadretto invernale
I venditori di caldarroste stavano agli angoli delle strade. Dietro i vetri appannati delle osterie c’erano uomini seduti ai tavoli, con le carte in mano e il litro davanti. Le donne, curve dal freddo, negli scialli striminziti, le mani sotto i grembiuli, traversavano le strade.
Alla fontanella di piazza Santa Croce l’acqua era gelata nella grande conchiglia di marmo ce la riceveva.
I vetturini si riscaldavano incrociando le mani sotto le ascelle. Sulla via Pietrapiana, di animava, con le luci dei negozi, il traffico della sera; davanti al venditore di castagnaccio c’era sempre ressa di avventori.
(V: Pratolini)

Inverno in montagna
L’inverno anticipò la sua venuta. La valle era tutta bianca, gli abeti verdi, quasi neri, reggevano pesi enormi di neve. La cascata accanto alla casa era ghiaccio vivo: solo un filo d’acqua cristallino scorreva liscio, oleoso sotto la crosta, lo si vedeva, alla trasparenza del ghiaccio, aprirvi delle larghe bolle d’aria biancastra. Che silenzio intorno! Il villaggio dormiva accovacciato. La mattina all’Ave Maria e la sera all’Angelus qualche ombra nera passava silenziosa sulla neve dura, con una lucerna in mano, e filava dritta alla chiesa, poi per tutta la giornata non andava intorno anima viva.
(G. Giacosa)

Mattino grigio
Mattino grigio d’inverno. Silenzio di tutte le cose. Nevica sui monti erti, sui pascoli inclinati, sui prati concavi e piani. Se, rovesciando il capo all’indietro, guardo all’indietro,  guardo all’insù, vedo l’universo intero vacillare, sfaldarsi in bioccoli e in polvere, scendermi, roteando, fin negli occhi, fin entro la bocca.
Infinito sfarfallio nell’aria. Fruscio di rami che si scrollano… Tonfo della neve che sul colpo cade… Nuovo, più profondo e misterioso silenzio… Il tempo stagna come un’acqua che il ghiaccio prenda… Forse il mondo non esiste più…
(G. Zoppi)

Dettati ortografici – Inverno – Tutte le opere contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere.

Dettati ortografici: Gennaio

Dettati ortografici su gennaio – una raccolta di dettati ortografici, di autori vari, per bambini della scuola primaria. Difficoltà ortografiche miste. Brevi dettati ortografici a tema per esercitare la scrittura e seguire il ritmo della natura… 

Il cielo è grigio, coperto di nuvoloni carichi di pioggia o di neve. Gli uccellini non cantano più. Gli alberi sono nudi e spogli.

Sotto la neve, pane! E gennaio copre di un mantello candido le verdi piantine del grano che così non geleranno.

Gennaio è un dei mesi più freddi dell’anno. La neve ricopre tutto col suo mantello candido. Il vento urla fra i rami degli alberi spogli.

Fra le divinità adorate dai Romani, vi era Giano, il dio dai due volti, propiziatore del nuovo anno, simbolo della fine e del principio, al quale era dedicato il primo mese: gennaio. E poichè dove una cosa finisce ne comincia necessariamente un’altra, Giano era anche il dio dei confini, delle porte, della pace e della guerra; la sua specialità era, insomma, di iniziare un periodo e di chiuderne un altro.

E’ arrivato gennaio col suo carico di freddo, di neve, di pioggia. Ma anche il freddo è necessario. Le piantine di grano, non potendo uscire all’aperto per il gran freddo, moltiplicano sotto terra le loro radici, e si preparano a diventare robuste e rigogliose.

E’ un mese freddo, ma anc’esso necessario. I cattivi germi e gli insetti nocivi muoiono. La terra, sotto la coltre gelida, si riposa e si prepara al lavoro della primavera. Anche gli alberi dormono. Il cielo è quasi sempre grigio e spesso cade la neve.

E’ un mese freddo e rigido. Il cielo è quasi sempre nuvoloso e il sole raramente fa capolino con un raggio scialbo e pallido. Il vento fischia nelle strade deserte. La gente si ripara con indumenti pesanti e caldi, sospirando il ritorno della bella stagione.

In gennaio gli alberi sono brulli, spogli; il vento squassa i loro rami stecchiti. Sembrano morti, ma morti non sono. La vita scorre nel tronco immobile che presto metterà gemme e fiori.

Le nuvole di gennaio sono bigie, pesanti, apportatrici di pioggia e di neve. Il vento le ammassa all’orizzonte in un nembo che copre tutto l’azzurro del cielo. Il sole a stent può farsi strada per qualche momento fra le nuvole grigie, ma il suo raggio non riesce a riscaldare la terra gelida.

Siamo nel cuore dell’inverno. L’aria è gelida. Il vento ulula per le strade, la gente cammina in fretta, avvolgendosi strettamente in sciarpe e cappotti per difendersi dalla gelida tramontana. Si sogna il tepore della primavera.

Parla gennaio: “Sono il primo di dodici fratelli e porto pioggia, neve, brina e freddo intenso. Tutto dorme, ma sotto la bianca coltre di neve, le piantine si sforzano di gettare più radici che possono. A primavera germoglieranno. Quando me ne sarò andato, i campi di copriranno di verde erbetta, il grano di domani.”.

Gennaio è un simpatico mese. Dietro a lui, altri undici signori, chi allegro, chi malinconico, chi coperto di pellicce, chi col costume da bagno. Sono i mesi, suoi fratelli, e insieme formano l’anno. Gennaio porta anche lui, come dicembre, un bel sacchetto di doni. I ragazzi gli vogliono bene; quando c’è per aria odore di regali, va bene anche il freddo, va bene anche la neve. E i ragazzi sognano: calzette piene di doni, cestini rigurgitanti di buone cose, e la tavola, apparecchiata per i giorni di festa.

Gennaio è uno dei mesi più freddi dell’anno. La neve ricopre tutto col suo mantello candido. Il vento ulula e s’ingolfa per le strade. sbatacchiando le finestre. Gli uccellini non trovano neppure un semino per sfamarsi e pigolano e si lamentano. Gli alberi sono spogli e tendono verso il cielo le loro braccia rinsecchite. I prati sono coperti di neve o di brina.

Nella campagna c’è un gran silenzio. La terra dorme, copera di neve, ma, sotto, lavora. La neve la ripara dal gelo e i semi si svegliano domandando se è ora di germogliare. No, non è ora. Fuori fa freddo, continuate a dormire. E invece, quelli, pian piano, mettono fuori una radichetta, e aprono gli occhietti curiosi. Ma, finchè il sole non batterà, di fuori, con i suoi raggi, è proibito uscire.

Lucertole, ghiri, bisce e tassi dormono profondamente. Consumano il grasso che hanno accumulato durante la buona stagione, così risparmiano di mangiare e non soffrono il gelo. Gli uccellini, sui rami spogli, pigolano di fame e di freddo. Gennaio è lungo. Tanti giorni di neve, di pioggia, di vento. Quando le feste sono finite, la gente comincia a mormorare: “Ma quando se ne va?”. E sogna le violette di febbraio.

Gennaio è uno dei mesi più lunghi; con esso comincia l’anno nuovo. E’ un mese freddo: neve, brina, gelo. Ma sotto la crosta gelata della terra, riparati dal mantello nevoso, i semi si danno un gran da fare per stendere le loro radici, per rafforzarle in modo da poter uscire con una pianticina robusta quando il tempo lo permetterà. Ma ora tutto è scheletrito, spoglio, rigido e triste.

Gennaio è il primo mese dell’anno, uno dei mesi più freddi. Nei crepacci e intorno alle fontane si forma il ghiaccio, I monti sono coperti di neve. L’erba dei prati è intristita dal gelo. Gli uccellini hanno freddo e fame. E’ difficile trovare anche un semino per saziare l’appetito. Volano qua e là, pigolando piano, come se chiedessero la carità di una briciola. Ma gennaio porta anche delle belle feste: Capodanno e l’Epifania. Sono feste liete e tutti di fanno gli auguri.

In gennaio il contadino riposa; ma la terra, sotto, lavora. E, più è freddo e più nevica, e più le piantine morse dal freddo accumulano energia per coprirsi di fior e di frutta e più il grano tenuto indietro dalla neve, accestisce: ogni chicco quattro o cinque steli; ogni stelo una spiga, ogni spiga tanti granelli. Aritmetica dell’universo. Sotto la neve, pane; sotto l’acqua, fame.

Gennaio prende il suo nome da Giano, il dio che i Romani raffiguravano con due facce: una volta al passato, una volta all’avvenire. Infatti, essendo il primo mese dell’anno, gennaio ci invita a guardare quello che è passato e a sperare e far propositi per i giorni che verranno. Che cosa ci riservano, questi? Nessuno lo sa.

I contadini seminano il grano, arano il terreno per le patate e il granoturco; potano le viti e gli ulivi. Gennaio è il mese più freddo dell’anno, ma è tanto amato dai bambini per l’Epifania.

Sole di gennaio
Siamo alla fine di gennaio e nell’aria c’è già un sole, un respiro, un errabondo odore di primavera.
Si sente dire che sui colli i mandorli cominciano a fiorire; ma qui, nell’orto suburbano che mi consola con la sua vista serena, non si scorge ancora nessun segno di vita.
Dietro la siepe di bosso e il filare di girasoli rinsecchiti e pencolanti l’arida terra porta soltanto qualche ciuffo d’erba pallida tra i mucchi di grigia sterpaglia. I ciliegi disegnano netto nel cielo l’arabesco dei loro rami nerastri e gropposi. Più oltre, la vite a pergola lascia pendere qualche esile tralcio, nudo, chiaro e liscio.
Eppure la precoce primavera è arrivata anche qua.
Il colore del sole mattutino, disteso sul terreno è color di rosa; le ombre dei ciliegi su quel rosa sono violette; quelle della vigna sul muretto bigio di fondo, azzurre e come tremanti. E le tre case che chiudono l’orizzonte, una rosa, una giallina, gialla la terza, slavate dalla pioggia e scialbate dal sole, direi che mandino luce, quasi fossero fatte di una preziosa materia trasparente.
Sono case qualunque, case utilitarie, che non han nulla di bello e neppure ambiscono ad esser belle; ma in quest’aria primaverile d’inverno diventano bellissime: magiche creazioni del nostro sole di pianura, di pianura padovana.
Perchè, sì, anche qui sento e riconosco la mia città materna: in questa semplicità e modestia di paesaggio, in questa timida delicatezza di rapporti tonali in questa luce di poesia che si sprigiona dalle più umili e povere cose.
(D. Valeri)

Dettati ortografici su Gennaio – Tutte le opere  contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. 

LAVORETTI PER NATALE – stella di carta trasparente – modello 9

LAVORETTI PER NATALE – stella di carta trasparente – modello 9

LAVORETTI PER NATALE – stella di carta trasparente – modello 9 – tutorial per realizzare una stella di carta trasparente a  quindici punte con la tecnica del paperfolding (o piegatura della carta).

E’ un’attività che consiglio, da proporre ai bambini dai 6 anni in su. Oltre ad essere un esercizio importante per sostenere lo sviluppo di una sana coordinazione occhio-mano, ha elementi rilassanti e meditativi. In queste giornate di solstizio d’inverno e di attesa del Natale, queste stelle, applicate alle finestre di casa, portano meraviglia agli occhi dei bambini e ci fanno sentire tutta la bellezza della luce.

LAVORETTI PER NATALE – stella di carta trasparente – modello 9
materiale occorrente

15 quadrati di carta trasparente

colla da carta.

LAVORETTI PER NATALE – stella di carta trasparente – modello 9
come si fa

Preparate quindici quadrati di carta trasparente colorata, i miei misurano 7,5 x 7,5 cm, poi procedete per ognuno nello stesso modo.

Piegate lungo la diagonale:

Poi piegate due angoli così:

e fate questa seconda piega:

Infine rivoltate un piccolo triangolino verso il margine interno:

All’estremità opposta procedete così:

https://shop.lapappadolce.net/prodotto/acquarello-steineriano-esercizi-di-colore-ebook/
https://shop.lapappadolce.net/prodotto/manuale-per-realizzare-le-bambole-waldorf/

Transparent paper star tutorial – model 9 – Tutorial to make an fifteen-pointed star with transparent paper with the technique of paperfolding.

It is an activity that I recommend, to be offered to children ages 6 and up. Besides being an important exercise to support the development of a healthy hand-eye coordination, it is an activity relaxing and meditative.

In these days of the winter solstice and waiting for Christmas, these stars, applied to the windows, bring wonder to the eyes of children and make us feel all the beauty of the light.

Transparent paper star tutorial – model 9

What do you need?

15 squares of transparent paper
glue

Transparent paper star tutorial – model 9

How is it done?

Prepare 15 squares of colored transparent paper; my squares measure 7,5 cm x 7,5 cm. Fold each of the squares, in the same way, as shown below.

Fold along the diagonal:

Then fold two corners:

and make this second fold:

Finally turned over a small triangle to the inner edge:

At the opposite end, proceed as follows:

LAVORETTI PER NATALE – stella di carta trasparente – modello 8

LAVORETTI PER NATALE – stella di carta trasparente – modello 8.  Tutorial per realizzare una stella di carta trasparente a otto   punte con la tecnica del paperfolding (o piegatura della carta).

E’ un’attività che consiglio, da proporre ai bambini dai 6 anni in su. Oltre ad essere un esercizio importante per sostenere lo sviluppo di una sana coordinazione occhio-mano, ha elementi rilassanti e meditativi. In queste giornate di solstizio d’inverno e di attesa del Natale, queste stelle, applicate alle finestre di casa, portano meraviglia agli occhi dei bambini e ci fanno sentire tutta la bellezza della luce.

LAVORETTI PER NATALE – stella di carta trasparente – modello 8
materiale occorrente

8 quadrati di carta trasparente

colla da carta.

LAVORETTI PER NATALE – stella di carta trasparente – modello 8
come si fa

Preparate otto quadrati di carta colorate trasparente, nelle misure che preferite. I miei misurano 7,5 x 7,5 cm, poi procedete nello stesso modo per tutti i quadrati…

Piegate lungo una diagonale e riaprite:

Portate gli angoli a destra e a sinistra verso linea centrale:

quindi fate questa seconda piega:

Preparate tutti gli elementi e assemblateli con poca colla da carta:

LAVORETTI PER NATALE – stella di carta trasparente – modello 8

https://shop.lapappadolce.net/prodotto/acquarello-steineriano-esercizi-di-colore-ebook/
https://shop.lapappadolce.net/prodotto/manuale-per-realizzare-le-bambole-waldorf/

Transparent paper star tutorial – model 8 – Tutorial to make an eight-pointed star with transparent paper with the technique of paperfolding.

It is an activity that I recommend, to be offered to children ages 6 and up. Besides being an important exercise to support the development of a healthy hand-eye coordination, it is an activity relaxing and meditative.

In these days of the winter solstice and waiting for Christmas, these stars, applied to the windows, bring wonder to the eyes of children and make us feel all the beauty of the light.

Transparent paper star tutorial – model 8

What do you need?

8 squares of transparent paper
glue

Transparent paper star tutorial – model 8

How is it done?

Prepare 8 squares of colored transparent paper; my squares measure 7,5 cm x 7,5 cm. Fold each of the squares, in the same way, as shown below.

Fold along a diagonal and reopen:

Bring the corners to the right and to the left toward the center line:

then make this second fold:

When the eight elements are ready, assemble the star in this way::

LAVORETTI PER NATALE – stella di carta trasparente – modello 7

LAVORETTI PER NATALE – stella di carta trasparente – modello 7. Tutorial per realizzare una stella di carta trasparente a otto   punte con la tecnica del paperfolding (o piegatura della carta).

E’ un’attività che consiglio, da proporre ai bambini dai 6 anni in su. Oltre ad essere un esercizio importante per sostenere lo sviluppo di una sana coordinazione occhio-mano, ha elementi rilassanti e meditativi. In queste giornate di solstizio d’inverno e di attesa del Natale, queste stelle, applicate alle finestre di casa, portano meraviglia agli occhi dei bambini e ci fanno sentire tutta la bellezza della luce.

 LAVORETTI PER NATALE – stella di carta trasparente – Materiale occorrente

8 quadrati di carta trasparente

colla da carta.

LAVORETTI PER NATALE – stella di carta trasparente – Come si fa

Preparate otto quadrati di carta colorata trasparente della misura che desiderate: i miei misurano 7,5 x 7,5

Per ogni quadrato procedete così: piegate a metà,

poi piegate i quattro angoli così:

e riaprite:

Ad una estremità piegate così due angoli:

Poi piegate a destra e sinistra portando l’apice verso la linea centrale:

aprite:

All’estremità opposta a quella lavorate piegate questo piccolo triangolino verso l’alto:

quindi richiudete a destra e sinistra:

Ora portate l’angolo indicato dalla freccia sulla linea centrale:

Preparati otto di questi elementi procedete all’assemblaggio:

https://shop.lapappadolce.net/prodotto/acquarello-steineriano-esercizi-di-colore-ebook/
https://shop.lapappadolce.net/prodotto/manuale-per-realizzare-le-bambole-waldorf/

Transparent paper star tutorial – model 7 – Tutorial to make an eight-pointed star with transparent paper with the technique of paperfolding.

It is an activity that I recommend, to be offered to children ages 6 and up. Besides being an important exercise to support the development of a healthy hand-eye coordination, it is an activity relaxing and meditative.

In these days of the winter solstice and waiting for Christmas, these stars, applied to the windows, bring wonder to the eyes of children and make us feel all the beauty of the light.

Transparent paper star tutorial – model 7

What do you need?

8 squares of transparent paper
glue

Transparent paper star tutorial – model 7

How is it done?

Prepare 8 squares of colored transparent paper; my squares measure 7,5 cm x 7,5 cm. Fold each of the squares, in the same way, as shown below.

Fold in half,

then fold the four corners:

and reopen:

At one end fold so two angles:

Then fold to the right and left carrying the apex toward the center line:

open:

At the opposite end, fold this small triangle upward:

then reclose to the right and the left:

Now bring the corner indicated by the arrow on the center line:

When the eight elements are ready, assemble the star in this way:

LAVORETTI PER NATALE – stella di carta trasparente – modello 6

LAVORETTI PER NATALE – stella di carta trasparente – modello 6 – Tutorial per realizzare una stella di carta trasparente a otto   punte con la tecnica del paperfolding (o piegatura della carta).

E’ un’attività che consiglio, da proporre ai bambini dai 6 anni in su. Oltre ad essere un esercizio importante per sostenere lo sviluppo di una sana coordinazione occhio-mano, ha elementi rilassanti e meditativi. In queste giornate di solstizio d’inverno e di attesa del Natale, queste stelle, applicate alle finestre di casa, portano meraviglia agli occhi dei bambini e ci fanno sentire tutta la bellezza della luce.

LAVORETTI PER NATALE – stella di carta trasparente – materiale occorrente

otto rettangoli di carta trasparente

colla da carta.

LAVORETTI PER NATALE – stella di carta trasparente – come si fa

Preparate otto rettangoli di carta colorata trasparente 10 cm x 5 cm.

Per ogni rettangolo procedete così:  piegate a metà nel senso della lunghezza e riaprite,

Piegate i quattro angoli:

Per due dei triangoli di una estremità procedete così: riaprite

piegate un triangolino verso l’interno:

richiudete la piega iniziale:

Ora piegate i margini lunghi e poi riapriteli, così:

Poi, all’altra estremità, fate questa piegatura:

E infine richiudete seguendo la piegatura lunga:

Assemblate gli otto elementi con della colla da carta, sul rovescio:

https://shop.lapappadolce.net/prodotto/acquarello-steineriano-esercizi-di-colore-ebook/
https://shop.lapappadolce.net/prodotto/manuale-per-realizzare-le-bambole-waldorf/

Transparent paper star tutorial – model 6 – Tutorial to make an eight-pointed star with transparent paper with the technique of paperfolding.

It is an activity that I recommend, to be offered to children ages 6 and up. Besides being an important exercise to support the development of a healthy hand-eye coordination, it is an activity relaxing and meditative.

In these days of the winter solstice and waiting for Christmas, these stars, applied to the windows, bring wonder to the eyes of children and make us feel all the beauty of the light.

Transparent paper star tutorial – model 6

What do you need?

8 rectangles of transparent paper
glue

Transparent paper star tutorial – model 6

How is it done?

Prepare 8 rectangles of colored transparent paper; my rectangles measure 10 cm x 5 cm. Fold each of the rectangles, in the same way, as shown below.

First, fold the rectangle in half and open:

Fold the four corners:

For two of the triangles of one end, proceed as follows: reopen

fold a triangle towards the inside:

Close the initial fold:

Now fold the long edges and then reopen these as well:

Then, at the other end, make this folding:

And finally, following the close folding long:

When the eight elements are ready, assemble the star in this way:

 

LAVORETTI PER NATALE – stella di carta trasparente – modello 5

LAVORETTI PER NATALE – stella di carta trasparente – modello 5 – Tutorial per realizzare una stella di carta trasparente a otto o sedici  punte con la tecnica del paperfolding (o piegatura della carta).

E’ un’attività che consiglio, da proporre ai bambini dai 6 anni in su. Oltre ad essere un esercizio importante per sostenere lo sviluppo di una sana coordinazione occhio-mano, ha elementi rilassanti e meditativi. In queste giornate di solstizio d’inverno e di attesa del Natale, queste stelle, applicate alle finestre di casa, portano meraviglia agli occhi dei bambini e ci fanno sentire tutta la bellezza della luce.

LAVORETTI PER NATALE – stella di carta trasparente – materiale occorrente

8 (o 16) rettangoli di carta trasparente

colla da carta

LAVORETTI PER NATALE – stella di carta trasparente – Come si fa

Preparate otto (o sedici) rettangoli 12cm x 4,5cm:

Per ognuno dei rettangoli seguite poi le seguenti istruzioni. Per prima cosa fate una piegatura lungo la metà nel senso della lunghezza, e poi riaprite:

Piegate i quattro angoli:

Ora procedete alle due estremità in modo diverso. Da una parte così:

aprite i due triangoli e fate un ulteriore piega così, prima di richiudere:

All’altra estremità fate questa piega:

e poi questa:

Una volta preparati gli otto (o i sedici) elementi, procedete all’assemblaggio con della colla da carta:


https://shop.lapappadolce.net/prodotto/acquarello-steineriano-esercizi-di-colore-ebook/
https://shop.lapappadolce.net/prodotto/manuale-per-realizzare-le-bambole-waldorf/

Transparent paper star tutorial – model 5 – Tutorial to make an eight-pointed star with transparent paper with the technique of paperfolding.

It is an activity that I recommend, to be offered to children ages 6 and up. Besides being an important exercise to support the development of a healthy hand-eye coordination, it is an activity relaxing and meditative.

In these days of the winter solstice and waiting for Christmas, these stars, applied to the windows, bring wonder to the eyes of children and make us feel all the beauty of the light.

Transparent paper star tutorial – model 5

What do you need?

8 (or 16) rectangles of transparent paper
glue.

Transparent paper star tutorial – model 5

How is it done?

Prepare 8 rectangles of colored transparent paper; my rectangles measure 12 cm x 4,5 cm. Fold each of the rectangles, in the same way, as shown below.

First, fold the rectangle in half and then reopen:

Fold the four corners:

Now proceed to the two ends in a different way. On the oneend in this way:

open the two triangles and make another fold before closing:

At the other end do this fold:

and then this:

When the eight (or 16) elements are ready, assemble the star in this way:

Acquarello steineriano – l’albero in inverno

Acquarello steineriano – L’albero in inverno . In inverno la luce e il calore non appaiono come elementi esteriori, soprattutto se osserviamo un albero spoglio. Eppure sappiamo che sono contenuti nella terra.

Colori utilizzati:
blu oltremare,
blu di Prussia,
giallo oro
rosso carminio.

Per questo prepariamo l’ambiente lavorando col blu oltremare e il blu di prussia, così:

facendo giungere il colore sul foglio dall’esterno verso l’interno, a ricordare sia la luce fredda, sia la nebbia e l’umidità della terra.

Poi concentriamo il blu di prussia in un punto in basso, da lì diamo un abbozzo di radici e poi spingiamo il colore verso l’alto, a formare il tronco e poi i rami. Il tronco si sviluppa sempre prendendo colore dalla radice, i rami prendendo colore dal tronco e dai rami più grandi.

In nessun caso, possiamo dire ai bambini, i rami piovono dal cielo già fatti e si appiccicano a un albero. Nascono sempre dall’albero stesso e si dirigono  verso l’esterno.

ora abbiamo un’immagine di un albero completamente privo di vita, un albero di ghiaccio, ma non è così.

Dalla terra su verso l’alto facciamo scorrere nell’albero la sua vita nascosta, il giallo oro e il rosso carminio.

https://shop.lapappadolce.net/prodotto/acquarello-steineriano-esercizi-di-colore-ebook/
https://shop.lapappadolce.net/prodotto/manuale-per-realizzare-le-bambole-waldorf/

Waldorf watercolor tutorial: tree in winter. In winter, the light and the heat does not appear as external elements, especially if we see a bare tree. Yet we know that are contained in the ground.

Waldorf watercolor tutorial: tree in winter

Colours used

ultramarine blue,
Prussian blue,
golden yellow
carmine red.

The colors should be diluted in jars. In the Waldorf school we use Stockmar watercolor, which are beautiful, but it is not essential:

Waldorf watercolor tutorial: tree in winter

Procedure

Prepare the environment by working with ultramarine and Prussian blue, like this:

by getting the color on the sheet from the outside   towards the inside, remembering the cold light, mist and moisture of the earth.

Then concentrate the Prussian blue, in a point at the bottom, from there to make a sketch of roots and then push the color upwards, to form the trunk and then the branches.
The trunk grows increasingly taking color from the root, the branches taking color from the trunk and larger branches.

In any case, we can say to the children, the branches fall from the sky already made and cling to a tree. Always come from the tree itself and go towards the outside .

Now we have a picture of a tree completely devoid of life, a tree of ice, but it is not.

From the land upward flow in the tree his hidden life, the golden yellow and the carmine red.

LAVORETTI PER NATALE – stella di carta trasparente – modello 4

LAVORETTI PER NATALE – stella di carta trasparente – modello 4 – Tutorial per realizzare una stella di carta trasparente a otto punte con la tecnica del paperfolding (o piegatura della carta).

E’ un’attività che consiglio, da proporre ai bambini dai 6 anni in su. Oltre ad essere un esercizio importante per sostenere lo sviluppo di una sana coordinazione occhio-mano, ha elementi rilassanti e meditativi. In queste giornate di solstizio d’inverno e di attesa del Natale, queste stelle, applicate alle finestre di casa, portano meraviglia agli occhi dei bambini e ci fanno sentire tutta la bellezza della luce.

LAVORETTI PER NATALE – stella di carta trasparente – materiale occorrente

otto rettangoli di carta trasparente

colla da carta.

LAVORETTI PER NATALE – stella di carta trasparente – Come si fa

Preparate otto rettangoli di carta colorata trasparente 10 cm x 7,5 cm

Piegate il rettangolo a metà nel senso della lunghezza, quindi riaprite il foglio

piegate i quattro angoli così:

poi ad un’estremità aprite ognuno dei due triangolini, piegate una seconda volta su se stesso, e richiudete:

all’altra estremità piegate in quest’altro modo gli altri due triangoli:

ora piegate una seconda volta gli ultimi triangoli piegati facendo in modo che il margine esterno coincida con la linea centrale del rettangolo:

preparati gli otto elementi, assemblateli così:

https://shop.lapappadolce.net/prodotto/acquarello-steineriano-esercizi-di-colore-ebook/
https://shop.lapappadolce.net/prodotto/manuale-per-realizzare-le-bambole-waldorf/

Transparent paper star tutorial – model 4 – Tutorial to make an eight-pointed star with transparent paper with the technique of paperfolding.

It is an activity that I recommend, to be offered to children ages 6 and up. Besides being an important exercise to support the development of a healthy hand-eye coordination, it is an activity relaxing and meditative.

In these days of the winter solstice and waiting for Christmas, these stars, applied to the windows, bring wonder to the eyes of children and make us feel all the beauty of the light.

Transparent paper star tutorial – model 4

What do you need?

8 rectangles of transparent paper
glue

Transparent paper star tutorial – model 4

How is it done?

Prepare 8 rectangles of colored transparent paper; my rectangles measure 10 cm x 7,5 cm. Fold each of the rectangles, in the same way, as shown below.

First, fold the rectangle in half, then reopen:

fold the four corners:

then open at one end each of the two triangles, fold it a second time on itself, and close:

at the other end fold it this way the other two triangles:

now fold a second time the last triangles folded in such a way that the outer edge coincides with the center line of the rectangle:

When the eight elements are ready, assemble the star in this way:

LAVORETTI PER NATALE – stella di carta trasparente – modello 3

LAVORETTI PER NATALE – stella di carta trasparente – modello 3 – Tutorial per realizzare una stella di carta trasparente a otto punte con la tecnica del paperfolding (o piegatura della carta).

E’ un’attività che consiglio, da proporre ai bambini dai 6 anni in su. Oltre ad essere un esercizio importante per sostenere lo sviluppo di una sana coordinazione occhio-mano, ha elementi rilassanti e meditativi.

In queste giornate di solstizio d’inverno e di attesa del Natale, queste stelle, applicate alle finestre di casa, portano meraviglia agli occhi dei bambini e ci fanno sentire tutta la bellezza della luce.

LAVORETTI PER NATALE – stella di carta trasparente – materiale occorrente

otto rettangoli di carta trasparente

colla da carta.

LAVORETTI PER NATALE – stella di carta trasparente – come si fa

Preparate 8 rettangoli di carta colorata trasparente 10 cm x 7,5 cm

piegate a metà nel senso della lunghezza e aprite di nuovo

piegate i quattro angoli così

e poi così:

All’altra estremità aprite ognuno dei triangoli, piegate all’interno un triangolo più piccolo, quindi riportate alla piega originaria:

Fate otto di questi elementi, poi assemblateli così:

https://shop.lapappadolce.net/prodotto/acquarello-steineriano-esercizi-di-colore-ebook/
https://shop.lapappadolce.net/prodotto/manuale-per-realizzare-le-bambole-waldorf/

Transparent paper star tutorial – model 3 – Tutorial to make an eight-pointed star with transparent paper with the technique of paperfolding.

It is an activity that I recommend, to be offered to children ages 6 and up. Besides being an important exercise to support the development of a healthy hand-eye coordination, it is an activity relaxing and meditative.

In these days of the winter solstice and waiting for Christmas, these stars, applied to the windows, bring wonder to the eyes of children and make us feel all the beauty of the light.

Transparent paper star tutorial – model 3

What do you need?

8 rectangles of transparent paper
glue

Transparent paper star tutorial – model 3

How is it done?

Prepare 8 rectangles of colored transparent paper; my rectangles measure 10 cm x 7,5 cm.

fold in half lengthwise and open again:

fold the four corners:

and then in this way:

At the other end open each of the triangles, fold inside a smaller triangle, then brought back to the original fold:

When the eight elements are ready, assemble the star in this way::

LAVORETTI PER NATALE – stella di carta trasparente – modello 2

LAVORETTI PER NATALE – stella di carta trasparente – modello 2 –Tutorial per realizzare una stella di carta trasparente a otto punte con la tecnica del paperfolding (o piegatura della carta).

E’ un’attività che consiglio, da proporre ai bambini dai 6 anni in su. Oltre ad essere un esercizio importante per sostenere lo sviluppo di una sana coordinazione occhio-mano, ha elementi rilassanti e meditativi.

In queste giornate di solstizio d’inverno e di attesa del Natale, queste stelle, applicate alle finestre di casa, portano meraviglia agli occhi dei bambini e ci fanno sentire tutta la bellezza della luce.

 LAVORETTI PER NATALE – stella di carta trasparente – materiale occorrente

otto rettangoli di  carta trasparente
colla per carta.

LAVORETTI PER NATALE – stella di carta trasparente – come si fa

Preparate otto rettangoli di carta colorata trasparente nelle misure 10 cm x 7,5 cm, poi procedete così: piegate a metà il rettangolo nel senso della lunghezza,

Aprite nuovamente e piegate due degli angoli così:

riapriteli per fare un’ulteriore piegatura, così:

Preparati gli otto elementi, assemblateli così:

https://shop.lapappadolce.net/prodotto/acquarello-steineriano-esercizi-di-colore-ebook/
https://shop.lapappadolce.net/prodotto/manuale-per-realizzare-le-bambole-waldorf/

Transparent paper star tutorial – model 2 – Tutorial to make an eight-pointed star with transparent paper with the technique of paperfolding.

It is an activity that I recommend, to be offered to children ages 6 and up. Besides being an important exercise to support the development of a healthy hand-eye coordination, it is an activity relaxing and meditative.

In these days of the winter solstice and waiting for Christmas, these stars, applied to the windows, bring wonder to the eyes of children and make us feel all the beauty of the light.

Transparent paper star tutorial – model 1

What do you need?

8 rectangles of transparent paper
glue

Transparent paper star tutorial – model 1

How is it done?

Prepare 8 rectangles of colored transparent paper; my rectangles measure 10 cm x 7,5 cm. Fold each of the rectangles, in the same way, as shown below.

First, fold the rectangle in half:

Reopen and fold two of the corners:

reopen these to make a further folding, like this:

When the eight elements are ready, assemble the star in this way:

LAVORETTI PER NATALE – stella di carta trasparente – modello 1

LAVORETTI PER NATALE – stella di carta trasparente – modello 1

LAVORETTI PER NATALE – stella di carta trasparente – modello 1 – Tutorial per realizzare una stella di carta trasparente a otto punte con la tecnica del paperfolding (o piegatura della carta).

E’ un’attività che consiglio, da proporre ai bambini dai 6 anni in su. Oltre ad essere un esercizio importante per sostenere lo sviluppo di una sana coordinazione occhio-mano, ha elementi rilassanti e meditativi.

In queste giornate di solstizio d’inverno e di attesa del Natale, queste stelle, applicate alle finestre di casa, portano meraviglia agli occhi dei bambini e ci fanno sentire tutta la bellezza della luce.

LAVORETTI PER NATALE – stella di carta trasparente – cosa serve

8 rettangoli di carta trasparente

colla da carta

LAVORETTI PER NATALE – stella di carta trasparente – come si fa

Preparate 8 rettangoli di carta trasparente colorata; i miei misurano 10 cm x 5 cm. Si procede alla piegatura di ognuno dei rettangoli, sempre nello stesso modo, come mostrato di seguito.

 Per prima cosa di piega il rettangolo a metà:

poi si stira un po’ la piega aperta, in modo che rimanga solo la traccia, e si piegano i quattro angoli, facendoli combaciare con la linea centrale:

Ora le due estremità si piegano in modo diverso. Da una parte si piega una seconda volta, formando un triangolo che combacia con la linea centrale così:

Dall’altra parte semplicemente si piega indietro parte del triangolo facendolo combaciare con la linea esterna, così:

Questo è il risultato:

Quando gli otto elementi sono pronti, procedere all’assemblaggio della stella in questo modo:

Stendete della colla sul davanti di un elemento

ed incollatelo sul rovescio del secondo, tenendo come punto di riferimento la sua linea centrale.

Procedete allo stesso modo con gli altri:

E la stella è pronta:

https://shop.lapappadolce.net/prodotto/acquarello-steineriano-esercizi-di-colore-ebook/
https://shop.lapappadolce.net/prodotto/manuale-per-realizzare-le-bambole-waldorf/

Transparent paper star tutorial – model 1 – Tutorial to make an eight-pointed star with transparent paper with the technique of paperfolding.

It is an activity that I recommend, to be offered to children ages 6 and up. Besides being an important exercise to support the development of a healthy hand-eye coordination, it is an activity relaxing and meditative.

In these days of the winter solstice and waiting for Christmas, these stars, applied to the windows, bring wonder to the eyes of children and make us feel all the beauty of the light.

Transparent paper star tutorial – model 1

What do you need?

8 rectangles of transparent paper
glue

Transparent paper star tutorial – model 1

How is it done?

Prepare 8 rectangles of colored transparent paper; my rectangles measure 10 cm x 5 cm. Fold each of the rectangles, in the same way, as shown below.

First, fold the rectangle in half:

then stretch a little the folding open, so that it is only the track, and fold the four corners, making them matching with the center line:

Now fold the two ends in a different way. On the one end to fold a second time, forming a triangle which matches with the center line:

On the other end simply bend backwards part of the triangle making matching with the external line:

This is the result:

When the eight elements are ready, assemble the star in this way:

Roll out the glue on the front of an element

and paste it on the back of the second, taking as a reference its center line.

Do the same with the others:

And the star is ready:

Gnomi di pannolenci

Gnomi di pannolenci – materiale occorrente

Servono dei ritagli di feltro o pannolenci (ma va bene anche qualsiasi altro tessuto se abbastanza consistente), della lana bianca (oppure ovatta), e filo da ricamo.

Puoi scaricare il cartamodello qui:

Gnomi di pannolenci – come si fanno

Per prima cosa ritaglia il tessuto, tenuto a doppio, seguendo il cartamodello:

Poi cuci il cappuccio a doppio, così:

Per spiegare ai bambini il punto festone, mostra che l’ago fa infilato da dietro verso il davanti:

poi bisogna tirare il filo ma non completamente, in modo che resti un piccolo cappio:

poi, sempre da dietro verso il davanti si infila l’ago nel cappio:

e si tira, così:

Dopo aver cucito il cappuccio, si passa a fare un’arricciatura come mostrato nelle foto  (ai bambini si può tracciare il percorso con del gesso):

Ora prendiamo una falda di lana e facciamo un nodo al centro:

Dividiamo in due una delle estremità e rivoltiamole sul nodo, in modo da rivestirlo, quindi stringiamo con un po’ di lana intorno al “collo”, e inseriamo la testina nel cappuccio:

Utilizzando il filo rimasto libero arricciamo e facciamo un bel fiocchetto, quindi tagliamo la lana eccedente:

Se vogliamo che il nostro gnomo abbia la barba, basta sollevare un ciuffetto di lana lasciandola fuori dall’arricciatura, così:

Con questi gnometti di panno si può decorare l’albero, si possono preparare dei mobiles o dei festoni colorati, e naturalmente giocare…

Qui ho trovato anche una bella idea per un regalo da fare a mano:

http://www.atelierpippilotta.nl/

Si preparano due tappetini neri con dei cerchietti colorati: i colori corrispondono a quelli segnati dal dado e naturalmente per ogni colore ci saranno due gnometti. I bambini lanciano il dado e posizionano  lo gnomo del colore indicato sul loro tappetino, a turno. Se esce il colore di uno gnomo che era già uscito, il dado passa all’altro bambino e vince chi per primo riesce a completare il tappetino.

Orologio – impariamo a leggerlo

Orologio – impariamo a leggerlo: ecco un’idea semplice e che può essere realizzata facilmente a casa per aiutare i bambini ad imparare a leggere l’orologio:

Spiegate ai bambini che gli adesivi servono a leggere la posizione della lancetta lunga (i minuti) e possibilmente realizzate le scritte insieme ai bambini.

Cominciate col far visualizzare i bollini che contano i minuti come la tabellina del cinque, mentre li posizionate e scrivete i numeri.

Poi passate a spiegare che la stessa ora si può leggere in due modi diversi: ad esempio si può dire che sono le tre e  trenta, oppure che sono le tre e mezzo, ecc…

Durante la giornata potete chiedere spesso ai bambini di dirvi l’ora.

Orologio – impariamo a leggerlo

Dettati ortografici: Dicembre

Dettati ortografici su dicembre – una raccolta di dettati ortografici, di autori vari, per bambini della scuola primaria. Difficoltà ortografiche miste.

Il nome di dicembre

Dicembre ha questo nome perchè, al tempo degli antichi Romani, quando cioè l’anno cominciava a marzo, era il decimo mese del calendario. Poi i mesi diventarono dodici, ma il nome restò, così come è restato a settembre, a ottobre e a novembre.

La campagna

La campagna è squallida; nei boschi la vita sembra scomparsa, ma in realtà la volpe, la donnola ed il lupo si avventurano nei campi in cerca di cibo. La stagione invernale è propizia a coloro che amano gli sport di montagna e si recano a sciare sui campi di neve. Nel mese di dicembre proseguono nei campi i dissodamenti, il taglio delle siepi, la potatura degli alberi e la pulizia dei fossi. Si bacchiano le olive e, nelle regioni più calde e nelle isole, si raccolgono gli agrumi che andranno in ogni parte d’Italia e all’estero.

Dicembre

Dicembre è un mese freddo, uno dei più freddi dell’anno. Il cielo è quasi sempre grigio, piovoso; spesso cade la neve. Il vento soffia tra i rami degli alberi spogli e li fa tremare sotto la sua gelida furia. Gli uccellini non cantano più. Soltanto i passeri pigolano, infreddoliti e affamati.

Dicembre

Dicembre è un mese freddo perchè con esso entra l’inverno col suo corteo di nebbie, di pioggia, di neve. Ma se scostate il mantello di dicembre scorgerete una quantità di giocattoli, e un bell’albero di Natale. Dicembre è anche un mese pieno di belle e piacevoli sorprese.

Dicembre

A dicembre come passano le giornate, e che freddo! Si fa tutto in fretta, ma il tempo non basta mai: viene subito sera, ed una volta a letto, sotto il caldo delle coperte, si ripensa all’estate trascorsa, alle belle giornate, alla campagna verde e festosa. Ora, dappertutto foglie secche e niente fiori, niente uccelli. Dove sono andate a finire le rondini tanto allegre? Si vedono solo passeri e pettirossi tristi e infreddoliti.
(G. Cauzillo)

Dicembre

Dicembre è un mese brutto per i poveri. Hanno bisogno di fuoco, di indumenti pesanti, di cibo, di casa. E spesso, i poveri non hanno nulla di tutto questo. Il vento soffia impetuoso e penetra sotto le travi sconnesse. I poveri desiderano la primavera, ma la bella stagione è lontana. Per i poveri l’inverno è duro e doloroso.

Dicembre

Il freddo è arrivato. Gli alberi hanno perduto tutte le foglie e scheletriti e nudi rabbrividiscono al vento che li scuote. Lucertole, bisce, insetti, sono tutti giù, sotto terra a dormire. Si sveglieranno a primavera. Il cielo è grigio e spesso piove. Allora, nella strada, si allargano le pozzanghere fangose, che rispecchiano le nuvole grigie.

Dicembre

Dicembre è un mese pieno di belle feste. Feste di santi, che portano i doni, festa del bambino Gesù, che in questo mese è nato, festa dell’anno vecchio che se ne va per lasciare il posto all’anno nuovo, che tutti sperano sia più buono di quello che è passato.

Dicembre

Dicembre rassomiglia a un vecchione con la lunga barba bianca, tutto avvolto nel suo ampio mantello coperto di neve. Ma se schiude un po’ quel suo misterioso mantello, ecco far capolino un bell’albero di Natale, e tanti, tanti doni, per la gioia dei bambini buoni.

La campagna

I contadini lavorano attorno alla casa: provvedono alla pulitura e alla preparazione degli attrezzi. Viene travasato il vino nuovo. Continua e termina la raccolta delle olive; nei mercati, sulle mense, compaiono arance e mandarini. In questo mese si festeggiano l’Immacolata e la Madonna di Loreto con processioni e falò. In Lombardia, nel Veneto e in Sicilia i bambini attendono i doni da Santa Lucia. Il Natale raduna tutte le famiglie davanti al presepe e attorno al desco per la tradizionale cena della vigilia. San Silvestro chiude l’anno con danze e canti.

Dicembre

E’ dicembre e l’inverno non aspetta la data ufficiale per fare il suo ingresso. Guardiamoci attorno: le manifestazioni invernali sono visibili ovunque. Il cielo, almeno in Italia, è quasi sempre grigio, nuvoloso, percorso da nubi spesse e pesanti. Osserviamo il cielo non solo durante le sue variazioni (pioggia, sereno, nebbia, ecc.) ma anche nelle varie ore del giorno.
Guardiamoci intorno. I segni dell’inverno sono dappertutto. Prati brulli, spesso coperti di brina, cespugli secchi, alberi scheletriti che ormai hanno perduto quasi tutte le foglie, siepi spoglie che lasciano vedere l’intrico dei rami.
In tanto squallore spicca la macchia scura di qualche albero sempreverde. Osserviamo la foglia di questi alberi. Se si tratta di conifere, la foglia è sottile, appuntita come un ago e resistente agli agenti atmosferici. Osserviamo anche gli altri sempreverdi: l’ulivo, l’alloro, ecc. Hanno le foglie dure, resistenti, spesso rivestite di uno spesso strato di cutina, una sostanza coriacea e impermeabile che le difende dalla pioggia, dal freddo, dal gelo.
Nonostante la campagna sia spoglia, non mancano piante da osservare. Non hanno l’esuberanza della vegetazione primaverile ed estiva. Alcune piante sono fornite di bacche: le rose selvatiche, per esempio, e le piante caratteristiche di dicembre: l’agrifoglio e il pungitopo, che spesso servono come motivo di decorazione natalizio.
Le manifestazioni della vita animale sono scarse perchè quasi tutti gli uccelli sono emigrati, fatta eccezione per i passeri, i merli, gli scriccioli, i pettirossi e pochi altri. Alcuni animali, come le lucertole, le bisce, le marmotte, i tassi, i ghiri, sono immersi nel letargo, un sonno profondissimo durante il quale la respirazione e le pulsazioni del cuore sono rallentate al massimo. L’animale, immerso nel letargo, non ha bisogno di mangiare e consuma il grasso accumulato durante la buona stagione.
E gli insetti? Spariti, morti, magari dopo aver deposto le uova in un luogo dove il piccolo nato troverà culla e cibo. Sotto terra ci sono le larve, mollicce, oppure coriacee, ma sempre inerti, come morte. Non sono morte; attendono invece alla loro metamorfosi. A primavera le vedremo trasformate in insetti perfetti.

Dicembre

Nelle campagne è un gran silenzio. La terra dorme, spesso coperta di neve, ma, sotto, lavora. La neve la ripara dal gelo e i chicchi si svegliano, ma non osano metter fuori le loro foglioline verdi. Si danno, invece, da fare con le radici che s’insinuano coraggiose fra le zolle e si moltiplicano e diventano forti per poter essere in grado, dopo, di nutrire e fortificare la pianta che spunterà in primavera.

Dicembre

E’ l’ultimo mese dell’anno e porta nebbia, freddo, pioggia e, spesso, neve. Ma anche il freddo è necessario. Le piante perdono le foglie, ma le radici, sotto terra, si moltiplicano e diventano più robuste. Saranno, così, in grado di sostenere e di nutrire meglio la pianta a primavera quando tutta la natura si ridesterà a nuova vita. Gli alberi alzano verso il cielo grigio le loro braccia spoglie. Sembrano morti, ma lungo il tronco e i nei rami, scorre la linfa che è il sangue della pianta. Scorre piano, lentamente, senza forza, ma a primavera ricomincerà a vivificare l’albero che metterà foglie e fiori.

Una giornata di dicembre
Era una di quelle giornate di dicembre, in cui si direbbe che si solennizzi il vero ingresso trionfale, definitivo, dell’inverno,  con un immenso parata di neve. Chi si era svegliato presto aveva sentito battere sordamente le ore dalla vicina torre, quasi la campana fosse coperta da un panno, o il batacchio rivestito d’ovatta.
Chi è solito aspettare il giorno tra le coperte, ne aveva visto la luce distendersi sulle pareti con insolita bianchezza. Chi aveva messo la faccia fuori, l’aveva ritirata esclamando: “Ehi! Che bella nevicata!”.
Chi fosse salito il alto, avrebbe visto i tetti, le strade, le mura, le campagne al di fuori, l’immenso piano, i colli, le Prealpi, le Alpi, se erano visibili, tutto d’un solo colore.
Quando mi affacciai alla finestra la neve veniva ancora giù, a larghe falde.
(A. Stoppani)

Mattinata di dicembre
La tramontana di stanotte ha seccato la strada; le carreggiate sono dure come il vetro e luccicano per un po’ di brina nell’ombra scura degli ulivi.
Gli alberi nudi frastagliano il cielo coi loro rami e le loro vette che sembrano d’oro.
Sono vicino ad un orto di contadino pieno di piante di carciofi. Oltre l’orto c’è una loggetta e, sotto, una donna che leva il pane dal forno.
Arriva fino a me l’odore del pane misto a quello della terra. Dopo tanta acqua i campi esultano a sentirsi riscaldati e prosciugati da un po’ di sole.
Il grano si rialza dal fango delle zolle, nei solchi c’è però ancora dell’acqua che riflette il cielo azzurro.
(A. Soffici)

Dettati ortografici sui dicembre – Tutte le opere  contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. 

Geodi di feltro e palline di feltro coi bambini

Geodi di feltro e palline di feltro coi bambini – un classico lavoretto natalizio da fare con gli avanzi di lana cardata, molto adatto per la prima settimana di avvento. La tecnica, una volta imparata, è la stessa che porta alla realizzazione di perle e palline per realizzare orecchini, collane e braccialetti di feltro per ogni occasione.

La lana cardata si può acquistare, ad esempio, qui

Mettiamo sulla tavola un vecchio telo mare o una vecchia coperta, che avanzi abbondantemente ai lati, così i bambini possono asciugarsi le mani quando lo desiderano.

Poi prepariamo al centro un ricco assortimento di avanzi di lana cardata colorata, una brocca di acqua calda e una ciotola con una soluzione di acqua calda e sapone (qualsiasi tipo di sapone va bene, anche quello per i  piatti…).

Chiediamo ad ogni bambino di scegliere il proprio colore preferito; col batuffolo scelto formiamo una pallina a secco (si può roteare tra i palmi, oppure fare un nodo iniziale e lavorare i ciuffi che avanzano come per fare un gomitolo).

Quindi ci  insaponiamo le mani (meglio non far immergere la pallina nella ciotola ai bambini più piccoli, per evitare esagerazioni di schiuma sulle mani…)

e continuiamo a roteare la pallina insaponata tra i palmi, prima con delicatezza ed esercitando via via una pressione maggiore.

La pallina diventerà notevolmente più piccola e molto dura.

A questo punto  chiediamo ai bambini di scegliere un secondo colore, e di nascondere dentro al secondo batuffolo la pallina. Ci insaponiamo di nuovo le mani, e procediamo sempre facendo roteare la pallina tra i palmi.

Continuiamo così per più strati, considerando che più il geode è grande, più è difficile per il bambino da infeltrire.

Quando il bambino è soddisfatto del proprio lavoro, e la pallina si è arricchita di vari strati che via via si sono nascosti, la maestra, che nel frattempo ha scelto un angolino tranquillo e appartato nella classe,  prende in consegna l’opera, e con cautela la apre  davanti a lui (servono forbici ben affilate o un cutter).

Un bambino alla volta, e prestando ad ognuno l’attenzione che merita. Così anche a casa.

Prima di farlo è bene dire al bambino qualcosa del genere: “Ora io taglio il tuo sasso, ma non lo guardo, così lo guarderai tu per primo. Se poi vuoi ce lo potrai mostrare…”

Ogni geode può essere portato a casa il giorno stesso, incartato nella carta velina a caramella, per rinnovare la sorpresa con mamma e papà.

Se cerchi idee per attività in stile steineriano per il periodo dell’avvento, puoi trovarle raccolte qui:

https://shop.lapappadolce.net/prodotto/le-quattro-settimane-dellavvento

E qui trovi le istruzioni per realizzare il tradizionale presepe in lana cardata:

https://shop.lapappadolce.net/prodotto/il-presepe-steineriano-in-lana-cardata

https://shop.lapappadolce.net/prodotto/acquarello-steineriano-esercizi-di-colore-ebook/
https://shop.lapappadolce.net/prodotto/manuale-per-realizzare-le-bambole-waldorf/

Felted geodes tutorial a classic Christmas craft to do with the leftovers of carded wool, very suitable for the first week of Advent. The technique, once learned, is the same that leads to the realization of felted beads and balls to achieve earrings, necklaces and bracelets for any occasion.

Felted geodes tutorial

Preparing the environment for children

Put on the table an old beach towel or an old blanket, that surpluses thoroughly to the sides, so children can dry their hands when they wish.

Then prepare at the center a rich assortment of leftover carded wool colored, a jug of hot water and a bowl with a solution of warm water and soap (any soap is fine, even dishwashing liquid …).

Felted geodes tutorial

How is it done?

Ask each child to choose their favorite color; with the chosen color form a ball dry (you can spin between the palms, or tie a knot and work tufts advancing like to make a ball).

Then lather hands (better not to submerge the ball in the bowl for small children, for avoid exaggeration of foam on the hands …)

and continue to rotate the soapy ball between the palms, first gently and gradually exerting more pressure.

The ball will become considerably smaller and very tough.

At this point we ask the children to choose a second color, and hide in the second color the ball. Lathering hands again, and proceed always turning the ball between the palms.

Continue in this same way for multiple layers, whereas plus the geode is great, more difficult it is for the child felting it.

When the child is satisfied with his work, and the ball has been enriched by various layers that gradually are hidden, the teacher, who has since chosen a quiet and secluded corner in the class, take delivery of the work, and carefully open it in front of the child (need very sharp scissors or a cutter).

One child at a time, and giving everyone the attention it merits. So even at home.

Before doing so it is good to tell the child something like: “Now I cut your stone, but I do not watch it, so you will look to it first. Then if you want, you can show it to us … “

Each geode can be taken home the same day, wrapped in tissue paper, to renew the surprise with mom and dad.

Stella tridimensionale di carta

Stella tridimensionale di carta – Realizzare questa stella è molto semplice…

Stella tridimensionale di carta – Materiale occorrente

sei fogli di carta quadrati
forbici
squadra
matita
cucitrice o colla

Stella tridimensionale di carta – Come si fa

Se volete esercitare coi bambini le divisioni e l’uso degli strumenti di precisione, procedete così:

  1. dal foglio rettangolare ottenere un quadrato piegandolo così, ed eliminando la parte eccedente:

2. tenere il foglio piegato lungo la diagonale, trovare con la squadra l’altezza del triangolo, prenderne la misura e dividerla per quattro. Usare questa misura per segnare il foglio così:

3. Con le forbici (o con righello e cutter) praticare dei tagli lungo le linee tracciate a matita sul foglio (sempre piegato a metà), avendo cura di  lasciare intatto un margine di almeno 1cm in prossimità dell’altezza del triangolo:

4. quindi aprire il foglio.

5. Ora non resta che incollare o graffettare tra loro i lembi ritagliati, a partire dal centro, alternando il lavoro una volta sul davanti e una volta sul retro, così:

i primi due davanti…

girare, i secondi due dietro

girare: i terzi due davanti; girare: i quarti due sul dietro:

girare; i quinti due sul davanti:

6. Preparare sei di questi elementi in totale:

quindi fissarli tra di loro per creare la stella:

oppure dei festoni:

Questo articolo fa parte dell’Album di Vita pratica:

Tutti gli album

Tridimensional paper star- Create this star is very simple…

   Tridimensional paper star
required materials

six squares of paper
scissors
set square
and pencil
stapler or glue

 Tridimensional paper star
How is it done?

If you want to exercise with children divisions and the use of precision instruments, proceed as follows: from the rectangular sheet to get a square folding it so, and eliminating the excess part

keep the sheet folded along the diagonal, find the set square the height of the triangle, take measurements and divide by 4. Using this measure to mark the paper so:

With scissors (or ruler and cutter) cut along the lines drawn in pencil on paper (still folded in half), taking care to leave intact a margin of at least 1 cm in proximity of the height of the triangle:

then open the sheet.

Now we have to glue or staple together the flaps cut, starting from the center, alternating the work once on the front and once on the back, in this way: the first two in front …

turn, the second two on the back:

turn; the third two on the front:

turn; quarters two on the back:

turn; the fifth two on the front:

Prepare six of these elements in total::

then stapled between them to create the star:

or garlands:

Dettati ortografici LA FESTA DEGLI ALBERI – 21 novembre

Dettati ortografici LA FESTA DEGLI ALBERI – 21 novembre. Una raccolta di dettati ortografici di autori vari per la scuola primaria. Difficoltà ortografiche miste.

In molte parti del mondo, sia i grandi che i bambini, piantano gli alberi in un giorno speciale chiamato “Festa degli alberi”. Essa cade in giorni diversi nei vari paesi del mondo. Se tu fossi un bambino indiano o una bambina messicana, avresti un albero tutto tuo! In quei paesi ogni volta che nasce un bimbo, i genitori piantano un albero dandogli il nome del bambino. In Israele, gli scolari piantano gli alberi in un giorno chiamato Tu B’ Shebat. Molto tempo fa infatti, in quel giardino, gli Ebrei piantavano un albero per ciascun bimbo nato in quell’anno, un cedro per i maschi e un cipresso per le bambine.

Dettati ortografici LA FESTA DEGLI ALBERI
Il 21 novembre si celebra la festa degli alberi. Perchè amiamo gli alberi? Perchè la loro funzione è benefica. Gli alberi purificano l’aria; sentite che buon odore quando attraversiamo un bosco? Gli alberi trattengono le acque che altrimenti irromperebbero a valle, trascinando terra, piante, e purtroppo anche case. Gli alberi fanno da riparo ai venti. Danno bellezza al paesaggio: osservate la diversità fra una zona alberata e una zona brulla. Gli alberi ci danno il legno, materiale prezioso per costruire… che cosa? Guardiamoci intorno e cerchiamo tutto quello che è fatto di legno. Legno di quali alberi? Abete, castagno, pino, noce. E ancora, gli alberi ci danno la frutta. Ricordiamo gli alberi più noti: il castagno, l’olivo, il pero, il melo, il susino, il noce…

Dettati ortografici LA FESTA DEGLI ALBERI

Se l’albero è così utile e benefico, cosa possiamo fare noi per lui? Innanzitutto piantarli: sui margini dei fiumi, sulle pendici scoscese, nelle zone brulle, nei luoghi frequentati dai bambini. Un albero viene danneggiato se lo si lega stretto, se vi si piantano chiodi, se si strappa la corteccia, se si spezzano i rami, se il tronco viene ferito. Cerchiamo di proteggere questi giganti buoni. Sembrano potenti, ma anche un bambino può far loro del male.

Dettati ortografici LA FESTA DEGLI ALBERI
Il 21 novembre è la festa degli alberi. In questa data si vogliono ricordare a tutti, ma soprattutto ai bambini, le grandi virtù di questi giganti della foresta, e insieme richiamare l’attenzione sull’importanza che essi hanno per tutti noi. Vuol far presente anche i gravi danni arrecati dal disboscamento, dovuti ad incuria e speculazioni disoneste. In questi casi è necessario il rimboschimento. E a questo rimboschimento partecipano i bambini con la festa degli alberi.

Dettati ortografici LA FESTA DEGLI ALBERI
Un albero è tutto un vario, singolare, molteplice mondo. Eccone uno, tacito, solitario, immobile, gigantesco, sul ciglio dell’aspra strada di campagna. Sembra un essere dormiente, sembra serrato in non si sa quale suo cruccio, ed allarga, sul terreno diseguale, la sua ombra fresca e ferma. Si passa, di solit, vicino ad un albero, lo si sfiora, ci si appoggia a lui, si gode della sua ombra, quasi sempre senza pensare che vive come noi. (C. Allori)

Dettati ortografici LA FESTA DEGLI ALBERI – Rispettate gli alberi
Rispettate gli alberi per il verde delle loro foglie, per il profumo dei loro fiori, per la bontà della loro frutta, per la delizia della loro ombra. Rispettateli perchè sono amici dell’uomo, perchè rendono più bella la campagna, perchè proteggono gli uccellini.

Dettati ortografici LA FESTA DEGLI ALBERI – L’albero
Quando in un lontano giorno il seme cadde in terra e germogliò, la radice era soltanto un filo che succhiava; guarda che cosa è diventato quel filo: braccia nerborute di gigante che non mollano la presa. Guarda il tronco: era uno stelo sottile, verde, debole. Si piegava ad ogni soffio di vento. Ora è diventato una colonna, bella, diritta, solida.

Dettati ortografici LA FESTA DEGLI ALBERI 

Gli alberi, oltre ad essere belli e a rendere suggestivo il paesaggio, sono utili all’uomo. Tutti conoscono i prodotti degli alberi da frutto, necessari alla nostra alimetazione, tutti sanno che dall’albero si ricava il legname così utilizzato dalle industrie, ma bisogna anche sapere che l’albero ci è utile con la sua sola presenza perchè difende il terreno dalle alluvioni, perchè modifica il clima rendendolo più fresco e più salubre, perchè bonifica l’aria.

L’albero nella storia
Gli antichi amavano molto gli alberi. I Greci adoravano il dio Pan, nume dei boschi; i Romani il dio Silvano, simile, nell’aspetto, al dio dei Greci. Tutti i popoli germanici ritenevano sacri gli alberi e compivano i loro sacrifici e i riti religiosi nelle foreste, presso una quercia.

L’albero
L’albero si incontra in ogni regione del mondo nelle sue diverse specie e varietà, ed è prezioso per i suoi prodotti e per l’influenza che esso ha sulla temperatura dell’ambiente e sulla vita stessa dell’uomo. Vi sono alberi da frutto, peschi, peri, meli, susini, ciliegi; alberi che danno ottimo legname utilizzato nelle industrie, alberi che, come l’olivo, ci forniscono un ottimo condimento per i nostri cibi.

Parla l’albero
Sono nato da un piccolo seme, che un vecchio piantò nella terra; l’uomo sapeva che non mi avrebbe visto crescere, ma pensò ai figli dei suoi figli. Crebbi esile pianticella prima, poi tronco robusto e vigoroso. Invano il vento si accanì contro di me. Opposi alla sua forza la mia chioma rigogliosa e, con i miei fratelli, difesi dal turbine il paesello che stava sotto la mia protezione.

I boschi
I boschi abbelliscono il paesaggio e lo rendono più suggestivo. Ma soprattutto, influiscono sul clima mitigandone il calore. Inoltre, gli alberi si oppongono efficacemente alla violenza dei venti e, trattenendo le acque, alimentano le sorgenti. Le radici impediscono lo scoscendamento del terreno ed evitano le frane. Gli alberi sono altresì di ostacolo alle valanghe a cui oppongono la resistenza dei loro tronchi proteggendo la zona anche dalle inondazioni.

Il culto degli alberi
Fin dalla più remota antichità, gli alberi sono sempre stati sacri all’uomo e i grandi poemi, testimonianze delle prime civiltà, lo provano. Gli antichi Romani avevano il fico ruminale, perchè la leggenda diceva che sotto ad esso erano stati trovati Romolo e Remo. La pianta più cara ai Latini era la quercia, anche perchè si cibavano delle sue ghiande. La palma era l’albero sacro dei Fenici e dei Cartaginesi, l’olivo dei Greci, il tiglio dei popoli germanici, la vite degli Indo-Persiani. (A. Beltramelli)

I nemici dell’albero
L’albero va curato come tutti gli esseri viventi. Le intemperie, gli insetti ed altri animali possono essere i suoi nemici. Gli insetti ne bucherellano la corteccia, vi scavano delle lunghe gallerie e ne divorano le foglie, i frutti e anche l’interno dei tronchi. Le intemperie possono spezzare rami, strappare foglie, schiantare tronchi. Anche le capre possono essere dannose agli alberi. Esse possono arrampicarsi sui dirupi arrivando così a brucare i giovanissimi arbusti di cui divorano le gemme.

L’albero
L’albero giovane è come un bambino. Quando il sole lo riscalda, nella tiepida primavera, apre le gemme, mette le prime foglie e diffonde intorno a sè la stessa dolcezza che viene dagli occhi dei bambini. In seguito, l’albero acquista vigore, e spande i suoi rami, si riveste di foglie e mormora e freme, e canta quando il vento soffia. (F. Ciarlantini)

Gli alberi
Come sono belli, alti e fronzuti, diritti contro il vento che li scuote! Gli alberi danno la bellezza ai luoghi dove crescono, danno la salute perchè purificano l’aria, proteggono il paese perchè trattengono le acque dirompenti che porterebbero la rovina. Rispettiamo gli alberi, i giganti della montagna, che ci danno soltanto bene.

Rispetta l’albero
L’albero si può danneggiare incidendo la sua corteccia, troncando i rami, legandolo troppo stretto e piantando chiodi nel suo tronco. Si difende curando le sue ferite, e cioè otturando le cavità con gesso o altro, sostenendolo con pali durante la crescita, proteggendolo dall’opera nefasta degli insetti. Proteggi l’albero e l’albero ricambierà le tue cure dandoti ombra, i suoi frutti e il suo legno.

Il bosco
Le piante crescono invadendo il regno dell’aria coi robusti polloni e penetrando la terra con le grosse radici: i rami si dividono, si moltiplicano, scendono, fanno capolino dappertutto: sono brune in cima, pallide in basso, e offrono tutte le più delicate tinte al verde da quello opalino, trasparente, pallido, sino al vigoroso e forte che quasi sembra nero. Il sole manda negli interstizi certi raggi sottili che paiono capelli biondi luminosi, getta in terra tanti cerchietti lucidi che sono la sua piccola e ridente immagine; la luce è buona e dolce nel bosco. (M. Serao)

Rispetta gli alberi
Gli alberi rendono l’aria pura e balsamica; le radici, affondando nel terreno, impediscono che l’acqua trascini con sè la terra fertile. Se tu trovi una fresca sorgente nel bosco, lo devi in parte, anche agli alberi che con le loro radici trattengono il terreno e con questo l’acqua. Invece del torrente rovinoso, hai lo zampillo che dà origine al limpido ruscello.

L’albero e gli uccelli
All’uscita del campo e della foresta, che era autunnalmente spoglia e aperta alla vista, come se fosse stato spalancato un portone per dare accesso alla sua vacuità, cresceva bella e solitaria, unica, fra gli alberi, ad aver conservato il fogliame intatto, una rugginosa, fulva pianta di sorbe. Cresceva su un rialzo fangoso del terreno e protendeva verso l’alto, fino al cielo, nella plumbea oscurità delle intemperie che precedono l’inverno, i piatti corimbi delle bacche indurite. Gli uccelli invernali dalle penne chiare come le aurore del gelo, fringuelli e cinciarelle, venivano a posarsi sul sorbo, beccavano lentamente , scegliendole, le bacche più grosse e, sollevando i capini, allungando il collo, le inghiottivano faticosamente. Fra gli uccelli e l’albero s’era stabilita una sorta di viva intimità. Come se il sorbo capisse e , dopo aver resistito a lungo, si arrendesse, cedendo impietosito: “Che posso fare per voi! Ma sì, mangiatemi, mangiatemi pure. Nutritevi.”. E sorrideva. (B. L. Pasternak)

Conoscere le piante
Avete mai pensato solo per un momento a quello che gli alberi rappresentano ancora oggi per noi?
Guardate, ecco, ho una matita in mano: la grafite è chiusa nel legno. Di quale legno? Si sa tutti che il legno è fornito dagli alberi, ma qual è l’albero che ha fornito questo particolare legno di grana fine, senza fibre, facile da essere tagliato, adatto, insomma, a fare matite? Forse nessuno di voi immagina che sia un ginepro della Virginia, il Red Cedar degli Americani, importato in Inghilterra nel 1600 e oggi coltivato proprio per questo uso industriale.
Per matite meno costose si adoperano anche il legno di ontano e di tiglio, che sono alberi caratteristici del nostro paese.
Scrivo su della carta, naturalmente, come su della carta fate ogni giorno i compiti di scuola. La carta di che cosa è fatta? Di stracci. Sì, anche, ma soprattutto di legno, preparati convenientemente, ridotto in pasta e poi steso. I migliori legni per fare ciò sono quelli di abete e di pioppo.
Un albero così simpatico, dalle foglie che si agitano al vento sui lunghi peduncoli, dai tronchi chiari e di così rapida crescita.
Oltre alla cellulosa per la carta, il legno per i fiammiferi, quante ne sono le utilizzazioni: pali, imballaggi, tutto ciò che richiede un legno leggero, unito, facile da lavorare e, naturalmente, anche i mobili. Tutti sappiamo che tavoli, armadi, sedie, poltrone sono di legno di vari tipi, lucidati o verniciati, oltre che di pioppo sono fatti di abete, di quercia, di noce, di castagno. Il mio tavolo, per esempio, ha il piano in compensato di quercia.
Che cos’è il compensato? E’ un procedimento moderno per cui si ottengono fogli di vari spessori di sottilissimi strati di legno pressati e incollati insieme, e che offrono il vantaggio di essere leggeri, resistenti, e possono essere utilizzati nei modi più vari.
Mentre il grande scrittoio giù a casa di mio nonno è un solido pesante tavolo di noce massiccio, ben levigato e costruito a regola d’arte, come si faceva cento anni fa, e che ha la durata di parecchie generazioni. Un mobile signore, dunque, benchè di forma che noi può non piacere più.
E la seggiola su cui siedo? E’ di acero chiaro, fresco, leggero, piacevole alla vista e al tatto.
Sicuramente sarete stati a sentire un concerto. Ebbene, davanti a quella massa di lucenti violini, vi siete domandati qual è il legno sonoro, meraviglioso, che diede la possibilità ai liutai di Cremona di costruire i loro famosi strumenti ricercati in tutto il mondo? Anch’esso è l’acero.
Ogni giorno si adoperano tanti oggetti e utensili comuni, anche esteticamente così poco interessanti, ma così utili, ormai fissati nelle loro semplici forme, perchè le migliori, da generazione a generazione, e tutti di legno o in parte di legno. Mestoli per esempio, e ciotole per la cucina, e s manici di martelli o di cacciavite, e casse nelle quali vengono spedite le merci, dalla frutta alle conserve. Oggetti rozzi, eppure son fatti di faggio, uno degli alberi più belli delle nostre montagne, che da tempo immemorabile vive sul nostro suolo.

Dettati ortografici LA FESTA DEGLI ALBERI

Tutte le opere  contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. 

Dettati ortografici sugli ALBERI

Dettati ortografici sugli ALBERI – Una collezione di dettati ortografici sugli alberi per la scuola primaria, di autori vari.

La quercia
La quercia è un albero rude e forte, che si innalza lento, vestito di una scorza ruvida, ma che custodisce un legno che dura in eterno e resiste alle insidie del tempo. Quando la quercia è ancora giovane, è un albero come un altro. Non diventa bella che quando ha mezzo secolo, e con gli anni va sempre crescendo la maestosità del portamento, la frondosità dei rami, la densità delle sue fresche ombre. La quercia è nel fiore della sua bellezza quando conta almeno un secolo di vita, ed è bellissima quando è tre, quattro volte centenaria. (P. Mantegazza)

Alberi di montagna in primavera
Anche gli alberi si vestono a festa! In basso, sulle prime pendici, ecco gli alberi da frutta, spogli da alcune settimane della neve invernale, rivestirsi d’un’altra neve, quella dei loro fiori. Più su, i castagni, i faggi, i diversi arbusti, si ricoprono delle loro foglie dal verde tenero e da un giorno all’altro par che la montagna si sia rivestita con un meraviglioso drappo, in cui il velluto si mescola con la seta. (G. Reclus)

Il mandorlo fiorito
Quale miracolo è mai avvenuto questa mattina? E’ caduta una neve odorosa oppure miriadi di farfalle si sono posate sui rami del mandorlo?
Pur ieri l’alberello era nudo e freddo. Ma stanotte, all’alito dei venti, esso è sbocciato, è fiorito; s’è ricoperto di candide ali, di mille stelline.
Sembra cosparso di fior di farina soffice e fragile con lievi riflessi di rosa.
Gli occhi restano beati a mirarlo; ed intanto, nel cuore, passa nascosto il primo soffio della primavera. (F. Lanza)

Una gemma si apre
Osserviamo le gemme del castagno: al centro, la bambagia avvolge le sue tenere foglioline; all’esterno una solida corazza di scaglie disposte come le tegole d’un tetto, le chiude strettamente. Le parti dell’armatura scagliosa sono incatramate con un mastice che, simile a vernice disseccata, diventa molle, in primavera, per permettere alla gemma di schiudersi. Le scaglie, non più incollate fra loro, si allargano vischiose, e le prime foglie si spiegano al centro della loro culla socchiusa. (H. Fabre)

Ciliegio in fiore
L’albero era sino a ieri nudo; nudo nel tronco, nei rami qua e là contorti dall’aspro battere del vento. Cosa sarà accaduto perchè, stamane, io abbia visto invece dell’albero, una nube bianca fatta tutta di fiori stretti così fittamente gli uni agli altri da formare una cosa sola, impalpabile, quasi aerea, attraverso la quale non mi riesce più di distinguere nè rami, nè tronco? (A. Anile)

La prima fogliolina
Nessuno s’è trovato mai davanti a un albero nel momento preciso in cui spunta la prima fogliolina. Tutti abbiamo questo desiderio perchè ci piacerebbe tanto poter dire: “Sono io che quest’anno ho visto per primo la primavera”. Ma, dopo aver tanto atteso, una mattina ci alziamo, scendiamo giù in cortile, e vediamo che le foglie sono già tutte spuntate. (Giovanni Mosca)

Il mandorlo frettoloso
Un mandorlo frettoloso ha già spiegato al solicello la sua bianca fioritura; non gli importa se una brinata farà cadere troppo presto quella bella veste; come sempre, vuole essere il primo ad annunciare la primavera!
I meli, i peri, i peschi, più prudenti, rimangono indietro. (G. Fanciulli)

Gli aranci
In primavera, la Sicilia odora di zagare dalla Punta del Faro alla Conca d’Oro, dall’Agro trapanese a quello di Catania. Nei mattini tersi, nelle serene notti di luna, la soavissima fragranza dei sui venti, si diffonde sin nei più interni quartieri delle popolose città dell’isola e pare che ogni casa abbia un arancio fiorito davanti alla porta. Migliaia di aranci intanto costellano le distese degli aranceti siciliani. Quelle migliaia di piccole sfere, nelle cupole dei fitti e slanciati alberi, sembrano granelli di sole splendenti. (G. Patanè)

Il castagno

Il castagno, per l’alto valore nutritivo dei suoi frutti, è considerato l’albero del pane delle nostre montagne. Esso alligna tra i 400 e i 1000 metri d’altitudine. Il castagno giovane ha un tronco diritto e liscio, color bruno chiaro; il castagno vecchio è ricoperto di una corteccia bruna e screpolata. Di solito questa pianta raggiunge i dieci metri d’altezza, ma qualche castagno gigante può raggiungere anche i trenta metri. Le foglie, a punta di lancia e con il margine seghettato, sono lunghe quindici, venti centimetri. Il castagno fiorisce in maggio – giugno. I suoi fiori sono di due specie. Alcuni sono ricchi di  polline giallo; quando questo viene portato via dal vento i fiori seccano e cadono. Altri fiori invece ricevono il polline trasportato dal vento e dagli insetti, si ingrossano e diventano castagne. Il frutto matura da settembre a novembre. Il riccio è la buccia verde e spinosa in cui sono racchiude una, due o tre castagne.

La palma

La palma esiste fin dai tempi preistorici in alcune zone dell’Africa e dell’Asia. Fuori da queste regioni o non fiorisce o non fruttifica, è unicamente ornamentale.
Si trova infatti anche in Italia, ove fu importata dagli Arabi.
La foglia della palma fu simbolo di vittoria: i trionfatori romani usavano fare il loro ingresso solenne in Roma con un ramo di palma in mano. Essa è pure simbolo di fede.

L’olivo

L’albero dell’olivo è sempre stato considerato con grande rispetto: esso è infatti simbolo di pace, di bellezza, di sapienza. Due colombe che tenevano nel becco un ramoscello di olivo annunciarono a Noè la fine del diluvio. Nelle religioni greca e romana l’olivo era sacro ad Atena e a Minerva. In Grecia i vincitori dei giochi olimpici venivano incoronati con rami di olivo e di palma. E ancora oggi l’olivo è simbolo di pace.

 

Fioritura

Il mandorlo si è tutto magnificamente coperto di fiori biancorosei, che brillano al nuovo sole come gemme cristalline e fragranti.
Le margheritine silenziose e tranquille tremolano in bianca folla al tiepido vento. La giunchiglia piega sul gracile stelo il velato suo calice. Persino nelle lande più pietrose e deserte, qualche fiore solitario apre all’aria nuova le sue tre o quattro foglioline, soffuse di un pallido rosa, o venate di tenui righe violacee.
In ogni albero canta un nido e in ogni cuore resuscita una speranza. (E. Nencioni)

Un piccolo vandalo

Luigi non ama gli alberi. Uno dei suoi passatempi preferiti, quando va a giocare nel prato, è quello di incidere nel tronco delle sue vittime arboree disegni e messaggi che salutano la sua squadra di calcio preferita. Le piante non sopportano scherzi del genere; la corteccia salta via a pezzi strappata dal temperino di Luigi. Il povero albero soffre, proprio come soffriremmo noi se ci strappassero la pelle a pezzetti per incidere dentro un bel disegno. (M. Bettini)

Il bosco

Qui la vegetazione è libera; le piante crescono invadendo tutto e penetrano la terra con robuste radici. Le fronde salgono, scendono, si dividono, si moltiplicano liberamente; offrono le più delicate tinte del verde; da quello opalino trasparente, pallido, sino al vigoroso e forte che sembra quasi nero. Giungono odori forti e sani: i profumi che esalano quegli alberi meravigliosi, i rigogli della loro gioventù, i succhi di vita che salgono in essi e rompono la corteccia.
Quiete stupenda in tanta vitalità, sicurezza profonda in tanta libertà. (M. Serao)

L’albero di sera

C’è un pino in cui di notte si raccolgono a dormire i passeri. Ma ci sono tanti alberi che servono da albergo agli uccellini! Vi è mai capitato di osservare a sera, quando essi giungono da tutte le parti e pare che affondino nell’albero ospitale? Un gran frastuono, pigolii, cinguettii… al più piccolo rumore silenzio improvviso.
Poi di nuovo il frastuono dell’albero immobile, sì che pare da sè cinguetti. (G. Pascoli)

Il platano

Era mezzogiorno d’estate. Due viaggiatori camminavano sotto il sole ardente. Erano stanchi, accaldati. Scorsero un platano e con un sospiro di sollievo si rifugiarono e si sdraiarono alla sua fresca ombra. Riposavano e intanto guardavano su trai rami frondosi. Disse uno dei due al compagno: “Ecco un albero sterile e inutile all’uomo”. L’altro approvò. L’albero prese la parola e li rimproverò: “Come? Proprio mentre godete dei miei benefici mi trattate da sterile e da inutile?”. (Esopo)

Il pioppo

Il pioppo è uno degli alberi più belli della nostra zona temperata. Alto, snello, robusto, si lancia in alto, diritto come un cipresso, ma non mai triste e severo come lui. I suoi filari non guidano al cimitero, ma fanno da lieti colonnati ai fiumi ed ai canali, diritti come sentinelle. (P. Mantegazza)

Il ciliegio

La frutta saporitissima che viene raccolta a ciocche, a mazzolini caratteristici anche per il vivo colore, è la ciliegia.
L’albero, il ciliegio, fu importato in Europa dall’Asia Minore. Spesso arriva fino a venti metri di altezza. Il tronco del ciliegio è robusto e coperto di corteccia bruno – rossastra. La chioma è tondeggiante. Le foglie sono ovali, larghe, lucide, doppiamente seghettate, tinte di un verde assai scuro.
I fiori, a mazzetti bianchi, profumati, si sviluppano numerosissimi in primavera: l’albero, a distanza, tutto bianco, sembra quasi coperto di neve.

Alberi da frutto
I prodotti degli alberi sono noti. Innanzitutto la frutta. E’ la cosa più evidente. Vediamoli un po’ da vicino questi alberi da frutto: sono meli, peri, ciliegi, susini, peschi,… Facendo ricerche nell’ambiente, i bambini saranno in grado di descrivere questi alberi e i loro prodotti. In autunno sarà facile osservare il castagno e l’olivo che ci danno i loro prodotti. L’albero si incontra pressochè in ogni regione del mondo, nelle sue diverse specie e varietà, ed è prezioso per i suoi prodotti e per l’influenza che esso ha sulla temperatura dell’ambiente e sulla vita stessa dell’uomo.
Affonda nel terreno le sue robuste radici, eleva il suo tronco rivestito di una corteccia rugosa, e si espande in alto con i rami rivestiti di foglie le quali formano la chioma.

Gli alberi nella storia
Gli antichi amavano molto gli alberi. Nei tempi più remoti, si usava seppellire i defunti alla radice dell’albero, con la convinzione che essi sarebbero risorti nel tronco e nelle foglie. Questa pratica era in uso fino a poco tempo fa in Giappone dove si credeva che in alcuni alberi fossero rinchiusi gli spiriti degli eroi nazionali sepolti al loro piede. Usanze simili si riscontrano tuttora presso alcuni popoli primitivi d’Africa e d’Asia.
I Greci adoravano il dio Pan, nume dei boschi. Essi lo raffiguravano incoronato di rami di pino, con le orecchie dritte, in mano un bastone da pastore e il fianco sinistro coperto da una pelle di daino.
I Romani adoravano il dio Silvano dall’apparenza simile a quella di Pan. Essi credevano che negli alberi fossero ospitate le Ninfe, divinità considerate come forme ed energie della natura.
Tutti i popoli germanici ritenevano sacri gli alberi e compivano i loro sacrifici e i riti religiosi nelle foreste, presso una quercia, ritenuta simbolo della divinità.

Boschi e macchie
Gli alberi possono ergersi isolati oppure riuniti in gran numero in un’estensione che generalmente si chiama bosco. Più precisamente prende il nome di foresta quando è formata da alberi di alto fusto, selva quando ha un’estensione minore della foresta, macchia quando è una radura disseminata di alberi. I boschi possono essere costituiti da piante a foglie larghe o a foglie minute, o come si dice aghiformi. Molti dei primi si spogliano della loro vegetazione in autunno; gli altri sono nella maggior parte delle specie sempreverdi.
A seconda degli alberi che lo compongono, il bosco può assumere diverse denominazioni: querceto, faggeto, pineta, abetaia. Si chiama ceduo il bosco sottoposto a taglio periodico.

 

Utilità degli alberi
I boschi non soltanto abbelliscono il paesaggio, elemento questo niente affatto da trascurare, ma influiscono sul clima mitigando il calore. Inoltre, gli alberi si oppongono efficacemente alla violenza dei venti e alimentano le sorgenti. Le radici impediscono il franamento del terreno ed evitano le frane. Gli alberi sono di freno alle valanghe a cui oppongono la resistenza dei loro tronchi e proteggono dalle inondazioni in quanto, con le loro radici, consolidano il terreno e impediscono l’infiltrazione rapida delle acque nel sottosuolo. Inoltre, com’è funzione di tutte le piante, durante il giorno esse assorbono anidride carbonica ed emettono ossigeno e quindi rendono l’aria più salubre.

Gli alberi non crescono ugualmente in tutte le zone. A seconda degli alberi che vi prosperano si possono distinguere quattro zone in Italia.

Vi è la zona calda, denominata anche zona dell’ulivo dove, oltre all’ulivo crescono la quercia da sughero, il leccio, il carrubo, il pistacchio, il pino da pinoli, il pino marittimo, il cipresso e l’eucalipto.

Nella zona temperata, o zona del castagno, abbiamo oltre al castagno due specie di quercia, il cerro e il rovere.
Nella zona fredda o zona del faggio (fino a 1200 metri) crescono la betulla, l’ontano e il tiglio.

Nella zona rigida o zona delle conifere, troviamo l’abete rosso e il larice.
Le conifere hanno, in particolare, la proprietà di rendere l’aria balsamica e pura. Sono alberi che hanno il frutto a cono (pino, abete, …) comunemente detto pigna. Il pino, nelle sue diverse specie, si può trovare tanto in montagna che in riva al mare. In quest’ultimo caso si tratta del pino marittimo; l’altro è il pino a ombrello. Facendo un’incisione nel tronco di quest’albero, si vedrà gocciolare una sostanza attaccaticcia e profumata, la resina, che è utilizzata in varie industrie. Mescolata a nero fumo forma la pece dei calzolai; la si usa nei fuochi d’artificio e per rendere più vibranti le corde del violino; e nella fabbricazione dei balsami.

Il tronco del pino, così alto e diritto, viene utilizzato per fare gli alberi delle navi.
L’olmo, l’ontano e il pioppo ci danno la cellulosa, ampiamente usata nelle più svariate  industrie, come la fabbricazione della carta, della stoffa e perfino degli esplosivi.

Il legno dell’ontano che, crescendo vicino all’acqua è molto resistente all’umidità, viene utilizzato per i pali delle palafitte. Dalla corteccia di quest’albero si ricava il tannino, sostanza colorante usata in tintoria.

L’età degli alberi
Gli alberi possono raggiungere anche migliaia e migliaia di anni di vita. In Sicilia esiste ancora il castagno dei cento cavalli, chiamato così perchè, secondo la tradizione, Giovanna d’Aragona, sorpresa dalla tempesta, si rifugiò sotto la sua chioma con cento cavalieri del seguito. Pare che questo immenso albero abbia almeno quattromila anni!
A Somma Lombardo esiste un cipresso che si dice abbia duemila anni.
L’età di un albero si può constatare soltanto quando l’albero è abbattuto. Infatti, poichè il tronco aumenta di solito di uno strato all’anno, contando in un tronco tagliato questi strati, che sono disposti in cerchi concentrici, si può sapere approssimativamente quanti anni è vissuto l’albero.

Il papiro
L’albero che permise agli uomini di scrivere è il papiro. Il papiro è una grande erba perenne acquatica, con radice sotterranea strisciante, dura e carnosa. Il fusto esterno, triangolare, si erge diritto da due fino a cinque metri, e termina con chioma a ombrello: una specie di piumino.
Oggi il papiro si trova con maggiore facilità e diffusione, ma è meno cercato. Lo si trova in Palestina, in Africa, a Malta, ed anche in Sicilia presso Siracusa, dove lo trapiantarono gli Arabi.
Gli antichi trassero dalla corteccia del papiro un foglio largo, lungo e sottile, molto pieghevole, su cui poterono scrivere. Il papiro deve considerarsi quindi come una specie di “albero della scienza” poichè alla sua corteccia furono affidati, fino dall’alba della civiltà, i pensieri dell’uomo, le sue idee storiche, letterarie, artistiche, scientifiche. (G. Bitelli)

Sugli alberi
Il nostro giardino era pieno d’alberi. C’era un ippocastano rosso con due rami a forca che per salire bisognava metterci dentro il piede, e poi non potendolo più levare ci lasciavo la scarpa. Dalle ultime vette vedevo i coppi rossi della nostra casa, pieni di sole e di passeri. C’era una specie d abete, vecchissimo, su cui si arrampicava un glicine grosso come un serpente boa, rugoso, scannellato, storto, che serviva magnificamente per le salite precipitose quando si giocava a nascondersi. Io mi nascondevo spesso su quel vecchio cipresso ricco di cantucci folti e di cespugli, e in primavera, mentre spiavo di lassù il passo cauto dello stanatore, mi divertivo a ciucciare la ciocca di glicine che mi batteva fresca sugli occhi come un grappolo d’uva. (S. Slataper)

Il re delle Alpi
Il larice viene definito il re delle Alpi. E’ un albero maestoso che può raggiungere i 50 metri di altezza; il suo legno duro e resistentissimo viene usato soprattutto per le costruzioni navali. E’ una delle poche conifere che perdono le foglie durante l’inverno. E’ l’albero più tipico delle nostre Alpi, dove forma grandi boschi e si trova fino a 2200 metri di altezza. Altri alberi che popolano le nostre montagne sono il pino, l’abete e il faggio.

 

Proteggiamo l’albero
I boschi sono affidati alla protezione dello Stato il quale soltanto ne può consentire l’abbattimento. Per questo, esiste uno speciale corpo di Guardie Forestali che hanno l’incarico non soltanto di difendere gli alberi dal vandalismo degli uomini, ma di curarli perchè non deperiscano e di ripopolare, mediante appositi vivai, le zone che ne sono sprovviste.

Ma la difesa dell’albero è affidata soprattutto al senso civico di ogni cittadino che deve apprezzare gli alberi non soltanto per il guadagno che ne può ricavare, ma anche perchè proteggono la salute, rendono bello il paesaggio, oppongono una valida difesa contro i pericoli delle alluvioni e delle valanghe.
Come si può danneggiare un albero? Non soltanto con l’abbattimento, il che produce un danno definitivo ed irraparabile, ma anche strappando i rami senza discriminazione, scortecciando i tronchi, piantando chiodi sul tronco o stringendolo con fili di ferro. Tutti questi traumi possono danneggiare la salute dell’albero e causare anche la sua morte.

L’albero va curato come tutti gli esseri vivi. Gli insetti, le intemperie, alcuni animali possono essere i nemici dell’albero. Gli insetti ne bucherellano la corteccia, scavano sotto di essa lunghe gallerie e pur così piccoli come sono, possono provocare la morte dell’albero in brevissimo tempo. Anche le capre sono nemiche dell’albero. Infatti esse brucano anche i teneri germogli dei rami. Animali del bosco, come scoiattoli, ghiri ed altri, rodono talvolta anche la corteccia, causando danni rilevanti a questi giganti che non possono opporre nessuna valida difesa contro i loro dentini implacabili.

Il sottobosco
Non dimentichiamo il sottobosco e quello che esso ci fornisce: funghi, fragole, lamponi, mirtilli. Anche questi prodotti minori della foresta hanno il loro valore tanto più che non implicano spese di sorta.

Guarda da vicino un albero
Guarda da vicino un albero: vedrai tante cose che neppure immaginavi e rimarrai stupito. Guarda le sue radici, o almeno quello che affiora di esse. Sono grosse, nodose, capaci di sollevare la durissima crosta della terra. Se il vento tira forte e vuol sradicare l’albero, non può; ci sono le radici che tengono il tronco saldamente piantato sul terreno e il vento si sforza e ulula in una vana rabbia.

Quando il seme cadde in terra e germogliò, la radice era soltanto un filo che succhiava; guarda che cosa è diventato quel filo: braccia nerborute di gigante che non lasciano la presa.
Guarda il tronco. Era uno stelo sottile, verde, debole. Si piegava a ogni soffio di vento. Ora è diventato una colonna, bella, diritta, solida. Colui che per primo fabbricò una chiesa coi suoi colonnati e i suoi pilastri e le sue volte profonde, si ispirò agli alberi di un bosco.

Una corteccia dura, legnosa, ruvida, copre questo tronco diritto. La pioggia l’ha gonfiata, il vento l’ha screpolata, gli insetti l’hanno percossa, sforacchiandola da tutte le parti; sembra una cosa insensibile, tanto è ruvida, rozza, eppure, se la ferisci col tuo coltellino, se ne stacchi un pezzo, da quella ferita gemerà il sangue dell’albero, e l’albero, indifeso, in quel punto sarà alla mercè della tempesta e del freddo e se non correrà ai ripari potrà anche morire per quella ferita che tu hai inferto alla corteccia che lo proteggeva.

La ferita si rimarginerà, ma rimarrà un gonfiore scabro che non se ne andrà più. Quel gonfiore scabro è la cicatrice, il ricordo del dolore che egli ha sofferto.
Guarda i rami. Sono come grandi braccia che si tendono per proteggere. Proteggono tutto ciò che si rifugia sotto di essi: il coniglio pauroso che si nasconde nell’ombra, l’uccellino che vuol dormire. Proteggono anche te che cerchi ristoro al solleone. E il vento va ad infrangere la sua violenza contro la chioma ampia del bell’albero grande.

Guarda la foglia. E’ così delicata nella sua nervatura che sembra un ricamo. Guardala contro luce; nessuno saprebbe fare una cosa delicata e perfetta come la gemma, che meraviglia! La gemma, dentro, è un astuccio di velluto, e fuori è impellicciata come una bambina freddolosa. L’acqua e il freddo non riescono a penetrare nell’interno e, se è necessario, la gemma si riveste di resine e di cera o, magari, di una crosta dura come il metallo. A lei è affidato il tesoro dell’albero che è anche il suo avvenire: la foglia, il fiore, il frutto.

Il fiore si apre, così rosato e lieve che sembra quasi impossibile sia potuto sbocciare da un ramo tanto duro e ruvido. Fa la stessa impressione della mano morbida di un bambino posata sulla guancia rugosa del nonno. Ma i fiori degli alberi durano poco: oggi li vedi, domani non li vedi più. C’è solo una sfiorita di petali per terra. L’albero ha fretta: deve preparare i suoi frutti, prima verdi, duri, informi, poi grossi, rotondi, morbidi e coloriti che sembrano messi lì apposta per bellezza, come si mettono le palline lucide e sono felice.

Ecco, tutto questo è l’albero; basta che lo guardi da vicino, tanto da vicino per sentire il suo grande cuore battere nel tronco ruvido, da sentire la sua linfa vitale frusciare lungo le sue vene generose.
(M. Menicucci)

La storia dell’uomo e del bosco
C’era un uomo che possedeva un bosco. Questo bosco era fatto di alberi alti e fronzuti, castagni, pini, lecci  e querce. A primavera pareva vivo: gli uccellini facevano il nido sui rami e svolazzavano di qua e di là, cinguettando. Fra le erbe ronzavano gli insetti e volavano le farfalle. C’era un bel fresco sotto gli alberi del bosco e in mezzo a quegli alberi l’uomo aveva la sua casa.

In autunno la famiglia andava a raccogliere le castagne e i bambini più piccoli cercavano i pinoli. Durante l’inverno, nel camino della casa, ardeva  un bellissimo fuoco che illuminava e scaldava. La famiglia mangiava la polenta e anche i funghi quando ne trovava. Qualche volta mangiava anche le salsicce perchè con le ghiande si poteva allevare un maiale grasso e bello.

Un giorno salì, fino al bosco, un tale che non si era mai visto. Disse all’uomo: “Volete vendere il bosco?”
L’uomo stette un pezzo a pensare, poi disse: “E io come camperò? Il bosco mi dà tutto: pane, companatico e la legna per l’inverno”.

L’altro si mise a ridere.
“Siete un uomo semplice che non farà mai fortuna. Quando mi avrete venduto il bosco, io farò tagliare gli alberi e li porterò con via. Voi sul terreno rimasto libero, potete seminare il grano e piantare le patate. Senza pensare che io vi darò molti milioni e con questi potrete spassarvela un bel po’.
L’uomo si mise a pensare ancora, poi disse: “Va bene, accetto. La cosa mi conviene”.

Dopo alcuni giorni vennero i boscaioli e cominciarono ad abbattere gli alberi. I grossi tronchi cadevano giù di schianto, con un gran frastuono di rami fruscianti; poi, con le mine, gli uomini fecero saltare le radici. Gli uccelletti fuggivano spaventati abbandonando i nidi. Anche le lepri scappavano e i conigli selvatici, le martore, le donnole e le faine.

“Non credevo che nel bosco ci fossero tanti animali!” diceva l’uomo meravigliato, e guardava i carri che portavano via, albero per albero, tutto il suo bosco. C’era rimasto solo un pino verde che pareva triste in tanta solitudine.

Il terreno restò sgombero e il sole, che ora spadroneggiava, seccò ben presto le erbe e i cespugli.
L’uomo si mise a vangare la terra e da boscaiolo si fece contadino. Seminò il grano e piantò le patate. Diceva: “Avremo un bel raccolto!”, ma la moglie non era contenta.

“Senza il bosco mi sento sperduta” diceva, “C’era una bell’ombra e un bel fresco. Ora la casa mi sembra senza difesa”.
I ragazzi, che non potevano più andare in cerca di castagne e di pinoli, furono mandati con un branco di tacchini e un piccolo gregge di pecore, in giro per la montagna.
Il raccolto fu buono. La terra grassa produsse molto grano e molte patate e nella casa del contadino sembrò entrare l’agiatezza.

Poi venne l’autunno e con l’autunno le piogge.
“Piove molto quest’anno” disse un giorno la moglie: “Piove più degli altri anni. Forse è perchè non ci sono più gli alberi”
“Stupidaggini” rispose il marito; “la pioggia viene dal cielo e gli alberi non c’entrano per niente”.
“Ma la pioggia viene giù a precipizio per il monte e si porta via la terra.”
Il contadino dovette convenire che era vero. L’acqua, non più trattenuta dalle grosse radici, lavava il terreno e se lo portava a valle.

“E’ una brutta storia” disse la moglie “Qualche anno così e non ci resterà più terra, soltanto roccia.
Intanto, a valle, il torrente gonfio rumoreggiava e il contadino seppe che gli abitanti del villaggio cercavano di rinforzare gli argini per paura delle piene.

L’inverno passò e fu  un inverno molto più freddo del solito. C’era poca legna e nella casa, non più riparata, il vento entrava da padrone. Finalmente venne la primavera e tutta la famiglia respirò di sollievo. Senza la protezione del bosco aveva passato delle brutte giornate.

Il contadino aveva seminato anche stavolta grano e patate, ma il terreno, lavato dalle piogge, non era più fertile e ricco come prima. Il raccolto fu scarso. Il sole che batteva a piombo seccava anche le erbe e il gregge trovò poco da pascolare.
“Non so com’è” diceva la donna, “Ma quando c’erano gli alberi si stava meglio. L’aria era più fresca e più buona e i ragazzi erano pieni di salute. Ora sono pallidi e meno forti. E poi, tutto era più bello. Se ne sono andai anche gli uccelli.

Infatti, nelle ore calde, non si sentiva nemmeno un cinguettio, solo il falco roteava in alto silenziosamente.
Tornò l’inverno e con l’inverno la neve. La famiglia si chiuse in casa per non soffrire il freddo.
Quell’anno la neve fu molta. C’erano dei mucchi alti che il vento spostava e faceva turbinare.
“Non mi piace questa neve” diceva la donna “Non ne ho mai vista tanta.”

L’inverno fu lungo e cattivo, ma finalmente si aprì, nel cielo, uno spiraglio d’azzurro. La donna respirò di sollievo. Arrivava la primavera.
Il contadino era pensieroso; le cose non andavano bene. Sotto la neve che si scioglieva non si vedeva la terra, ma la roccia. La terra se ne era andata a valle con la furia dell’acqua.
Una mattina, tutta la famiglia uscì dalla casa a prendere il primo raggio di sole. C’era ancora tanta neve che scintillava intatta.

Ad un tratto si sentì un rumore lontano. Pareva un muggito. La donna ebbe paura.
“Che cos’è?”
Il contadino tendeva l’orecchio. Anche le pecore erano inquiete e si accalcavano le une accosto alle altre, come se volessero sfuggire un pericolo.
L’uomo andò sopra un’altura e guardò lontano.
“Si vede un polverio bianco…”
Il rombo si faceva più forte; veniva dall’alto del monte.
“Andiamo via” disse l’uomo, “Andiamo a metterci al riparo di quei massi. Fuggiamo di qui, è troppo scoperto…”
Scapparono tutti meno le pecore chè non c’era tempo di radunarle.

Ora il rombo era forte e cupo e si avvicinava.
“La valanga!” gridò l’uomo diventando bianco di paura. E si prese i figlioli tra le braccia e si nascose con loro dentro una grotta.
Il turbine di neve si avvicinava con un rombo come il tuono. Ma non era tuono, il cielo restava sereno. Era una gran massa di neve che rotolava per il fianco della montagna, s’ingrossava lungo il cammino, schiantava, rovinava, travolgeva tutto al suo passaggio, non più arrestata dagli alberi che per tanto tempo le avevano sbarrato il passo.

Passò come un turbine, si scontrò con la casetta, la seppellì, la travolse, si perdette a valle con un muggito lungo e pauroso…
E la famiglia uscita salva dalla grotta, stava a vedere, piangendo, la rovina che la valanga si era lasciata dietro e pensava che se ci fossero stati gli alberi, quella rovina non sarebbe avvenuta…
(M. Menicucci)

 

Morte di un albero
La donna lavava i piatti con un gran ciabattare e scrosciare d’acqua. Il marito fumava, leggendo il giornale.
Era sera e faceva molto freddo. Brutta annata: gelate, tramontana, ventaccio e poca legna.
La donna era di malumore e brontolava.

“Con tanti alberi, qui nel viale, non si può avere un ciocco di legna da buttare sul fuoco. Qui signori del Municipio! Tutto per la bellezza del paese! Come se la bellezza si potesse mangiare!”
Il marito non diceva niente. Sapeva che la moglie bisognava lasciarla sfogare.

“Vorrei sapere che cosa ci stanno a fare quegli alberi sulla strada! Per dar fastidio! D’inverno ti levano la luce e d’estate ti coprono la finestra che non si può vedere neanche chi passa. C’è questo qui davanti poi, che è un castigo. Sembra che per i passeri non ci sia che quell’albero. Tutti lì, tutti lì, e la sera ti stordiscono per il chiasso che fanno e la mattina ti svegliano all’alba. E se per caso ti vien voglia di sederti all’aria fresca… sudicioni! L’altr’anno mi rovinarono il vestito nuovo!”

L’uomo fumava e taceva, ma gli si vedeva un risolino sotto i baffi.
“Tu ridi, eh, ridi! E non vedi che siamo senza fuoco? Lo sai che la legna è quasi finita e l’inverno è appena cominciato? Ridi, invece di procurarti un po’ di fascine e di ciocchi!”.

La donna tacque per riprendere fiato.
“Dimmi un po’” disse dopo un momento di silenzio “Non potresti tagliare qualche ramo?”
“Sì, per andare in prigione!” rispose, flemmatico, l’uomo.

“In prigione! In prigione ci manderei quei signori del Municipio che non sanno far altro che piantare alberi! E perchè, poi? Per scimmiottare la città. Sicuro! E intanto, la povera gente non ha nemmeno il sole, chè se lo ruban tutto loro, foglie e rami!”.

La donna gettò uno sguardo iroso fuori della finestra dove s’intravedeva la sagoma scura e stecchita del grande albero spoglio.
L’albero dormiva. Aveva perduto da un pezzo le foglie e ora si era chiuso tutto nella scorza dura per impedire che il gelo frugasse nelle fibre tenere e bianche.

Un sonno lungo, il suo, che cominciava ai primi freddi e finiva in primavera. Ma quanti sogni! Che cosa può sognare un albero? L’inverno che finisce e tutto e ancor freddo, immobile ma i rami cominciano a rabbrividire e, dentro, la linfa preme, gonfia la corteccia fin che la spacca e la gemma verde si affaccia per godersi il primo tepore dell’aria. Allora l’albero riviveva ed era una vita magnifica e possente. La linfa gagliarda andava su e giù finchè prorompeva in migliaia di germogli che scoppiavano da tutte le parti, si aprivano e mettevano le foglie, belle, grandi, lucide.

Passato quel primo tripudio di giovinezza in cui l’albero si sentiva un po’ pazzo, cominciava il lavoro calmo dell’estate.
Diventava bello. Chi si ricordava più di quello scheletro magro ed asciutto? Il vento giocava coi rami, li strapazzava un po’, ma rifaceva subito pace portando profumi e tepori. Il sole si divertiva a trapelare tra le foglie e a ricamarle d’oro fino.

E poi, i passeri. Pettegoli, prepotenti, che allegria mettevano nel vecchio tronco! Non ci facevano il nido, preferivano il tetto, più sicuro, ma il primo volo, ai piccini, glielo facevan fare lì, dal tetto all’albero, che li accoglieva tutto intenerito, poveri piccoli piumaccioli, morbidi, tondi e tanto felici!

Poi la sera, a nanna, fra i suoi rami. Che chiasso! La gente alzava la testa, sorridendo e qualcuno si divertiva a fare un colpo con le mani, forte. E allora tutto lo stormo scappava, spaventato e nell’albero si faceva un gran silenzio. Ma non avevano paura, fingevano soltanto; tornavano alla spicciolata perchè sapevano che era un gioco e ci si divertivano anche loro. E, dopo un momento, riecco il cicaleccio fitto fitto. Avevano tante cose da dirsi, la sera! Infine, pian piano, qualcuno, stanco, taceva. Stava un po’ zitto e raggomitolato, con gli occhietti semichiusi, poi, tutt’a un tratto, ficcava la testina sotto l’ala e buonanotte a tutti!

Questo sognava il grande albero, ma nessuno lo immaginava, vedendolo così cupo e immobile. Di che cosa si accorgono gli uomini, egoisti e meschini? Ma l’avrebbero lasciato vivere se non fosse stato per l’odio di una donna.

“Un mezzo ci sarebbe per far seccare l’albero!” disse l’uomo levandosi la pipa dai denti e sputando lontano.
La donna si fermò davanti a lui con le mani sui fianchi.

“Forse” riprese il marito “se l’albero seccasse, ci toccherebbe parecchia legna. Non per questa stagione, naturalmente, ma si potrebbe far provvista per l’inverno che viene. Non la porterebbero via tutta”.
“Parla dunque”
“In una sera di gelo, basta rovesciare, sulle radici dell’albero, un paiolo di acqua calda. Non so com’è, ma l’albero secca”.
Una luce cattiva passò negli occhi della donna.
“Ma io direi di farlo vivere” si affrettò a dire l’uomo, pentito di quanto si era lasciato scappare. “In fondo è un bell’albero e ha faticato per crescere”.

La donna non  lo  degnò di una risposta: prese il paiolo e andò a metterlo sul fuoco.
“Non ci pensi molto, tu” disse l’uomo andandosi a mettere davanti alla finestra. Gli dispiaceva d’aver parlato, ma non credeva che la moglie mettesse subito in atto il suo progetto. L’albero si levava nella notte come un fantasma nero. Un soffio di tramontana fece vibrare i vetri.
“Dove la trovi una notte più fredda di questa?” disse la donna “Vogliono gelare persino  i sassi della strada”. E alimentò il fuoco sotto il paiolo.
Il marito tacque. S’era pentito delle sue parole, ma ormai sapeva che c’era più nulla da fare. Aveva rimorso di veder uccidere deliberatamente l’albero che, infine, era una creatura viva. Poi pensò che, forse, quella poca acqua non sarebbe stata sufficiente ad uccidere un colosso così. La donna prese il paiolo, si ravvolse in uno scialle e scese nella strada.

Il cielo, scintillante di stelle, prometteva una gelata bianca come un sudario di morte.
L’albero si destò. Un’onda di tepore saliva lungo le sue fibre con una dolcezza primaverile. Stupì. Ad ogni suo risveglio era abituato a vedersi attorno una fioritura leggera e il cielo azzurro, tenero e soave. Invece era notte e tutto era nudo, scheletrito e deserto.

Ma il tepore persisteva e l’albero si rallegrò. Dilatò le sue fibre e lo accolse trepidante. Le radici, anch’esse improvvisamente rideste, si abbeverarono a quel calore dolce, fremendo.
Il tronco si scosse e aprì i suoi pori già serrati contro il gelo e il tiepido succo salì, ricercò la sua vita più profonda, la rianimò, diffondendo sotto la corteccia un benessere gaudioso. E per l’albero fu primavera.
Ecco, la sua rinascita cominciava. Il gelo delle sue membra si scioglieva, le ombre dei sogni fuggivano di fronte a questa magnifica realtà; l’albero si preparò a ricevere il nuovo, benefico afflusso di vita…
Una raffica violenta lo investì; rigida come una lama si infiltrò nelle fibre dilatate e indifese; lo frustò fino al midollo tenero e bianco, serrò in una morsa gelida le radici deste e vive, scosse i rami vibranti e li fermò in un abbraccio mortale…
Poi passò come un impeto di furia vittoriosa, oltre l’albero, che restò immerso in uno stupore desolato…
Il vecchio cuore, colpito dall’inganno, impietrì senza più vita.
Sopra un ramo, un passero pigolò piano, e nel sonno si scosse tutto rabbrividendo.
(M. Menicucci)

Le piante si difendono dalla siccità e dal freddo eccessivi, liberandosi delle foglie

La caduta delle foglie è un fenomeno che avrai osservato tante volte: è lo spettacolo suggestivo e poetico che l’autunno ogni anno ci offre.
Gli alberi restituiscono alla terra le loro verdi spoglie.
Nelle regioni a clima temperato, come l’Italia, la caduta delle foglie avviene ai primi freddi autunnali. In altri paesi delle regioni tropicali la caduta delle foglie coincide con l’inizio dell’estate.
Come mai le piante si comportano in così diversa maniera?
Non è il caldo o il freddo che direttamente fanno cadere le foglie. E’ un’altra la ragione. Tu sai che le piante traspirano attraverso le foglie, cioè eliminano vapore acqueo.
Nelle regioni tropicali il periodo estivo è caratterizzato dalla mancanza di piogge: le piante seccherebbero tutte se continuassero a traspirare regolarmente attraverso le foglie. Invece le lasciano cadere e passano il periodo di siccità in una specie di sonno estivo.
Nelle regioni temperate accade che all’inizio dell’autunno il freddo fa abbassare la temperatura del terreno: le radici delle piante, allora, non riescono più a trarre da esso quella quantità d’acqua di cui ha bisogno. Se la traspirazione delle piante continuasse normalmente, le piante seccherebbero completamente. E così, più o meno rapidamente, le piante si liberano dalle foglie.
In certe piante (faggio, nocciolo) la caduta delle foglie ha inizio dalla cima dei rami e va verso la base. In altri invece (tiglio, salice, pioppo) avviene il contrario: cadono prima quelle più in basso e poi quelle dei rami superiori.
La caduta delle foglie è certo una  perdita di sostanze per le piante: è un danno ma presenta anche dei notevoli vantaggi. D’altra parte la pianta, prima di perdere il suo verde manto, ha compiuto una… operazione di recupero delle cellule delle foglie: ha portato via amidi, zuccheri, grassi, li ha messi da parte nel tronco per utilizzarli poi in primavera per creare nuove e più giovani foglie. Ecco perchè le foglie, prima di cadere, cambiano colore e diventano gialle, o arancione o brune in infinite sfumature, creando con i loro colori il meraviglioso paesaggio autunnale. La pianta dunque cede alla terra solo gli scheletri delle foglie, ricche soprattutto di una sostanza, che si è accumulata durante l’estate, l’ossalato di calcio. Questa sostanza non solo non è più utile alla pianta, ma ne riuscirebbe dannosa, se la conservasse ancora.
La caduta delle foglie ha un po’ anche il compito di purificare la pianta e liberarla dalle sostanze inutili e dannosi: un’operazione simile  all’escrezione degli animali.
Le foglie cadute al suolo lentamente si decompongono e contribuiscono alla formazione dell’humus, che è un elemento fondamentale per la fertilità del terreno.
Come si staccano le foglie?
E’ forse il vento che le porta via con il suo gelido soffio?
Certo le foglie cadono più facilmente e rapidamente per lo stimolo di cause esterne; ma è la pianta stessa, che lavora per liberarsi delle foglie.
Essa forma sul picciolo delle foglie una specie di anello di cellule, che ha il compito di operare la separazione delle foglie dalla pianta.
Basta allora un alito di vento o il peso stesso delle foglie a determinarne la caduta.

Alberi nani

I giardinieri giapponesi sanno ottenere incantati giardini in miniatura, allevando gli alberi in piccoli vasi, ove vegetano lentissimamente per decine e decine di anni, assumendo l’aspetto di vecchie piante, pur essendo alte pochi centimetri. Per ottenere questo nanismo, si seminano in piccoli vasi i semi più piccoli delle piante in terriccio povero: le piantine vanno poco innaffiate e abbondantemente potate. La radice principale viene tagliata, le radici laterali vengono in parte scoperte. Si cerca di dare alla pianta la forma di un vecchio albero con tronco e rami tortuosi. Un tale ricorda di aver osservato in Giappone una pianta di ciliegio, che aveva l’età di centocinquanta anni. A questo tipo di allevamento si presta bene l’albero della canfora, con foglie alterne sempreverdi, picciolate ovali, a fiori piccoli e biancastri; così pure il cedro, resinoso, dal caratteristico odore aromatico, la quercia e l’albero del pane, dai cui frutti si ricava un lattice, che col calore si rapprende formando una specie di pane, commestibile.

Albero tuttofare

Un europeo viaggiava per i paesi dell’India meridionale sotto un sole implacabile, quando, stanco e spossato per il lungo cammino, decise di bussare ad una solitaria capanna circondata da altissime palme di cocco. L’ospitalità dell’indiano fu veramente squisita: per prima cosa gli offrì una bibita dissetante affinché si ristorasse, poi gli servì un pranzo così vario e nutriente che il viaggiatore, meravigliato, domandò al suo ospite chi in quel luogo così solitario lo provvedesse di tutte quelle cose.
“Le mie palme!” gli rispose l’ospite. “La bibita dissetante che vi ho offerto è ricavata dal frutto prima che sia maturo. Questo latte, che voi trovate così gradevole, è contenuto nell’interno della mandorla. Questa verdura così delicata è il tenero germoglio dell’albero di cocco. Il vino, di cui voi siete così contento, è anch’esso fornito dal cocco, durante tutto l’anno. E infine, tutto questo vasellame e questi utensili di cui ci siamo serviti a tavola, sono stati fatti con il guscio del cocco.

Vita dell’albero

Vive col tempo, con le stagioni, progredisce, si protende, si innalza. Nei suoi anelli concentrici sono impresse le vicende di tutte le annate trascorse, sì che leggendo in un tronco tagliato, puoi avere notizia non solo della sua età, ma della siccità o meno di tutte le annate da lui vissute. Combatte con le intemperie, con gli animali, coi parassiti, coi venti, coi fulmini; si difende, si cura, si guarisce da solo. Guardalo. Pesa quintali e quintali e non ne vedi il peso; vedi la forza semmai, lo slancio, la leggerezza, la freschezza, la grazia. (F. Tombari)

Alberi in fiore
Sull’alto della collina, il contadino ripartisce lo stabbio col tridente e attorno a lui è già una vasta punteggiatura sulla terra grigia.
Col solito anticipo sugli altri alberi da frutta i mandorli sono già fioriti; tutta la collina ne è bianca e rosa. Da quando Maria posò tra i suoi rami Gesù neonato, per nasconderlo agli sbirri di Erode, secondo quello che narrano i vecchi, il mandorlo si affretta ogni anno a fiorire, anche a costo, come spesso capita,  di perdere fiori e frutti alla prima gelata.
In fondo alla valle si estende il mosaico verdegrigio dei campicelli. Sui rettangoli e quadrati verdi, frotte di ragazzi e donne già zappettano per dare aria alla terra incrostata e liberare il grano tenero dalle erbe selvatiche; sulle parti grigie, uomini con zappa, aratri e bestie lavorano alle semine di granoturco, di piselli, di fave, di ceci, di lenticchie, mondano i fossi, rafforzano i cigli, le fratte.
(I. Silone)

Dettati ortografici sugli ALBERI – Vedi anche:

Dettati ortografici sugli ALBERI – Tutte le opere contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. 

Canto LA FESTA DEGLI ALBERI – spartito e file mp3

Festa degli alberi : una canzoncina per festeggiare gli alberi, nel loro giorno: testo, spartito stampabile e file mp3

Canto LA FESTA DEGLI ALBERI
Testo

I bambini stanno in mezzo al bosco.
Le piantine han visto festeggiare;
poi le han sistemate al loro posto,
dicendosi: “Cresceranno come noi”.
Alberi, tra i vostri rami cantano,
e i nidi si preparano, a mille gli uccellini.
Alberi, all’ombra vostra posino,
e in pace si ristorino a mille i bimbi belli,
a mille i bimbi belli.

Canto LA FESTA DEGLI ALBERI
Spartito stampabile e mp3 qui:

Dettati ortografici: L’olivo

Dettati ortografici sull’olivo – una raccolta di dettati ortografici, di autori vari, per bambini della scuola primaria. Difficoltà ortografiche miste.

Le olive sono ormai tutte nere e grasse e a spremerle emanano il loro denso liquore; gli olivi, poveretti, implorano di essere alleggeriti da tanto peso. Non ne possono più. E le raccoglitrici cercano in terra e non lasciano che una sola bacca sfugga ai loro sguardi. Cantano, intrecciano stornelli. Una canta e le altre rispondono. Così per tutto il giorno. Verso il tramonto le lavoratrici si radunano e partono intonando ancora una canzone. (A. Palazzeschi)

L’olivo Con la vite e col grano, l’olivo è la terza pianta propria del nostro suolo. Pianta povera, modesta nell’aspetto, mite nei frutti, cresce sui colli, esposta al sole e ai danni degli insetti, che ne rovinano il tronco. Per crescere e fruttificare bene, impiega circa trent’anni: però chi la pianta non la pianta mai per sè, ma per i figli e i nipoti e per amore verso la terra. (F. Tombari)

L’olivo Veste di grigio-verde le nostre colline, e di notte s’inargenta ai raggi della luna. I suoi rami sono contorti, ma le foglioline robuste sono dritte e lucide come piccole lame. Si afferra con le radici al terreno, si nutre d’aria, di sole, di salmastro. I suoi frutti non sono dorati, profumati, grossi, ma sono quei piccoli tesori bruni nei quali si nasconde tanto oro: l’olio che cola dal frantoio e va ad allietare la nostra tavola. (G. Vaj Pedotti)

Il dolce olivo
Dovunque l’aria sia mite e il clima non troppo mutevole, ne umido, ne secco, l’olivo resiste: all’opera attenta dell’uomo è legata la sua lunga vita. Beato chi ha piantato l’albero d’olivo, nella propria terra, a difesa del grano che non ama essere investito dal vento invernale; beato chi può raccoglierne le bacche, appena macchiate di violetto o biancastre, o screziate, o verdoline, in questo mese dolce, dopo il primo temporale d’autunno, sulla terra ancora dura che odora di vendemmia! Dalle vigne ove rare piante segnano i confini, alle coste ondulate delle colline, alla pianura gialla e nera di ristoppie arse dal fuoco, il paesaggio di questa terra agli olivi affida la sua decorazione: quel distacco ricco di ombre ferme che variano dal grigio all’argenteo, dal verde al cupreo, a seconda dei riflessi della luce, dello splendore del giorno, della trasparenza della sera. Tra gli spazi di questo paesaggio, ecco donne ricurve: soltanto le mani si muovono, e il grembiule si gonfia di olive. Qualcuna è salita sull’albero e scrolla con grazia esitante i rami più alti. (R. M. De Angelis Beltempo)

La raccolta delle olive

Alla metà di novembre i contadini raccolgono le olive. Quanti mesi sono passati da quando gli olivi, nelle chiare giornate di aprile, si coprirono di fiorellini gialli!

Ora i campi sono squallidi. Viti, pioppi, gelsi sono tutti senza foglie. L’aria è bigia e fredda, senza voli e senza canti. I contadini escono di casa ben coperti, camminano per la viottola fino agli ulivi che occupano la parte più alta della collina, dove la terra è più asciutta e sassosa, poi si accingono al lavoro pazienti. L’aria è fredda e le mani presto si intorpidiscono. Ma i contadini resistono alle fatiche e al disagio per ore  e ore; sanno che le olive costituiscono il raccolto più ricco dell’anno; sono il loro tesoro, e non vogliono perderne nemmeno una. (G. Fanciulli)

L’olivo è un albero sempreverde, dalle foglie coriacee, verdi di sopra, biancastre di sotto, fortemente cutinizzate, rivestite cioè di cutina, una sostanza dura e impermeabile che permette al fogliame di difendersi dal freddo e dall’umidità. Il frutto dell’olivo è l’oliva, una drupa con polpa oleosa e nocciolo duro nell’interno. Dell’olivo esistono due sottospecie: l’olivo coltivato (olivo gentile) e l’olivo selvatico detto anche oleastro.

Questo non è da confondersi con l’olivastro, chiamato anche erroneamente olivo selvatico e che invece proviene da seme di olivi coltivati e cresce nelle siepi e nei boschi senza coltura. Produce frutti più piccoli, meno carnosi che danno generalmente un prodotto più scarso, ma superiore per qualità a quello dell’olivo coltivato. Le olive sono ricoperte da una pellicola verde che con la maturazione diventa, man mano, più scura, fino a raggiungere una tinta bruno – violacea o nerastra. Le olive, a seconda della qualità, vengono utilizzate in vari modi, conciate, salate, seccate, ma l’utilizzazione più importante è quella dell’estrazione dell’olio.

L’olivo cresce in regioni che hanno un clima dolce e uniforme. Non prospera dove è troppo freddo, ma nemmeno dove è troppo caldo. Qualunque terreno, purchè non sia paludoso, conviene all’olivo. Nei terreni fertili esso è più produttivo, ma la qualità del suo frutto è inferiore a quello che può dare in un terreno sassoso sito in posizione alquanto elevata e che costituisce l’ambiente ideale.

Il legno dell’olivo, che si presenta compatto ed elegantemente variato per l’andamento delle sue fibre, è molto usato nell’industria per la fabbricazione di mobili e per lavori di tarsia. L’olivo cresce con lentezza e può vivere anche più di quattro o cinque secoli. Si dice che lo pianta il nonno per il nipote. In alcune regioni, si usa raccogliere le olive percuotendo l’albero con un lungo bastone, ma questo sistema è dannoso. Il miglior modo di procedere alla raccolta è quello di cogliere l’oliva a mano.

L’olivo fu conosciuto fin dalla più remota antichità. I Greci premiavano i vincitori dei giochi con corone di olivo e fecero di questa pianta il simbolo della saggezza, dell’abbondanza, della pace. Quest’albero fu tenuto in considerazione anche dai Romani; spesso, i popoli vinti chiedevano la pace a Roma portando rami di olivo. Secondo la Bibbia la colomba del diluvio tornò nell’Arca con un ramoscello di olivo nel becco, simbolo della pace tra Dio e gli uomini.

L’olivo viene distribuito insieme alle palme, nelle chiese la domenica prima di Pasqua, chiamata perciò domenica delle palme o degli ulivi, in ricordo del giorno in cui Gesù entrò in Gerusalemme, festeggiato dalla folla che agitava rami di palma e di ulivo in segno di giubilo.

Dettati ortografici sull’olivo – Tutte le opere  contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. 

Dettati ortografici NOVEMBRE

Dettati ortografici NOVEMBRE – Una raccolta di dettati ortografici, con vari livelli di difficoltà, sul mese di novembre, per bambini della scuola primaria.

Novembre
E’ un mese freddo, nebbioso, umido. Gli alberi sono spogli e alzano, verso il cielo grigio, le loro braccia stecchite. I prati sono umidi di nebbia, la siepe è nuda e mostra l’intrigo dei suoi rami spinosi. Si sente l’inverno vicino.

Fa freddo
Le belle giornate di sole ormai se ne sono andate. Il cielo, quasi sempre grigio, nebbioso, lascia cadere una pioggerellina minuta e fredda. Gli animali si sono rifugiati sotto terra, nelle loro tane tiepide e sicure, i rettili sono nascosti nel profondo dei crepacci, i pipistrelli, a testa in giù, si sono appesi sotto la volta delle grotte oscure. Si sveglieranno a primavera.

I doni di novembre
Novembre porta la pioggia, la nebbia, la brina. Il cieso è sempre grigio, cade una pioggerella minuta e fredda, i prati sono zuppi di umidità, sopra ogni filo d’erba brilla una goccia. Se questa umidità si gela, avremo la brina, la fredda sorella della neve.

L’estate di San Martino
Nei primi giorni di novembre, talvolta il cielo si rischiara. Il sole appare tra la nuvolaglia grigia, i fioretti si schiudono, le erbe raddrizzano i loro steli. Sembra tornata la primavera. Ma è soltanto l’estate di San Martino.

L’estate di san Martino
Il cielo è nebbioso; i rami secchi degli alberri, ormai privi di foglie, lasciano cadere lente gocce di umidità rappresa. Ma ecco che, un bel giorno, il cielo si rasserena, il sole torna a scaldare, tiepido, la terra, i passeri cinguettano, qualche fiore sboccia pensando che sia primavera: è l’estate di San Martino, breve, dolce stagione, piena di tepore e di bellezza.

Novembre
Il cielo non ha più il suo bel colore azzurro. Ora è bigio e coperto di nuvole dense. Gli alberi hanno perduto le foglie. Erano così belli, vestiti di verde! Sono rimasti nudi e stecchiti e rabbrividiscono al vento freddo che scuote i rami con triste fruscio.

Freddo
Il freddo è arrivato. Gli alberi hanno ormai perso tutte le foglie, e scheletriti e nudi, rabbrividiscono al vento che soffia, violento, fra i rami. Lucertole, bisce, insetti, sono tutti giù, sottoterra, immersi nel letargo. Si sveglieranno a primavera. I prati sono senza erba; sulle zolle si forma la brina e sui cespugli secchi si posano i passeri infreddoliti alla ricerca di un granellino per sfamarsi.

Novembre
Una nebbia leggera leggera ingombra l’orizzonte. E’ una nebbia uguale, soffice, trasparente, quasi un velo che non nasconde, ma dà bellezza nuova al paesaggio. Tutto tace nella campagna. Di tratto in tratto, a voli brevi, i passeri si slanciano, dai comignoli al piano, e lo scricciolo dal cespuglio alla macchia. (A. Stoppani)

Novembre
Al tempo degli antichi Romani, che furono quelli a dar il nome ai mesi, l’anno cominciava con marzo, ed ecco che novembre era, appunto il nono mese. Mutò il calendario, ma il nome restò, così come sono restati quelli di settembre, di ottobre e di dicembre.

Giorno di nebbia
La nebbia, fitta, umida, silenziosa, bianca, al mattino avvolge in un velo leggero le persone, le automobili, i contorni delle case. Sembra di vivere in un mondo sconosciuto, in mezzo ad ombre. Perfino i suoni sembrano avere un tono più lieve. Verso mezzogiorno la nebbia si dirada e il sole appare in cielo.

Nebbia
Leggera e silenziosa è calata la nebbia. Nasconde col suo velo la luce pallida del sole, i colori degli ultimi fiori dell’autunno. Le case, gli alberi, le persone sembrano ombre. Io cammino adagio, stretto alla mano della mamma. Forse tra poco un raggio di sole riuscirà a sciogliere il velo fitto della nebbia. Allora guarderò lassù per rivedere il cielo.

Pioggia
Il cielo è grigio, pare che un velo lo ricopra tutto. Piove piano, piano. Le gocce si rincorrono in un gioco scherzoso. Ecco, ora una goccia leggera batte ai vetri della finestra. Toc, tic, tac. La pioggia canta la sua canzone. Io l’ascolto in silenzio e osservo nella pozzanghera del cortile il cielo che si riflette.

Arriva il gelo
Viene nelle notti serene, quasi all’improvviso. Si stende tacito sulla terra che si irrigidisce e diventa dura come la pietra. Al mattino un’aria tagliente ci sferza il viso. Tutte le pozzanghere e i fossi sono ricoperti di uno strato di ghiaccio.

 Novembre

Un uomo vestito di grigio, magro e palliduccio, avanza a gran passi. Porta con sè un sacchetto, poche foglie ingiallite e molti crisantemi bianchi. Ma che cosa perde da quel sacchetto? Chicchi di grano? Si capisce, è Novembre, il seminatore.

L’autunno intorno a noi

Guarda: ogni stagione ha la sua poesia di giorni e di cose. Se la primavera inventa i colori, l’autunno li cancella. La terra ha lavorato a dar fieni e biade, ed ecco l’autunno coprirla di foglie cadute, velarla di nebbie sottili, perchè s’addormenti e dolcemente riposi. Gli alberi fino a ieri così folti di chiome, così beati d’ombre e popolati di nidi, ingialliscono e si spogliano. E dove sono gli uccelli?

Nel mese di novembre continua la semina del frumento, delle fave, dell’orzo e della segale. Da per tutto, negli orti e nei giardini, fioriscono i crisantemi. Le giornate sono sempre più brevi. Nel calendario romano novembre era il nono mese dell’anno ed era dedicato a Diana, la dea della caccia. Il mese di novembre è consacrato al culto dei defunti.

Dice la terra: “Ho maturato il grano e l’uva, ho dato il pane agli uomini e alle formiche; dopo tanta fatica, devo riposare. Datemi il seme, che io lo chiuda dentro di me, perchè appena tornerà il sole maturerò ancora le piante che devono darvi il pane”.

Un uomo vestito di grigio, magro e palliduccio, avanza a gran passi. Porta con sè un sacchetto, poche foglie ingiallite e molti crisantemi bianchi. Ma che cosa perde da quel sacchetto? Chicchi di grano? Si capisce, è Novembre, il seminatore.

 

Novembre

Ottime, per la semina, queste giornate di novembre brumose, nebbiose, piovigginose; così la terra è molliccia e le formiche non rubano i chicchi, e i passerotti non li beccano e i polli, razzolando, non li trovano. E intanto, si colgono gli ultimi frutti: no, gli ultimi frutti sono, veramente, le olive. Or che la campagna si addormenta nel riposo invernale, le olive rimangono alla pioggia e al gelido vento sui rami fronzuti. (T. Pellizzari)

L’ultimo raccolto di novembre

Quando la campagna si addormenta nel riposo invernale, le olive rimangono alla pioggia e al gelido vento, nei rami fronzuti. E si gonfiano. E si annerano. E si colmano di olio odoroso. E il contadino comincia a coglierle. E le frangerà sotto la macina. E le torchierà nel pressoio. E dal pressoio, fluiranno taciti rivi d’oro. (T. Pellizzari)

Novembre in campagna

Una nebbia leggera leggera ingombra l’orizzonte. E’ una nebbia uguale, soffice, trasparente, quasi un velo che non nasconde, ma dà bellezza nuova al paesaggio. Tutto tace nella campagna… Di tratto in tratto, a voli brevi e furtivi, i passeri si slanciano dai comignoli al piano e lo scricciolo dal cespuglio alla macchia. (A. Stoppani)

Fiori di novembre

I giardini non hanno più fiori: soltanto i crisantemi fanno nei cespugli una macchia rossastra, gialla, bianca. Sono fiori grandi, rotondi, fitti di petali, oppure semplici e piccoli come margherite. La gente li coglie per portarli alle tombe dei morti e il cimitero, in quei giorni, sembra un grande, magnifico giardino. Ma non c’è allegria come negli altri giardini.

Novembre

Novembre è un mese triste. Porta la brina, la nebbia, la pioggia. Il cielo è quasi sempre nuvoloso. I rami degli alberi sono stecchiti perchè hanno perdute tutte le foglie. In questo mese si ricordano le persone care che non ci sono più. Sulle loro tombe si portano i crisantemi che fanno, nel cimitero, un grande giardino. Pure, qualche cosa di allegro c’è anche a novembre. Si raccolgono le castagne che piacciono molto ai bambini. Nei campi il contadino semina. I chicchi affondano nel terreno lavorato. A primavera la terra sarà tutta verde e fresca.

Estate di san Martino

Novembre è un mese triste: nebbia, freddo, cielo nuvoloso, alberi che si spogliano. Passano gli ultimi stormi di uccelli migratori che si dirigono verso i paesi caldi. Sui rami degli alberi, ormai privi di foglie, si formano grosse gocce di umidità rappresa. Gli insetti sono spariti, la natura è brulla e silenziosa. Ma ecco che un giorno il cielo si rasserena, il sole torna a scaldare tiepido, la terra, i passeri cinguettano, qualche fiore sboccia illudendosi che sia tornata la primavera. Non è primavera: è l’estate di san Martino, breve dolce stagione piena di tepore e di bellezza.

E’ novembre
Presto, cogliamo questi ultimi lampi di bellezza della terra esausta che si prepara a morire. Quante volte avremmo voluto fissare sulla carta l’emozione, il nostro amore per la zolla grassa, bollente, coperta di verde, per la spiga pesante che il sole abbrustolisce, per il grappolo azzurro, lustro, per il ramo curvo carico di frutta! Non abbiamo saputo! Non perdiamo questi splendori estremi. Riempiamoci gli occhi del vermiglione, della porpora, dell’arancione dei pampini agonizzanti; del giallo e del bianco dei fiori ritardatari. L’erba fresca inzuppata di rugiada, le foglie scintillanti nelle mattine ancora soleggiate, i campi e le prode fumanti come la groppa di un bue che ha lavorato troppo. Domani il sipario della nebbia calerà su tutto e sul nostro cuore. Non vedremo, non ameremo più nulla che i nostri ricordi. (A. Soffici)

Giornate novembrine
In questi giorni d’autunno, solo la natura ha colori smaglianti, più festosi di quelli di primavera. Le foglie delle viti e dei boschi vanno dal giallo canarino al rosso carabiniere, passando attraverso ogni sfumatura; l’oro grezzo, il bronzo nuovo, il cuoio vecchio, il pane. La gente in ogni villaggio, la mattina dei Santi, quando ci sono passato, andava al cimitero a portare fiori. Avevano tutti l’abito buono. I giovani o quasi giovani vestiti come in città, i vecchi contadini ancora con il fazzoletto di seta bianca legato al collo, il cappello di feltro tondo con qualche buffetto, il sigaro toscano o la pipa tra i denti, la carnagione arrossata dal sole e dai buoni vini.
La gente andava a piedi, in motoretta, con le donne aggrappate al sellino posteriore, o in automobile. C’erano automobili a centinaia da tutte le parti, vecchie rabberciate e ridipinte, quasi nuove ben lucidate, e nuovissime appena uscite dal negozio. Si allineavano in bell’ordine, all’ingresso del cimitero, dove il vigile, vestito a nuovo, faceva autorevoli segni. Le donne portavano grandi mazzi, tenuti stretti al petto come un bambino, per lo più crisantemi color d’oro, grandissimi, certamente molto più grandi di quelli che si usavano prima della guerra, rinchiusi in sacchi di plastica, perchè non si sciupassero. L’ordine era nelle cose ma anche nei sentimenti, nell’obbedienza ai precetti e alle tradizioni, nella pietà per i defunti. (L. Barzini J un)

Colore di novembre
Novembre: mese delle prime brinate, delle prime nebbie, delle uggiose piogge. Qualche volta fa la sua apparizione la neve; sovente accade già di trovare, il mattino, fontane e ruscelli gelati. Nelle case, sui focolari scoppiettanti, o sulle stufe che brontolano, c’è quasi sempre una pentola che fuma. I bimbi disegnano casine, barche ed alberi sui vetri appannati.
In questo mese, l’acqua è davvero presente in quasi tutti i suoi travestimenti.

Il mese di novembre
La campagna lentamente si spoglia. I campi arati fumano, e la prima nebbia li fascia; e gli alberi nudi levano come scheletri le braccia. Cadono pioggerelle fini, e intanto i solchi e le zolle si vanno riempendo di semi che danno frutti alla nuova stagione.
I contadini piantano nuovi vigneti e nuovi filari di alberi.
Si raccolgono le prime olive da mangiare dolci; sulle bancarelle dei fruttivendoli fanno spicco i vivaci colori delle mele, delle pere, dei cachi, mentre le caldarroste spandono all’intorno un gradevole profumo.
Nei giardini sbocciano gli ultimi fiori: i crisantemi, bianchi, viola, gialli, dal profumo amaro.

 

Tempo di caccia
Il primo sole del novembre si affaccia malinconico alle ultime cime della montagna, già biancheggianti per la neve caduta di fresco, e, mandando i suoi languidi raggi attraversi ai rami brulli dei castagneti, tinge di rosa la croce di ferro del campanile.

Qualche nuvola bianca sta fissa sui monti più lontani, uno strato bigio di nebbia allaga la pianura, e il villaggio dorme ancora sotto un freddo e splendido sereno d’autunno.

I cacciatori son già tutti partiti, dopo che ha suonato la campana dell’alba; vi è stato allora un breve segno di vita, qualche latrato, qualche fischio, qualche colpo alle porte per destare i compagni addormentati, e poi deserto e silenzio turbato soltanto ad intervalli dal fruscio delle foglie secche dei platani della piazzetta, che bisbigliano lievi lievi, portate in giro sul lastrico da radi sbuffi di tramontana. (R. Fucini)

San Martino

Nacque nel 316 in Ungheria. Suo padre era un ufficiale romano. Ancora ragazzo fu avviato alla carriera delle armi che più tardi, divenuto prete, abbandonò. Fu eletto vescovo di Tours. Morì nel 397. La leggenda narra che San Martino, il santo della carità, divise il proprio mantello con un povero incontrato in una rigida giornata autunnale. Come premio a questo suo atto generoso, Dio mutò la temperatura di quella giornata in un clima di primavera. Da quel giorno quel periodo venne chiamato “l’estate di San Martino”. San Martino è considerato anche il simbolo dell’abbondanza.

San Martino

Nacque in Pannonia. Suo padre, tribuno romano, fece di lui un soldato. Ebbe innato il senso della carità. E’ particolarmente noto l’episodio di cui fu protagonista in una fredda giornata di novembre. Mentre a cavallo percorreva un solitario sentiero, si imbatté in un poveretto tremante. Non esitò a dividere con lui il suo mantello. Nella notte, in sogno, gli apparve un giovane uomo rivestito del drappo che aveva donato al poveretto e lo ringraziò.
Commosso da questo strano sogno, non esitò a convertirsi al Cristianesimo. Fondò poi alcuni monasteri ed ebbe grande popolarità.
La sua tomba divenne meta di numerosi pellegrinaggi, cosicché in quel luogo sorse una stupenda Basilica.

Dettati ortografici su NOVEMBRE – tutte le opere contenute in questa raccolta restano di proprietà dei rispettivi autori o degli aventi diritto. Il proprietario di questo blog non intende in alcun modo violare il copyright o farle passare come proprie opere. La pubblicazione ha scopo unicamente didattico e non verrà effettuata nessuna operazione di vendita o di tipo editoriale.

Exit mobile version

E' pronto il nuovo sito per abbonati: la versione Lapappadolce che offre tutti i materiali stampabili scaricabili immediatamente e gratuitamente e contenuti esclusivi. Non sei ancora abbonato e vuoi saperne di più? Vai qui!

Abbonati!